giovedì 29 maggio 2014

Seguono le istruzioni per l'acquisto della vostra copia di Ho visto Maradona, disponibile a partire da oggi:

- localizzate la libreria più vicina;
- recatevici;
- vincete la naturale repulsione che caratterizza gli italiani ed entrate;
- non sentitevi osservati;
- raggiungete il bancone delle informazioni;
- con sguardo fiero e voce imperiosa richiedete una copia di Ho visto Maradona, romanzo di Antonio Gurrado pubblicato dall'editore Ediciclo nella collana Battiti;
- ripetete quanto scritto sopra qualora il libraio domandasse: "Eh?";
- prendete dalle mani operose del libraio la copia destinata a voi;
- osservate la splendida copertina di Riccardo Guasco (se non siete gente da libri, la copertina è la cosa che c'è davanti);
- girate il libro di 180°;
- leggete l'estratto che è stato scelto per invogliare il lettore che prima di scegliere un libro ne guarda il retro:

"Allora si infilava la maglia - quella maglia che per la retorica dei giornali era così azzurrina come il cielo di Napoli, che altrove non è abbastanza cielo, o come il mare di Napoli, che altrove non è abbastanza mare - e il suo numero 10 si stagliava candido sulla sua sua schiena trasformandosi in un enorme egocentrico IO per catalizzare lo sguardo di ottantamila sostenitori ciascuno dei quali cantava a squarciagola: Innamorato son";

- vincete la naturale repulsione che caratterizza gli italiani e aprite il libro;
- individuate la seconda di copertina, che si trova sull'aletta retrostante la medesima;
- ivi leggete il blurb del romanzo:

"Stagione calcistica 1989-90. Napoli e Milan si contendono lo scudetto prima della festa nazionalpopolare dei Mondiali nell'Italia delle notti magiche. E' anche l'anno della maturità liceale per quattro amici napoletani: Gringo, Mozzarella, Anatomia e il Milanese, che è il dissidente del gruppo. I primi tre praticano devotamente il culto neopagano di Maradona e l'indolente fatalismo partenopeo tutto sole, mare, cielo e tiriamo a campare; il Milanese, essendo comunista, tifa per la squadra di Berlusconi e Sacchi come perfetto modello di efficienza collettiva. L'amicizia inevitabilmente si rompe mentre il Napoli vince lo scudetto, l'Argentina elimina l'Italia al cospetto di uno stadio San Paolo tutto schierato con Maradona e il Milanese deve rivedere i suoi piani di fuga. Tutt'attorno, Napoli e la commedia della vita, le sue miserie e i suoi splendori: un padre operaio alla Fiat e una professoressa a luci rosse, Benedetto Croce e Luciano De Crescenzo, Ciro Ferrara e la vita sentimentale di Kierkegaard. E l'Italia e il mondo che, quattro anni dopo, cambiano del tutto per restare nella sostanza sempre uguali";

- occultamente persuasi all'acquisto dalla professoressa a luci rosse, avviatevi verso la cassa;
- pagate in contanti, con bancomat o carta di credito;
- avviatevi verso l'uscita;
- uscite, tornate a casa, date una carezza ai vostri bambini e dite: "Questa è la carezza dell'autore".

Poi potete anche non leggerlo ma non sapete cosa vi perdete.

mercoledì 28 maggio 2014

Ho deciso di ambientare il romanzo nel periodo credo più felice della mia vita. Al crinale fra il 1989 e il 1990 avevo nove, dieci anni quasi: ero abbastanza piccolo da essere ancora inconsapevole delle responsabilità dell'esistenza e inoltre, se devo paragonarmi a oggi, non avevo ancora la sciatica né supponevo che mai l'avrei avuta (e invece); ero però grande abbastanza da iniziare a rendermi conto degli eventi che circondavano la mia casa, la mia famiglia e la mia piccola vita riuscendo a ricordarli fino a quest'istante - non tutti, certo, e in maniera magari confusa benché persistente. A posteriori, ritengo di essere stato fortunato perché era un periodo fuori dal comune, in cui decisamente era meglio essere vivi che essere morti. Non ricordo l'ultimo giorno di Samuel Beckett, pazienza, ma ricordo la caduta del Muro di Berlino. Ricordo distintamente la battaglia contro l'Apartheid ma ricordo anche che ero convinto che Lapartheid fosse una persona. Il terremoto di San Francisco fece sessanta morti senza che me ne accorgessi ma seguii con trepidazione eccessiva per un novenne apolitico le vicende di Achille Occhetto alla Bolognina. Ricordo Ceausescu, Nuovo Cinema Paradiso, il sindaco nero di Washington, il sequestro di Cesare Casella nonché, con preoccupante chiarezza, Toto Cutugno che vince l'Eurofestival a Zagabria. Non fu un anno, fu l'età dell'oro; se avevo da inventare una storia dovevo metterla lì.

Dall'agosto 1989 al luglio 1990 si tenne anche la stagione calcistica più entusiasmante della storia d'Italia e non accetto discussioni. I ventenni di oggi stenteranno a crederlo ma all'epoca la serie A era una cosa seria. Oltre a Maradona, che mica per niente ho ficcato nel titolo, ogni squadra aveva campioni sufficienti a renderla fuori dal comune: il Milan olandese aveva Gullit, Rijkaard e Van Basten, l'Inter tedesca aveva Matthaeus, Klinsmann e Brehme, la Fiorentina aveva Roberto Baggio, la Roma Giannini e Voeller, la Juventus Totò Schillaci nientemeno. Oggi noi ci consoliamo della serie A guardando di nascosto il campionato spagnolo mentre le nostre squadre ripianano i bilanci vendendo i migliori italiani ai magnati stranieri; per avere invece un'idea della superiorità del campionato italiano dell'epoca, pensate che nel 1990 Martin Vazquez decise di lasciare il Real Madrid per andare a giocare nel Torino. Questa stagione straordinaria come la politica di quegli anni è la cornice sportiva del romanzo.

Tutto culminava e finiva con Italia '90, la più grande festa nazionalpopolare che abbiamo mai ospitato da queste parti. A rivederla oggi sembra non avere nulla del gigantismo e dello spreco di cui era stata accusata sui giornali dell'epoca; in effetti alcuni stadi potevano essere fatti meglio ma non si può avere tutto. Ora siamo talmente abituati all'eccesso, al lassismo e alla bruttezza da avere superato e rimosso quei Mondiali coi quali intendevamo dare la cifra dell'Italia nostra, che certamente era quella di Cossiga e di Andreotti ma sapeva il punto entro cui contenersi e cosa far splendere di più e cosa meno; Italia '90 è come la merenda di Pinocchio, che allora era sontuosa perché constava di un panino imburrato da entrambi i lati mentre adesso ci fa ridere. Bastano cinque minuti di un video d'epoca per accorgerci che se allora pensavamo di avere toccato il fondo e che nulla sarebbe potuto andare peggio, ebbene, ci eravamo sbagliati e avremmo fatto meglio a godercela.

[Ho visto Maradona sarà in libreria domani. Spero che siate in libreria anche voi, altrimenti è inutile. Se siete indecisi se comprarlo o no, c'è una pagina facebook fatta apposta per fugare ogni vostro dubbio.]

martedì 27 maggio 2014

La pubblicità è l'anima del commercio quindi mi vedo costretto a proporvi un sensato paragrafetto sul motivo per cui ho deciso di scrivere un romanzo (la copertina è qui a sinistra) in una nazione in cui tutti scrivono romanzi e, peggio, in cui molti editori non si sentono sicuri abbastanza da pubblicare un libro che non rechi sotto il titolo la dicitura "romanzo". Tanto più che sono abituato a scrivere continuamente però a scrivere tutt'altro. Potrei cavarmela come fece Giorgio Manganelli che all'Encomio del tiranno aggiunse il sottotitolo rivelatore "Scritto all'unico scopo di fare dei soldi": ma, fermo restando che gli emolumenti sono il più nobile motore della letteratura e che la prosa servile è il miglior modo per imparare a scrivere sul serio, ecco, non è che abbia preventivato un arricchimento smodato nei mesi a venire; e poi si guadagna di più a scrivere, che so, la biografia della Madonnina di Civitavecchia firmata dall'aiutante di un cuoco televisivo. Escludo altresì la vanità in quanto l'esperienza insegna che in Italia, se uno scrive un romanzo, ha più motivi di vergognarsi che d'altro. Escludo lo sfogo autobiografico, perché il signore che nel romanzo dice "io" è nato nel 1971, e io nell'80, vive a Napoli, e io sto a Pavia, è pure comunista e - come disse Dalì riferendosi a Picasso - yo tampoco. Potrei dirvi che ho sentito dentro di me l'esigenza di dare vita a questa storia perché i suoi personaggi per me esistono davvero, li percepisco pulsare, ci parlo ogni giorno; ma (vi rivelo un segreto) quando un autore dice così tira a fregarvi. Ah, e non posso nemmeno utilizzare l'espediente che di questi tempi va di gran voga, ovvero appiccicare a ciò che ho scritto l'adesivo "una storia vera" sia perché vaghi ricordi del liceo mi suggeriscono che il romanzo dev'essere non vero ma verosimile sia perché ho proprio il sospetto di avere scritto (un attimo ché la rileggo) una storia inventata. Dunque: ho scritto una storia inventata, al precipuo scopo di fare dei soldi benché sapendo che non ne farò poi tanti, vergognandomi un pochetto, consapevole che i personaggi non esistono e che gli autori che sostengono il contrario meritano un pugno nelle gengive e infine in  modo tale da, tramite il protagonista, nascondermi anziché rivelarmi. Mi sono divertito; ed ecco il mio romanzo, tutto qui.

[Ho visto Maradona sarà in libreria da dopodomani, nella collana Battiti dell'editore Ediciclo. Anticipazioni di vario genere sull'apposita pagina facebook.]

lunedì 26 maggio 2014

Se vi trovate a passare da Pisa, domani martedì 27 maggio intervengo in mattinata al grande convegno sul libro nel Settecento al centro museale di San Michele degli Scalzi. Come i più sagaci di voi avranno già intuito, non parlerò di Ho visto Maradona ma di come autocensura e persecuzione abbiano plasmato l'identità di Voltaire, trasformandolo da letterato e poeta che era all'inizio della stesura delle Lettere inglesi a intellettuale impegnato al momento in cui le pubblica cambiando il titolo in Lettere filosofiche. Non sarà presente l'autore.

domenica 25 maggio 2014

Un'inquietudine dell'animo dannosa per gli Stati è quella di chi gode di molto ozio ma manca di cariche. Tutti aspirano per natura agli onori e alla fama, ma soprattutto coloro che sono meno presi dalla cura per le cose necessarie. Infatti l'ozio li induce in parte a discutere fra di loro della cosa pubblica, in parte a una lettura superficiale di libri di storia, di oratoria, di politica e altri. Di qui accade che si ritengono, per il loro ingegno e la loro dottrina, preparati ad amministrare gli affari più importanti. Ma poiché non tutti sono quello che credono di essere e, anche se lo fossero, non tutti potrebbero essere chiamati ad uffici pubblici, per la loro moltitudine, è necessario che molti restino trascurati. Costoro, ritenendosi insultati, non possono desiderare nulla più di un esito infelice delle decisioni pubbliche, sia per invidia nei confronti di quelli che sono stati preferiti loro, sia nella speranza di emergere. Perciò non è da meravigliarsi se attendono con animo cupido occasioni per introdurre delle novità.

Prima che Beppe Grillo mi accusi di avere infranto il silenzio elettorale tacciando i grillini di essere sfaticati, incompetenti, arrivisti, superficiali, presuntuosi, permalosi e fautori del tanto peggio tanto meglio, ci tengo a specificare che il paragrafo precedente non l'ho scritto io ma Thomas Hobbes. Si trova nel De Cive, seconda parte, dodicesimo capitolo, intitolato per puro caso "Le cause interne che dissolvono lo Stato". Aggiungo che Hobbes non può essere sottoposto a processo sommario online essendo morto nel 1679.

venerdì 23 maggio 2014

Avrà pure tanti difetti, questo Beppe Grillo, ma almeno tre pregi bisogna riconoscerglieli con gratitudine.

Anzitutto ha dato conferma di ciò che dicevamo da tempo: che cioè in Italia vi fosse un'ampia maggioranza di elettori politicamente inetta, impossibile tuttavia a ignorarsi perché una nazione non può essere governata a prescindere dai suoi abitanti; per questo era non solo necessario ma anche benvenuto che esistesse una parte politica, bene o male arroccata attorno all'ingegno di Silvio Berlusconi e alla sua corda pazza, che traducesse in rappresentanza civile e programma fattibile le istanze anche di questa maggioranza irregimentandole in una fazione coerente e, nonostante le critiche e i sarcasmi, decisamente presentabile. Per vent'anni si è creduto che Berlusconi fosse un sintomo quando invece era un rimedio; lo si è combattuto nella certezza che eliminandolo si sarebbe eliminata anche la parte irragionevole del suo elettorato e adesso che il tappo è saltato, adesso che Berlusconi non intercetta né civilizza più questa maggioranza magmatica, il risultato è solo casino.

Inoltre Grillo rappresenta plasticamente l'inadeguatezza della democrazia e del suffragio universale. Mi si obietterà che per ottenerli sono stati compiuti innumerevoli sacrifici ed è stato versato sangue: ciò non toglie che il risultato della rappresentanza offerta a cani e porci siano Crimi, Dibattista, la Taverna assieme a una manica di anonimi che pur essendo inutili si sforzano di essere dannosi; e che patrioti e rivoluzionari siano alla fin fine morti per Casaleggio.

Da ultimo Grillo ha mostrato i limiti della costituzione italiana, che evidentemente non funziona se il suo mantenimento ha portato a questi risultati e se su di essa si fonda un diritto che gli garantisce di dire quel che dice. Io quando capto discorsi, ad esempio, sul processo via internet a giornalisti e politici, mi scopro a dire fra me e me frasi già sentite come: "Ma cosa fa questa Ceka? Come mai quest'uomo è ancora in circolazione?" . A mali estremi, estrema destra; a fascista, fascista e mezzo.

giovedì 22 maggio 2014

Beppe Grillo punta molto sullo slogan di essere lui uguale ai suoi elettori, i quali sono a loro volta diversi da una casta proteiforme composta grossomodo da politici, imprenditori, banchieri, professori, magistrati, sacerdoti e giornalisti. Ecco. Mentre lo ascoltavo dal vivo Grillo ha tirato in ballo l'idea che i giornalisti non possano essere liberi perché pagati da editori che hanno degli interessi economici: sintetizzando la sua spericolata argomentazione, e la Fiat, e Montepaschi, e Confindustria, e Berlusconi, e vaffanculo. Grillo sostiene che i giornalisti che lo tacciano di miliardario non vogliano mostrargli la loro dichiarazione dei redditi; che è come sostenere che un giornalista voglia intervistarlo senza rispondere alle sue domande o che un prete voglia confessarlo senza raccontargli i propri peccati o che il cameriere del ristorante non voglia andare a mangiare a casa sua. L’assunto che un giornalista possa essere libero solo se non pagato da un editore presuppone che sia giornalismo indipendente solo quello di siti come Tze Tze, che intende (cito) “svincolarsi dai mainstream media e pubblicare le notizie in funzione dell’importanza attribuita loro dagli utenti”. Vi fornisco una selezione delle notizie indipendenti che vi si trovano al momento in cui scrivo: “Pd contro 5 Stelle: ecco la verità”; “Il deputato 5 stelle scrive a Santoro”; “Comizio 5 stelle vuoto, ecco perché”; “La Rai è finita”; “Vergogna: ecco dove trovano i soldi”; “Incredibile: ecco perché Grillo vola nei sondaggi”; “Scandalo al Tg 5”; “Beccata Pina Picierno”; “Renzi tra la folla a Modena, ma ecco l’imprevisto”. Cari amici grillini, anche se ogni tanto io scrivo sui giornali non sono un giornalista e posso quindi assicurarvi di essere esattamente come voi, per quanto più intelligente. Un editore senza interessi economici non ha soldi e quindi non può pagare. Un giornalista senza editore non è libero, è disoccupato.

mercoledì 21 maggio 2014

Dall'attivismo animalista di sinistra a Viareggio alla counterjihad a Londra. Gitarella nell'ultradestra britannica sul Foglio di oggi: racconto la storia di Enza Ferreri, che scriveva su Repubblica e l'Espresso mentre oggi si candida alle Europee con un partito che ritiene l'Ukip di Nigel Farage troppo compromissorio.

martedì 20 maggio 2014

Ferma restando l'indifferenza di Beppe Grillo nei confronti del proprio pubblico e dunque dei potenziali elettori, ascoltando il suo comizio dal vivo ho potuto non solo riscontrare l'ammirevole indifferenza dei pavesi che continuavano a passeggiare fendendo piazza Vittoria del tutto impermeabili al concetto che stesse svolgendosi il comizio di Grillo - non se ne adonti, è l'atteggiamento locale nei confronti di qualsiasi evento e tale sarebbe rimasto anche se dal cielo fosse disceso un mammut fosforescente con la scritta "Quetzalcoatl è Dio e Giancarlo Magalli il suo profeta" - ma anche soffermarmi a fare due conti. Senza stare a contare le teste, era piena metà piazza. Non è poco visto che si tratta di un luogo enorme; mi sono però reso conto che era la stessa area occupata nel 1999 in occasione del comizio in cui Gianfranco Fini presentava ai pavesi l'idea geniale e innovativa dell'alleanza con Mariotto Segni. Anche allora erano Europee e l'ibrido fiamma-elefante, che doveva segnare irreversibilmente il futuro della nazione, prese il 10,3.

lunedì 19 maggio 2014

Prima che il gallo canti e il Grillo vada da Vespa, mi sento in dovere di chiarire qualcosa che ho capito solamente osservando di persona un comizio del leader pentasetllato e, ahilui, pregiudicato. Giovedì sera Grillo parlava in piazza Vittoria a Pavia e mi sono trattenuto un po' ad ascoltarlo (non troppo perché la sciatica non mi dà tregua già alla mia tenera età) così da farmi un'idea su punti che mi erano rimasti oscuri. La vera grande differenza fra Grillo e gli altri leader politici sta nella dialettica, non nella retorica. A prima vista sembra che Grillo ripeta sempre ossessivamente le stesse cose; questo però lo fanno anche Berlusconi o Renzi. Lo iato è altrove. Se sentite Renzi o Berlusconi dal vivo, ma anche se avete sentito d'Alema, Cossutta, insomma chi vi pare, balza subito all'occhio che tutti costoro, e soprattutto Renzi e Berlusconi, parlano al proprio pubblico, cercano di coinvolgerlo per mezzo di piccoli artifici oratori, soprattutto vedono chi hanno di fronte e fanno sembrare che il loro discorso sia determinato dai destinatari. Qui sta il loro talento politico. Non così Grillo, che sul palco si agita e zompa e sbraita come durante uno spettacolo, quando al pubblico bisogna offrire ciò che si aspetta di vedere, indipendentemente dalla composizione della piazza. Nonostante tutto questo parlare dell'uno vale uno e della gggente al posto della casta, è evidente che a stento Grillo riesce a considerare esseri umani le persone che stanno ad ascoltarlo; per lui sono poco più che scenografia inerme, l’encefalogramma piatto della repubblica.

giovedì 15 maggio 2014

Scrivo sul sito del Foglio:

Le tesi sono fatte per essere buttate. Bisogna spiegarlo a chi si scandalizza per le foto che sul sito di Repubblica mostrano cassonetti per la raccolta differenziata della carta traboccanti di tesi in ingegneria informatica discusse alla Statale di Milano. Roba inaudita, una vergogna che finora aveva toccato solamente le università di Teramo (maggio 2011), Cagliari (novembre 2011), Parma (ottobre 2012) e Lecce (aprile 2013) per limitarci ai casi più recenti e facilmente riscontrabili. Eppure chi ha riempito i cassonetti era nel giusto. Nello specifico non si capisce perché conservare in eterno tesi come quella che si scorge in cima, sulla “realizzazione di un sistema di comunicazione in aree intelligenti per grosse organizzazioni”, discussa nel 1990 e inevitabilmente obsoleta un quarto di secolo dopo. Se però vogliamo affrontare il tema più in generale e chiederci se una tesi gettata via svilisca in qualche modo il senso dell’istruzione universitaria e della ricerca accademica in Italia, non è affatto difficile giungere a conclusioni simili.
Per definizione è la tesi di dottorato quella che consente di arricchire un pochettino, al prezzo di anni di ricerca, la conoscenza pregressa su un dato argomento; un progetto di dottorato è infatti volto a colmare una piccola lacuna nella bibliografia, trattando un soggetto che prima non c’era. La tesi di laurea magistrale, che si consegue dopo i corsi specialistici del quarto e quinto anno, è invece una ricognizione della bibliografia esistente e serve a certificare che il candidato sia a conoscenza degli strumenti di base per intraprendere la corrispondente professione nonché degli strumenti minimi necessari qualora volesse tentare di proseguire la ricerca. È la scala che serve a raggiungere il tetto ma che, una volta arrivati su, non serve più a nulla; conservarla è feticismo per genitori e nonni, come il diploma appeso dietro la scrivania. La tesi di laurea breve, o triennale, è una certificazione minima che serve ad assicurare in alcuni casi che il candidato possa svolgere una professione-base e in altri che possa continuare a studiare per altri due anni come ha fatto nei precedenti tre. Per ripararsi dalla pioggia di carta che ne consegue, alcune facoltà stanno pensando di sostituirla con un colloquio orale.
Solo una minoranza esigua e statisticamente impercettibile di tesi di laurea viene coronata dalla dignità di stampa, ossia dal riconoscimento che essa arricchisce la bibliografia esistente con un portato di novità; e anche in questi rari casi, una volta che la tesi debitamente aggiustata è diventata un articolo o una monografia, la si può tranquillamente gettare via. Considerate infine la cosa dalla prospettiva del laureato. Se intraprende una carriera professionale che non ha molto a che vedere con l’argomento di laurea, la sua tesi resta lettera morta, poco più che un esercizio di stile. Se decide di insistere sull’argomento sviluppandolo professionalmente, la sua tesi viene superata dai fatti in men che non si dica. Poniamo invece che opti per la carriera accademica e sulla tesi di laurea imbastisca il dottorato e anni e anni di ricerca: qualora mai dovesse riprenderla in mano gli sembrerebbe così ingenua e ruspante, inevitabilmente piena di sbavature stilistiche e inesattezze fattuali, da voler recarsi sua sponte nella segreteria d’ateneo a implorare che buttino nel primo cassonetto il suo errore di gioventù.


mercoledì 14 maggio 2014

Ancora problemi con la giustizia inglese. Ho letto Italia Yes Italia No di Caterina Soffici (Feltrinelli) e, a parte il titolo discutibile, ho notato che in filigrana ne emergeva un'immagine inquietante dell'Inghilterra. L'autrice, che si divide fra Londra e l'Italia, dice di preferire la legalità calvinista britannica al nostro machiavellismo cattolico; presenta però alcuni evidenti esempi di come in Inghilterra legalità e giustizia siano due concetti distinti e di come esistano restrizioni di fatto alla libertà di parola e viga in modo strisciante il reato d'opinione.

Non c'è bisogno di dire da che parte stia io. Tutti i dettagli (più un finale altamente simbolico) si trovano sul Foglio in edicola oggi.

martedì 13 maggio 2014

Ci sono cose che non si possono più dire indipendentemente dall’autorità di chi le ha dette in passato. L’esempio macroscopico, come sempre, arriva dall’Inghilterra e più precisamente da Winchester, nell’Hampshire, dove il signor Paul Weston è stato arrestato dalla polizia a fine aprile per avere pubblicamente pronunciato frasi anti-islamiche che hanno irritato taluni abitanti della ridente cittadina inglese: “Costumi improvvidi, sistemi agricoli sciatti, metodi commerciali fiacchi e insicurezza della proprietà sussistono dovunque vivano e comandino i seguaci del Profeta. Migliaia di persone diventano soldati della fede, coraggiosi e leali; tutti costoro sanno come morire ma l’influenza di questa religione paralizza lo sviluppo sociale di chi la professa. Non esiste al mondo alcuna potenza più strenuamente retrograda”. Weston, in sé, è un caso a parte. Al momento dell’arresto aveva l’apparenza mite dell’impiegato del catasto che indossa i jeans fuori servizio. A suo modo è un leader politico, per quanto di un partito piccolissimo, il Liberty GB, che si colloca all’estrema destra e che è comunque abbastanza articolato da avere un ufficio stampa gestito da un’italiana e un consigliere speciale sull’Islam, tale Iq Al Rassooli. Pochi giorni prima di essere arrestato Weston aveva pubblicato su youtube un video di sette minuti in cui serbava la medesima aria mite, indossando però la cravatta, ed esordiva dichiarando compostamente: “Mi chiamo Paul Weston e sono un razzista”. Curiosamente l’arresto non è scattato per questa ammissione di colpa individuale ma per le frasi riportate sopra, che però Weston stava leggendo da un libro del 1899: The River War di Winston Churchill, premio Nobel per la letteratura e più celebre per essere stato l’uomo politico più influente e venerato del Novecento britannico.

Ne derivano alcune domande destinate a restare senza risposta. I poliziotti erano consapevoli della fonte citata da Weston? Avrebbero arrestato anche Churchill redivivo, qualora fosse tornato a sostenere ciò che aveva sostenuto? Più in generale, trarre opinioni da un classico ed eventualmente citarlo testualmente può considerarsi reato? Gli editori che continuano a ripubblicare il libro di Churchill sono da ritenersi complici? Le biblioteche che ne hanno custodito le vecchie edizioni consentendo di preservarle e riprodurle sono conniventi? Già che stiamo, c’è qualche difensore di Melania Mazzucco pronto a partire per Winchester seduta stante e andare a ripetere in questura che con un libro non si possono commettere reati? E dove si colloca il confine dell’autorevolezza che permette a chi pronuncia determinate frasi di essere considerato un luminare se non addirittura un padre della patria ma che porta chi le ripete dritto dritto in gattabuia?

Azzardiamo alcuni esempi pratici. Sull’Islam medesimo prendiamo Dante Alighieri il quale – lo specifico per gli attuali allievi delle scuole superiori – è il signore ritratto di profilo sul verso della moneta da due euro. Lo stesso Profeta che non entusiasmava Churchill viene da Dante precipitato fra i seminatori di discordia, “rotto dal mento infin dove si trulla. / Tra le gambe pendevan le minugia, / la corata pareva e il tristo sacco / che merda fa di quel si trangugia”. Non traduco in italiano corrente. Un diavolo munito di spada riapre le sue ferite ogni volta che si rimarginano. Il Profeta si rivolge a Dante con parole che, fossero lette in Inghilterra, causerebbero retate fra i professori: “Vedi come storpiato è Maometto! / Dinanzi a me sen va piangendo Alì, / fesso nel volto dal mento al ciuffetto. // E tutti gli altri che tu vedi qui, / seminator di scandalo e di scisma / fuor vivi, e però son fessi così”.

Non pensiate che io sia animato da sentimenti anti-islamici; lo dico prima che i poliziotti inglesi vengano ad acciuffarmi. Con pari sicurezza potrei trattenerli citando lo scrittore che per la Francia è stato ciò che per noi è stato Dante: Voltaire, il quale si era scatenato riguardo agli ebrei verbalizzando passim che quelli biblici erano ignoranti, materiali, politeisti, assassini, incestuosi, rognosi, antropofagi e pure usurai (due banchieri ebrei gli avevano procurato ingenti perdite; questo spiega molte cose). Riduce la Terrasanta a negletto angolino di terreno brullo. Abramo, Mosè, Samuele, Saul, David, Salomone e gli altri principali personaggi della storia sacra non ricevono trattamento più blando di quello riservato qui sopra a Maometto. Quanto agli ebrei suoi contemporanei, Voltaire riteneva che avessero cessato di essere antropofagi; per il resto, non si discostavano gran che dall’antico modello. Al termine di un’intemerata che oggi verrebbe definita giudeofobica, lo scrittore più celebre della letteratura francese concludeva, bontà sua, ammettendo apertamente che non per questo era necessario metterli al rogo: “Tuttavia non bisogna bruciarli”.

E Kipling? Facciamo un esempio più alla portata dei poliziotti inglesi, almeno geograficamente. Qualche sera fa infatti guardavo Masterchef e mi chiedevo se fra i suoi autori non si celasse Rudyard Kipling redivivo. C’erano i tre giudici – uomini bianchi di indubbi successo e fascino, con un’allure di decadenza appena accennata – che senza battere ciglio eliminavano una concorrente nera perché aveva osato cucinare la pasta infilandoci rane con tutto l’osso e dimostrando di non essere del tutto addentro alla tradizione italiana di cui si sentiva parte essendo nata qui da genitori immigrati; e mentre la eliminavano sentivo l’eco della poesia politicamente scorretta di Kipling (“Take up the White Man’s burden – in patience to abide, / to veil the threat of terror and check the show of pride”) che risale al 1889 e può essere così tradotta in prosa: “Addossatevi il fardello dell’uomo bianco: sopportare pazientemente, nascondere la minaccia terrificante e contenersi nel mostrare orgoglio”. Altroché. Sempre nel 1889 Kipling scriveva una ballata (“Oh, East is East, and West in West, and never the twain shall meet”) per dire che l’oriente è l’oriente, l’occidente è l’occidente, e i due estremi non combaceranno mai; mentre sempre a Masterchef ho visto Rachida, la molesta magrebina che trascinava la propria mediocrità esotica di puntata in puntata arrivando abitualmente penultima e non venendo eliminata mai, essere guardata con preoccupazione da Alberto, il vecchio playboy in disarmo che incarnava alla perfezione lo spirito del nostro tempo. Erano loro i due opposti che non combaceranno. Poi ho sentito Alberto proferire una frase lapidaria su Rachida che vale più di un trattato sul tramonto dell’occidente: “Lentamente, ci distruggerà”. Nessuno l’ha arrestato.

Oggi che va di moda difendere l’innocenza dei tedeschi a fronte delle insinuazioni malevole di Silvio Berlusconi, non so se giovi ricordare cosa diceva uno dei padri della destra italiana. Giovannino Guareschi aveva qualche difficoltà nella rimozione freudiana dei lager perché ne era stato ospite per un paio d’anni, prima a Sandbostel poi a Beniaminovo poi a Wietzendorf, venendovi affettuosamente ribattezzato 6865 333. Ne aveva maturato un sincero legame con la patria di adozione, alla quale si rivolgeva rispettosamente pur dandole del tu: “L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è la fregatura per te, signora Germania”. Anche nei vent’anni che gli sarebbero rimasti da vivere Guareschi rimase convinto delle buone intenzioni di fondo dei suoi albergatori, spingendosi fino a delineare il ritratto del tedesco perfettamente buono, gentile col prossimo, accogliente con gli stranieri, scevro da ogni eccessiva aggressività e libero da ogni rigore psichico. Il tedesco buono, scriveva Guareschi, è facilmente individuabile grazie al fatto che su di sé porta la scritta “Hier ruht in Gott”, “Qui riposa in pace”.

Ma se lasciamo perdere per un attimo le autorità civili e militari per concentrarci su quelle religiose, che dire del Dalai Lama? Il principale esponente del buddismo – religione che predica la serenità, la tolleranza, la pace universale e la reincarnazione in insetti ripugnanti – ha avuto parole accomodanti nei confronti degli omosessuali. Ha ribadito il diritto ad amare chi si vuole e ha sottolineato che una volta che c’è il consenso di entrambi i partner costoro sono liberi di combinare ciò che vogliono. Con un distinguo, però. Nel libro Oltre i dogmi del 1996 ha dichiarato che “un atto sessuale è ritenuto appropriato quando le coppie utilizzano solo e soltanto gli organi finalizzati alla riproduzione”, specificando che “l’omosessualità non è inappropriata in sé” se non quando “è improprio l’utilizzo di determinati organi ritenuti inappropriati al contatto sessuale”; e che la politica del buddismo sulla sessualità si basa sul “principio dell’organo giusto nell’oggetto giusto al momento giusto”.

Non traduco in italiano corrente ma mi limito a ribadire la mia speranza che la polizia inglese, venuta in possesso di una copia di questo giornale, non decida di arrestare tutti i professori di italiano, i lettori di Voltaire, i giudici di Masterchef, gli eredi di Guareschi e i buddisti. È più facile ammettere che arrestando Paul Weston per avere declamato frasi di Churchill, più o meno condivisibili a seconda della prospettiva storiografica che si adotta, i poliziotti inglesi abbiano come minimo commesso una leggerezza e, come massimo, compiuto un atto che limita la libera circolazione delle idee sulle quali si fonda da due secoli la cultura occidentale. Tuttavia non bisogna bruciarli.

[Lo trovate anche sul sito di Tempi oltre che sul settimanale ancora in edicola.]

lunedì 12 maggio 2014

Partiamo dai dati di fatto: ho trentatré anni e non mi sono sposato anche per colpa della legge sul divorzio, che invale dal referendum del 12 maggio 1974 ossia esattamente quarant'anni fa ossia sei anni e mezzo prima che io nascessi. Di là dai miei indubbi limiti personali, di là dalla concreta evenienza che sempre io sia stato un fidanzato migliorabile al netto della fidanzata contingente, è evidente che la mia refrattarietà ha anche una causa sociologica: il divorzio ha abolito il matrimonio.

Prima dell'introduzione del divorzio infatti chi si sposava sapeva che il vincolo era indissolubile (a parte i famosi casi eccezionali sanciti dalla Sacra Rota) e sapeva di dover regolarsi di conseguenza. Non discuto qui il caso - in sé discutibile - che la battaglia per il divorzio sia stata una battaglia per la felicità dell'individuo, della coppia e dei bambini, nonostante che raramente queste tre felicità coincidano, e non discuto per la semplice consapevolezza che quando io dico "felicità" intendo qualcosa di diverso da quello che intendevano allora i divorzisti, oggi gli omosessualisti e nel frattempo gli abortisti.

Lasciamo perdere i nomi e dedichiamoci ai fatti. Sposarsi cinquant'anni fa significava essere sicuri che, bene o male, si sarebbe rimasti in compagnia fino alla morte, nonostante le amanti, le disgrazie, le malattie i temporanei giramenti di capo e la reciproca antipatia che si matura col tempo. Sposarsi adesso significa non esserne più sicuri; significa sapere dal primo giorno che la persona che mi sta sposando può da un momento all'altro non avermi sposato più e, peggio ancora, che io stesso contraendo consapevolmente matrimonio e promettendole di legarmi a lei per sempre possa un domani altrettanto consapevolmente decidere di sciogliere il vincolo che ci lega e di non essermi sposato più. Uno s'innamora e non ci pensa; tuttavia non c'è promessa, per quanto sincera e fededegna, della cui durata eterna si possa essere ragionevolmente sicuri se lo Stato stesso indica e favorisce una scappatoia legale per sottrarsene.

Mille obiezioni possono essere mosse a questo mio timore, che è solo una nuvoletta ma persiste su un cielo che prima era completamente sereno. Fatto sta che non mi sono sposato; e ho trentatré anni, quasi trentaquattro.

venerdì 9 maggio 2014

Non per muovere delle critiche, ma in Inghilterra si arrestano ancora leader politici perché sostengono pubblicamente delle idee - anche se quelle idee sono state espresse da altri. Su Tempi in edicola questa settimana (in copertina un uomo vestito di bianco in mezzo a una folla colorata) racconto la storia di Paul Weston, capo di Liberty GB arrestato per aver letto pubblicamente cosa pensava Churchill dell'Islam.

giovedì 8 maggio 2014

Non dico che abbiamo trovato l'Anticristo ma siamo sulla buona strada. Dal grande sondaggio sull'identità degli elettori pubblicato oggi sul Corriere della Sera si evince a ben guardare un dato di fatto che avevo intuito ma non era mai stato formalizzato: il Movimento Cinque Stelle ha l'11% dell'elettorato fra chi va a Messa ogni settimana, il 22% fra chi ci va una volta al mese, il 26% fra chi ci va occasionalmente e il 36% fra chi non ci va mai. Ora, considerato che Chesterton ha ragione da vendere quando scrive che chi smette di credere in Dio inizia a credere a tutto, evidentemente il Corriere della Sera stamattina ha sbagliato titolo: non doveva essere "Grillo è primo tra i giovani" ma "Grillo è primo tra i citrulli".

mercoledì 7 maggio 2014

Il culo di Paola Bacchiddu mi ha messo in crisi perché sotto ogni elettore si nasconde, più o meno rintracciabile, un essere umano e quindi un maschio. Riassumo gli eventi per mia madre che non è iscritta ai social network: l'ex giornalista del Foglio, ora capo comunicazione della Lista Tsipras, ha pubblicato una sua ragguardevole foto di spalle in bikini con la seguente didascalia: "Ciao. E' iniziata la campagna elettorale e io uso qualunque mezzo. Votate L'Altra Europa con Tsipras".

Una volta riavutomi ho meditato sul fatto che un culo elettorale è un culo ingannevole perché in un mondo ideale il culo es gibt, si dà, è culo in quanto a sé stante e non in quanto veicolo di informazioni come se ci fosse scritto a pennarello "Bevete Chinotto Lurisia". Poi però mi sono chiesto quando pubblicare la foto del mio pacco con scritta sopra l'esortazione a votare Lega, anzi, a votare Lega Nord Per L'Indipendenza Della Padania. Quindi mi sono accorto che la chiave dell'iniziativa della Bacchiddu non era il culo ma la didascalia e in particolare la locuzione "io uso qualunque mezzo". Stava insomma suggerendo un todo modo para buscar la voluntad de Tsipras e, per quanto sbagliasse oggetto e fine, aveva azzeccato due fattori che da cattolico non posso ignorare: l'universalità dei mezzi e la loro soggezione al fine; l'idea che la bellezza possa essere testimonianza e non colpa.

La differenza fra il culo di Paola Bacchiddu e quello delle femministe che si sono spogliate in difesa del suo diritto a spogliarsi sta proprio in questo: la Bacchiddu privilegia il fine, ossia il voto, loro privilegiano il mezzo, ossia il culo; inoltre lei è bella (e solare e ironica) mentre loro, se non tetre, nel migliore dei casi sono stucchevoli come la mesta litania di quelli che da destra polemizzano dicendo che per la sinistra i culi vanno bene solo quando non sono di Mara Carfagna.

C'è un film di Nino Manfredi, Per grazia ricevuta, il cui protagonista è un giovane cresciuto dai frati. Un giorno va a confessarsi tutto turbato dalla bellezza di una giovane che nei dintorni ha giocato a saltacavalla. Il padre confessore gli dice che non c'è niente di male, gioventù e bellezza sono un dono del Signore; Manfredi tuttavia sbotta: "Ma io volevo darle una botta sul sedere! Perché mi succedono 'ste cose? Che segno è?". Allora sbotta pure il frate: "E' segno che ci avrà un bel sedere", e non gli dà nessuna penitenza perché non ha peccato.

martedì 6 maggio 2014

Italiani, non vi esorto alle storie (tanto è inutile) ma vi segnalo che domani mercoledì 7 maggio alle ore 17:15, auspicabilmente, parlerò nell'Aula Foscolo dell'Università di Pavia, ossia lì dove Ugo - poiché siamo in confidenza - tenne la famosa lezione Dell'origine e dell'officio della letteratura il 22 gennaio 1809 (tempo soleggiato ma a terra c'era ancora la neve caduta nei giorni precedenti). Essendo più modesto, parlerò di che differenza passi fra pubblicare un'opera di Voltaire nel 1734 e pubblicarla nel 2014. Qui trovate tutte le informazioni sui Cantieri Ancora Aperti organizzati dall'ateneo.

lunedì 5 maggio 2014

Ho molto apprezzato il modo in cui l'affaire Genny 'a Carogna è stato gestito dai mezzi di comunicazione italiani, che nella circostanza hanno dimostrato la stessa lucidità dello sguardo di Matteo Renzi in tribuna all'Olimpico. Sempre controcorrente l'informazione di Repubblica, dove oggi Gianni Mura (ma secondo me è colpa del proto) parla di Gerry 'a Carogna, mentre Roberto Saviano ingaggia un lungo ragionamento il cui succo è che non bisognava chiedere il permesso di giocare a Genny bensì a lui.

Ammirevole refuso sul Corriere della Sera, indubbiamente dettato dalla tarda ora e dalla fretta in cui è stato scritto l'articolo in cui si diceva che le famiglie non sarebbero più andate allo stato. Presumo che si trattasse di "stadio" ma non posso sottovalutare le implicazioni di una lettura contrattualistica, hobbesiana, secondo la quale dunque le famiglie a cui non viene più garantita sicurezza dallo Stato non accettano più di farne parte. La rivoluzione americana è iniziata per molto meno.

Non c'è stato iscritto a twitter che non abbia scritto la propria frasetta parodistica su cosa fare col permesso di Genny, dall'andare in bagno a fare santo il Papa, il tutto condito con l'hashtag #ilcapoultrahadeciso. Alle volte mi chiedo se esistessero già i social network nel 1749, quando Ludovico Antonio Muratori definì gli italiani "scimie ridicolose".

Quelli di Firenze hanno fischiato l'inno perché non è più capitale, quelli di Napoli perché non lo è stata mai.

La Rai ha fatto quel che ha potuto. Rimpinzato l'Olimpico di inviati calciologi chiaramente inadeguati all'evolversi degli eventi, ha se non altro (questione di diritti tv) confinato fuori dallo stadio gli inviati d'assalto di Sky Sport, i quali sulla rete all news davano notizie in base al tono dei boati che sentivano provenire da quello che per una volta avevano ben ragione di chiamare catino infuocato.

La soluzione definitiva al problema della violenza negli stadi è stata trovata da Paola Ferrari durante La Domenica Sportiva, teatro di un vibrante dibattito fra chi riteneva che la situazione fosse inaccettabile e bisognasse fare qualcosa e chi invece riteneva che la situazione fosse inaccettabile e bisognasse fare qualcosa. Non appena qualcuno (di solito Gene Gnocchi) esprimeva una qualche opinione sensata riguardo ai troppi interessi collaterali che gravitano attorno al mondo del pallone, Paola Ferrari lo zittiva dicendo che non era vero, raro caso di violenza negli studi; per il resto, la conduttrice si è equamente divisa fra il dare sulla voce e interrompere chi diceva cose con cui lei non era d'accordo e il dare sulla voce e interrompere chi diceva cose con cui lei era d'accordo, specificando di essere o meno d'accordo prima che lo spettatore avesse la possibilità di ascoltare e quindi comprendere il resto del pensiero del parlante. La soluzione finale, unilaterale ma condivisa, è stata di interrompere ex abrupto il dibattito per mettersi a parlare del nuovo film di Giorgio Pasotti, ospite in studio.

sabato 3 maggio 2014

Ragazzi, il mo romanzo ha pure la pagina facebook. Sono proprio postmoderno.



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venerdì 2 maggio 2014

Poiché l'epicentro dello spargimento di banane è stato la Spagna, la versione originale dell'hashtag che a seguito del rivoluzionario gesto di Dani Alves contro il razzismo ha monopolizzato i mezzi di comunicazione mondiali era "Somos todos macacos". In effetti solo dei macachi potevano cascarci con tutte le scarpe, visto che adesso è emerso che con ogni probabilità si trattava di marketing etico pianificato da Neymar e messo in atto su vasta scala alla prima occasione disponibile (il Barcellona mi fa schifo anche per questo; lo avevo già scritto in tempi non sospetti, più di due anni fa). Ciò nondimeno hanno brandito inconsapevoli banane Renzi, Balotelli, Prandelli, Suor Cristina di The Voice, addirittura Raffaella Carrà, il riccioluto David Luiz e tante belle ragazze che hanno dato tutto un altro senso all'operazione: tutti ad affannarsi darwinisticamente per dimostrare che siamo tutti scimmie. Io preferisco essere fatto a immagine e somiglianza di Dio.

giovedì 1 maggio 2014

Dicono che sia la festa del lavoro ma io non me ne intendo. Le feste senza Messa mi lasciano perplesso e inoltre, indipendentemente dal calendario civile, devo comunque restare a casa a scrivere robe urgenti. Quanto meno c'è finalmente il sole; esco quindi a fare due passi prima che ricominci l'autunno. Ma se è la festa dei lavoratori, perché la Feltrinelli di Pavia è aperta? Devo dedurre che delle tre l'una:
- o i dipendenti della Feltrinelli non sono considerati lavoratori;
- o mentre in tutta Italia è il primo maggio, in Feltrinelli è il 2;
- o i commessi indaffarati a servire l'indefettibile clientela media riflessiva del dì di festa sono in realtà alti dirigenti che si prodigano nei bassi servizi onde garantire un giorno libero ai dipendenti più umili.

Vabbe'. Proseguo, prendo un caffè, noto un'edicola aperta (oggi riposano i giornalisti per far riposare i giornalai domani) e prendo l'Espresso. Titola "Che Papa è", in copertina campeggia Bergoglio in chiaroscuro. Passeggiando leggo svogliatamente il sottotitolo: "Popolarissimo, ma sui temi scottanti non si pronuncia. Ha avviato la rivoluzione in Vaticano, però la Curia frena. Insomma, Francesco il gesuita riuscirà a rovinare la Chiesa?". Mi fermo e rileggo, un po' interdetto. C'era scritto "rinnovare".