sabato 31 ottobre 2015

Ma conviene tirar fuori il diavolo ogni volta, a Halloween? Sul Foglio online spiego perché esorcizzare Halloween è controproducente e perché sarà il politicamente corretto a portare alla fine repentina della festa della zucca.
Evviva Maurizio Crippa che in un articolo magistrale sulla primissima pagina del Foglio mi menziona nelle mie funzioni di voltairista.


venerdì 30 ottobre 2015

Si parla di disastro politico del Partito democratico in riferimento alle dimissioni ritirate da Ignazio Marino ma senza tenere presente che esso si annida in una frase che viene ripetuta da giorni dalle gerarchie romane del partito: ossia che non si può votare la sfiducia al sindaco insieme alle opposizioni perché, testuali parole di non so chi, "il nostro elettorato non capirebbe".

A rigor di logica, questo apre due ipotesi alternative. O l'elettorato del Pd non capisce perché costituito da aventi diritti al voto più cretini dell'elettorato degli altri partiti: ipotesi poco lusinghiera ma non peregrina per un partito che su scala nazionale prende il 40% dei voti totali, il quale statisticamente mica può essere espresso solo da geniacci inconfutabili. E questa è la tragedia del Pd in quanto partito. Oppure l'elettorato del Pd non capirebbe comunque da chiunque fosse composto; sarebbe a dire che, se anche per assurdo scambiasse integralmente gli elettori con altri partiti, nessuno capirebbe lo stesso poiché per definizione l'elettorato, essendo composto da italiani qualsiasi, è incrollabilmente cretino nella sua vasta maggioranza. E questa è la tragedia del Pd in quanto democratico.

M'interrogavo su quale alternativa fosse la più rispondente al vero quando m'è caduto l'occhio su un servizio di Sky Tg 24 sull'emergenza idrica in Sicilia, in cui una signora lamentava disperata: "Io non posso restare senz'acqua. Come faccio? Ho il cane". La signora non è di Roma bensì di Messina e non so per che partito voti; fatto sta che mi fa propendere decisamente per la seconda ipotesi.

giovedì 29 ottobre 2015

Siccome non ci credevo dopo averlo letto sul Corriere della Sera, ho controllato anche sulla Stampa e perfino su Repubblica scoprendo che - se tre fonti fanno una prova - Raffaele Cantone ha davvero detto che Milano è la capitale morale d'Italia perché a Roma mancano gli anticorpi morali contro la corruzione. Mi sono riemersi ricordi vaghi di una trasmissione di un quarto di secolo fa i cui inviati fermavano per strada la gggente chiedendo di spiegare esattamente il significato di espressioni invalse nella routine del gergo giornalistico: ed ecco una signora spiegare con sussiego, sopra risate registrate in studio, che Milano era la capitale morale d'Italia perché c'era più moralità.

Voi vi accapigliate sull'inedita e trascinante questione se Milano sia meglio di Roma in base al parere personale di un magistrato (che, detto fra parentesi, non essendo cattolico ha dunque diritto a esprimere pareri personali che vengono commentati con ammirazione e rispetto per la sua autorità, mentre se fosse stato cattolico l'avreste preso a pedate in faccia perché i magistrati non devono esprimere opinioni); io invece traggo da questa storia due conseguenze. Anzitutto che aveva ragione Patrizia Valduga quando scriveva già in tempi non sospetti l'endecasillabo "Italiani, imparate l'italiano". Se nessuno alza il ditino per far notare che il senso di "capitale morale" è lo stesso di "vincitore morale" e dunque ha tutto a che fare con meriti contratti de facto e nulla col concetto etico un po' peloso di "anticorpi morali", vuol dire che rispetto ai tempi in cui la signora ignorante che la pensava come Cantone causava crasse risate gli italiani hanno smesso di sapere l'italiano: effetto forse collaterale ma certo inevitabile dell'avvento di vitelli d'oro linguisticamente ibridi come l'internet e l'euro - diceva l'immenso Geminello Alvi che l'euro era stato introdotto dagli italiani stanchi della dominazione italiana sull'Italia.

In secondo luogo, passando al livello delle implicazioni sociali dell'uso della lingua, il plauso a Cantone e il conseguente vacuo dibattito indicano che è variato il metro di giudizio delle azioni. Prima gli italiani esaltavano ciò che era luccicante o nobile: il vincitore morale, la Milano da bere e così via; adesso esaltano ciò che è etico e corretto. Ci siamo ridotti ad avere la stessa concezione del bello che a metà Cinquecento poteva avere un calvinista presbite delle valli svizzere. Venticinque anni non sono molti ma per l'Italia sono stati troppi. Ieri la signora che travisava il senso di "capitale morale" veniva sbertucciata in tv con ogni ragione; oggi al lessico confusionario di un magistrato si dedicano ossequiose lenzuolate sui quotidiani. Raffaele Cantone è la giusta guida per l'Italia che finisce.

mercoledì 28 ottobre 2015

Hon, han o hen? Sul Foglio in edicola oggi spiego come la grammatica svedese verrà in soccorso della teologia anglicana per definire il gender di Dio pochi giorni dopo l'insediamento della prima donna vescovo alla Camera dei Lord e in vista del sinodo generale della Chiesa d'Inghilterra che durerà dal prossimo 23 novembre a una data imprecisata del 2020.

lunedì 26 ottobre 2015

Dal 1766 al 1796 Pietro Verri non pubblicò nulla, volontariamente, perché riteneva che il pubblico non fosse all'altezza delle sue idee. Se non che Pietro Verri era conte mentre io sono assegnista di ricerca in scadenza di contratto e ciò rende necessario che io scriva il più possibile e cerchi di pubblicare quasi tutto, quanto meno per la pecunia. Se dunque leggendomi trovate qualcosa di intelligente non prendetelo come un complimento.

domenica 25 ottobre 2015

Mentre a Milano finisce BookCity, sul Corriere della Sera ho letto un articolo che annuncia l'istituzione del prestito a pagamento di ebook per clienti premium tramite il sistema interbibliotecario virtuale Mlol (MediaLibraryOnline). Credo che il modello Netflix per le biblioteche possa essere una buona idea ma non è tutto oro quel che luccica, it's not gold all that shines. Mi spiego meglio in quest'articolo che trovate gratuitamente sul sito del Foglio - anzi, in questo free earticle.

lunedì 19 ottobre 2015

Einaudi manda finalmente in libreria il romanzo Duffy di Dan Kavanagh, giallista che non avete mai sentito nominare ma che conoscete benissimo perché è un antico pseudonimo di Julian Barnes. Io sono soddisfatto perché l'avevo segnalato mesi fa in un articolo per il Foglio sul fatto che l'editoria italiana trasmette gli autori inglesi in differita e su come a importare Barnes in Italia, camuffato da Kavanagh, fosse stata la Mondadori nel 1982. Potete rileggere il tutto, e gratis, cliccando qui.

lunedì 12 ottobre 2015

Come Lance Armstrong volle che i propri compagni di squadra indossassero una manica gialla per essere partecipi della maglia che gli spettava in quanto vincitore del Tour de France, così Roberto Saviano s’è arrogato un pezzettino della medaglia di Svetlana Aleksievic: nella lenzuolata di oggi su Repubblica definisce “rivoluzione culturale” e “terremoto” il Nobel conferito all’autrice bielorussa e per estensione anche a se stesso, ossia “a un genere letterario che non ha come obiettivo la notizia ma ha come fine il racconto della verità”. Ora che Saviano è passato di moda si farà dell’umorismo sull’appropriarsi dei Nobel altrui e sul fatto che il suo articolo possa essere un ulteriore tentativo di difendersi chiamando in causa mansueti accademici svedesi un po’ svampiti che non avranno come interesse primario le polemiche sul plagio intentate dal Daily Beast. Così ci si perde però la parte interessante e rivelatrice del pezzo di Saviano, quella in cui spiega che “relegare il racconto del mondo al solo lavoro dei cronisti significa spezzettarlo, isolarlo, in qualche modo debilitarlo”.

È vero più di quanto creda. Chiunque sia pratico di filologia sulla letteratura moderna sa che la grandezza di certi autori risiede anche nell’aver fatto proprio materiale altrui, nell’averlo scovato e rimaneggiato in modo tale da renderlo letterario e sottrarlo all’oblio. Pochi ricorderebbero Terenzio Mamiani se Leopardi non avesse schiaffato le magnifiche sorti e progressive nella “Ginestra”, tanto per dirne una, e se conduceste l’edizione critica di un classico vi accorgereste che pullula di riferimenti inconfessati a cianfrusaglie editoriali, detriti di varia provenienza che ne aumentano la portata. Se uno ambisce a scrivere classici, deve avere il coraggio di divorare i minori.

In ciò Saviano paga la differente idea di citazione che vige nel mondo anglosassone, in cui anche la parola più banale va pedissequamente appoggiata su un riferimento esterno; deve averlo capito poiché lungo tutto l’articolo si scaglia contro “quel mondo esatto che parla inglese e che, anche in letteratura, ha come cardine il positivismo protestante”. Senza scomodare Comte e Lutero, o John Stuart Mill e Melantone, bastava ricordare che fra i precedenti del grande inquisitore Michael Moynihan risalta l’accusa a John Lehrer di avere modificato dei virgolettati di Bob Dylan, peccato veniale per un divulgatore delle neuroscienze ma sufficiente a rovinargli la carriera. Come ha scritto Daniel Engber su Slate (specifico, non si sa mai) si tratta di un esempio della “esazione di tremenda giustizia per trasgressioni secondarie”; per questo Moynihan viene lungamente criticato da Jon Ronson ne I giustizieri della rete, che in Italia esce a fine ottobre (Codice edizioni).

Dunque Saviano può plagiare impunemente in nome della letteratura? No, perché a non renderlo un grande scrittore basta l’incapacità di fare ciò che ascrive al genere letterario che elogia e di cui si ritiene un’ipostasi pari alla Aleksievic: “raccogliere fatti e filtrarli attraverso la riflessione letteraria, la riflessione umana, la cura delle parole”. Non dico io che non sappia farlo, lo dice lui stesso; il pezzo di oggi può essere letto come ammissione di colpa se lo si compara all’autodifesa uscita su Repubblica il 25 settembre, in cui – lungi dalla “cura delle parole” – Saviano diceva che non ci sono molti modi di raccontare una notizia, anzi ce n’è uno solo che corrisponde alla verità poiché implica il riferirla “così com’era”. Cercasi a questo punto editore abbastanza temerario da pubblicare degli esercizi di stile savianeschi, novantanove modi diversi di raccontare l’accusa di plagio e la susseguente difesa così come avrebbe fatto Queneau: per litoti, omoteleuti, onomatopee o anagrammi, in modo ampolloso, disinvolto, volgare o reazionario, come ode, comunicato stampa, versi sciolti o commedia in tre atti. Dirime il come, non il cosa. Se un autore ha qualcosa da dire, anzitutto deve trovare una maniera che giustifichi la necessità di farlo; se invece vuole solo lasciare un messaggio non vale la pena che scriva un libro, può limitarsi a farmi una telefonata.

giovedì 8 ottobre 2015

Se puniamo quelli che si amano, cosa faremo a quelli che si odiano? Si tratta della faticosa conclusione cui sono giunto dopo avere dibattuto con Eduardo Savarese, magistrato romanziere napoletano e omosessuale ma soprattutto cattolico tormentato. Potete leggere tutto il dialogo gratis sul sito del Foglio.

mercoledì 7 ottobre 2015

Anch'io partecipo al Sinodo laico convocato oggi dal Foglio - un'intera pagina di dibattito sulle nozze omosessuali in mezzo al giornale, subito prima dell'inchiesta sul sesso coi robot - interpellando Eduardo Savarese, magistrato romanziere e autore della Lettera di un omosessuale alla Chiesa di Roma (edizioni e/o). Emerge che il motivo per cui non andiamo d'accordo non è il fraintendimento dell'amore ma di tre concetti religiosi fondamentali: natura, Spirito e bontà.

martedì 6 ottobre 2015

Non trovate solo Romano Luperini (i liceali sapranno chi è) sul nuovo numero del Gabellino, rivista online della Fondazione Luciano Bianciardi; trovate anche un mio racconto, un mio scritto, una mia divagazione anzi una mia passeggiata per Milano alla ricerca di obiettivi sensibili per un eventuale attentato, ovvero un tentativo di trovare un'identificazione attuale del torracchione che cinquant'anni fa Bianciardi raccontava di voler far saltare in aria ne La vita agra. Non è facile, oggi. S'intitola L'esplosione di Milano e se il pdf è scomodo potete anche leggerlo ricopiato qui sotto.

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Quando vado a Milano e faccio quattro passi da Corso Venezia a Via della Spiga, penso che probabilmente il torracchione che cinquant’anni fa Bianciardi voleva far saltare in aria oggi siano i sacrali negozi del superfluo. Passo magari davanti alla vetrina di un bar vegano dove il caffè costa tre euri perché fatto con la cicoria e penso all’esplosione che consentirebbe di giocare a shangai con gli ossicini di tutte le signorine di magrezza penitenziale lì dentro, talmente ricche da poter permettersi di mangiare poco e niente mentre io ho sempre fame. Poi passo magari davanti a un negozio che vende oggetti di design per arredare le stanze inutili della propria casa, per quanto io non ne abbia una, e penso a quali e quante montagnole di cenere diverrebbero le statuette decorative in gusto concettual-rococò investite da una fiammata come si deve. E quale destino pensate che toccherebbe ai ristoranti fusion metà tailandesi e metà brasiliani? Avete presente quanti attentati si potrebbero agevolmente allestire toccando due o tre cosette nei caschi dei parrucchieri megafashion aperti a mezzanotte, con l’aria sospesa a metà fra la reggia di Versailles e il magazzino della lista nozze?

Anziché fermarmi a eseguire continuo a camminare a vuoto fino a che mi si forma in mente l’idea che Bianciardi va bene che era anarchico ma era anche pragmatico. L’esplosione di Milano, il debellamento delle sue aree più luccicanti e frivole, sarebbe un vantaggio per i poveri? Alla fine, se uno non ha soldi, cosa gliene torna quando vede bruciare l’arredamento ligneo di un negozio di guanti britannici decorato con marmotte impagliate? Un bel niente, a parte una transeunte soddisfazione estetica, per due motivi. Primo perché la ricchezza non è un gioco a somma zero, e rispetto a cinquant’anni fa siamo usciti dall’illusoria convinzione che un impoverimento dei ricchi implichi un arricchimento dei poveri; l’impoverimento dei ricchi causa solo e soltanto l’arricchimento di altri ricchi nonché l’impoverimento di quei poveri ai quali cessano di arrivare le briciole in bilico sull’orlo della tovaglia. Secondo perché, rispetto a cinquant’anni fa, i soldi veri sono altrove e i lustrini dell’alta borghesia milanese adesso non sono che la testimonianza di una classe in decadenza precipitosa e inarrestabile; così quando passo davanti a un negozio di accessori per cani il cui pezzo minimo è una pallina da dentatura che costa cinquanta euri, il primo istinto è di aprire il fuoco ma il secondo immediatissimo è di entrare a compatire le commesse e pure il padrone. Non capirebbero ma basta il pensiero.

Io poi nemmeno sono anarchico ma tutt’al più un moderato un po’ pavido e senz’altro pigro, ragion per cui se proprio devo mi limiterei a radere al suolo i negozi, librerie comprese, sorti nel ventre di chiese sconsacrate, al precipuo scopo di cacciare i mercanti dal tempio e ripristinare una benefica attività gratuita lì dove il terreno devozionale è stato eroso dal capillare mercimonio. Per esempio io mai approfitterei delle tenebre di Abercombie & Fitch per acquattarmi negli angoli che restano del tutto trascurati dalla luce ora bluastra ora sanguinolenta e piazzare un ordigno che non solo distrugga i capi d’abbigliamento e le clienti ma anche riesca a spettinare i commessi e perfino a svegliare gli accompagnatori delle dame in fregola d’acquisto accoccolati sulle portone d’attesa, a gruppetti di quattro estranei sospirosi per ciascun recesso. Costerebbe troppa fatica; poi l’odierno torracchione certo non è questo pacchiano palazzo d’angolo coi bodyguard all’ingresso e nemmeno lo è tutto il vetro che sorge a Porta Nuova attorno all’appuntito vertice dell’Unicredit, che sembra quasi una siringa fatta al cielo. Che facciamo, distruggiamo le cose nuove che sono costate tanto denaro e fatica e hanno quanto meno arricchito le maestranze? Buttiamo giù quel po’ di panorama che se non altro, quando il sole ci brilla sopra come oggi, mette un po’ di allegria a chi sta andando al lavoro anziché perdendo tempo come me? Inoltre, grazie all’attività cerebrale indotta dal moto perpetuo delle gambe, sono diventato abbastanza acuto da rendermi conto che cinquant’anni fa la principale soddisfazione nel fare scoppiare una banca sarebbe stata riposta nel veder volare denaro che planando si sarebbe liberamente redistribuito fra bisognosi, lazzaroni e immeritevoli, rendendo l’idea di una specie di perequazione. Oggi le banche non hanno più soldi e quei pochi che hanno sono dematerializzati; quando ci passo davanti mi viene piuttosto voglia di scavare con la chiave dell’auto una fessura sul muro in cui infilare, a mo’ di salvadanaio, due euro d’elemosina col cipiglio tosco di Dante inciso sul solido nichel. Non lo faccio perché, non avendo l’auto, nemmanco ho la chiave.

Dev’essere molto difficile essere Bianciardi oggi a Milano. È una città talmente decaduta, talmente miserella in confronto alle roccaforti del capitalismo protestante, talmente caduca dinanzi all’avanzata dei veri ricchi asiatici con manie d’annessione, da sembrare quasi implorante nel chiedere misericordia. Come si fa a far esplodere una città implosa? I palazzi che cinquant’anni fa sembravano l’avanguardia implacabile di un cancro che divorava la parte schietta e popolare della città adesso sono tutt’al più pittoreschi e arrugginiti, caratteristici magari mentre negli interstizi fra un cemento armato e l’altro si vede comparire il lucore della Madonnina. O Madonnina, Madonnina sommersa da torri di Babele più alte di te, ieri sembravi una mano che spuntava fra i marosi in cerca di soccorso e oggi – oggi che i nostri occhi hanno visto il vero male a Londra, a Cupertino, a Pechino, a Dubai – sembri solo ricordarci che ciò nonostante sei ancora lì, un po’ beffarda e un po’ protettiva.


Non c’è nulla da far esplodere a Milano. È troppo tardi perché questa città che cinquant’anni fa sembrava un nemico da combattere e piegare adesso è provincia di un mondo troppo vasto, che guarda altrove e se ne fregherebbe delle deflagrazioni più spettacolari, facessi anche saltare in aria tutti gli esercizi che con la scusa di rendere un favore a cittadini troppo impegnati restano aperti anche la domenica e così, per accumulare un settimo di soldi in più, sfasciano le famiglie di chi ci lavora e non ha mai tempo di stare a casa. Per quanto giri e rigiri alla ricerca di un obiettivo sensibile devo prendere atto che il torracchione se n’è andato da Milano. Senza accorgermene sbuco sotto la Torre Velasca e noto che proprio nel punto a mezzo cielo, vicino ai puntoni che fra ventiduesimo e ventitreesimo piano dilatano l’edificio in cubo, c’è una nuvoletta grande quanto una bomba a mano; il resto è tutto azzurro limpido.

domenica 4 ottobre 2015

Secondo voi il problema è un prete che per stare al passo coi tempi ha il fidanzato anziché la fidanzata; secondo me invece il problema del cattolicesimo moderno sono gli applausi alla corona di spine durante la cerimonia in cui una monaca di clausura assume i voti perpetui di castità, povertà e obbedienza. Ecco online gratis l'articolo del Foglio in cui parlo dell'Apocalisse, dei selfie, di Tele Radio Padre Pio e del padiglione del Nepal all'Expo, dimostrando di essere pronto per l'Ordo Praedicatorum.

venerdì 2 ottobre 2015

Che bello essere moderni: troviamo strano che una ragazza si faccia monaca ma troviamo normale che una ragazza lavori in un call center; ci sembra assurdo scegliere la clausura ma poi facciamo la fila per guardare un Buddha di plastica nel padiglione del Nepal all'Expo. Sul Foglio in edicola oggi parlo di modernità ed eternità, di selfie e di apocalisse, di come scandalizzare la gente facendo una scelta irrevocabile.