(copyright Il Resto del Pallone)
Il coraggio, se uno non ce l’ha, non se lo può dare. Basterebbe essere stati un poco poco attenti al liceo, durante le ore di Italiano, per capire che Alessandro Manzoni stava preconizzando l’ambrosiana Inter, abilmente camuffata da don Abbondio; non per niente tutti e due, a ben guardare, indossano un colletto bianco. Non solo il coraggio, significava Manzoni; ma l’autoconsapevolezza, la capacità di emergere nella difficoltà, la disinvoltura nella conquista e, perché no, anche un po’ di understatement. Tutte cose che l’ambrosiana Inter, con tutta la buona volontà, non ha più da tre lustri, e soprattutto non ha mai avuto quest’anno.
Avesse vinto la partita di oggi pomeriggio, abilmente mimetizzata in un orario tale che nessuno, tranne gli stessi sostenitori dell’ambrosiana Inter, se ne ricordasse, l’ambrosiana Inter avrebbe matematicamente vinto il torneo aziendale Telecom Pirelli, intitolato alla memoria di Guido Rossi. Avrebbe potuto sostituire all’indegna patacca che vanta al centro del petto un tricolore piccino piccino picciò da nascondere lì dove la maglietta si piega per entrare nel calzoncini. Avrebbe fatto rimpiangere ai più ragionevoli dei suoi tifosi le vittorie degli anni in cui la concorrenza su vasta scala non era limitata all’Empoli e al Palermo.
Passa lu tiempo e lu munno s’avota, scriveva Salvatore Di Giacomo, ma l’ambrosiana Inter non cessa di dare soddisfazioni ai tifosi delle squadre avversarie. I miei amici ambrosianainteristi, tanto prodighi di condoglianze a seguito dei due derby, si sono eclissati dopo Bayern – Milan 0-2 (le ultime notizie che ho di loro sono: “Tanto mercoledì perdete”; aiutateci a ritrovarli), hanno conservato un preoccupante silenzio e benché sollecitati non hanno proferito risposta alcuna. Un mese fa volevano spaccare il mondo; e ora che il mondo sta spaccando loro?
La Roma non è nuova a queste imprese. Nell’aprile del 1999 mi ero preso alcuni giorni di vacanza all’interno dei quali avevo inserito gli ultimi cinque minuti di derby all’Olimpico, ai tempi in cui aprivano i cancelli e facevano entrare gratis in extremis. La Lazio più forte della storia (almeno così sostenevano) mangiava lo scudetto a grandi morsi; se non che nel derby crollano (casualmente anche in questa circostanza la Roma aveva vinto 3-1) e piano piano lo scudetto se ne va. Totti si alzò la maglietta e c’era scritto: Vi ho purgato ancora. Io cantavo Grazie Roma abbracciato a degli sconosciuti sudatissimi nei distinti giallorossi e oggi – senza distinti sudaticci e senza Olimpico attorno – ho canticchiato nuovamente solo solo come un pazzo zompettando per i giardini del college.
Perché i tifosi dell’ambrosiana Inter, se non sono tutti morti di crepacuore come invece parrebbe stando al mio telefonino, diranno magari: “Vabbe’, vinciamo lo scudetto domenica a Siena”. Se anche fosse (e ho i miei dubbi) non sarebbe la stessa cosa, non ci sarebbe lo stadio tutto esaurito, non ci sarebbero tutte quelle bandiere già pronte con la scritta 15 sul tricolore (che mi hanno tanto, tanto ricordato le bandiere con la scritta Inter Campione d’Italia 2002). Ma come sempre il capolavoro è nel dettaglio: per dare uno spessore decente alla vittoria nel torneo Telecom Pirelli, la stessa ambrosiana Inter si era proposta due traguardi storici: non perdere nessuna partita e mettere insieme 100 punti. Oggi hanno perduto, e pazienza: la Storia ha voluto che il record dello scudetto senza sconfitta restasse al Milan del 1992, quando gli avversari erano, tanto per dire, la Juventus di Trapattoni e Baggio e la Sampdoria finalista in Champions League. Hanno ottantuno punti e mancano sei partite: le vincessero tutte, arriverebbero a 99. Pazienza.
Il fatto è che appunto, come scriveva Manzoni, il coraggio se uno non ce l’ha non se lo può dare. Un giornalista spagnolo di cui dimentico il nome con preoccupante puntualità disse un giorno che il Real Madrid, o il Milan o la Juventus, è come il cavaliere nero del film I Monty Python e il Sacro Graal: prostrato quantunque, fatto a fette e ridotto a un tronco senza più né braccia né gambe, vuole ancora combattere e vincere perché è consapevole, di là dal rovescio contingente, della superiorità che gli deriva dal proprio blasone. Oggi l’ambrosiana Inter ha dimostrato di saper perdere anche senza intercettazioni: perché quand’anche il caso o gli oscuri maneggi la facciano precipitare davanti a Juventus e Milan, nella sua anima alberga la certezza - inconscia e inamovibile - che se vuole salire sul loro stesso cavallo ha da star dietro.
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