martedì 6 ottobre 2015

Non trovate solo Romano Luperini (i liceali sapranno chi è) sul nuovo numero del Gabellino, rivista online della Fondazione Luciano Bianciardi; trovate anche un mio racconto, un mio scritto, una mia divagazione anzi una mia passeggiata per Milano alla ricerca di obiettivi sensibili per un eventuale attentato, ovvero un tentativo di trovare un'identificazione attuale del torracchione che cinquant'anni fa Bianciardi raccontava di voler far saltare in aria ne La vita agra. Non è facile, oggi. S'intitola L'esplosione di Milano e se il pdf è scomodo potete anche leggerlo ricopiato qui sotto.

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Quando vado a Milano e faccio quattro passi da Corso Venezia a Via della Spiga, penso che probabilmente il torracchione che cinquant’anni fa Bianciardi voleva far saltare in aria oggi siano i sacrali negozi del superfluo. Passo magari davanti alla vetrina di un bar vegano dove il caffè costa tre euri perché fatto con la cicoria e penso all’esplosione che consentirebbe di giocare a shangai con gli ossicini di tutte le signorine di magrezza penitenziale lì dentro, talmente ricche da poter permettersi di mangiare poco e niente mentre io ho sempre fame. Poi passo magari davanti a un negozio che vende oggetti di design per arredare le stanze inutili della propria casa, per quanto io non ne abbia una, e penso a quali e quante montagnole di cenere diverrebbero le statuette decorative in gusto concettual-rococò investite da una fiammata come si deve. E quale destino pensate che toccherebbe ai ristoranti fusion metà tailandesi e metà brasiliani? Avete presente quanti attentati si potrebbero agevolmente allestire toccando due o tre cosette nei caschi dei parrucchieri megafashion aperti a mezzanotte, con l’aria sospesa a metà fra la reggia di Versailles e il magazzino della lista nozze?

Anziché fermarmi a eseguire continuo a camminare a vuoto fino a che mi si forma in mente l’idea che Bianciardi va bene che era anarchico ma era anche pragmatico. L’esplosione di Milano, il debellamento delle sue aree più luccicanti e frivole, sarebbe un vantaggio per i poveri? Alla fine, se uno non ha soldi, cosa gliene torna quando vede bruciare l’arredamento ligneo di un negozio di guanti britannici decorato con marmotte impagliate? Un bel niente, a parte una transeunte soddisfazione estetica, per due motivi. Primo perché la ricchezza non è un gioco a somma zero, e rispetto a cinquant’anni fa siamo usciti dall’illusoria convinzione che un impoverimento dei ricchi implichi un arricchimento dei poveri; l’impoverimento dei ricchi causa solo e soltanto l’arricchimento di altri ricchi nonché l’impoverimento di quei poveri ai quali cessano di arrivare le briciole in bilico sull’orlo della tovaglia. Secondo perché, rispetto a cinquant’anni fa, i soldi veri sono altrove e i lustrini dell’alta borghesia milanese adesso non sono che la testimonianza di una classe in decadenza precipitosa e inarrestabile; così quando passo davanti a un negozio di accessori per cani il cui pezzo minimo è una pallina da dentatura che costa cinquanta euri, il primo istinto è di aprire il fuoco ma il secondo immediatissimo è di entrare a compatire le commesse e pure il padrone. Non capirebbero ma basta il pensiero.

Io poi nemmeno sono anarchico ma tutt’al più un moderato un po’ pavido e senz’altro pigro, ragion per cui se proprio devo mi limiterei a radere al suolo i negozi, librerie comprese, sorti nel ventre di chiese sconsacrate, al precipuo scopo di cacciare i mercanti dal tempio e ripristinare una benefica attività gratuita lì dove il terreno devozionale è stato eroso dal capillare mercimonio. Per esempio io mai approfitterei delle tenebre di Abercombie & Fitch per acquattarmi negli angoli che restano del tutto trascurati dalla luce ora bluastra ora sanguinolenta e piazzare un ordigno che non solo distrugga i capi d’abbigliamento e le clienti ma anche riesca a spettinare i commessi e perfino a svegliare gli accompagnatori delle dame in fregola d’acquisto accoccolati sulle portone d’attesa, a gruppetti di quattro estranei sospirosi per ciascun recesso. Costerebbe troppa fatica; poi l’odierno torracchione certo non è questo pacchiano palazzo d’angolo coi bodyguard all’ingresso e nemmeno lo è tutto il vetro che sorge a Porta Nuova attorno all’appuntito vertice dell’Unicredit, che sembra quasi una siringa fatta al cielo. Che facciamo, distruggiamo le cose nuove che sono costate tanto denaro e fatica e hanno quanto meno arricchito le maestranze? Buttiamo giù quel po’ di panorama che se non altro, quando il sole ci brilla sopra come oggi, mette un po’ di allegria a chi sta andando al lavoro anziché perdendo tempo come me? Inoltre, grazie all’attività cerebrale indotta dal moto perpetuo delle gambe, sono diventato abbastanza acuto da rendermi conto che cinquant’anni fa la principale soddisfazione nel fare scoppiare una banca sarebbe stata riposta nel veder volare denaro che planando si sarebbe liberamente redistribuito fra bisognosi, lazzaroni e immeritevoli, rendendo l’idea di una specie di perequazione. Oggi le banche non hanno più soldi e quei pochi che hanno sono dematerializzati; quando ci passo davanti mi viene piuttosto voglia di scavare con la chiave dell’auto una fessura sul muro in cui infilare, a mo’ di salvadanaio, due euro d’elemosina col cipiglio tosco di Dante inciso sul solido nichel. Non lo faccio perché, non avendo l’auto, nemmanco ho la chiave.

Dev’essere molto difficile essere Bianciardi oggi a Milano. È una città talmente decaduta, talmente miserella in confronto alle roccaforti del capitalismo protestante, talmente caduca dinanzi all’avanzata dei veri ricchi asiatici con manie d’annessione, da sembrare quasi implorante nel chiedere misericordia. Come si fa a far esplodere una città implosa? I palazzi che cinquant’anni fa sembravano l’avanguardia implacabile di un cancro che divorava la parte schietta e popolare della città adesso sono tutt’al più pittoreschi e arrugginiti, caratteristici magari mentre negli interstizi fra un cemento armato e l’altro si vede comparire il lucore della Madonnina. O Madonnina, Madonnina sommersa da torri di Babele più alte di te, ieri sembravi una mano che spuntava fra i marosi in cerca di soccorso e oggi – oggi che i nostri occhi hanno visto il vero male a Londra, a Cupertino, a Pechino, a Dubai – sembri solo ricordarci che ciò nonostante sei ancora lì, un po’ beffarda e un po’ protettiva.


Non c’è nulla da far esplodere a Milano. È troppo tardi perché questa città che cinquant’anni fa sembrava un nemico da combattere e piegare adesso è provincia di un mondo troppo vasto, che guarda altrove e se ne fregherebbe delle deflagrazioni più spettacolari, facessi anche saltare in aria tutti gli esercizi che con la scusa di rendere un favore a cittadini troppo impegnati restano aperti anche la domenica e così, per accumulare un settimo di soldi in più, sfasciano le famiglie di chi ci lavora e non ha mai tempo di stare a casa. Per quanto giri e rigiri alla ricerca di un obiettivo sensibile devo prendere atto che il torracchione se n’è andato da Milano. Senza accorgermene sbuco sotto la Torre Velasca e noto che proprio nel punto a mezzo cielo, vicino ai puntoni che fra ventiduesimo e ventitreesimo piano dilatano l’edificio in cubo, c’è una nuvoletta grande quanto una bomba a mano; il resto è tutto azzurro limpido.