domenica 31 agosto 2014

Quest'estate per la prima volta dopo tanti anni ho dovuto trascorrere l'intero agosto dai miei a Gravina in Puglia: è stato un mese molto utile, anche se non ho capito a cosa. Per sopravvivere ho ritenuto opportuno tenere un diario essenziale della mia permanenza, pubblicato a puntate su facebook. Eccolo in un'unica soluzione.

31 luglio
Sono arrivato ieri e stamattina ho già scritto una mail disperata al sindaco di Pavia.

1 agosto
Ieri tanta la nostalgia che ho telefonato a La Provincia Pavese. Vedendo il prefisso da cui chiamavo, non mi hanno risposto.

2 agosto
"Guarda, quella faceva la scuola media con te", dice mio padre per strada indicando una signora.

3 agosto
Stamattina ho visto partire da Gravina un pullman che portava come destinazione "Germania".

bonus track
Stasera a Messa ero sovrappensiero. Quando il mio vicino mi ha stretto la mano dicendo "La pace sia con te", ho risposto: "Onoratissimo".

4 agosto
- Uè, u' mest, vit ca t' so' chiamajt sop'a cudd telefonìn...
- Now, listen and repeat.

5 agosto
A Gravina ci sono degli incivili che non parcheggiano in divieto di sosta.

6 agosto
Trova le differenze / Spot the differences / Jacchij l'differènz.


7 agosto
- Vieni a vedere, c'è Gravina in tv.
- No grazie, mi basta Gravina in 3D.

8 agosto
Stamattina a Gravina ho visto un cassonetto della spazzatura che si muoveva da solo. In America ci avrebbero come minimo costruito attorno un parco a tema.

9 agosto
Comunque a Gravina Dostoevskij pesa un sesto che nel resto d'Italia.

10 agosto
San Lorenzo, io lo so perché tanto
mi sto rompendo le palle
in quest'atomo opaco del Male.

11 agosto
Non per vantarmi ma a Gravina ci sono due stazioni, nonostante l'assenza di treni.

12 agosto
Non so se quanto a toponomastica gravinese sia più rappresentativa via Addolorata Terribile o via Paranza Vigilanza.

13 agosto
"Prossima fermata, Gravina: termine corsa del treno". E non solo.

14 agosto
Il turista che arrivi a Gravina come prima cosa scorge nel sottopassaggio della stazione - anzi nel sottopassaggio che collega una stazione all'altra - la scritta "Sono infelice di professione" vergata su un muro da mano anonima, forse collettiva.

15 agosto
Ferragosto a Gravina: inchiostro nero su carta (retro di calendario da caseificio), cm 21x15. L'opera sarà donata alla Fondazione Ettore Pomarici Santomasi.


16 agosto
Al mattino dunque mi alzo, vado alla finestra, guardo Gravina sottostante e domando: "Garibaldi, Garibaldi, perché l'hai fatto?".

17 agosto
Venite a visitare Gravina, dove le ore durano 180 minuti.

18 agosto
Ehi tu, gravinese ignoto dalla cui finestra sento arrivarmi questa canzone di Serge Gainsbourg, palesati e fondiamo la sede locale del club degli intellò.

19 agosto
Dice che quando Vittorio Sereni scrisse "Niente nessuno in nessun luogo mai", stava a Gravina.

20 agosto
Oggi, niente.

21 agosto
Come lo fa mia madre, il pesto in scatola, non lo fa nessuno.

22 agosto
Ma Nichi Vendola lo sa che a Gravina la sede di Sinistra Ecologia e Libertà è diventata The Club Billiard Slot?

23 agosto
Sono le 19:50 e a Gravina la notte è ancora giovane.

24 agosto
Machiavelli, quando scrisse Del modo tenuto dal duca Valentino per ammazzar Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini, si annoiò.

25 agosto
Fermo restando che il Meeting di CL sulle periferie esistenziali potevano farlo anche direttamente qui.

26 agosto
Il bello di Gravina è che è fuori dal tempo; il brutto è che è fuori dallo spazio.

27 agosto
Ieri una madre badessa (non è il caso di scendere nei dettagli, basta sapere che a un certo punto c'eravamo io e una madre badessa), avendo appreso che vivo al nord, s'è congedata dicendo: "Va bene, basta che non sei diventato di Bossi".

28 agosto
Beato il paese che non ha bisogno di eroi e nemmeno di ausiliari del traffico.

29 agosto

30 agosto
Sbadatamente ho attraversato sulle strisce.

31 agosto
"L'anima a Cristo, il voto al comunisto".

Morale della favola
Il problema è che devo tornarci per Natale.

venerdì 29 agosto 2014

Fra i candidati (un po' troppi) alle primarie PD per la Regione Emilia-Romagna, l'outsider è Roberto Balzani, che è stato sindaco di Forlì dopo avere vinto a sorpresa le primarie comunali ma che ha poi reso testimonianza di un'esperienza amministrativa sconfortante in un libro che autocertificava il fallimento del tentativo: Cinque anni di solitudine, edito da Il Mulino. All'uscita del libro, due anni fa, scrissi sul Foglio che la cosa aveva a che vedere non con Prodi e con D'Alema ma con Machiavelli e con Rousseau. Ecco qua.

---

Roberto Balzani, sindaco di Forlì, soffre d’insonnia; trova difficoltà a concentrarsi, mangia disordinatamente e passa metà delle sue giornate a ripetersi che non deve impazzire. Questi sintomi preoccupanti – che lui stesso racconta in Cinque anni di solitudine: memorie inutili di un sindaco (Mulino) – sono iniziati dopo che aveva vinto per quarantaquattro voti le primarie comunali del Pd, sconfiggendo il sindaco uscente Nadia Masini e trovandosi di fronte alla necessità di impegnarsi in prima persona nell’esercizio politico. Era il dicembre 2008 e i forlivesi non sapevano di star scegliendo fra due modelli che nel giro di pochi anni si sarebbero trasformati in un’alternativa draconiana: da un lato un politico di lungo corso, la Masini, già parlamentare Pci-Pds e sottosegretario nei governi Prodi e D’Alema, capace di amministrare per esperienza e abitudine; dall’altro un professore universitario, uno storico della contemporaneità e studioso dei meccanismi della politica, capace di amministrare per radicate cognizioni teoriche.

Il destino ha voluto che il libro del sindaco di Forlì uscisse quest’autunno, quando ormai da un anno tutta Italia è abituata a considerare la soluzione tecnica dei problemi amministrativi come la strada maestra per sopperire al famoso vuoto della politica. Intanto Balzani continua a mangiare male e dormire peggio, senza darsi pace per il “Congresso di Vienna permanente” al quale è sottoposto nel suo ruolo di primo cittadino tramortito dal continuo “incremento della litigiosità” istituzionale. La sua insonnia certifica la trasformazione in incubo del sogno di Rousseau. Dando alle stampe il Contratto sociale questi scriveva: “Mi si domanda se sono principe o legislatore per scrivere di politica. Rispondo di no, ed è per questo che scrivo di politica. Se fossi principe o legislatore, non perderei tempo a dire quel che bisogna fare; lo farei, o tacerei”. La consultazione popolare ha dato a uno studioso la possibilità di fare ciò che riteneva si dovesse fare; lo sconforto che permea le pagine del libro di Balzani dimostra che, almeno a Forlì, l’esperimento è fallito.

Il parallelo con Rousseau non è peregrino in quanto più volte Balzani sottolinea la “impostazione illuminista” del suo progetto: riunire le componenti della città attorno a un tavolo su cui analizzare dati certi per trarne un’unanime decisione orientata al bene comune, ossia al massimo vantaggio per il maggior numero di persone. Poi, entrato in municipio, Balzani ha scoperto che tutte le parti in causa sono soggette a un “cupo egoismo” e che “le istituzioni mentono”. Si potrebbe ridire su uno studioso di politica che ha bisogno di entrare nell’agone a cinquant’anni per scoprire che gli uomini sono egoisti e mendaci, ma colpisce soprattutto la sua sorpresa di fronte al fatto che “tutti litigano e non sanno neppure perché”. Viene da immaginarsi il sindaco-studioso che prima cerca di spiegare ai litiganti i motivi per i quali dovrebbero andare d’accordo e poi si accascia sulla poltrona sconfitto dalla testardaggine dei fatti che, duecentocinquant’anni dopo Rousseau, ancora non si lasciano ridurre a teorie. Gli sarebbe forse convenuto rileggere un famoso aneddoto raccontato da Matteo Bandello. Dopo la pubblicazione di Dell’arte della guerra, a Machiavelli fu concesso l’onore di sostituire Giovanni dalle Bande Nere nello schieramento di tremila fanti; falliti tanti affannosi tentativi, lo scrittore dovette gettare la spugna e in un batter d’occhio l’esercito fu schierato dal solito e un po’ annoiato condottiero, a riprova che i teorici della politica sanno sempre perché ma non riescono a capire come mai.

lunedì 25 agosto 2014

Ieri è iniziato il Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini; tema, le periferie nel senso esistenziale del termine utilizzato da Papa Francesco quando aveva detto: "La crisi che stiamo vivendo non consiste soltanto in una crisi economica: ciò che è in crisi è l'uomo. Perciò la Chiesa deve uscire da sé stessa, verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano, ma uscire". La mia periferia esistenziale è Oxford, e Tempi mi aveva chiesto di parlarne in occasione di una delle tappe con cui il settimanale si è avvicinato al Meeting. Ne era uscito un dialogo quasi filosofico fra un cattolico e un anglicano.

---

Una domenica mattina un anglicano abitudinario e un cattolico curioso si ritrovarono seduti di fianco durante una funzione nella cappella di una scuola di teologia allineata con le posizioni più conservatrici della Chiesa d’Inghilterra e non troppo distante dal centro di Oxford. Stavano sperimentando entrambi simultaneamente quel filo di noia e sonnolenza durante le prediche che lega le loro religioni così differenti quando entrambi furono scossi da un brivido sentendo il celebrante dichiarare con estrema chiarezza che, di tutti coloro che vivevano in Gran Bretagna, il novantacinque per cento sarebbe finito all’inferno. Per quanto l’Inghilterra vada considerata la patria della ragione, avendo dato i natali a John Locke, neanche lì si usa mettersi a questionare alzando la mano durante il sermone per chiedere al celebrante di ripetere o di spiegarsi meglio e nemmeno per esprimere una protesta più o meno composta. Il cattolico e l’anglicano dovettero dunque attendere l’uscita per iniziare a discutere fra loro sul senso da darsi alla sortita del reverendo, perché sono sempre le parole più inequivocabili a causare le diatribe più lunghe.

“Io mi reputo un liberale – esordì l’anglicano – e ritengo inaccettabile che si spiattelli così apertamente che sia sbagliato ciò che un’amplissima maggioranza di persone sta facendo. Questo per tre motivi: sia perché è da veri maleducati, sia perché se tutti si comportano allo stesso modo allora è compito di un’istituzione adeguarsi agli individui e non viceversa, sia perché il principio sul quale la nostra civiltà inglese si regge da secoli è quello del never explain, never complain: ossia che per non sentirsi in dovere di spiegare ciò che si sta facendo non ci si deve sentire in diritto di lamentarsi di ciò che fanno gli altri”. “Mi permetto di dissentire – rispose il cattolico – in quanto mi documento. Il pronostico del celebrante di oggi in realtà non è farina del suo sacco quindi non può essere ascritto alla sua maleducazione individuale o a un estemporaneo tralignamento dalla linea della Chiesa d’Inghilterra. Le stesse identiche parole erano state pronunciate nell’ottobre 2006 dal molto reverendo dottor Richard Turnbull, rettore della Wycliffe Hall di Oxford, più anglicano della Regina, leggendo in una occasione formale un discorso scritto e pertanto, si presume, meditato su dati di fatto concreti e sillogismi cogenti”.

“Non ritieni tuttavia – disse l’anglicano – che per quanto autorevole un teologo non abbia diritto di condannare quasi tutti gli inglesi all’inferno?” “Mica li condanna lui – rispose il cattolico – sono loro che a suo dire si condannano da soli. Mi sembra inoltre che sia infingardo suggerire l’idea che, se qualcuno fa del male, la colpa è di chi glielo fa notare. Infine ho accidentalmente in tasca il testo del discorso del reverendo Turnbull: lo leggiamo per capire cos’ha detto di preciso?” “Leggiamo” – disse l’anglicano rassegnato.

Il molto reverendo dottor Richard Turnbull, intervenendo al raduno annuale del gruppo anglicano conservatore nominato Reform, aveva dichiarato non mancando di destare un certo scandalo: “Il nostro impegno consiste nel recare la lieta novella del messaggio di Gesù Cristo a coloro che non lo conoscono, e costoro sono il novantacinque per cento delle persone: novantacinque persone su cento che rischiano di finire all’inferno se non portiamo loro il messaggio del Vangelo”.

“Vedi dunque”, continuò il cattolico riponendo le fotocopie, “che rispetto ai titoli dei giornali che sbraitano di un reverendo pazzo che vuole mandare gli inglesi all’inferno bisogna fare qualche distinguo. Anzitutto lui mira a evitarne la dannazione, non è che goda a immaginarli avvolti dalle fiamme eterne. Soprattutto però assume su di sé la responsabilità e dice che il proprio dovere, nonché quello dei suoi colleghi, è portare il Vangelo a coloro che stanno per essere dannati: lascia intendere che, se rinuncerà a evangelizzare l’Inghilterra, anche lui verrà posto di fronte alla propria colpa”. “Vedi però”, irruppe l’anglicano, “che stimare un novantacinque per cento di britannici pronto per la dannazione è eccessivo. Lo dimostrano i numeri: ho accidentalmente in tasca i risultati del censimento del 2011: li controlliamo per capire se il reverendo Turnbull ha esagerato?” “Controlliamo” – disse il cattolico rassegnato.

Nel 2011 il 26% dei britannici s’è dichiarato ateo, il 7% di religione indefinita, l’8% di religione varia (islamici, induisti, sikh, ebrei, buddisti e adepti della religione Yedi). Il restante 59% si è dichiarato cristiano. Secondo le statistiche, il rev. Turnbull condanna dunque all’inferno tutti gli atei, gli indifferenti, i non cristiani e grossomodo nove cristiani su dieci.

“Ne consegue che condanna – concluse l’anglicano – ortodossi, pentecostali, battisti, metodisti, presbiteriani, i cattolici come te e anche una buona parte degli anglicani, me compreso probabilmente. Dunque ha sbagliato i suoi calcoli.” “Perché mai? – rispose il cattolico – Questo è il solito vizio di voi protestanti, se mi permetti, che tracciate una riga e decidete che chi sta da un lato sia sempre nel giusto e chi sta dall’altro sia sempre nel torto. Ti pare scandaloso che il reverendo Turnbull abbia lasciato intendere che anche i membri della Chiesa d’Inghilterra possano essere dannati; mi pare invece sorprendente che abbia lasciato intendere altre cose ben più gravi e meno evidenti a un occhio superficiale”.

Sintetizzando, il cattolico spiegò che prima ancora che con le diverse affiliazioni religiose il reverendo Turnbull ce l’aveva con una disposizione d’animo. Quando si parte per evangelizzare una nazione lontana non si va lì con l’intenzione di insegnare tutti i dettagli della dottrina ma di far capire che la vita ha un piano verticale oltre a quello orizzontale, e che oltre a una direzione ha un senso. Il caso voleva che l’Inghilterra fosse una nazione molto vicina a Wycliffe Hall; ma non per questo era meno da evangelizzare, in quanto non sono i chilometri da percorrere a fabbricare le periferie. Prendiamo Oxford i particolare: si sente e forse è il centro assoluto dell’istruzione e della cultura mondiale, tanto da averlo scritto con estrema modestia perfino sul cartello di benvenuto alla stazione. Per coltivare la propria centralità si è concentrata sul proprio ombelico al punto da diventare un mondo a sé stante, chiuso e impermeabile, tutto ripiegato nell’autoreferenzialità e per questo staccato dal senso: perché il senso delle cose arriva dall’interconnessione, dalla consapevolezza della relatività, non dall’assolutismo della presunzione. Per mancanza di una dimensione verticale ha voluto eccedere nell’appiattirsi sull’orizzontalità, credendo che una ben precisa direzione bastasse a dare un senso.

Ha mantenuto sul proprio stemma il motto cristiano Dominus illuminatio mea ma l’ha trasformato in un marchio commerciale. Ha imposto la neutralizzazione del calendario cristiano, trasformando gli auguri di Natale in un vago merry festivities, in modo tale da non offendere musulmani soprattutto e non cristiani in generale: sono pur sempre clienti, che pagano per andare a studiare lì e anzi pagano più degli altri. Si è venduta al principio che tutto debba essere indifferentemente in vendita e che tutto possa essere a disposizione di chi può permetterselo. Se da St Giles’ uno sale verso nord, nel cuore vittoriano della città uno trova una teoria di chiese le più disparate: quella dei domenicani, la casa di pietà anglo-cattolica intitolata a Edward Pusey, il centro d’incontro della Società Religiosa degli Amici che ha fatto incidere fra parentesi sulla targhetta d’ingresso la scritta “quaccheri”, il futuribile portone trasparente della Prima Chiesa di Cristo Scienziato e la parrocchia di St Aloysius dove ancora si segue il messale latino di Pio V; tutte frammiste a una caffetteria pseudofrancese, un giornalaio pakistano, un ceramista con vasca da bagno in vetrina e un ristorante dove un tè costa cinque sterline.

La perifericità di Oxford sta nel ritenere di non avere bisogno di null’altro e che basti trasformare una strada in un distributore automatico di chiese per mettersi la coscienza a posto in materia di religione. Come la vasca da bagno nella vetrina del ceramista, come il tè nel ristorante costoso, Dio è in vendita nelle sue molteplici accezioni, ciascuna col pacchetto preordinato per venire incontro alle esigenze di ciascun cliente; così tutti sono tranquilli perché convinti che se in Inghilterra ci fosse una sola religione sarebbe tirannica, se ce ne fossero due si scannerebbero a vicenda, mentre essendocene una trentina allora vivono in pace e felici. E come chi ordina il tè lo consuma e non ci pensa più, come una volta compratala non si passano le giornate a riflettere sulla vasca da bagno, così Dio sminuzzato e reso disponibile alla bisogna diventa merce e resta imprigionato in un mondo in cui formalmente non si può denunciarne l’assenza: perché c’è, si vede, ci sono le sue chiese, ci sono tre inglesi su quattro che si dichiarano fedeli di una qualche religione e perché gli atei, grazie ai barbini metodi di propaganda di un Richard Dawkins, non guadagnano tutto il terreno che la situazione di smottamento spirituale consentirebbe loro.

Però in questo contesto completamente orizzontale, su cento persone quante avranno conservato un senso vivo di Dio? Non cinquanta, non venti, forse nemmeno dieci; magari saranno cinque, e allora non ha proprio tutti i torti il molto reverendo dottor Richard Turnbull quando ammonisce che alle altre novantacinque bisogna tornare a predicare il Vangelo affinché non dimentichino di star precipitando all’inferno.

Alla fine del sermoncino l’anglicano diede ragione al cattolico: non era affatto persuaso però era ben educato. Congedandosi volle chiedergli un’ultima cosa: “Pensi dunque che sia il caso di andare a Wycliffe Hall per parlarne con lo stesso rev. Turnbull?” “Oh – rispose il cattolico – lo hanno silurato nel 2012. Adesso farà un altro mestiere”.

sabato 23 agosto 2014

Se conoscessi Maria Elena Boschi le vorrei il bene un po’ melanconico che si deve alle coetanee belle di bellezza tale da farle apparire sempre lievemente fuori contesto – tanto più trovandola sulla copertina del nuovo numero di Panorama, sorridente e occhieggiante come oggetto del desiderio dell’estate 2014 sotto il titolo: “Che fai stasera? Come si corteggia, si rimorchia, si filtra ai tempi della desideratissima ministra Boschi”. Non è chiaro: significa che bisogna tutti corteggiare la Boschi, che resta lì ad aspettare un connazionale che vinca la giostra? O che da quando lei è entrata nel governo è stata rottamata la vecchia maniera di corteggiare rimorchiare flirtare e bisogna di conseguenza adeguarsi al nouveau régime sentimentale? La ministra intanto resta non accasata, pare, magari anche non corteggiata, negletta come solo le donne di bellezza rara e intimorente, facile a gualcirsi, sono destinate a restare nonostante che, informa l’articolista, il suo topless finora immaginario sia stato valutato 15.000 euro in favore dell’infingardo che lo svelerà a un mondo che desidera sbirciarla senza volere correre il rischio di innamorarsene (“È la crisi, ministra”, conclude l’articolista con perfidia femminile). La Boschi invece esiste veramente e stona in una nazione di avvizziti guardoni, per non dire di peggio. Sette sue fotine innocenti corredano infatti un reportage sulle confessioni degli italiani che sostengono di rimorchiare con successo nel nuovo mondo dell’iperconnessione tecnologica, pur fottendosene della ministra perché alla qualità preferiscono la quantità. C’è infatti il finto padre single che inganna le mamme in spiaggia, che novità, nascondendo di avere la fidanzata a casa. Il compulsivo ossessivo da Meetic e Whatsapp che si vanta di essere “il re degli emoticon” senza capire che ogni volta che un uomo manda una faccina stilizzata a una donna un ormone muore rinsecchito, e che se una donna gli si concede dopo avere ricevuto una pallina che emette cuoricini allora vuol dire che si meritano l’un l’altra. C’è quello che “strappa i vestiti di dosso per sentirsi ancora macho”. Il mesto passatista che crede di realizzarsi dragando la compagna di classe separata perché al liceo “il suo lato B era notevole”. Il PR da discoteca che scopa ragazze olandesi in serie a Miramare di Rimini garantendo ingressi superfree. L’immancabile precario che si vanta di essere alternativo e nutre “una visione scientifica della conquista” che culmina nel suo estrarre la chitarra a cena, orrore, “lasciarsi esagerare”, qualsiasi cosa significhi, e voilà, negli intervalli non canori lamentarsi di guadagnare “di gran lunga sotto i settecento euro e neppure tutti i mesi”. Una botta d’allegria, queste cinque tipologie di uomini che invece dovrebbero desiderare donne desiderabili, azzardare il gioco a somma zero e magari contemplare la sconfitta anziché specchiarsi nei propri successi incrinati. Questi intanto sono i maschi adulti italiani, pomposi e ombelicali, che si vantano di essere bravi a rimorchiare col pallottoliere e poi passano la sera a casa a frignare o, i meno dignitosi, davanti ai social network; mentre a Maria Elena Boschi voglio il bene sempre più melanconico che si deve alle coetanee che vanno sprecate in un contesto che non merita la loro bellezza. È la crisi, ministra.


venerdì 22 agosto 2014

Va bene, il Milan ha venduto Balotelli ma nessun tifoso può viverla come una privazione se solo ha visto giocare Van Basten per cinque minuti. Alla peggio, tanto valeva tenersi Jean-Pierre Papin: al cui genio nasuto nel 2010 avevo dedicato un pezzo all'interno di un ciclo di Quasi Rete in cui ogni firma doveva raccontare il proprio calciatore straniero preferito.

---

Motta. Dopo l’identificazione mistica del Milan di Berlusconi con l’agenzia di assicurazioni Mediolanum, il cui nome spiccava candido e stampatello sulle strisce rossonere decorato in cima di discreto logo Fininvest, l’improvviso cambio di sponsor aveva dato l’idea di un repentino, imprevisto cambio di rotta; forse perfino di una jettatura. Banale associazione d’idee, certo: il marchio assicurativo aveva assicurato vittorie a iosa in coppe e coppette nonché uno scudetto per soprammercato; il nome del nuovo sponsor – un po’ perché panettone, un po’ perché scritto più in grande, con un bianco se possibile più pastoso e con l’enorme maiuscola iniziale che gli conferiva una sorta di tronfia maestosità – suggeriva un’opulenza minacciosa, un perenne Natale che avrebbe potuto portare all’indigestione. Prova ne sia la politica estera della società: tornata in Coppa dei Campioni, aveva approfittato delle nuove regole sul tesseramento degli stranieri per comprarne altri tre da aggiungere agli istituzionali olandesi. Vice-Rijkaard, dal servizio militare a Bari era rientrato Zvonimir Boban. Vice-Gullit, dalla Stella Rossa che tre anni prima tanto ci aveva fatto tribolare era arrivato Dejan Savicevic. Vice-Van Basten, era arrivato Jean-Pierre Papin dall’avversario che era diventato nemico e incubo nella notte del Vélodrome, quando il Milan s’era schiantato contro l’ideale della propria stessa imbattibilità e, vedendosi incapace di avere la meglio sul campo dell’Olympique Marsiglia, si era ritirato dalla competizione a dieci minuti dalla sconfitta irrimediabile accampando il pretesto di un faretto fulminato – tanto che si era poi parlato di Coppa dei Lampioni.

Papin era stato agitato come spauracchio già nel 1990, quando solo in extremis e con un goal di mano in fuorigioco (mancava solo che sparassero al portiere) il Benfica di Eriksson aveva eliminato il Marsiglia in semifinale onde offrirsi quale vittima sacrificale al candido Milan della finalissima. Nel 1991 l’avevamo visto giocare – maglia bianca con inserti celesti, sponsor Panasonic sul petto, un foulard della moglie come fascia di capitano – e ne eravamo effettivamente rimasti impressionati. Il 1992 l’avevamo passato a cercare di comprarlo; e quando ci eravamo riusciti l’effetto era quello di un fotomontaggio. Un po’ perché eravamo assuefatti ai tre olandesi, un po’ perché meglio di Van Basten esisteva solo l’autodsitrutto Maradona, non ci capacitavamo dell’irruzione del secondo giocatore più forte del mondo a Milanello. Con quei capelli biondicci riccissimi e corti, con quel nasone che sarebbe stato inverosimile anche nella sua caricatura, con gli occhi ravvicinati e dal colore impossibile a definirsi tanto erano piccoli, Papin era inquietante – familiare e respingente al contempo – nella nuova maglia rossonera sulla quale campeggiava la promessa di infiniti panettoni.

La regola era che potevano giocare, fra campo e panchina, solo tre stranieri per volta. Ciò danneggiò soprattutto Gullit, che sin dall’autunno si imbarcò in un’insanabile polemica contro Berlusconi che voleva (cito) “tagliarlo”; ma anche Papin si vide presto mettere in ombra dalla più straordinaria stagione di Van Basten. Che conta stare in tribuna, in panchina o in campo se puoi solo guardare uno che, come ad esempio a Napoli l’8 novembre 1992, entra in campo e fa quattro goal? Immaginate l’arrabbiatura: siete inferiori a un solo giocatore al mondo, ma è il vostro compagno di squadra e il più delle volte non potete nemmeno giocare al suo fianco perché la federazione lo impedisce.

Con quel naso un po’ così, Papin sembrava Snoopy quando decide di fare l’avvoltoio: sale su un albero, si incurva, si fa talmente truce da  intristirsi per davvero e finisce per piangere amare lacrime abbracciato a Charlie Brown o, nel peggiore dei casi, al tronco dell’albero stesso. Però l’occhio dei milanisti, finalmente allenato a scorgere forme anche diverse da quelle dei tre olandesi, imparò presto ad amarlo come lo amavo io, vedendolo vibrare di talento e indignazione. Tutti ricordano un’altra quaterna di Van Basten, comme d’habitude: uno dietro l’altro, quattro goal all’Ifk Goteborg confezionati ciascuno in maniera diversa. Papin guarda e non favella; resta imperturbabile il cipiglio, immobile il naso, impenetrabile lo sguardo. Poi, due turni dopo, sostituisce Van Basten nella trasferta contro il Porto. Per settanta minuti non fa niente: è esasperante nel suo andare avanti e indietro per la tre quarti avversaria senza mai, dico mai, tentare di puntare la porta in maniera costruttiva, sbagliando controlli, ripiegando verso il fallo laterale, salendo sull’albero e lacrimando mesto. Si teme il tracollo. Invece al settantunesimo, prima ancora che il pubblico se ne renda conto, ha già colpito l’unica palla buona che gli è arrivata e ha segnato il definitivo 0-1. Due punti guadagnati con la quaterna dell’indomito Van Basten; altrettanti guadagnati con il colpetto estratto dal cilindro dello svogliato prestigiatore d’Oltralpe: il Milan avanzava verso la finale come torre ferma che non crolla al mutar del turnover.

Però alla fine la Coppa dei Campioni la vinse l’Olympique Marsiglia.

giovedì 21 agosto 2014

Stasera su Rai 3 passa Tamara Drewe, film di Stephen Frears tratto da uno dei fumetti - vulgo, graphic novels - più interessanti e colti della storia. Ecco cos'avevo scritto all'uscita del film in un articolo per il Foglio, a inizio 2011.

---

Il regista Stephen Frears ha ammesso di non avere pensato di poter trarre un film da Tamara Drewe mentre lo leggeva a puntate ma solo quando l’ha visto in volume. Ora che la riduzione cinematografica del romanzo a fumetti di Posy Simmonds arriva in Italia insieme alla traduzione edita da Nottetempo, si può riflettere sulle implicazioni delle sue dichiarazioni. Frears ha di fatto sottinteso che la rilegatura ha dato al fumetto un valore aggiunto, ossia che la forma-libro è stata fondamentale nel risaltarne la dignità letteraria. In realtà già la collocazione originaria di Tamara Drewe, pubblicato ogni sabato nel 2005 sul dorsetto delle recensioni del Guardian, denotava una certa attenzione al contesto nel quale l’opera sarebbe stata letta: mimetizzandola in pagine eminentemente letterarie, la Simmonds intendeva rivolgersi a un pubblico presumibilmente capace di riconoscere la letteratura a colpo d’occhio. Per questo ha riempito Tamara Drewe di riferimenti colti nella trama e nella forma, che sembrano fondersi nell’interrogativo rivolto ai lettori meno ingenui: quello che avete per le mani è davvero un libro o no? Indizi sparsi qua e là concordano a una risposta affermativa. Le didascalie sono preminenti rispetto al parlato dei personaggi, tanto che da alcune pagine si ricava l’impressione di un romanzo illustrato con l’immagine ancella della descrizione. Gli autori delle didascalie sono tre personaggi secondari, secondo un artificio indubbiamente romanzesco che è uno dei principali rovelli dei romanzieri contemporanei, preoccupati di come rendere verosimile l’espressione di un punto di vista interno alla storia. Al riguardo un precedente sicuramente noto all’autrice è Pensieri, pensieri di David Lodge (2002), nel quale si racconta dall’interno l’arrivo di una piacente scrittrice in un immaginario campus, mentre in Tamara Drewe la protagonista è una giornalista con velleità da romanziera che torna nella sua residenza di campagna adiacente a un cottage affittato a scrittori in cerca di pace creativa. Posy Simmonds risolve brillantemente la questione del punto di vista interno affidando l’architrave della trama a varie incarnazioni del testo scritto: annunci commerciali, volantini, rubriche su quotidiani, interviste, lettere, inviti, mail, pagine di rotocalchi scandalistici, appunti presi a matita, sms e prime pagine di tabloid, ovvero una vasta gamma di prose che richiede notevole versatilità stilistica. L’annuncio su cui si apre la prima pagina di Tamara Drewe si intintola “Lontano dalla pazza folla”, chiaro riferimento al romanzo di Thomas Hardy che ne fornisce la struttura: un’ex bimba bruttina, di molto abbellita, si rifugia in campagna e viene corteggiata da tre rivali. Trasformando Bathsheba Everdene in Tamara Drewe, e trasponendola su un piano metaromanzesco in cui i personaggi stessi sono scrittori in grande o in piccolo, la Simmonds lancia al lettore colto la sfida a inseguire la dignità letteraria di ciò che a prima vista non sembrava nemmeno un libro, e che la assume non appena acquisisce tradizionali copertina e rilegatura. A pensarci bene, se Frears non avesse letto Tamara Drewe in volume ma sull’iPad, mai gli sarebbe saltato in mente di farne un film.

mercoledì 20 agosto 2014

Ci sono due Papi, svariati gesuiti, un miliardo di cinesi e qualche illuminista. Sembra l'inizio di una barzelletta ma è l'elenco dei personaggi del mio paginone uscito oggi sul Foglio, in cui cerco di spiegare le similitudini fra Papa Francesco e Benedetto XVI riguardo all'atteggiamento verso la Cina, i motivi per cui monsignor Parolin è più cauto di Romano Prodi, la ragione per cui basta leggere l'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert per capire perché le missioni dei gesuiti in Oriente hanno cambiato la filosofia politica occidentale, nonché l'annosa questione delle quattro croci apparse nei cieli della Cina solcati l'altro giorno dall'aereo pontificio. Il tutto cercando di andare oltre l'inevitabile Matteo Ricci.

Se in questo momento fa troppo caldo (o piove troppo) per andare in edicola, nell'attesa che rinfreschi (o spiova) allenatevi rileggendo "I gesuiti al governo", storia di missioni in Paraguay, complotti antimonarchici e armi requisite.

martedì 19 agosto 2014

Dice che l'estate è la stagione dell'amore. Adesso è anche la stagione delle piogge. Fatto sta che mi ha fatto tornare in mente un vecchio pezzo che avevo scritto per Tempi nel 2010, in cui spiegavo cosa direi alle signorine di oggi se anziché Gurrado fossi Jane Austen.

---

È una verità universalmente riconosciuta che dovrebbero sposarsi solamente i maschi. Alle donne non conviene: perdono terreno sul lavoro, vengono limitate nella loro libertà espressiva, si riducono a passare l’aspirapolvere mentre il marito guarda Empoli-Ancona su Sky e sono costrette a dormire sul divano perché lui russa. Sposandosi, una donna sacrifica tutto quanto di buono aveva fatto fino ad allora e soprattutto ciò che potrebbe fare in futuro. Molte femministe sostengono l’istituzione del matrimonio fra uomini solo perché così verrebbero lasciate in pace.

Non si spiega altrimenti il successo planetario di Elizabeth Gilbert. Quest’anno uscirà il film tratto dal suo libro più celebre, Mangia prega ama, già tradotto in Italia da Rizzoli. Poco sorprendentemente, è la storia di una donna – Julia Roberts sullo schermo, la stessa Gilbert nel volume – che dopo essersi sposata giovane e avere divorziato molla tutto e per ritrovare sé stessa va a Roma a bere una quantità indiscriminata di cappuccini alle ore più impensate e a guardare le partite casalinghe della Lazio. Dopo di che, per ritrovarsi ancora di più, va a farsi buddista o scintoista in India e in Indonesia dove, già che c’è, trova anche un figaccione chiamato Felipe se lo riporta in America come bagaglio a mano.

Ho letto il libro della Gilbert qualche anno fa e quindi i dettagli mi sfuggono. Ricordo distintamente però che molte donne sono andate in sollucchero non solo in America ma anche in Italia, dove ci si aspetterebbe meno instabilità emotiva e soprattutto dove l’itinerario della Gilbert diventa difficilmente praticabile: se, poniamo, una casalinga di Torpignattara viene mollata dal marito, siamo sicuri che può risolvere tutti i suoi problemi bevendo un cappuccino nella curva nord dell’Olimpico? Eppure sui siti che lasciano la parola alle lettrici le recensioni a Mangia prega ama sono tutte positive: “una bellissima finestra aperta sul mondo femminile”, “un libro molto catartico” in cui “molte donne di tutte le età si rispecchieranno e alla fine vedranno più chiare le loro potenzialità”. I lettori italiani maschi non si pronunciano, forse (a parte me) non esistono nemmeno. Su facebook la Gilbert ha 1310 fan che, giuro, a mezzanotte e mezza si connettono a internet dal telefonino appositamente per scrivere sulla sua bacheca frasi topiche tratte dal suo stesso libro o per assicurarle che hanno appena finito di rileggerlo per la quarta volta. In America i lettori maschi esistono e solitamente le scrivono per dirle che alla presentazione della sera prima l’hanno trovata particolarmente affascinante ma erano troppo timidi per dirglielo di persona. Appena uscirà il film, la situazione degenererà e assisteremo a ciò che Joseph Conrad sintetizzerebbe con una sola parola ripetuta due volte: l’orrore, l’orrore.

Per questo la mia eroina è un’ebrea americana che si chiama Lori Gottlieb. In teoria dovrebbe essere l’eroina di ogni rispettabile femminista e di conseguenza il mio incubo: ha 43 anni e ne dimostra una trentina, ha un unico figlio partorito quando già si affacciava agli -anta, non è sposata né fidanzata quindi l’ha cresciuto completamente da sola, il padre essendo un anonimo donatore di sperma e lo zio un frigorifero. Ha dedicato la vita alla carriera ed è stata un carro armato: scrive sul New York Times, sul Los Angeles Times, su Elle e su Glamour; ha partecipato ad antologie di saggi pubblicate anche dalla Oxford University Press; ha pubblicato quattro libri in proprio, due dei quali sono stati rivenduti a Hollywood per la riduzione cinematografica; il quinto è stato appena pubblicato negli Stati Uniti e ad aprile invaderà la Gran Bretagna. Ciò nondimeno Lori Gottlieb risulta enormemente impopolare. Le femministe la detestano, le dicono che è più vecchia di quello che sembra e più brutta di quel che è; le danno della maschilista, della fascista, della retrograda e della traditrice. Nonostante l’ avallo di Oprah Winfrey, la donna che ha fatto vincere le elezioni a Obama, lo scetticismo intorno alla Gottlieb è rimasto sesquipedale ed è testimoniato dal numero di fan che è riuscita a racimolare su facebook: 62, fa quasi pena.

I libri di Lori Gottlieb non sono mai stati tradotti in Italia; peccato perché ce ne sarebbe bisogno. Anzitutto bisognerebbe diffondere Marry him!, ovvero Sposalo!. La teoria alla base del volume è che gli ideali femministi imposti dalla società tendono a sviare le donne da ciò di cui avrebbero bisogno e perfino da ciò che non ammetterebbero mai di fronte a sé stesse di desiderare; le fanno diventare ipercritiche nei confronti degli uomini con cui hanno una relazione e le spingono a mollarne uno dietro l’altro senza considerare che il tempo sfugge e i treni passano una volta sola. Così facendo, suggerisce Lori Gottlieb, si finisce come lei: quarant’anni ben portati, un bel bambino e una carriera gloriosa che la fa tornare a casa ogni sera senza trovarci nessuno con cui fare due chiacchiere.

Il corollario della teoria è contenuto nel volume successivo, Mr Good Enough (ovvero Mister Accettabile), pubblicato in America in occasione di San Valentino. Se possibile, Lori Gottlieb si fa ancora più radicale nelle sue idee rivoluzionarie: sostiene che ogni donna desidera sposarsi; che una donna che si risvegli a 30 anni senza un marito accanto inizia a essere lievemente preoccupata; che le donne sposate sono mediamente più felici di quelle che cenano da sole con cibo tailandese da asporto riscaldato al microonde; che chi non si accontenta mai e non è disposta a chiudere un occhio sugli inevitabili difetti del fidanzato di turno corre il rischio concreto, un giorno, di non avere più nessuno con cui continuare la turnazione. Feministing.com, uno dei siti più involontariamente divertenti dell’universo, in maniera conciliante l’ha definita “autrice di stronzate”. La firmataria della recensione, tale Vanessa, è sicuramente femminista ma dubito che sia fidanzata.

Il paradosso è che Lori Gottlieb si proclama femminista convinta. Non è pazza. Si limita a contestare la degenerazione del femminismo da movimento di riscossa sociale a capriccio di oltranziste sentimentali che si sentono in dovere di avere tutto. Non è nemmeno l’unica. Nel suo intervento allo scorso Festival Filosofia di Modena la sociologa israeliana Eva Illouz ha ribadito con forza l’esigenza di ritornare a Jane Austen, ossia a una società in cui i vari gradini del corteggiamento erano scanditi da riti collettivi. In questa maniera a ogni comportamento del corteggiatore veniva associato un significato preciso e tutto ciò che faceva o non faceva veniva giudicato da una comunità familiare e locale che fungeva da protezione per la corteggiata, rendendo la sofferenza amorosa più rara e comunque superabile. Non a caso nessuna eroina di Jane Austen va a bere cappuccini in Indonesia. La perdita del codice prestabilito di corteggiamento, spacciata per conquista del progresso e parità sociale, ha causato l’individualizzazione della sofferenza: ogni persona ritiene di doversi allineare a un ideale inesistente che definisce “ciò che io sono veramente” o “ciò che io veramente provo”, eleggendo a legge universale i propri capricci e pretendendo che il corteggiatore o la corteggiata vi si adeguino all’istante. Così finisce che nessuno si accontenta e ogni possibile partner viene scartato per lesa maestà individuale. Eva Illouz auspicava pertanto che corteggiatori e corteggiate riuscissero a definirsi meno come individui e più come membri di una comunità, e a regolare la propria vita sentimentale prendendo in considerazione anche le esigenze altrui, almeno saltuariamente. Meno psicanalisi e più sociologia era la sua ricetta contro la “fobia da legame”, che da tutt’altro percorso portava esattamente alle conclusioni raggiunte da Lori Gottlieb.

Una soluzione è a portata di mano: basterebbe reintrodurre nel nostro lessico la parolaccia “zitella”. Come le streghe sono sparite quando si è smesso di metterle al rogo, da quando la gente ha smesso di sposarsi sono sparite le zitelle. Oggi tutte le donne non sposate si dichiarano single, felici e completamente padrone della propria vita, esattamente come la Perpetua di Don Abbondio che aveva rifiutato tutti i suoi corteggiatori perché non erano alla sua altezza. Se le single tornassero zitelle, nessuna quarantacinquenne si vergognerebbe di sentire la mancanza di un marito.

Diceva Maupassant che il momento più bello dell’amore è salire le scale della casa dell’amata. Per salire le scale sono necessari un livello di partenza ben preciso, dei gradini progressivamente crescenti e un punto d’arrivo sicuro e accogliente. Se si tolgono i gradini si ha l’illusione che tutto sia sullo stesso piano e più facile da raggiungere, ma in realtà la scalata sarebbe sostituita da un baratro, da un buco nero. Allora delle nostre vite sentimentali individualizzate, idealizzate e isteriche resteranno soltanto orgoglio e precipizio.

lunedì 18 agosto 2014

E adesso che gli Europei di Atletica sono finiti come faremo a sopravvivere ad agosto senza lo stream of consciousness di Franco Bragagna? Commemoriamolo con un pezzo che avevo scritto per Quasi Rete a margine dei Mondiali in Russia: è passato un anno ma tanto è sempre lo stesso.

---

Tutti prendono in giro Franco Bragagna per il tumultuoso accavallarsi di concetti nelle sue telecronache; è un alternarsi di nozioni infinitesimali e metafore friedrichiane, lampi e cantonate, spoonerismi, raggiri di parole e dissociazioni d’idee, aneddoti da caminetto che per il succedere di un accadimento più pressante restano in sospeso come un concorrente del salto in alto in attesa che il passaggio dei cinquemilametristi gli sgomberi le corsie per la rincorsa. Bragagna ha reso attuale la minaccia nucleare di trent’anni fa quando ha leggermente considerato che la Russia è una democrazia con un regime tutto suo. Ha mischiato la maschera di ferro ad Andrea Pazienza raccontando dei gemelli Borlée, quattrocentisti belgi: prima ha detto che sono strani perché quando ti aspetti che vada meglio l’uno va meglio l’altro; poi che di due gemelli sciatori si diceva che si scambiassero la pettorina fra una manche e l’altra per ricavarne prestazioni più equilibrate; infine che all’università tutti i gemelli preparano un esame ciascuno e poi vanno a darlo per tutti e due.

Eppure non riesco a immaginare una gara d’atletica senza lo stream of consciousness di Bragagna in sottofondo; non solo: credo che senza Bragagna l’atletica perderebbe di senso se non di mordente. Essa è oramai riconoscibile secondo un univoco codice interpretativo indifferente a seconda di dove si tengano i suoi grandi eventi; è sport cristallino, di misurazioni oggettive, di trasparenza tautologica, di serena geometria. Ha il compito di rammentare all’uomo che l’uomo è un essere che corre, salta e lancia, non un essere che si ricorda le password; il suo variopinto circo, simile a un convegno di specialisti amici che venga riproposto di volta in volta in giro per il mondo, scevra però l’uomo di ogni primitivo estinto di ferinità. Le cronache di Bragagna hanno il fondamentale compito di riportare il caos entro questo recinto di meccanismi regolari; procedendo a scatti, ingarbugliandosi, sovrapponendosi per contraddizione, le sue parole torrenziali sono le banderillas che servono a pungolare l’umanità degli impeccabili atleti e a prepararli alle interviste di Elisabetta Caporale.

giovedì 14 agosto 2014

Ho letto che stasera su Rai Movie va in onda Agorà, il film americano su Ipazia e contro l'intolleranza dei cristiani di grande attualità ora che una donna ha vinto la medaglia Fields per gli studi matematici e che non cessano a Oriente le persecuzioni cristiane a danno dei musulmani. Mi sono ricordato che nell'aprile 2010, quando il film era uscito, avevo scritto per Tempi una recensione preventiva intitolata "L'assassino è sempre monsignore" in cui fra una cosa e l'altra vaticinavo con grande anticipo le dimissioni del Papa. Eccola.

---
Martedì 20 aprile, in una bella giornata serena dall’aria ferma e calda, trecento milanesi hanno disertato Parco Sempione per riversarsi nella Sala delle Colonne della Banca Popolare. Avevano piantato un maxischermo per Inter-Barcellona? C’era uno spogliarello? Davano soldi gratis? Meglio, andava in scena uno scontro fra titani mirabilmente sintetizzato dal lancio di Repubblica: “Umberto Eco e Vito Mancuso contro Papa Ratzinger”. Per garantire la pluralità delle posizioni, in rappresentanza di Umberto Eco e di Vito Mancuso erano stati invitati Umberto Eco e Vito Mancuso, mentre in rappresentanza di Benedetto XVI parlava il noto Giancarlo Bosetti, direttore di Reset e convinto assertore del “versante violento, maligno, fanatico di tutte le religioni”. Il dibattito ha messo facilmente tutti d’accordo anche perché si parlava di Agorà, un film che nessuno aveva visto perché sarebbe uscito nelle sale tre giorni dopo. Risultato: il film è un capolavoro, quindi il Papa farebbe bene a dimettersi.

La conseguenza non è stata tratta esplicitamente ma è facile arrivarci. Ipazia, filosofa e matematica vissuta fra IV e V secolo, scopre l’ellitticità delle orbite planetarie e quindi viene assassinata da una squadraccia di fanatici cristiani guidati dal vescovo-ultrà Cirillo. Tre anni fa, ricordava Mancuso, il Papa commemorò san Cirillo dicendo che “governò per 32 anni con grande energia”; perché, si è chiesto Mancuso, il Pontefice non ha detto chiaro e tondo che l’energia fu tale da fare a tocchetti una intellettuale? Benedetto XVI non poteva non sapere, quindi (si presume) va considerato responsabile dell’accaduto.


Grossomodo la pensa così anche Umberto Eco: “È come se si rievocasse Pio XII ignorando il suo atteggiamento nei confronti dell’Olocausto”. A prima vista questo potrebbe sembrare un anacronismo – insomma, per accusare un Papa eletto cinque anni fa di fare lo gnorri sull’Olocausto c’è bisogno di un film sulla tarda antichità? – tuttavia Eco non si lascia spaventare dai dettagli. “Il film è bellissimo a dispetto delle numerose licenze storiche”, come ad esempio che l’ellittica delle orbite planetarie sia stata scoperta da Keplero un migliaio di anni dopo. Queste sbavature, si sa, sono il pepe di ogni film storico, esattamente come il ciclostilato che viene distribuito con grande anticipo sull’invenzione della stampa ne Il gladiatore di Ridley Scott; né tali capziosità devono far perdere di vista l’ammirevole obiettivo principale, ossia accusare i cristiani delle atrocità di cui si sono macchiati nei secoli dei secoli. Dunque non c’è solo quel gran pezzo dell’Ipazia: per facilitare il compito a produttori, critici e Umberto Eco suggeriamo qui di seguito trame per alcuni film in cui piccoli anacronismi aiuteranno a gettare luce sulle malefatte dei cristiani.

Il ritorno di Er Cicuta: Il più controverso dei film sul cristianesimo, ma anche il più duro nel mostrarne le colpe. Socrate, noto filosofo ateo e corsivista di Repubblica, viene accusato di empietà e plagio da monsignor Anito e monsignor Meleto, eminenze grigie della chiesa ateniese, cristiani dall’intolleranza talmente incallita da non voler sentire ragione nemmeno quando Socrate tenta di spiegare loro che si è ancora nel IV secolo avanti Cristo e le cariche ecclesiastiche non sono ancora state inventate.

La vera storia dei promessi sposi: Quel ramo del lago di Como che volge eccetera eccetera offre il setting ideale per la storia di Mondella Lucia e Tramaglino Lorenzo (inteso Renzo), innamoratissimi studenti fuori sede che partecipano all’occupazione dell’Università Statale di Milano. Il crudele cardinale Federigo Borromeo si mette di traverso e manda il suo scagnozzo don Abbondio a intimare al signorotto locale, don Rodrigo, di non celebrare il matrimonio civile fra i due studenti finché entrambi non si siano iscritti all’Università Cattolica del Sacro Cuore. La scena immortale del film ritrae un celebre professore di scienze, del quale non viene svelato il nome, mentre trascorre una notte insonne interrogandosi sull’origine dell’uomo; convertitosi repentinamente al darwinismo più spinto, abbandona l’insegnamento per trascorrere il resto dei suoi giorni dondolandosi al ramo di un banano.

Emma: Dal meno fortunato romanzo di Jane Austen, una pellicola che mostra l’infinito coraggio di una donna single che ama non solo favorire gli incontri fra coppie sempre nuove ma anche decidere come e quando devono abortire. Per mettere in pratica con maggior profitto le proprie benefiche vedute radicali, Emma si candida alla presidenza della regione Yorkshire ma viene sconfitta dal brutale intervento delle truppe pontificie, che per eccesso di becero maschilismo le contrappongono un’altra candidata di sesso femminile. Quest’ultima vince le elezioni contro ogni pronostico ed Emma, ormai tornata alla propria tranquilla vita di campagna da leader dell’opposizione regionale, capisce che per meglio difendere gli interessi dello Yorkshire le resta una sola possibilità: autoesiliarsi nel proprio misero seggio di vicepresidente della Camera dei Lord.

300: Altrettanti valorosi cittadini modello, amanti della sapienza e sprezzanti del pericolo, decidono di trascorrere un paio d’ore presenziando a un dibattito fra Umberto Eco e Vito Mancuso. Non sanno che la tragedia è dietro l’angolo. Un manipolo di fanatici capeggiati da frate Rainiero Cantalamessa irrompe nella Banca Popolare di Milano e fa scempio della Sala e delle Colonne. Vito Mancuso viene arso vivo insieme a numerose e introvabili annate de l’Espresso. Umberto Eco viene condannato a guardare Inter-Barcellona, completamente immobilizzato, mentre l’edizione del 1540 del De Pyrotechnia di Vannoccio Biringuccio viene posizionata di fianco allo schermo ma a distanza tale che lui possa vederne le pagine ma non distinguerne i caratteri. Quanto al pubblico, tutti e trecento, giovani e forti, sono morti; viene risparmiato il solo Giancarlo Bosetti perché, nonostante si affanni a rivendicare di essere direttore di Reset, nessuno riesce a riconoscerlo.