venerdì 28 febbraio 2014

Sul Foglio di oggi, a pagina 2, cedo temporaneamente la parola a Immanuel Kant il quale, dopo avere letto i volumetti allegati al Corriere della Sera, ci spiega la differenza fra filosofia e #filosofia e azzarda l'ipotesi che alla fin fine il cancelletto sia la cosa in sé.

giovedì 27 febbraio 2014

La settimana scorsa due semplici parole come "arrivo" e "muoio", infilate in laconici tweet, hanno radicalmente cambiato il modo in cui le notizie si rapportano a noi. Lo spiego su Tempi in edicola questa settimana (da oggi a Milano, da domani in Lombardia, da sabato in tutta Italia e da domenica anche al Sud; è il numero 9, in copertina c'è un lettino vuoto) servendomi di Petrolini, di Basilio Puoti e del fu Mattia Pascal.

[Adesso è pure disponibile online sul sito di Tempi, così non vi lamentate.]

mercoledì 26 febbraio 2014

Ciao, Pippo,

volevo dirti in due righe che stai sbagliando. Anch'io ho sognato che la nostra generazione andasse al governo, e ho sognato addirittura che la nostra generazione fosse in grado di tenere un discorso di due minuti a braccio, senza leggerlo su fogli e quadernetti. Tu auspichi che questo governo sia espressione del voto delle persone e non di una manovra che neanche ai tempi di Mariano Rumor; ma dimentichi che siamo una repubblica parlamentare, i cui cittadini eleggono il parlamento e non il governo, e la cui legge elettorale vigente, dopo il pronunciamento della Consulta, è esattamente quella del giorno in cui morì Mariano Rumor.

Nello stigmatizzare che questo governo non sia espressione del voto delle persone gli voti la fiducia come membro della maggioranza di quello stesso parlamento che, in quanto eletto, è dunque espressione del voto delle persone. Non riconosci nemmeno che questo governo sia un passo avanti rispetto al governo Letta: è prassi nelle democrazie più evolute che l'incarico di governare sia affidato al leader del partito più rappresentato in parlamento, che poi cerca alleanze per completare la maggioranza. In Inghilterra Gordon Brown, laburista, è diventato premier al posto di Tony Blair, laburista, quando gli è subentrato come leader del partito, senza che ci fossero elezioni in mezzo perché la maggioranza parlamentare restava la medesima. In Italia il nuovo segretario del partito si è sostituito a chi stava a sua volta sostituendo il precedente segretario del partito; è quindi un deciso passo avanti verso la linearità delle cariche, in direzione opposta ai bizantinismi.

Infine ritieni che il modo rapido e chirurgico in cui questa sostituzione s'è svolta non porti al governo di questo paese un cambiamento vero. Così dicendo ti collochi nella folta schiera di quelli che ritengono sempre che il cambiamento sia per definizione qualcosa da rimandare ponderando e invecchiando, non mai qualcosa che dovrebbe essere già avvenuto e che stiamo inseguendo con un po' di affanno. Se avessi voluto portare tu la nostra generazione al governo, avresti potuto perdere le primarie e aspettare il tuo momento, poi vincerle e tirar fuori la pistola dalla tasca quando sentivi che era arrivato il momento giusto. La miglior maniera di fare una cosa è farla, non discuterne. Il meglio è nemico del bene. Scusa l'ingenuità.

martedì 25 febbraio 2014

Dall'Inghilterra arrivano tre notizie da hit parade. Al terzo posto c'è lo stanziamento di fondi governativi per chi vuole incidere musica rock; a cinquant'anni dall'esordio bohémien dei Beatles, si avvicinano dunque i tempi delle rockstar statali, impiegatizie. Incideranno solo fino alle cinque del pomeriggio? Lasceranno la chitarra elettrica accesa in sala di registrazione e usciranno un attimo per fare la spesa, andare dal barbiere, pagare le bollette in posta? Intenteranno vertenze sindacali contro produttori che insisteranno per un eccessivo uso di alcolici e sostanze stupefacenti? Quando il pubblico li acclamerà durante i concerti esortandoli a suonare ancora una canzone di successo risponderanno forse: "Mi spiace, non dipende da me, io ho le mani legate, dovete chiamare il numero verde specificando il vostro codice fiscale"?

Al secondo posto c'è la scuola di Leeds che ha cambiato le date delle vacanze per far coincidere le pause dell'anno scolastico coi periodi in cui sono attive le promozioni per voli supereconomici, i quali per definizione non coincidono mai con le pause dell'anno scolastico. Ciò porterà le compagnie aeree ad aumentare i prezzi dei viaggi durante il nuovo periodo di vacanze scolastiche (novembre? febbraio?), causando un fuggi fuggi di genitori che vorranno pertanto organizzare le gite di famiglia in bassa stagione, cioè a Natale e d'estate, causando un nuovo aumento delle tariffe in questi periodi, così da disseminare per tutta l'Inghilterra un'ondata di collettiva simpatia nei confronti di Leeds, cittadina che di conseguenza finirà per ottenere l'indipendenza, a sorpresa, ben prima della Scozia.

Al primo posto l'annuncio del rimodernamento dell'immagine del partito Conservatore. Pare che il nuovo slogan in vista delle elezioni del prossimo anno sarà, con la benedizione di David Cameron, "the workers' party". Un giornalista del Guardian ha fatto notare che, in questo contesto, "the workers' party" non ha la tradizionale benevola accezione di "festicciola della servitù" bensì significa proprio "il partito dei lavoratori". Sgomento. Viva soddisfazione sarà stata espressa in ciò che resta dei democratici di sinistra italiani, visto che da una decina d'anni il nuovo simbolo dei Conservatori (quello vecchio era una fiaccola) è la quercia. Un'accurata indagine erudita su affidabili vocabolari d'Inglese ha rivelato che fra i sinonimi del termine "work", che significa "lavorare, produrre", c'è il termine "labour", che significa "lavorare, far fatica". Un apposito think tank legato alle alte sfere conservatrici sta indagando per scoprire se in Inghilterra esista di già un partito laburista, il quale pertanto risulterebbe avere rubato l'idea grazie a una verosimile benché inaccettabile fuga di notizie.

lunedì 24 febbraio 2014

Oggi su Repubblica Antonio Gnoli elogia in un trafiletto La nostra gang, vecchio romanzo di Philip Roth di cui Einaudi ha appena pubblicato una nuova traduzione italiana dopo che era scomparso dai radar per quarant'anni. Sono soddisfazioni, perché la bellezza del 30 giugno 2009 avevo scritto sul Foglio un articolo che richiedeva esattamente questo. Già che ci sono, ve lo trascrivo qui sotto.

---

Premesso che con la diffusione di centocinquanta ore di registrazioni segrete nessuno al mondo farebbe bella figura, il peggior Nixon che emerge dai nastri dei National Archives ha qualcosa di mefistofelico, di spropositatamente deforme nella sottile malvagità delle sue frasi sull’aborto auspicabile in caso di stupro o rapporto interrazziale. Per non dire qualcosa di grottesco nell’incoerenza con le sue posizioni ufficiali al riguardo, ben sintetizzate dal discorso di San Clemente, 3 aprile 1971: “Sulla scorta del mio credo personale e religioso considero l’aborto una forma inaccettabile di controllo della sovrappopolazione” che “non posso far convivere col mio personale credo nella santità della vita umana – inclusa la vita dei non ancora nati, of the yet unborn”. Ma ha anche qualcosa di romanzesco nella sua diabolicità, come conferma il fatto che già prima della fine del primo mandato i contenuti poco edificanti delle registrazioni segrete fossero per certi versi stati immaginati e messi per iscritto da Philip Roth in Our Gang (1971).

Subito tradotto da Bompiani con un poco invitante Cosa Bianca Nostra, il romanzo che rivelava con quarant’anni d’anticipo ciò che abbiamo scoperto l’altro giorno è finito fuori commercio sia per il titolo disgraziatissimo sia perché rigonfio di riferimenti a dettagli della politica americana poco entusiasmanti per il lettore medio italiano. Trattandosi di una satira, era necessario avere chiari in mente futili dettagli sulla vittima, altrimenti non solo non si sarebbe capito niente ma si sarebbe riemersi con la sgradevole impressione che l’autore si fosse divertito senza considerare affatto il lettore. E come in tutte le satire, passato il santo passata la festa: caduto in disgrazia il suo obiettivo, morto e dimenticato più o meno alla svelta, anche l’attacco più feroce risulta patetico come una carica a salve. Finisce come l’Apokolokyntosis di Seneca, che fu progettata per deridere l’imperatore Claudio e adesso può tutt’al più funzionare come corso monografico di storia romana.

A meno che i nastri del National Archives non facciano tornare di moda i lati oscuri di Nixon. In tal caso consiglio all’Einaudi: se avete intenzione di proporre una nuova traduzione, forse è già tempo. Roth parte citando proprio il discorso di San Clemente e individua nella lotta contro l’aborto il punto debole di Nixon, finendo per farlo assassinare e candidare alla presidenza dell’Inferno. Da un lato espone la solita manfrina moralista sull’opportunità di difendere i diritti dei vivi piuttosto che quelli degli yet unborn e bla bla bla; dall’altro per dimostrare le contraddizioni di Nixon si inguaia in qualche paralogismo peggiore dell’originale, finendo per far perdere di forza e immediatezza alla sua satira. Di sicuro coglie nel segno mostrando quanto l’antiabortismo di Nixon potesse essere operazione politica più che intimo credo.

Per capire il peggior Nixon c’è voluto il peggior Roth, che ha probabilmente scritto in fretta, con scelte lessicali abbastanza grossolane e sicuramente pensando soltanto al riscontro immediato, pur sapendo benissimo che la letteratura ha valore senza data di scadenza – come dimostrano, per fortuna, tutti gli altri suoi romanzi. A maggior ragione però l’Einaudi dovrebbe tradurre questo Roth misconosciuto. Non solo potrebbe spacciarlo per instant book sulle nuovissime rivelazioni audio, indovinate e inverate con largo anticipo; ma le argomentazioni sottese in favore dell’aborto – o contro l’obiezione all’aborto, che è lo stesso – sono talmente antiquate e bolse che parrebbero scritte oggi. Con un po’ di make up (e un altro titolo, per favore) Our Gang potrebbe risultare una satira alla moda. Chissà: potrebbe spingere qualche altro romanziere a inventarsi ciò che sull’aborto Obama pensa e non dice, e che magari il mondo scoprirà a metà secolo.

---

Se proprio volete verificare, l'originale è qui.

sabato 22 febbraio 2014

Ora, a me fa solo piacere che Dario Franceschini sia diventato ministro della Cultura: scrive meglio di Saviano, come chiunque, e indubbiamente lo preferisco nelle vesti di uomo di libri e di musei che in quelle antiche di maresciallo von Franzeskiner. Inoltre si vocifera che l'autore de La follia improvvisa di Ignazio Rando e di Mestieri immateriali di Sebastiano Delgado aspirasse da tempo al ruolo che ieri ha conseguito, e che gli sarebbe stato precluso se soltanto un anno fa, proprio un giorno in cui mi trovai a passare da Ferrara, non avesse seguito il prezioso consiglio disinteressato che gli demmo io e Girolamo Savonarola: potete rileggerlo cliccando qui.

venerdì 21 febbraio 2014

Il compito dello scrittore è far vedere in modo diverso ciò che si trova sotto gli occhi di tutti trascinando il lettore fuori dalla facile retorica che verrebbe spontanea a un dilettante. Per questo motivo i quotidiani affidano di tanto in tanto il commento di taluni avvenimenti ad autori professionisti, per lo più romanzieri: perché tutti, ad esempio, vedono il Festival di Sanremo ma solo pochi sono in grado di guardarlo in modo originale.

Sul Corriere della Sera di oggi il commento del Festival è affidato a Silvia Avallone, che fa parte della Giuria di qualità. Costei prima ci rivela "che i personaggi letterari - quelli che crei tu con le parole, che vivono solo dentro i libri - anche se sono immaginari, in realtà, in qualche misura diabolica, esistono davvero". A cotanta inaudita originalità che avrebbe fatto tremare i polsi a un Pirandello segue la modestia del solipsismo: "Sì, perché Marina Bellezza, la mia tirannica protagonista, si sarebbe venduta l'anima pur di solcare il palco dell'Ariston e vincere Sanremo". Come Pascoli, come Carducci, Silvia Avallone è una fautrice dei valori rurali della patria nostra: un tempo si calcavano le scene, ora l'aratro le solca e (dobbiamo presumere) la spada le difende.

La vera rivelazione contenuta nel pezzo della Avallone è però che il Festival di Sanremo è una metafora dell'Italia. Non ci aveva mai pensato nessuno, nemmeno il produttore della cioccolata modicana intitolata a don Pino Puglisi che della propria ricetta elogia "la sapiente miscelatura di amaro e dolce, quasi una metafora della vita". La Avallone, che forse il produttore modicano ha già contattato come ghost writer delle prossime confezioni, scrive che "Sanremo ci restituisce parte di quello che siamo" e che "la sua capacità di durare nel tempo forse ha proprio a che vedere con il suo potere di specchio dove tutti andiamo ad affacciarci per controllare cosa stiamo diventando, come siamo diventati". Poi, penetrante come una stilettata nell'acciaio, ecco l'ossimoro: "Il Festival ci fa evadere dai problemi, e ce li ricorda".

Ma la Avallone non è sola. Oggi arriverà a Sanremo aggirando il binario interrotto fra Genova e Ventimiglia accompagnata dalle parole di Mathias Énard: "Se non facciamo uno sforzo verso i nostri sogni quelli spariscono, solo la speranza o la disperazione può cambiare il mondo". Ecco, forse perché mercoledì ho guardato il Milan e giovedì Masterchef anziché cambiare il mondo, non ci avevo ancora pensato: noi guardiamo il Festival, scrive la Avallone, "con questo gigantesco interrogativo. Il passaggio possibile dalla disperazione alla speranza, lo sforzo verso il sogno di qualcosa che si chiama futuro". Il suo futuro, il suo sogno, Silvia Avallone l'ha già realizzato: è diventata la scrittrice che l'Italia si merita.

giovedì 20 febbraio 2014

“Le lettere che mi arrivano, io le leggo sempre attraverso lo stile ancora prima del contenuto”, scriveva Goffredo Parise alle prime uscite della rubrica domenicale di posta coi lettori che tenne sul Corriere della Sera fra il 1974 e il ’75, direttore Piero Ottone; “perché lo stile”, spiegava, “previene, annuncia il contenuto”. Più di tutte lo aveva colpito la lettera di un operaio, priva di errori di grammatica ma scritta in stampatello: di recente alfabetizzazione, l’autore non aveva imparato il corsivo. Forse in riguardo agli sforzi di quest’operaio, ancora sei mesi dopo, Parise rispondeva ai “lettori snob” che gli rimproveravano il dialogo “con gli altri lettori, con la massa anonima” dicendo che per un autore di risaputa difficoltà era un vanto poter “stabilire un tu per tu con i lettori anonimi, quelli che salgono e scendono dagli autobus”; un modo per ricordarsi che “teoricamente ogni persona che sappia leggere deve capire quello che scrivo”. Dalle lettere che riceveva l’Italia gli appariva non “un paese decrepito dominato da opposte schiere di don Abbondi” bensì perfino “giovanissimo e perfino esotico, da illuministi”. Spinto al vagheggiamento si lasciava andare a dichiarazioni inusitate – era il tempo, sul Corriere stesso, del Pasolini luterano – come ad esempio: “Essendo uno scrittore italiano amo il mio paese e anche la mia lingua”. Il suo paese era “l’Italia molto bella dei più, non il meschinissimo paese dei meno”.

Eppure sin dalla prima delle lettere appena antologizzate in Dobbiamo disobbedire (Adelphi) traspare un controcanto che oggi suona di stretta attualità. “Ci sono anche gli stupidi”, ammette, “i moralisti, gli svitati, i maniaci e i prolissi”. Nonché quelli di destra che lo rimproverano di essere di sinistra e quelli di sinistra che motteggiano con superiorità “evidentemente lei non è marxista”; il singolo cittadino che dichiara a titolo collettivo che “il cittadino non ne può più” e che non vorrebbe più comprare i giornali a cui spedisce lettere incessanti; la matricola di filosofia che ha capito tutto sulla decrescita felice e ciancia del “limite di sviluppo”; il liceale urbinate al quale “piacerebbe, per ragioni di sicurezza professionale, fare carriera politica, essendo incerte tutte le professioni, coi tempi che corrono”; l’insegnante che non ancora ebbro di Fabio Fazio si chiede se “la vera fonte di cultura per la maggioranza dei ragazzi italiani” sia ancora la scuola o non forse la tv e vuole sapere quali libri far obbligatoriamente leggere ai figli; il grillino ante litteram secondo il quale “gli uomini politici non dovrebbero apparire in televisione; essi rappresentano o dovrebbero rappresentare delle idee, dei programmi e questi non hanno un volto”. A tutti Parise ribatte finché, nel marzo ’75, confessa “che i lettori che mi scrivono, se sono molti ogni settimana, di collaborazione non ne danno alcuna”: lo lodano o lo criticano con sproloqui impubblicabili, “i ricchi ce l’hanno coi poveri, i poveri coi ricchi”, tutto è un “confuso tafferuglio”. Di quando in quando la rubrica salta una domenica “perché il mio sentimento e la mia ragione non sono sollecitati in nessun modo dai lettori”, nelle cui lettere riscontra “una venatura di piccolezza, di meschinità, e certe volte di bassezza”. In esse Parise vede realizzarsi una sua profezia: “L’Italia non vuole più essere l’Italia. Gli italiani non vogliono più essere italiani”. Rileggendole oggi scopriamo che gli italiani sono ancora gli stessi, e forse da sempre: non l’hanno mai voluto. Sopraffatta, la rubrica sparisce improvvisamente com’era venuta e abbandona noi posteri al paese dei meno.

mercoledì 19 febbraio 2014

Tutti sottovalutano Angelino Alfano ma io ritengo che bisogna dare la giusta importanza alle istanze che ha presentato ieri a Matteo Renzi e in particolare alla richiesta di non affidare il ministero della Giustizia a un giustizialista. Da questo punto fermo derivano numerose conseguenze politiche che il premier incaricato dovrà tenere in debito conto nella formazione del suo governo. Escludere un giustizialista dalla Giustizia comporta anche il non poter piazzare un ambientalista all'Ambiente, un agricoltore all'Agricoltura, un lavoratore al Lavoro, un difensore alla difesa, un finanziere alle Finanze, un integralista all'Integrazione, un culturista alla Cultura, un opportunista alle Pari Opportunità, un salutista alla Salute (o un sanitario alla Sanità), un internato all'Interno e, per estensione, un trovatore alla Ricerca. Poi dicono che è inutile.

martedì 18 febbraio 2014

Ottenuto con rapidità napoleonica l'incarico di formare il nuovo governo, Matteo Renzi ha accettato con riserva avviando le consultazioni con i principali esponenti politici.

Dopo avere incontrato il presidente del Senato Pietro Grasso e la presidentessa della Camera Laura Boldrini, la quale (fonte Ansa) "ha auspicato un rapporto sempre più collaborativo fra Governo e Parlamento", fra oggi e domani Renzi incontrerà i rappresentanti di Pd, Fi, M5S, Ncd, Sel, Sc, Ln, Svp, Udc, Gal, Fdi, Psi-Pli, VdA, Api e Maie per decidere se al ministero dell'Economia sia meglio la Reichlin o Bini Smaghi o Boeri o Prodi o Barca o Delrio, e se al Lavoro sia meglio Epifani o Ichino o Moretti o forse Marianna Madia, e se alla difesa non sia il caso di ripescare Parisi anziché giocarsi la carta Mogherini o Pinotti, e se all'Interno Franceschini non sia più affidabile di Alfano, e se la Giustizia possa essere dispensata con maggiore autorevolezza da Proto Pisani che ha un doppio cognome più dignitoso sia di Barbuto sia della Pomodoro, e se alla Cultura faccia miglior figura Paolo Mieli di Baricco o di Saviano, e se non ci sia forse libera una poltrona di vicequalcosa per Benedetto Della Vedova.

Matteo Renzi, siamo quasi coetanei quindi avrai visto anche tu la puntata del cartone animato in cui Wile Coyote riesce finalmente ad acchiappare Beep Beep, si ferma all'improvviso e tenendolo per il collo estrae un cartello su cui c'è scritto: "Va bene, volevate che lo prendessi. E adesso cosa faccio?".

lunedì 17 febbraio 2014

Non è evidente che buona parte dell'antipatia per Renzi esuli dalla politica e abbia piuttosto a che fare con la "ambizione smisurata" che nella Direzione PD di giovedì scorso ha esplicitamente riconosciuto di nutrire? Secondo me sì. In tal caso non si tratta di ciò che si dice comunemente, ossia "Renzi non mi piace perché sono di sinistra" oppure "Renzi vi piace perché siete di destra". L'appartenenza è collaterale. L'antipatia o la diffidenza dettate da Renzi sorgono dal pieno esercizio di una prerogativa minoritaria in Italia, appunto l'ambizione smisurata, la quale contrasta con la prerogativa inversa che è prediletta dalla maggioranza e che porta in ogni campo a essere prudenti per timore di svelare la propria incapacità, e a prendere tempo, e a convocare vertici, e a fare verifiche, e a rifarsi alla consuetudine, e a richiamarsi all'istituzionalità, e a organizzare seminari e convegni per riflettere e pensare e non fare nulla nel tentativo che l'onustà della forma camuffi l'assenza di sostanza: questa era, l'avevo già detto, la ragion d'essere dell'apprezzamento per il governo Monti, sotto forma di elogio cautelativo dell'ignoto. La sostanza è invece che a trentanove anni Matteo Renzi ha estratto la pistola dalla tasca e ha preso l'Italia. Alla sua età siamo, eravamo e saremo tutti più vecchi di lui.

venerdì 14 febbraio 2014

In libreria e nelle migliori edicole trovate il quarto numero di Cycle!, la rivista elegante dedicata al ciclismo come si deve. Dentro la rivista trovate uno speciale su Marco Pantani, a dieci anni esatti dalla sua morte, con un mio racconto in cui c'entrano il Pirata, Bulgakov, un gatto dalle molte vite e un coinquilino di Civitavecchia. La copertina è già di per sé un'opera d'arte.



Trovate la rivista recensita sul sito del Sole 24 Ore mentre stasera la citerà Alessandra De Stefano nel corso dello speciale in onda alle 21 su Rai Sport 2. Non vi conviene uscire con la fidanzata.

giovedì 13 febbraio 2014

Non ne potevamo fare a meno: è uscito il libro di Cécile Kyenge, Ho sognato una strada (edizioni Piemme). Il volume presenta un'interessante novità stilistica già nel prologo, diffuso in anteprima sui quotidiani nazionali. Si racconta di una diciannovenne modenese, Vanessa, in procinto di recarsi in Comune per sposare il suo grande amore Said, ventiquattrenne di provenienza incerta: "Il cuore batte forte, fra pochi minuti potrà salire le scale del municipio e coronare il suo sogno". Ed ecco che il prossimo ex ministro dell'integrazione piazza lo scarto stilistico che nessuno si aspetta: la madre della sposa viene chiamata suocera ma, attenzione, fra virgolette, quindi non suocera ma "suocera". Chiaro, no? Ora, le virgolette sono uno dei più evidenti e diffusi sintomi dell'ignoranza: vengono spesso utilizzate dagli agricoltori che quando si piazzano col tre ruote a un angolo per vendere fichi e meloni scrivono a pennarello su un cartone "fichi" e "meloni" fra virgolette, come a significare che si tratta sì di fichi e di meloni ma solo fino a un certo punto.

Escludo tuttavia anche la sola ipotesi che un Ministro della Repubblica possa essere ignorante; tanto più se iscritto al Partito Democratico. Ne consegue che l'utilizzo delle virgolette intende ammiccare al lettore. Significa dunque che quando scrive "suocera" la Kyenge non vuol dire esattamente suocera ma rimandare a un significato ulteriore del termine, per quanto non si capisca bene quale: la suocera è la madre della sposa e nel suo libro, che immagino tutto bellissimo come la prima pagina che ho letto con commozione, la Kyenge utilizza il virgolettato "suocera" proprio per significare la madre della sposa. Perbacco. Cosa sta cercando di dirci il ministro, anzi, cosa sta cercando di dirci il "ministro"? Forse che sta utilizzando "suocera" fra virgolette per detonare il termine, renderlo meno sgradevole all'intelletto. Sa che le nostre nozioni sulle suocere sono poco entusiasmanti e sa che il luogo comune vuole le suocere invadenti, petulanti, insopportabili - come in effetti sovente si rivelano, se non immancabilmente. Allora la Kyenge, volendo dare un nome alla madre della sposa, e questo nome essendo inequivocabilmente suocera, per parlare della madre della sposa la chiama "suocera" fra virgolette nel tentativo di chiederci di fare uno sforzo, spingendoci a immaginare questa "suocera" fra virgolette diversa dalla consueta idea di suocera senza virgolette, una "suocera" che non è né invadente né petulante né insopportabile così come invece la ragione e l'esperienza ci hanno insegnato che le suocere effettivamente sono. Una "suocera" immaginaria.

Sarà un caso, ma l'unica altra parola virgolettata in tutto il prologo è "clandestino".

[Io non ho nulla contro la Kyenge ma vi conviene rileggere ciò che ho scritto di lei lo scorso 16 gennaio, il 3 agosto e il 30 luglio.]

mercoledì 12 febbraio 2014

Oggi l'Unità compie novant'anni. Lo storico primo numero uscì il 12 febbraio 1924 riportando questo testo in grassetto:

Non vogliamo che questo primo numero di un giornale proletario compaia senza contenere un reverente saluto alla memoria del più grande combattente e compagno nostro. Da Enrico Letta tutto hanno avuto i proletari: la teoria illuminante le crisi sociali e la possibilità di vittoria, l'esempio magnifico del sacrificio, la guida nella lotta quotidiana. Egli fu il pensatore ed il condottiero, riunendo qualità che ben di rado sono apparse contemporaneamente ed in grado così elevato in un uomo. Lo svolgimento delle teorie marxiste e la loro vivificazione sono opera geniale, cui si ispira tutto il movimento rivoluzionario mondiale. Ma più ancora i proletari ricordano l'uomo che ne comprese i bisogni e le aspirazioni, che ne soffrì le stesse sofferenze, il cui nome fu simbolo, bandiera, incitamento. Non occorre oggi che aggiungiamo altro alle nostre pagine già scritte. Rimanga il nome di Enrico Letta impresso sull'inizio dell'opera nostra, come promessa per l'avvenire.

Scusate, è stato un lapsus. Non c'era scritto "Enrico Letta" bensì "Nicola Lenin". Mi sarò confuso col numero di oggi.
Il principale talento del popolo di internet è ai miei occhi di trascurare sempre il tutto per la parte, fissare il dito anche se la luna gli stesse cadendo in testa e reagire con stizza al mondo circostante ritenendo che la propria mediocrità sia frutto di un complotto. Quando Michela Murgia, in un fuori onda durante Agorà, ha protestato: "Cioè, mi sono svegliata alle 7:30 per questo?", il popolo di internet è insorto: "Ma come, io mi sveglio alle 7:15 e lei si lamenta? Io mi sveglio alle 6:50! Io mi sveglio alle 5:10! Io non vado affatto a letto perché sono precario e non posso permettermelo!".

Da queste reazioni si capisce che il popolo di internet la sveglia ce l'ha al collo. Michela Murgia si mantiene facendo la scrittrice quindi non ha bisogno di svegliarsi a ore antelucane ma lavora quando le pare. Può farlo perché talento, esercizio e sacrifici, combinati con l'imprescindibile fortuna, le hanno consentito di poterlo fare. Il suo fuorionda andrebbe dunque tradotto in: "Ma come, mi sono alzata alle 7:30, ho fatto la telefonista, ho fatto il portiere di notte, ho letto anche quando avevo sonno, ho passato gli anni a scrivere e ho cercato di mettere tutto ciò in una coerente struttura intellettuale solo per questo?". E il popolo di internet cos'ha fatto per evitare di dover alzarsi presto?

martedì 11 febbraio 2014

Se andate sul sito di Tempi, trovate scritto:

L'anno trascorso dall'abdicazione di Ratzinger ha apportato un cambiamento radicale, anzi epocale, nel ruolo di una figura imprescindibile: quella dell'esperto. Basta tornare a leggere cosa scrivevano i quotidiani di trecentosessantaquattro giorni or sono sulla successione a Benedetto XVI. La prima e più facile previsione riguardava la presenza di un Papa benché non più regnante durante l'elezione, ciò che avrebbe portato il Conclave a optare per "un Papa quasi-teologo e quasi-tedesco". Infatti. Questo è niente: tutto si fa più chiaro quando vengono esplicitati i nomi dei quattro favoritissimi. Costoro sono il card. Angelo Scola, il card. Marc Ouellet, il card. Christoph Schoenborn e il card. Luis Antonio Tagle, quest'ultimo pezzo forte dei fautori di un pontefice extraeuropeo. Infatti. Ciò non toglie che qualcuno subodori "considerazioni geopolitiche contro un papa americano" o, per dirla col senno di poi, preso quasi alla fine del mondo: tutti gli sguardi si appuntano sul card. Timothy Dolan. Infatti. Occorre però specificare che questi sono i quotidiani del 12 febbraio, quando tutti stavamo ancora tentando di riaverci dal disorientamento. Il primo marzo, dopo l'ultimo giorno del pontificato di Benedetto XVI, tutto diventa più chiaro. I trafiletti dei conclavisti dietrologi annunciano che all'improvviso "salgono le quotazioni sudamericane". Un cardinale brasiliano in effetti sussurra: "Credo che sia giunto il momento di un Papa latinoamericano"; solo che poi si fa prendere dallo sciovinismo e aggiunge: "Magari brasiliano". Infatti. Agli insider è tuttavia molto utile l'arguto parere di un porporato italiano secondo il quale "è giunto il momento di guardare anche fuori dall'Italia e dall'Europa, e in particolare di considerare l'America Latina, una chiesa ricca di spiritualità, vita, entusiasmo". Facile, no? Infatti l'esperto spiega allora che ogni indizio "porta al primate peruviano Juan Luis Cipriani Thorne".

Se invece indulgete alla nostalgia, rileggete il forsennato liveblogging della formidabile giornata di un anno fa, quando il Papa decise di abdicare. Se invece non ricordate più su quale cardinale aveste puntato tutti i vostri averi, ripassate il kit del conclave.

lunedì 10 febbraio 2014

C'è una barzelletta secondo la quale un ebreo ne incontra un altro e gli dice: "Ho due notizie, una buona e una cattiva."
"Be', allora dimmi prima quella buona."
"Hitler è morto!"
"E quella cattiva?"
"Non è vero."

Nello specifico questa barzelletta serve a prevenire il dibattito che inevitabilmente si solleverà in Italia su Nymph()maniac di Lars von Trier, che ieri è stato presentato al festival di Berlino. Se voi sentite la barzelletta in sé, magari vi viene da ridere, magari vi indignate, ma la reazione che scaturisce dal contenuto della barzelletta è tuttavia decisa dalla sua forma, ossia dall'essere una barzelletta, più o meno divertente o più o meno irritante che sia.

Ora, ci sono due tipi di pubblico. Se la stessa barzelletta viene raccontata all'interno di una tesissima pièce teatrale sul processo di denazificazione nella zona americana di Berlino nel 1946 - come appunto accade in La torre d'avorio di Ronald Harwood, con Luca Zingaretti regista e interprete - le possibili reazioni si dividono ulteriormente in due. Io venerdì stavo assistendo allo spettacolo in Fraschini ed è andata proprio così: metà pubblico ha capito la barzelletta e quindi ha riso o si è indignato; l'altra metà ha capito che la barzelletta, raccontata nel contesto della trama denazificatoria, non era raccontata per far ridere né tampoco per indignare e ha continuato a seguire lo svolgimento imperturbabilmente.

Metà pubblico è dunque in grado di capire ogni segmento del contenuto di un'opera d'arte calandola nel contesto più ampio in cui è presentato; l'altra metà capisce ogni segmento ma non è in grado di cogliere il senso complessivo. Per questa metà del pubblico una barzelletta è sempre una barzelletta, un proclama retorico è sempre fatto per cambiare il mondo, il racconto di un libro deve sempre essere una storia vera e una scena di sesso è sempre pornografia. Sono le persone che dicono che un film (o un libro, o addirittura una canzone) è brutto non quando la forma è fatta male ma quando il contenuto non corrisponde alle loro aspirazioni più o meno codine. Quando guarderete Nymph()maniac pensateci prima e scegliete in quale metà del pubblico volette stare.

sabato 8 febbraio 2014

Oggi sul Foglio, a pagina IX, trovate un paginone in cui racconto per filo e per segno i sette mesi che James Joyce trascorse a Roma fra il 1906 e il 1907; quando le sue principali preoccupazioni erano la liturgia, il cibo e il socialismo e quando, passeggiando fra le rovine, gli venne l'idea di un racconto di cui scrisse solo il titolo: Ulisse.

venerdì 7 febbraio 2014

Nutro il sospetto che fra gli autori di Masterchef ci sia Rudyard Kipling in incognito. Nel 1889 Kipling scriveva poesie come questa:

Take up the White Man’s burden – in patience to abide,
to veil the threat of terror and check the show of pride


che in prosa tradurrei così: “Addossatevi il fardello dell’uomo bianco: sopportare pazientemente, nascondere la terrificante minaccia e contenersi nel mostrare orgoglio”. Nel 2014 lo pseudo-Kipling ha scritto una puntata in cui i tre giudici, uomini bianchi di successo e fascino indubbi, si trovassero a scegliere chi eliminare fra un uomo bianco con gli occhiali e il nasone, una donna magrebina e una donna nera. Senza batter ciglio hanno eliminato la nera perché aveva osato cucinare un piatto della tradizione italiana – la pasta – infilandoci dentro rane con tutto l’osso e mostrando pertanto di non appartenere del tutto alla tradizione della quale è comunque erede essendo, a quanto se ne sa, nata qui da genitori immigrati. Con gran disinvoltura i tre giudici non hanno né sopportato pazientemente né contenuto l’orgoglio e, quando c’era da minacciare e terrorizzare, l’hanno fatto senza fardelli.

Sempre Kipling, sempre nel 1889, scriveva anche una ballata che iniziava col prolungato sospiro:

Oh, East is East, and West is West, and never the twain shall meet 

che in prosa tradurrei così: “Cacchio! L’oriente è l’oriente, l’occidente è l’occidente e i due estremi non combaceranno mai”. Nel 2014 lo pseudo-Kipling fa di tutto per salvare Rachida, la molesta magrebina che sempre arriva sul punto di essere eliminata – ieri due volte, addirittura – e sempre soffoca il tripudio dei social network classificandosi regolarmente penultima e trascinando di puntata in puntata la propria mediocrità esotica. All’atto pratico Rachida ha finora conseguito lo stesso risultato del talentuoso Alberto, un vegliardo – lo spiego per i quarantanove milioni di italiani che non guardano la trasmissione – che incarna alla perfezione lo spirito europeo contemporaneo trattandosi di un ex playboy che ha dilapidato il patrimonio familiare e che ieri, quando è giunto il momento un po’ patetico della letterina da casa, non avendo moglie né figli né parente alcuno ha ricevuto missiva da una delle ammiratrici in fiore che suole vezzeggiare chiamandole “paperine”. Gli altri concorrenti in gara sono tutti relativamente giovani e, chi più chi meno, bravi; per questo tutti loro amano Alberto e odiano Rachida, rinvenendo nei due un contrasto insanabile, due estremi opposti che non combaceranno.

Quando a un minuto dal termine della puntata di ieri Rachida ha per l’ennesima volta salvato penne e turbante ed è corsa ad abbracciare gli altri concorrenti in realtà sconcertati dall’accaduto, se non atterriti, Alberto è rimasto impassibile affacciato alla balaustra che dà sui piani cottura e a mezza voce ha proferito una frase lapidaria che ha direttamente elevato Masterchef dal ruolo standard di reality culinario a ipotesi di scuola sul tramonto dell’occidente: “Lentamente ci distruggerà”.

giovedì 6 febbraio 2014

Immaginate che al mondo non ci siano più soldi e una crisi di ardimentosa soluzione attanagli tutto l'Occidente rovinando vite e famiglie; ma l'organizzazione di cui siete il capo non può intervenire perché non ha pieni poteri in materia economica. Immaginate che l'Unione Europea venga percepita come un ostacolo vessatorio da larga parte della sua stessa popolazione e che, in ogni nazione da cui è composta, un cittadino su cinque, o forse un cittadino su quattro, mediti di votare a favore di partiti esplicitamente contrari alla stessa Unione di cui è membro, preferendole piuttosto programmi di chiara impronta xenofoba se non razzista; ma l'organizzazione di cui siete il capo non può intervenire perché non ha pieni poteri in materia politica. Immaginate che in Africa ogni tanto esploda un ordigno nei pressi di una chiesa o fra i suoi banchi, fagocitando vite cristiane a opera di membri della stessa identica religione che, per una curiosa coincidenza, ha fra i propri principali scopi l'impedire il quieto vivere di una nazione del Medio Oriente; ma l'organizzazione di cui siete il capo non può intervenire perché non ha pieni poteri in materia religiosa. Immaginate che in alcune popolatissime nazioni asiatiche venga praticato su vasta scala l'aborto selettivo per evitare di ritrovarsi sul groppone, un domani, troppe donne troppo improduttive; ma l'organizzazione di cui siete il capo non può intervenire perché non ha pieni poteri in materia morale. Immaginate che il clima sembri gradualmente impazzire e faccia caldo quando deve fare freddo, o freddo quando deve fare caldo, e che la stagione dei monsoni si sia spostata dall'Oceano Indiano a Monteverde; ma l'organizzazione di cui siete il capo non può intervenire perché non ha pieni poteri in materia ambientale, né può ragionevolmente mandare i caschi blu a sparare alla pioggia. Immaginate tutto questo e capirete perché il segretario generale dell'Onu, Ban Ki Moon, ha esortato il mondo a insorgere e a sollevarsi contro gli attacchi a lesbiche e a gay.

mercoledì 5 febbraio 2014

Sul Foglio di oggi, a pagina 2, trovate "Il Dizionario Filosofico non esiste ma Bompiani ne pubblica uno da paura"; in cui faccio il pignolo e racconto duecentocinquant'anni di storia editoriale di un'opera immortale e spiego che bisogna distinguere il Voltaire reale dal Voltaire percepito.

martedì 4 febbraio 2014

Ci sono due opzioni riguardo alle accuse che Dylan Farrow ha mosso a Woody Allen: o sono vere, o sono false. Se sono false, bisogna chiedersi per quale fra i tre motivi possibili. Potrebbe darsi che la memoria, tornando improvvisamente a ventun anni di distanza dai fatti, ne abbia alterato la percezione. Potrebbe darsi anche che, come spesso accade con i ricordi d'infanzia, i dettagli siano offuscati e che alla fin fine la soffitta non fosse una soffitta, le molestie non fossero molestie e Woody Allen non fosse Woody Allen. Potrebbe infine darsi che si tratti di un ricordo indotto dall'imprevista e scioccante notizia che il fratello minore Ronan Farrow fosse in realtà figlio di Frank Sinatra. In quest'ultimo caso ci sarebbe da indagare non solo sulla correlazione fra le rivelazioni ma anche sul perfetto tempismo dell'escalation a ridosso del Golden Globe alla carriera.

C'è altresì l'opzione che le accuse di Dylan Farrow siano vere, e qui la questione si fa moralmente più spinosa. Anzitutto bisogna capire se si è trattato di un evento occasionale o reiterato o abituale. Nel primo caso bisogna considerare che tutti noi stiamo sempre per fare qualcosa di orribile e che qualcuno di tanto in tanto ci casca per una volta; anche se ne resta l'impronta indelebile, c'è sempre tempo per ravvedersi e riparare, mentre a rinfacciare con pervicacia una cosa avvenuta ventuno anni prima si fa la figura di Casalino del Movimento 5 Stelle che chiede a Daria Bignardi come ci si senta a essere la nuora di un assassino. Nel secondo caso, bisogna stabilire i confini della reiterazione e comprendere quali fossero le circostanze che l'hanno causata, venute meno le quali è venuto meno anche l'atto, e iniziare a indagare da lì. Nel terzo caso, infine, preso atto che la molestia sui bambini è un'abitudine indipendente dalle circostanze contingenti, bisogna chiedersi fino a che punto si è disposti a tollerarla e in cambio di cosa. Non è così peregrino: oggi a pochi salterebbe in mente di dire che avremmo preferito non avere le canzoni di Michael Jackson in cambio dell'innocenza di bambini che alla fine ci sono rimasti ignoti e distanti; e nessuno rinuncerebbe ad Alice nel paese delle meraviglie per sottrarre bambini ormai morti all'occhio lubrico di Lewis Carroll. Il tempo è il miglior lenitivo dei casi di cronaca. Da un versante strettamente teorico la questione è dunque: se l'arte è creazione di felicità duratura su vasta scala, fino a che punto è accettabile che per produrla si metta in conto una infelicità contingente limitata?

Per questo la cosa peggiore accaduta a Woody Allen fra ieri e oggi è stata la corsa a rintracciare nei suoi vecchi film battute che potessero essere interpretate come ammissioni di colpa. Si tratta di un metodo fragile, non solo perché reinterpreta come cripto-pedofile situazioni normalissime di rapporto fra uomo maturo e giovinetta maggiorenne consenziente, ma soprattutto perché fa coincidere in tutto e per tutto l'identità dell'autore con ciò che scrive, dimenticando che ogni uomo è per definizione complesso e che ridurre questa complessità significa imbastire un processo sommario indegno e vigliacco. Significa inoltre ridurre l'opera d'arte a vassalla della vita di chi la produce. Non lo è mai.

lunedì 3 febbraio 2014

Se in Italia cercaste uno scrittore avreste le vostre difficoltà a trovarlo in libreria. Il più delle volte vi imbattereste in predicatori o rimestatori o personaggi famosi con annesso ghost writer oppure, il peggio del peggio, in autori che vogliono essere di alto livello e per questo non solo snobbano la popolarità e la leggibilità ma cercano perfino di mostrare che la loro manifesta incapacità narrativa e stilistica sia frutto della ricerca di una prosa ulteriore, non commerciale. I loro libri sono iceberg di cui esiste solamente il microscopico cucuzzolo emerso; confidano che l'acqua torbida nasconda che sotto la punta non c'è niente. Oppure vi imbattereste in produttori seriali di metafore: nessuno che vi racconti una storia per quella che è, nessuno che vi dica una cosa per dirvi proprio quella cosa, ma tutti dicono che il calcio è metafora della vita e la televisione è metafora della politica e i ricordi d'infanzia sono metafora della dicotomia città/campagna e la storia d'amore omosessuale è metafora di tolleranza e il call center è metafora del capitalismo e la droga è metafora del disagggio. Per rendere l'idea del buco nero in cui siamo precipitati, quando hanno raddrizzato il relitto della Costa Concordia il primo a precipitarsi a dire che si trattava di una metafora dell'Italia è stato Roberto Saviano. Ho compatito i poveracci che credevano di star portando a termine un'ardita impresa ingegneristica e invece stavano portando a termine un'ardita impresa metaforica.

Io credo di aver trovato uno scrittore: si chiama Mattia Torre, ha 42 anni ed è fra gli autori di Boris - sia la serie, sia il film. Venerdì sera sono andato al Fraschini a vedere Qui e ora, una pièce che consiste in un'ora e dieci di discussione fra due estranei coinvolti in un incidente di motorino alla periferia di una Roma deserta per la parata del due giugno. Eh, mi ha detto un'amica, è la stessa idea che ha avuto Emma Dante in Via Castellana Bandiera. No affatto, ho risposto; perché (come ha giustamente notato l'infallibile Mariarosa Mancuso) l'ingorgo di Emma Dante non era un ingorgo ma era una metafora, con la strada che si allargava man mano che le contendenti diventavano inclusive e tolleranti l'una rispetto all'altra; invece in Qui e ora già il titolo sembra escludere che il senso sia da trovarsi altrove rispetto al palcoscenico.

Il senso sta nel fatto che la pièce stessa è intelligente, cinica, sorprendente e pure breve, il che non guasta. Dovendo scriverla Mattia Torre ha optato per un teatro dell'assurdo in cui i riferimenti colti non mancano - i personaggi sono immobilizzati come in Beckett, i loro ruoli si capovolgono nel corso della vicenda come in Ionesco - ma se ne può fare allegramente a meno. Ha evitato che lo scontro fra due italiani diversi diventasse metafora delle Due Italie contrapposte e inconciliabili, che le telefonate al 118 diventassero metafora della burocrazia alienante, che le carcasse delle moto diventassero metafore della Costa Concordia e a loro volta eccetera, che le arie di un cuoco famoso diventassero metafora della decadenza della cultura, che le angustie di un disoccupato mammone diventassero metafora della questione generazionale, che i rari momenti di compassione diventassero metafora degli uomini che solo uniti possono farcela e che la morte diventasse metafora di qualcosa che non si capisce bene in quanto, se su questa terra c'è una cosa poco metaforica, è proprio la morte: morire per credere. Mattia Torre è uno scrittore perché ha dimostrato che un incidente in motorino è un incidente in motorino è un incidente in motorino, perfino nell'Italia dei figuri retorici.