giovedì 29 gennaio 2009

Fratel coniglietto

[La settimana scorsa avete trovato Playboy? Mica si legge per le donne nude sul settimanale Tempi, in edicola ogni giovedì. Poiché la stampa vive di spazi ben definiti, a differenza di internet che non esiste e quindi può fingere di essere infinito, era stato necessario ridurre l'articolo a 7.000 caratteri. Ma in origine erano 11.000: per i fedelissimi, qui sotto li riporto tutti quanti.]


La donna è un surrogato della masturbazione.
Ovviamente ci vuole un sovrappiù di fantasia.
(Karl Krauss)

Poi magari uno si sbaglia: vede Francesco Alberoni all’inizio, Claudio Sabelli Fioretti alla fine, e deduce di aver erroneamente speso tre euri per comprare un ibrido fra il magazine del Corriere della Sera e il cosone illustrato che si trova (si trovava?) sul retro dei sedili Alitalia, rigonfio di consigli di viaggio in mete esotiche che, nella maggior parte dei casi, non coincidono con la destinazione dell’aereomobile a meno di non volerlo dirottare e pregare che il carburante sia sufficiente all’uopo. Per fugare ogni dubbio, occorre controllare innanzitutto il paginone centrale: se c’è una signorina piegata in tre – intendo la pagina, non la signorina, anche se occasionalmente le due circostanze possono coesistere – avete indubbiamente in mano Playboy. Altrimenti non voglio saperlo.

La signorina c’è: si chiama Sarah Nile e a una conoscenza più approfondita risulta venire da Napoli, cosa che delude chi, me per primo, vorrebbe che Playboy garantisse a ogni latitudine uno spicchio d’America e sperava quindi che il suo nome si pronunziasse Seranàil. Scoprire che invece ha partecipato a Veline (perdendo in finale) aggiunge il danno alla beffa, esacerbata dall’evenienza che nel tripartito paginone centrale la signorina è sistemata nell’unica posizione in cui una donna nuda non differisce gran che da una vestita – non vi spiego qual è, fate le prove per conto vostro. Per fortuna c’è un’altra dozzina di foto di contorno scattate con l’esplicito intento di far dimenticare il paginone centrale e, per estensione, la partecipazione a Veline. Il maschio vuol essere blandito.

Appurato che nonostante Alberoni si tratta effettivamente di Playboy, il primo numero atteso una ventina d’anni della nuova edizione italiana, va specificato che a dire il vero davanti ad Alberoni ci sono 15 (quindici) pagine di pubblicità patinatissime. Alberoni, che (giuro!) spiega la differenza fra maschi e femmine, arriva quando il lettore incuriosito ha perso ogni speranza che il giornale inizi prima o poi. Lo stesso giochino di vedo non vedo, dico non dico, inzio non inizio è annunziato, in sedicesimo, nella copertina sulla quale è effigiato il volto di tale Caterina Murino, che non so chi sia né voglio saperlo visto che nemmeno si spoglia sul serio: detta copertina è aperta da uno spacco in mezzo, come un sipario anzi come le ante di un armadio, ottenendo non solo il curioso effetto che la Murino risulti avere tre narici ma anche l’istintiva reazione del lettore portato ad aprire le ante per sbirciare cosa c’è mai sotto – e sotto c’è la medesima Murino, più vestita di quanto lo sia io oggidì nel bel mezzo di un gelido inverno. Il maschio vuol essere ingannato.

Timoroso di aver sbagliato copertina (né mi sento di dargli torto), Playboy Italia si premura di informare che la foto esposta è opera di Brian Adams, con annesso servizio interno – di fronte al quale l’intervista a Jovanotti non può che arrossire e chiedere scusa per quanto siamo provinciali. Non riusciamo a concepire l’edizione italiana di un periodico internazionale senza schiaffarci dentro una presunta autorità locale che con la sua sola svogliata presenza dia lustro a un marchio che, per storia e qualità, non ne avrebbe bisogno. Non so voi ma io compro Playboy perché sulla sua prima copertina c’era Marylin Monroe, quando mio padre aveva otto anni, e non perché speri di trovarci l’intervista a Jovanotti. Il maschio vuol essere inserito in una storia più grande di lui.

E non dite che uno lo compra per vedere le donne nude, anzi. Playboy è così: non c’è giornale nel quale le donne nude siano più decorative, più succedanee, più inutili. Primo perché donne nude ormai ce n’è a bizzeffe ovunque, anche quando non le si vuole o si sta pensando a tutt’altro; soprattutto perché Playboy è un marchio che ha avuto successo per il mezzo e non per il fine, riuscendo a veicolare le conigliette con un contorno di alto livello che giustificava e redimeva quasi la loro nudità. Se scorrete le annate di Playboy, oltre a correre il rischio di diventare ciechi sull’istante, vi renderete conto che le sue pagine hanno ospitato fotografi d’arte, inchieste di tendenza, interviste storiche e autori di culto – uno per tutti, Ian Fleming. Il che rientra nel vasto progetto di intrattenimento per adulti di Hugh Hefner il quale ha capito come, per vincere la sua scommessa, l’accento (qualitativo) del tutto non doveva essere calcato sul “per adulti” ma sull’intrattenimento di alto livello, lieve e ammiccante al contempo. Non è facile insegnare quello che nel sottotitolo dell’edizione italiana diventa “il piacere di vivere da uomo”. Leggere un’intervista a Woody Allen, un racconto di Philip Roth o l’anteprima dell’album di John Lennon fa sempre e ovunque piacere; assume un che di sulfureo se si può farlo nascondendosi dietro una copertina scollacciata. Il maschio vuol essere rallegrato.

Questa scommessa è stata vinta, e prima ancora recepita, dall’edizione italiana? Alberoni e Sabelli Fioretti a parte, promette benone la ridda di curiosità e aneddoti cheeky raccolti nelle pagine introduttive, dove si scopre l’esistenza di un vibratore musicale, collegabile all’Ipod ma non scendo in dettagli, e dove viene altresì confermato che ovviamente tutte le ragazze sono profondamente bisessuali, a cominciare dalle più gnocche. Non sono ammessi dubbi al riguardo: sarebbe come se un giornale per bambini non si peritasse di confermare l’esistenza di Babbo Natale. Il maschio vuol essere coccolato. Se uno non ci crede, azzarda l’articolista, provi a mostrare questa stessa copia di Playboy a una sua amica e ne monitori la reazione di fronte alla profusione di conigliette. Io l’ho fatto e l’unica reazione che ne ho ricavato è stato il contenuto stupore dell’amica in questione di fronte al sondaggio che svela come il personaggio più sexy dello scenario internazionale sia l’ovvio Obama, col 58%, ma ex aequo con il decisamente meno ovvio Berlusconi. Tanto per dire, Nicolas Sarkozy in Bruni è al 44%; Zapatero al 40; Gordon Brown, comprensibilmente, all’11 – ma se ciò implica che una donna su dieci e attratta da lui, be’, è comunque il risultato più sorprendente del bigoncio. Il maschio vuol essere rassicurato.

In queste pagine introduttive spiccano gli interventi di Michele Dalai, che narra l’amore impossibile fra uno svitato e la sua panchina, e soprattutto di Andrea G. Pinketts, il cui intervento resta tuttavia misteriosamente incompiuto a metà di una frase (“anche se lo chiamavano la piccola” – e poi?). La letteratura è sempre stata il fiore all’occhiello di Playboy, sempre nell’ambito del progetto di ridefinizione dell’intrattenimento che mira a far sentire un po’ camionisti gli intellettuali e viceversa. Quella che ospita nelle sue pagine è letteratura del disimpegno; nel primo numero italiano tocca a Ron Carlson – non propriamente mister nessuno – con Le donne di Moab, del quale non vi anticipo nulla se non la tramortente domanda: “Chi non è solo?”. Converrete che domande del genere non starebbero bene in un rotocalco per porci (se avessi voglia, a questo punto seguirebbe una lunga tirata sul “se avete domande da porci” di Achille Campanile; ma non ho voglia, quindi vedetevela voi). Il maschio vuol essere interrogato.

Su Playboy invece la domanda non stona; e fa il paio con quella inversa ma altrettanto rimbombante – posta a più d’un intervistato nello stesso numero – su dove e come sia stato consumato il primo rapporto, visivo intendo, dell’intervistato col rotocalco per il quale sta rispondendo. Intervistare qualcuno chiedendogli quando ha visto il suo primo Playboy, anzi quando l’ha sbirciato, implica varie cose: che l’organo sul quale finisce l’intervista sia più importante del personaggio, e che questi lo riconosca abbozzando una specie di genuflessione; che Playboy sia un organo stampa che si compiace di essere quasi illegittimo ed enormemente diffuso, come la letteratura clandestina del ’700; che la sua fruizione porti a un affratellamento un po’ esibizionistico per quanto sia ogni volta necessariamente solitaria (vabbe’, io me lo sono letto di sabato pomeriggio mentre prendevo il caffè in piazza con l’amica di cui sopra, ma forse non faccio testo). Il maschio vuol essere rassicurato.

Chi non è solo, dunque, almeno quando legge Playboy? La domanda di Ron Carlson trova un’inaspettata eco nel bell’intervento di Antonella Landi sulla “sostanziale solitudine” di Giacomo Casanova, dovuto omaggio all’ideale al quale l’edizione italiana di Playboy dovrebbe tendere, magari pubblicando estratti dai Mémoires invece di intervistare Jovanotti, come abbiamo visto, o fare anche di peggio, come vedremo – suspense, suspense. Sulla stessa lunghezza d’onda, ottimo il dossier di Felice Manti sui sexygate e più in generale sulla commistione fra sesso e potere, biechi istinti di dominio privato che schiantano altrettanto bieche aspirazioni di dominio pubblico. Il maschio vuol essere informato di tutto.

Ma, fermo restando che un numero solo non è indicativo e che bisognerebbe analizzare l’annata nel suo complesso, non è tutto rose e fiori. Le dodici pagine di moda maschile sembrano scappate da Donna Moderna. La pagina delle recensioni librarie, curata da Andrea Marrone, parrebbe promettere l’ingresso in una biblioteca infernale (I numeri del sesso, di Sarah Hedley; Fucking Girl, di Miss S.; Taccuino di una sbronza, di Paolo Roversi) e invece tracolla su Viaggio in un’Italia diversa – che non è una guida ai citofoni delle più rinomate drag queen patrie ma l’annuale asessuata fatica di Bruno Vespa. Playboy Italia cerca di forzare l’equilibrio fra corpo e cervello che il Playboy anglofono ottiene naturalmente, un po’ per talento un po’ per esperienza: a ben guardare, le foto di macchine potenti e paccottiglia hi-tech sono quasi preponderanti rispetto agli otto semiposter delle otto signorine provenienti dalla Mansion (menzion d’onore per Iryna Olhovska, ma anche Inna Popenko, giuro che si chiama davvero così, non è male: il che conferma che il futuro è sempre più a oriente). Per ora va bene così ma, dato il mio assoluto disinteresse per automobili a settemila cavalli e telefonini che scaldano i toast, la prossima volta preferirei una maggior compenetrazione fra le due sezioni. Il maschio vuol essere omogeneo.

Per ora va bene così, dunque, tuttavia la provincialata è sempre dietro l’angolo: Playboy Italia ci casca con tutte le scarpe da pagina 56 a pagina 63, dedicando cinque pagine a Roberto Saviano (le altre tre, con maggior onestà intellettuale, sono dedicate a pubblicità esplicite). Non vedo perché anche Playboy debba pagare pedaggio alla litania del povero-ventottenne-che-non-può-prendere-una-birra-con-gli-amici-né-godersi-tutti-i-soldi-che-ha-guadagnato, derogando all’intrattenimento leggero, frizzante, ammiccante e soprattutto anticonformista che ha garantito il successo del suo marchio. Capisco che Saviano in fin dei conti è il Jovanotti dell’editoria; ma se volessi vedere due donne nude e sentire Saviano che si lamenta, tanto varrebbe comprare l’Espresso.

mercoledì 28 gennaio 2009

Ogni benedetta domenica

(Gurrado per Books Brothers)

Hai fatto bene
tutto il creato
Te sei sbajato
solo con me.
(Luigi Magni, Tosca)

Sarà per un’altra volta: ottima lettura natalizia, plausibile regalo sotto l’albero, Il Cardinale di Henry Morton Robinson è tristemente finito fuori commercio come – stando a un controllo superficiale ma preoccupato – tutto il resto della produzione dell’autore. Io nel mio piccolo ho salvato il salvabile dedicando gli ultimi giorni d’Avvento alla lettura di questo lungo (pure troppo) romanzo in un’edizione Garzanti demodè, risalente agli anni ’60 quando invece l’uscita originale è del 1950, nel bel mezzo del secolo che sconvolse il Cattolicesimo. E, sempre nel mio piccolo, ho estrapolato dalle pagine 236 e 237 del medesimo economicissimo Garzanti (che la copertina spaccia per volume triplo, a lire 650) la citazione augurale da spargere tutt’intorno agli amici per la vigilia di Natale, ossia un dialoghetto parateologico in cui il futuro cardinale Fermoyle rimbrotta un fedele troppo solerte nell’addobbare il presepio con un certo sfarzo, il quale si scusa: «Penso sempre a loro come a della povera gente in una capanna fredda».

Si tratta di letteratura da diporto, composta in una prosa semplice che non si discosta gran che da quella della letteratura popolare di oggi, e che quindi non renderebbe impraticabile una nuova edizione, fermi restando i più visibili difetti del testo: ad esempio la caratterizzazione operettistica di tutti gli Italiani, primo fra tutti il vanesio capitano Orselli, prima conclamato donnaiolo e poi marito esemplare, prima ammiratore di Mussolini e poi martire del fascismo. D’altra parte la semplicità non è semplicioneria, e dietro la facciata del romanzo popolare sono ben evidenti riferimenti colti che si fanno oltremodo insistenti quando si tratta addirittura dell’Ulisse di Joyce – a cominciare dal nome di battesimo del cardinale eponimo, ovviamente Stephen, ma anche in dettagli secondari come la completa riproposizione del calembour Rose of Castille (Rosa di Castiglia)/rows of cast steel (binari di acciaio fuso) su cui è incentrata parte del settimo capitolo dell’Ulisse.

Né mancano le citazioni scoperte o implicite dai Padri della Chiesa, introspettivi come Sant’Agostino o estroflessi come San Clemente Alessandrino. Tutto però è montato su una struttura estremamente lineare, che progredisce irrefragabilmente col tempo e che viene incontro al lettore più indifeso spiegandogli tutto, tutto, tutto. Forse anche per questo, ai suoi tempi, Il Cardinale aveva avuto un notevole successo tanto da diventare un film (di Otto Preminger, con Tom Tryon e John Huston) uscito nel 1963, a pochi mesi dall’apertura del Concilio Vaticano II. Se il film, che non ho visto, avrà senz’altro risentito del momento – ossia del processo che, secondo Anthony Burgess, «provvide all’abolizione del Cattolicesimo» – il romanzo è stato concluso quando Giovanni XXIII era ben di là dalla più fervida immaginazione e la sua trama congiunge il pontificato di Benedetto XV agli albori di Pio XII. Il Cardinale è un romanzo totalmente preconciliare, ed esattamente questo è il suo maggior pregio: dà risposte antiche a problemi nuovi, indubbiamente elevandosi al di sopra della contingenza dei suoi tempi.

Diamoci un’occhiata intorno e selezioniamo le questioni che a tutt’oggi, Natale 2008, costituiscono frizione fra la Chiesa e la società – e mi riferisco a problemi sociali e culturali in senso lato. Sono, grossomodo, lo spirito nell’affrontare la crisi economica totale, il reintegro della liturgia latina, la politica contraccettiva e i rapporti fra Stato e Chiesa. Tutto questo è distintamente presente ne Il Cardinale che comunque resta anzitutto la storia di un singolo – una specie di Idiota non più russo ma americano, non più proiezione di un dostoevskijsmo fragile ma di un Cattolicesimo solido e attivissimo nel mondo degenere, senza per questo rinunciare all’umanità con tutte le debolezze e tutti i dubbi che necessariamente comporta. L’identità fra ieri e oggi è raggelante, né può essere mera coincidenza.

Rapida rassegna dimostrativa. Il centro cronologico del romanzo cade grossomodo sulla crisi del 1929, di poco successiva alle elezioni che vedono Hoover prevalere sul cattolico Al Smith. Il cardinale Fermoyle ovviamente sostiene Al Smith, che è il suo alter ego politicizzato; Robinson pure, tanto da presentare il crollo di Wall Street come diretta conseguenza della vittoria di Hoover, grazie all’unico strumento decente in mano ai narratori: la sintesi di avvenimenti enormi in poche brevi righe che volano su undici mesi legando a filo doppio la vittoria repubblicana alle elezioni del 6 novembre 1928 e la chiusura delle contrattazioni in borsa il 24 ottobre 1929. Il problema non è qui tanto la scelta fra repubblicani e democratici, ché della democraticità di Al Smith si parla poco e niente, quanto la scelta fra una politica tutta umana di ottuso ottimismo e una politica radicata su fondamenta religiose che, benché private, inducono al bene comune. A ben guardare, con le elezioni del 2008 è avvenuta esattamente la stessa cosa, a partiti invertiti, e le promesse finanziarie non sono rosee affatto.

Il ritorno del Latino nelle celebrazioni è stato salutato nel migliore dei casi come una nostalgia canaglia, nel peggiore (dai soliti intellettuali) come il ritorno dell’imposizione di un culto incomprensibile a un popolo inconsapevole. Tanto per dare un’idea di quanto sia stantia quest’obiezione, Robinson la anticipa di una cinquantina d’anni (pagina 106: «La m-messa si dice in la-latino p-perché la gente non deve s-sapere quello che dite») e la confuta in scioltezza: «Non è che il sacerdote desideri fare un mistero di quello che dice. Proprio il contrario. Egli vuole che tutti, in ogni tempo e in ogni luogo, capiscano esattamente quello che dice. La messa si dice in latino perché non vi è altra lingua – eccettuato forse l’ebraico – che sia così universale ed immutata». Il passo in questione dev’essere sfuggito a qualche centinaio di padri conciliari, e Benedetto XVI giunge a riparare, meglio tardi che mai.

Raccapriccia altresì leggere pari pari nel romanzo profferte e minacce dei sostenitori dell’aborto e della contraccezione, o meglio dell’irresponsabilità della Chiesa in materia. Robinson si produce in una parodia dei prontuari anticattolici al riguardo («La vostra salute è minacciata, la vostra felicità gratuitamente compromessa dalla cospirazione ordita da preti tirannici»); ciò nondimeno questa parodia, estrapolata dal suo contesto, potrebbe essere sottoscritta oggi con piene soddisfazione e convinzione da ampi strati di femministe, di intellettuali (ancora!) e di medici. Se ne deduce che la Chiesa si basa su decreti eterni, mentre contraccettori e abortisti ripetono da cinquant’anni le stesse cose spacciandole per nuove.

Forse la Garzanti, se ancora ne possiede i diritti, dovrebbe far dare una spolverata alla traduzione (quella sì estremamente demodè) e provvedere alla ristampa in pompa magna de Il Cardinale, che non sfigurerebbe sugli scaffali odierni, particolarmente avidi di testi pro e contro la religione e il Cattolicesimo in particolare. Pensate che scandalo desterebbe oggi. Pensate quanti fegati vorrebbero avere, per mangiarseli tutti, gli iconoclasti d’accatto che si vedono parodizzati con sessant’anni d’anticipo. Pensate che effetto farebbe ai laicisti seguaci di Zapatero, che il Vaticano ha accusato di fomentare la statolatria, vedersi recapitare un romanzo in cui è scritto: «Il duce avrebbe gridato: “Io…”, Quarenghi mormorato: “Il Santo Padre”. Il duce non avrebbe mancato di tuonare: “L’Asse”, al che Quarenghi avrebbe risposto: “La Chiesa”. E concludendo il duce: “Hitler”, Quarenghi avrebbe replicato: “Dio”».

martedì 27 gennaio 2009

Bari, narrazione e memoria

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Come il centralissimo quartiere murattiano, il libro di Gianrico Carofiglio su Bari procede per agevoli strade parallele e perpendicolari, come su due coordinate differenti che si incrociano agli angoli. La prima coordinata, nonché la più immediata, è la storia della notte a Bari promessa dal sottotitolo: l’autore, che nella circostanza è anche narratore senza alcuna distinzione di sorta, riceve la telefonata di un vecchio e quasi dimenticato amico che gli propone un itinerario gastronomico e nostalgico per mostrare la movida notturna a un terzo amico, quasi rimosso anche lui, essendosi da vent’anni trasferito a Chicago. Questa storia si muove nello spazio e occupa i capitoli a numerazione dispari. La seconda coordinata, simile alle perpendicolari che via via si susseguono a intervalli regolari, riguarda i capitoli pari e presenta degli scorci sul passato di Bari – filtrato attraverso la gioventù o l’infanzia del medesimo Carofiglio autore/narratore – muovendosi pertanto nell’orizzonte del tempo.

Spazio e tempo, senso esterno e senso interno, si incrociano reiteratamente al cambio di capitolo: un po’ come faceva Bulgakov ne Il Maestro e Margherita, quando le parole conclusive di un professore russo erano l’abbrivio per una narrazione di cosa accadeva millenovecento anni prima a Gerusalemme. Giocato così sul filo di narrazione e memoria – la prima che procede fin troppo dritta e lineare, mentre la seconda si può permettere qualche ghirigoro o, come sempre accade coi ricordi, qualche inganno passato sotto silenzio – Né qui né altrove risulta più convincente nella parte che tocca più da vicino forse l’interesse e quindi l’essenza di Carofiglio stesso, come uomo e non come narratore. Il triste censimento dei cinema chiusi, o la storiella quasi mitologica del primo cucciolo portato in casa, le cioccolate clandestine nella libreria Rinascita o la scoperta del sesso insicuro sarebbero altrettante intermittenze del cuore che non sfigurerebbero in una raccolta di racconti a sé stanti. Ciò che dà un senso di unitarietà al tutto, e dà quindi un senso all’operazione narrativa di Carofiglio, è il loro essere calati nella precisa realtà geografica di Bari, e di avere al proprio interno delle spie narrative che tutt’a un tratto rivelano l’impossibilità, per i medesimi racconti, di essere trasferiti in contesti estranei. Si reggono pertanto sul loro essere, parafrasando il libro, in un “qui” ben preciso e non “altrove”.

Al contrario, l’itinerario di Carofiglio per Bari, accompagnato dai due amici ritrovati senza eccessivo entusiasmo, vive di un forte effetto di straniamento: in questo caso è la Bari del 2008 a collocarsi in un “altrove” falsato dall’oscurità notturna. Innanzitutto c’è lo straniamento della voce narrante che, d’improvviso, si trova ad avere a che fare con due fantasmi del proprio passato resi fin troppo presenti e vivi di fronte a lui: invecchiati, peggiorati, in completa balia dei difetti che i comuni studi universitari (ovviamente Giurisprudenza, ovviamente a Bari) avevano solamente un po’ sbozzato. Soprattutto, c’è la completa e continua sorpresa dell’amico rientrato da Chicago, che per vent’anni ha rimpianto l’odore della focaccia o ha perso un po’ di tempo libero digitando “Bari” su Google, e che ora si trova di fronte a una città che non solo è diversa – cosa accettabile, perché tutte le città cambiano in vent’anni – ma che è sfacciatamente migliore, più vivace, più vivibile e molto più vicina alla joie de vivre che ci s’immaginava collocata in un altrove più o meno irraggiungibile. E qui sta la vera tragedia lamentata dal volume, per quanto fra le righe: è terribile scoprire che la città da cui si è scappati ha indossato la maschera di ciò che si sognava di inseguire per il mondo.

C’è un punto di contatto ben preciso fra le due metà del libro, e mi sembra squisitamente linguistico. Sia nei capitoli sull’oggi sia in quelli di ieri, a un certo punto si fa avanti qualcuno che parla dialetto barese più o meno stretto (Carofiglio, bisogna dargli atto, inserisce tra parentesi in corsivo una traduzione ora sarcastica, ora ridondante). Il Barese è una lingua crudissima, piena di dittonghi nasali e consonanti esplosive, che pare fatta apposta per prendere in giro il prossimo e sé stessi, non mancando di intimorire esacerbando i suoi nitriti. Carofiglio racconta di quando, iscrittosi in palestra, aveva dovuto imparare il dialetto come si impara una lingua straniera per ottenere il rispetto dei frequentatori abituali, tutti arroccati in una istintiva xenofobia di quartiere, o peggio ancora in uno snobismo di classe diretto verso l’alto – ça va sans dire, un paio di calci ben assestati gli garantiscono una maggiore stabilità del rispetto altrui, per il quale il corso accelerato di dialetto resta tuttavia necessario a priori.

Il dialetto resta sullo sfondo, invece, per quanto esso sia la struttura portante della vita quotidiana di tutta la città, e il ponte gettato fra quartieri vicinissimi ma difformi per architettura e strati sociali: tant’è vero che il film più bello che sia mai stato girato su Bari e forse su una città italiana in assoluto, LaCapaGira di Alessandro Piva, è interamente parlato in dialetto perché senza la sua venatura di aggressivo scetticismo linguistico la stessa trama non avrebbe avuto appigli alla verosimiglianza.

Un libro coincide con la lingua in cui è scritto, ossia con le parole che contiene; e se Carofiglio si fosse concentrato un po’ di più sui ritmi del barese e sulla visione del mondo (ossia di Bari) che il dialetto comporta, Né qui né altrove sarebbe risultato forse meno fruibile ma indubbiamente più rispondente alla realtà. Invece Carofiglio tenta qua e là di porre una distanza letteraria e standardizzata fra sé e la rutilante immediatezza delle strade della sua città, scivolando talvolta in scelte lessicali che ora lasciano perplesso ora tramortiscono l’eventuale lettore indigeno. Tanto per dire la più grave, suona strano quando Carofiglio racconta che i suoi due accompagnatori stanno parlando “della squadra di calcio del Bari”: questo perché dai nove mesi ai novantanove anni d’età qualsiasi barese ne parla al femminile, ossia come “la Bari”, nonostante il resto del mondo persista colpevolmente a declinarla al maschile.

Verso la fine della storia, nel breve volgere di una notte che racchiude in sé quasi quarant’anni di ricordi, spazio e tempo sembrano confondersi fino a far venire meno la netta distinzione fra itinerario e memoria, fra capitoli dispari e capitoli pari, fra perpendicolari e parallele: il tutto si fonde in un epilogo che, come i vicoletti della città vecchia, si diramano dal centro unico di un abisso sensoriale – nel caso specifico fomentato dalla propaganda pro focaccia barese, per acclamazione la più buona del mondo (se si estende il giudizio ai comuni limitrofi, non si può che essere d’accordo). Allora mi è venuta in mente una curiosa circostanza: prima ancora che iniziassi a leggere Né qui né altrove, avevo ricevuto due confidenziali recensioni, una entusiastica e una irritata. Quella entusiastica proveniva da una barese che lavora altrove; l’altra, da una barese che vive ancora lì. Ne ho dedotto che questo di Carofiglio è un buon libro, che va benissimo per chi non abita a Bari. Gli altri vorrebbero tutti scrivere il proprio.

[Gianrico Carofiglio, Né qui né altrove: una notte a Bari, Laterza (2008), 160 pagine, €10]

lunedì 26 gennaio 2009

Dialogo di un passeggere e di un venditore d'Almanacchi Panini

(Gurrado per Quasi Rete)

Non tornereste voi
a vivere cotesti vent’anni,
e anche tutto il tempo passato,
cominciando da che nasceste?
(Giacomo Leopardi)

“Ibrahimović! Ibrahimović, Ronaldinho, Amaurì! I più grandi campioni di ogni tempo sulla copertina del nuovo Almanacco…”

“Senta un po’, invece di strillare, che roba è che sta vendendo?”

“Il nuovo ultimissimo Panini, l’Almanacco Illustrato del Calcio 2009, come si può evincere dall’elegante scritta in verde su fondo azzurro cupo; l’opera che racchiude in sé tutte le statistiche dell’anno addietro e il prontuario di ciò che si deve sapere sulla stagione in corso, quella, come lei sa, migliore di ogni tempo.”

“Quasi non lo riconoscevo, così conciato, l’Almanacco, col fotomontaggio in copertina di Ibrahimović gigante frammezzo ai nanetti Ronaldinho, Amaurì e De Rossi. Si è che io ero abituato da ragazzo a vedere la copertina dedicata all’azione di un campione di questa o quella squadra ma quasi sempre con la divisa della nostra Nazionale, per evitare favoritismi e garantire un tono, come dire, istituzionale al volume.”

“Dovrà comprendere, illustrissimo, che la copertina rispecchia i tempi e i tempi dicono che da tre anni filati lo scudetto lo vince l’Inter, che quindi è la più grande squadra dell’universo, e che il medesimo Ibrahimović vince campionati in fila da quattro anni addirittura, cosa non da poco se si considera che giocava nella Juventus non più tardi del 2006. Tali informazioni le ritrova pari pari nell’anagrafe con le schede personali di tutti i calciatori di serie A e B, cento pagine quasi da Abate Ignazio, centrocampista del Torino, a Zuniga Juan Camilo, chiunque egli sia.”

“Cento pagine quasi! Io ben la ricordo l’anagrafe che apriva l’Almanacco di quand’ero io ragazzo, facciamo nell’edizione 1991 che mi porto sempre appresso per illudermi che il tempo non passi; e da Abate Beniamino, portiere indimenticato, a Zunico Giacomo, altrettanto indimenticato portiere, non correvano che cinquanta pagine, la metà.”

“La metà senza dubbio, illustrissimo, se non che i tempi cambiano: e quando lei era ragazzo, con rispetto parlando, le schede personali dei calciatori di serie A e B servivano a ripassare ciò che si era già imparato a memoria con l’album delle figurine o anche soltanto seguendo Novantesimo Minuto, ché tanto giocavano sempre gli stessi e non cambiavano quasi mai compagine; oggidì invece l’anagrafe è necessaria a slabirintarsi fra sconosciuti a centinaia, tanto che la figura dell’esotico la fa un lunatico tipo Maldini Paolo che dalla stagione 1984-1985 incolonna sempre Milan, Milan, Milan…”

“Me la ricordo, la stagione ’84-’85, e pure l’Almanacco che la precedé; aveva la foto di copertina confinata in una cornice laterale, con Conti Bruno che sembrava voler correrne fuori, ed è il primo di cui la mia memoria abbia contezza. Più simile a un manuale della Hoepli che a un carnevale di Rio, aveva questa severa patina di bianco e nero che scendeva sulle foto delle squadre in posa, via via che veniva presentata la stagione in corso, e che pareva tradurle dalla variopinta quotidianità delle alterne vicissitudini in campo all’immutabile monocromia della Storia…”

“Si fermi, ristia, illustrissimo; oggidì c’è il colore e la tipografia non è più composta a colpi di polpastrelli anneriti. Ricorda il rosso macchiato della Roma vincitrice dello scudetto nel 1983, o il pallore ceruleo del Napoli nel 1990? Guardi invece come risalta l’allegrezza del nero e dell’azzurro sulle maglie dei quarantasei effettivi necessari all’Inter per guadagnarsi l’ultimo scudetto! E che dire della cronaca del campionato scorso? Io serbo in magazzino anche degli Almanacchi arretrati, e potrei mostrarle esempi a frotte di tabellini a lutto, dove per avere un’idea della partita bisognava leggersi ogni rigo con lo stesso entusiasmo che si dedicherebbe all’elenco della Sip; e dove, per cumulo di ridicolaggine, la squadra che vinceva era sempre citata per prima e quella invece che giocava in casa era segnata con un fastidioso asterisco. Guardi ora invece che caleidoscopio, che panopticismo, che reiterato affresco di Michelangiolo! Per ogni giornata ci sono due foto in grande della medesima, e per ogni partita il risultato è evidenziato in giallo, e per ogni squadra viene riportata la maglietta precisa che ha indossato magari solo quel giorno.”

“Ma per far questo s’è dovuto allargare lo spazio da una a due pagine per giornata, ed è quindi venuta meno la sezione sulla storia dei campionati; che prima includeva i quadri con tutti i risultati stagione per stagione dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, e ora invece è ridotta a una pagina d’albo d’oro e alcune considerazioni sparse su tiratori scelti, vincitori di più campionati, rigoristi, sfide stracittadine; il tutto dopo la Coppa Italia per giunta.”

“Era un inutile peso che si ripercuoteva su ogni volume, sempre uguale con l’aggiunta di un campionato all’anno; e rubava tempo e rubava spazio. Ora invece potrà trovare gli stessi quadri coi risultati complessivi sì, ma di ogni girone della Serie D. Le pare nulla sapere con incrollabile certezza che Pontevecchio-Sansepolcro è finita 1-0 all’andata, e 0-2 al ritorno? Non le sembra tutta un’altra cosa la Serie C, ora che si chiama Lega Pro? Mica per caso sono stati inclusi i tabellini completi delle partite per playoff e playout, che quand’era ragazzo lei illustrissimo, con rispetto parlando, non si riusciva nemmeno a concepirli e veniva promosso, come se niente fosse, chi si piazzava più avanti in classifica: questo è fatto perché chiunque compri un’edizione dell’Almanacco conosca nel minimo dettaglio ogni goal che sia stato segnato nell’annata antecedente.”

“Al contrario invece prima l’Almanacco voleva che chiunque ne comprasse una qualsiasi edizione, sapesse tutto del calcio dalle origini a quel momento. Idem per le coppe e i trofei internazionali. Se mi permette di sfogliare quest’edizione del 1991 noterà che dei Mondiali e degli Europei sono riportati tutti i risultati delle fasi finali, e noterà…”

“Ma sull’Almanacco 2009 agli Europei è dedicato uno speciale di trentadue pagine nientemeno: con i risultati di tutte le edizioni precedenti e i tabellini di ogni finale; e tutti i tabellini e le fotocolor dell’edizione dell’ultima estate; e le statistiche con gli effettivi e i loro ritratti di tutte le sedici finaliste del 2008. Idem per la Champions League…”

“Ma in compenso converrà, buon uomo, che se le chiedessi di trovarmi sull’unghia la sezione dedicata al Campionato del Mondo o Coppa Jules Rimet, la competizione più importante che vi sia e che ci gloriamo di detenere ancora, sono sicuro che non l’acchiapperà affatto facilmente. Glielo dico io dov’è, prima che impazzisca e consumi le pagine sfogliando: consiste in nove righe in un angolino in alto a p.659, subito dopo l’albo d’oro del campionato mondiale militare, detenuto dall’Egitto, e il torneo under 17 asiatico, detenuto dal Giappone. Idem per le coppe Europee: a che pro pagine e pagine sull’ultima edizione della Champions League, con illustrazioni di maglie mutevoli come coriandoli gettati negli occhi, se poi la storia dalla quale dovrebbe trarre importanza è sintetizzata in una sola pagina di albo d’oro, con l’indicazione della finalista perdente ma senza specificare il risultato? Per non parlare della Coppa Uefa e della Coppa delle Coppe ormai clandestina, ridotte a scheletriche liste di vincitrici che, sant’Iddio, hanno tanto spazio quanto l’Intertoto. Invece quand’ero ragazzo io a ogni edizione di ogni coppa veniva dedicato il suo paragrafo di narrativa col tabellino della finale e non solo, pure l’elenco delle avversarie via via affrontate dalle italiane, fino a essere eliminate una a una o fino a che l’ultima superstite non arrivava in finale e magari vinceva. Ed era l’unica maniera d’immaginarsi l’Europa e conoscerla, leggendola sui nomi delle squadre esotiche di cinque o trent’anni prima; ma era anche l’unico metodo per rivivere a una a una decine di edizioni dei trofei che scandivano la nostra quotidianità, e restare col fiato sospeso per un Cesena-Magdeburgo del 1976.”

“Ma non è più il 1976, illustrissimo, è il 2009 ormai. Ed è cambiato il calcio, è cambiato il tempo, e quindi è cambiata anche la maniera di misurarlo e fissarlo in una qualche eternità. Per questo dunque la stagione in corso è sempre migliore e più importante di tutte le precedenti.”

“Mi scusi sa, ma lei da quanto vende di codesti Almanacchi?”

“Eh, saranno vent’anni oramai; ma con gli arretrati posso risalire con un po’ di sforzo al 1971, che lei nemmeno era nato. Ma desidera alfine comperarlo l’Almanacco Panini 2009?”

“Certo che lo compero, ci mancherebbe altro, non riesco a passare anno senza. E anzi mi faccia un favore, me ne alleghi anche uno di prima che nascessi, usato e logoro, scappato dalle cianfrusaglie di qualche bambino più vecchio di me.”

“E cosa, illustrissimo, se ne fa mai di un Almanacco scaduto?”

“Lo apro all’ultima pagina e leggo l’elenco delle squadre campioni nazionali e squadre vincitrici di coppa, così mi consolo anzitutto pensando che tutto il gran teatro pedatorio di ogni latitudine può essere riassunto in una sola facciata d’inchiostro. Poi aprirò all’ultima pagina anche l’edizione 2009 e raffronterò le squadre campioni nazionali e vincitrici di coppa di quest’altr’anno. Spero di trovarle il più possibile le stesse, e mi consolerò pensando che noi passiamo pure ma gli anni restano eguali.”

venerdì 23 gennaio 2009

Letterine letterarie (17)

Gurrado,
i nuovi barbari stanno trasformando la scuola primaria in una specie di ricovero temporaneo per bambini in pausa dalla spazzatura televisiva e dalla playstation. Stanno spazzando via decenni di conquiste pedagogiche, sperimentazioni, innovazioni all’avanguardia nell’Occidente. Invito te che sei molto intelligente e vicino a queste idee a dire la tua. Vorrei sapere come difendi questo scempio.
Livio


Io più che sulla scuola elementare, che visibilmente non funziona più dal 1991 (e io fortunatamente ne sono uscito nel 1990), sarebbe a dire dall'istituzione del Cerbero formativo ossia il maestro triplo, ho concentrato le mie attenzioni sull'università. Tendenzialmente mi sembra che il principio da cui è mossa la Gelmini, ovviamente su spinta di Berlusconi, è giusto in quanto punta sul taglio dei rami secchi. (L'università pubblica in Italia, a dire il vero, è quasi tutta un ramo secco ma purtroppo non la si può abolire in toto, nonostante le mie conclamate speranze al riguardo). Le elementari le conosco poco, avendo smesso di avere dieci anni molto tempo fa, ma da lontano mi pare evidente che buona parte dei maestri non sia in grado di fare il proprio mestiere, che i programmi siano ridondanti e ottimistici, che gli alunni andrebbero trattati con più pugno di ferro. L'estremo opposto, l'università, ha più o meno gli stessi mali: i professori guadagnano troppo ed evitano accuratamente di lavorare, i programmi d'esame sono l'istituzionalizzazione del superfluo, gli studenti sarebbe meglio se non ci fossero viste le facce che hanno (e qui non permetto a nessuno di contestarmi: sono tornato a vivere a Pavia da due anni e in mezza giornata posso presentarvi ventimila imbecilli). Se dovessi venire chiamato a trovare una soluzione per il sistema scolastico italiano (per quanto io non venga pagato per questo e quindi non mi sforzi adeguatamente), opterei per una soluzione di tipo inglese: scuole private a ogni livello, finanziate da imprese o enti che garantiscano la loro preminenza economica e monitorino la loro eccellenza accademica, nonché migliori della scuola pubblica; alunni delle scuole private così ripartiti: figli di ricchi, indipendentemente dalla loro intelligenza, che pagano l'iscrizione e figli di non ricchi che vengono selezionati in base a test d'ingresso e per i quali l'iscrizione è gratuita, attingendo dai pagamenti altrui. Questo a ogni livello: elementari, medie (se esiste ancora la scuola media), superiori e soprattutto università. Chi non passa il test d'ingresso fatti suoi, mica dobbiamo essere tutti laureati, con le difficoltà che s'incontrano oggi a trovare un muratore o un tubista (mentre se putacaso cercassi un avvocato verrebbero istantaneamente a citofonarmi in dieci). Io sono figlio di famiglia non ricca, ho sempre passato fior di test d'ingresso, ho fatto laurea e dottorato in ricchissimi istituti privati d'eccellenza per i quali non ho sborsato una lira (e che anzi ne hanno sborsate parecchie per me) e al momento mi ritrovo con una preparazione di un certo livello e se combino e posso combinare qualcosa lo devo a questo, di sicuro non al settore pubblico.

Antò,
con tutto il bene che ti voglio, il giorno in cui spenderò denaro per acquistare Il Giornale sarà il segno certo che non sono più in me.
Michela

Effettivamente quando eri uscita sul Manifesto me l'ero cavata con una fotocopia.

Vabbe' Gurrado, lasciamo perdere le tue riflesssioni su Obama ché senò potremmo arrivare tipo al duello. Ma ho letto bene? 85 chilogrammi? A qusto punto propongo, come sommo sostenitore della tua persona in quanto scrittore sublime, più che l'attività copulativa (la qual, vedo, pratichi): quella podistica. Un due tre, scarpette Adidas, anzi no ché son troppo liberal, diciamo allora scarpette Nike: e via a scorrazzar per la Padania.
ancora Livio

A dire il vero non più 85 kg ma 79, grazie al mutato regime alimentare che mi ha fatto perdere cinque kg nel primo mese, un altro nel secondo e nessuno più per il resto dei miei giorni (il corpo, anzi la panza, resta davvero un mistero insondabile): il tutto senza bisogno di ricorrere alla corsa. Correre ho corso a dire il vero, ma in vita mia solo a Oxford due anni fa, quando pur di arrivare alla fine della giornata ero disposto a fare qualsiasi cosa. Poi avevo interrotto per andare a un convegno a Parigi e, tornato nuovamente a Oxford, mi son detto che avevo da preparare i bagagli e non avrei avuto tempo di correre, visto che due giorni dopo sarei tornato a Modena; e a Modena uno mangia, prega, legge, scrive, fotte e quindi non ha nessun bisogno di correre da nessuna parte. In Italia dunque corro solo se inseguito; e a dire il vero non ricordo nemmeno di che marca siano le mie scarpe da tennis - e le Adidas, vabbe', Adidas sarà una marca liberal ma è pur sempre lo sponsor tecnico del Milan; questo mi rammenta di un motto immortale che mi è scappato letto su Facebook: in vino veritas, in scarpe adidas, in doccia badedas e in culo un ananas. Chiedo perdono alle vereconde signorine, se ancora ce ne sono, ma dubito invero.

Poi Gurrado,
non mi aspettavo da te dei pianti per Kakà... ma per molti penso che Kakà sia stato come per te Van Basten... quindi io se fossi milanista andrei su tutte le furie
.
Mirko

Ma sei interista. E se mi offrissero un sacco di soldi per andare a lavorare in Inghilterra, ci andrei o traccheggerei per giorni e giorni fino a comparire di notte affacciato alla finestra di camera mia nell'atto di sventolare anzi brandire la cravatta del Ghislieri? Fossi stato Kakà ci sarei andato, fossi stato il Milan l'avrei venduto: per considerazioni tecniche (dal gennaio 2008, ovvero da subito dopo la vittoria un po' kitsch nel Mondiale per club, Kakà non è più decisivo, ha perso la spinta propulsiva che fino all'anno prima lo portava a risolvere le partite da solo, prova ne siano i piazzamenti imbarazzanti in campionato), per considerazioni psicologiche (e non ha perso tale forza propulsiva perché si sia imbrocchito tutt'a un tratto, ma solo e soltanto perché non ha più voglia, passa le estati a minacciare di andarsene e gli inverni ad aspettare che arrivi l'estate), per considerazioni economiche (e nessun calciatore vale 120, 115, 100 milioni; forse nemmeno nessuna persona in assoluto: rifilandolo allo sceicco di Manchester il Milan ne avrebbe ricavato valsente abbastanza da comprarsi tre o forse anche quattro giocatori di ottimo livello, valutabili sui 30-35 milioni, intendo Adebayor o giù di lì, rifarsi la squadra e vincere davvero lo scudetto del 2010), per considerazioni storiche (e ormai le bandiere - Maldini, Totti, Del Piero, Zanetti - sono in via d'estinzione irreversibile e costringere un giocatore a restare restare restare solo perché un giorno ha distrattamente giurato amore eterno al Milan è inumano, infantile e controproducente), per ragioni filosofiche (e basta con la litania dei valori intramontabili del calcio e del cuore che batte indefesso sotto la maglietta a strisce, la verità è che è giusto andare dove si può guadagnare di più, lo farebbe chiunque, e che all'inverso nessuno ma proprio nessuno è mai insostituibile, nel calcio come altrove), infine per ragioni antipopuliste (e invece ora mi tocca stare a sentire tifosi del Milan che guadagnano, che so, 800 euri al mese, spendendone metà in stadio, Sky e Gazzette, entusiasmarsi per l'eroismo col quale Kakà ha deciso di ascoltare le ragioni del cuore e rinunciare a guadagnare 15 milioni annui ma limitarsi a una decina). Né capisco che senso abbia comparire di notte affacciato alla finestra di casa sua nell'atto di sventolare anzi brandire la maglietta del Milan per significare che no, non va al Manchester City a gennaio, va al Real Madrid a luglio.

giovedì 22 gennaio 2009

Gurrado recensisce Playboy



Se stamattina passate da un'edicola trovate Il Giornale con in allegato Tempi con dentro due pagine in cui Gurrado recensisce abbondantemente la nuova edizione italiana di Playboy.







E non fate finta di confondervi: non dovete comprare Playboy per leggere Gurrado che recensisce Tempi, ma comprare Tempi per leggere Gurrado che recensisce il coniglietto (e le conigliette).



mercoledì 21 gennaio 2009

Fuga dalla provincia emiliana

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Si potrebbe ravvisare un’apparente discrepanza nella paginetta conclusiva de L’emiliana che Carla Cerati dedica ai ringraziamenti: nel breve giro di tre capoversi definisce il suo ultimo libro prima “racconto” e poi “romanzo”. Presumendo fondatamente che la trentennale carriera letteraria consenta alla Cerati di distinguere senza difficoltà l’uno dall’altro, è interessante domandarsi a quale dei due generi vada ascritto il testo in questione. Romanzo senz’altro, se consideriamo non tanto le dimensioni (ormai siamo abituati a romanzi ben più brevi di centosessanta pagine, per quanto queste possano essere stampate con un carattere comodo) quanto soprattutto la struttura: L’emiliana si compone infatti di quattro parti di lunghezza più o meno costante – con la seconda che un po’ difetta – scandite dai principali cambiamenti avvenuti nel fluire della vita di Emilia, l’emiliana del titolo, che piuttosto scopertamente dovrebbe essere destinata a incarnare tutta la sua felice regione geografica.

Se la struttura è romanzesca, L’emiliana mantiene tuttavia un’andatura narrativa molto più simile al racconto lungo. È anzi decisamente da considerarsi racconto, proprio nel senso di resoconto, se si considerano i numerosi inserti con i quali la narratrice corrobora la storia di Emilia, piazzando qua e là delle testimonianze simil-documentaristiche che riportano fugaci testimonianze della protagonista. Queste testimonianze, tuttavia, vengono inserite ora fra virgolette ora in corsivo all’interno delle stesse frasi della narratrice e, lungi dal sortire l’auspicato effetto-vero, finiscono per spezzare il ritmo del discorso o peggio ancora per renderlo oltremodo artificioso, forzatamente giornalistico: “Emilia subiva l’autorevolezza di sua madre, più tardi la definì una dura”.

La vita della protagonista scorre liscia, fin troppo, nonostante la sua passione per il ballo (mah) e per il circo (mah) la spinga a tentare sempre nuove vie di fuga dalla provincia emiliana; in circostanze simili sarebbe compito della prosa dell’autrice vivacizzare la narrazione. Ciò purtroppo raramente avviene: il lessico è limitato a pochi rassicuranti lemmi, la loro disposizione nella frase è sempre la più consueta (soggetto-predicato-complemento), i periodi sono piuttosto brevi e non nascondono mai l’aspirazione a una costruzione sintattica che possa sorprendere e risvegliare il lettore.

Anche la struttura narrativa finisce per deludere, con il suo continuo procedere nel tempo a velocità di crociera, descrivendo una linea retta che prende Emilia alle elementari e ce la riconsegna donna fatta e maturata dagli eventi più o meno tristi di cui si compone la sua esistenza. Non solo non è presente il minimo scarto narrativo, tale da far preferire determinate pagine alle altre presentando delle scene clou per il prosieguo del resoconto, ma è del tutto assente anche qualsiasi sarcasmo o ironia nel procedere della narrazione, così che la figura della voce narrante risulti fin troppo aderente alla protagonista di cui offre la cronistoria – finendo per rendere inverosimili, a maggior ragione, le testimonianze virgolettate cui facevo riferimento prima. Perfino il rinomato umorismo emiliano, relegato a un paio di personaggi di passaggio in sottofondo, viene annacquato in un buonismo eccessivo, che rientra nel più generale disegno – dal quale la Cerati si fa troppo spesso prendere la mano – di spiegare pedissequamente ogni minimo dettaglio al lettore, così da non lasciar nulla alle sue facoltà intellettive. Tanto che di fronte al (chissà, forse legittimo) dubbio di una Tedesca che prima di darle un lavoro vuol sapere se Emilia venga da Napoli o da Milano, l’autrice si sente in dovere di illustrare: “Una domanda che conteneva un giudizio: i milanesi erano considerati puliti e affidabili, i napoletani sporchi e un po’ imbroglioni”.

L’emiliana è un romanzo in cui abbondano l’imperfetto e il trapassato prossimo, ossia i tempi verbali di chi pone intenzionalmente una distanza fra sé e ciò che narra; una distanza romantica, sulla quale cullarsi, fatta di rimpianto per una realtà idealizzata e stereotipa. C’è la trama, dunque, ma mancano del tutto la vivacità linguistica, lo scavo psicologico – e tutto ciò che consentirebbe di trovare un’identità precisa a questo libro che non è più un racconto e non è ancora un romanzo.

martedì 20 gennaio 2009

Commander in chief

Mi sorprende che una persona brillante come Peter Sloterdijk, l’ultimo filosofo, concluda un’intervista allo scorso numero del domenicale del Sole 24 ore con la considerazione che quest’Obama, col suo solo venire eletto, ha cambiato il mondo. Ho avuto modo di leggere Sloterdijk e di ascoltarlo di persona molto a lungo, quindi so per certo che una considerazione del genere non è all’altezza della sua intelligenza né del restante contenuto della sua pur breve intervista. Tuttavia trovo improbabile che si tratti di un’interpolazione creativa dell’intervistatore, che magari s’è limitato a prendere una considerazione interlocutoria di Sloterdijk e a collocarla con estremo risalto lì dove non meritava di essere. Quest’Obama, col suo solo venire eletto, non ha cambiato una mazza – non c’è bisogno di essere filosofi per capirlo. E col nome che si ritrova, se qualcosa cambierà sarà in peggio. Ne segue che l’unica cosa che gli Stati Uniti e il mondo possano augurarsi è che Obama eviti di distinguersi anche solo minimamente dall’amministrazione Bush jr.


Noi Italiani spesso riteniamo di dover parlare solo perché abbiamo un terzo buco sotto le narici, e andiamo elencando gli errori dell’amministrazione Bush jr e della dottrina che la supportava. Le sue colpe principali sono state quelle di voler difendere il suo Paese e di volerlo fare sulla base di principii generalissimi accettabili per tutto l’Occidente. Era in pieno diritto di fare entrambe le cose, e chi l’ha contestato in altri tempi veniva definito disfattista.

Chi lo critica solo per la politica estera non tiene conto di quanto compiuto sul fronte interno a cominciare dal No Child Left Behind Act, praticamente il giorno dopo del suo insediamento otto anni fa. Tendenzialmente è stato evidente il suo tentativo di lasciarsi alle spalle un’America migliore. Chi lo critica per la politica economica non s’è reso conto che dall’inizio del 2001 alla fine del 2008 gli USA hanno avuto uno sviluppo certificato del 18%, più di qualsiasi altra nazione al mondo. Chi lo critica per la politica militare avrebbe dovuto trovarsi nei pressi delle Torri Gemelle e non a concionare dal divano di casa propria.

In assoluto, l’amministrazione Bush jr s’è sporcata le mani più dell’amministrazione Clinton, e anzi ha passato il primo mandato a risolvere i problemi che ne aveva ricevuto in eredità. Questo con tutti gli errori che prima o poi commette chi decide di combinare qualcosa. Se uno non fa nulla, sicuramente non sbaglia mai.

Non sono Americano e quindi non posso giudicare appieno, ma come Occidentale ho avuto l’impressione che Bush jr fosse fra i vari Presidenti di cui ho avuto contezza quello che ha voluto agire di più, in assoluto, e che ha voluto farlo non considerandosi solo capo di una nazione ma primo e più potente fra i capi di nazioni riuniti dagli stessi ideali.

La più alta garanzia sulla politica di Bush jr è stata la sua radicalità pro-life, che è il punto irrinunciabile sul quale si sono poggiate tutte le sue altre battaglie.

E così, dopo otto anni passati a tentare di salvare il salvabile combattendo uno che si chiamava Hussein e uno che si chiama Osama, l’America oggi si consegna a uno che si chiama Hussein Obama. Bel progresso. E quando Bush sarà rimpianto dall’America e dall’Occidente, allora vorrà dire che quest’Obama ce lo siamo meritati.

lunedì 19 gennaio 2009

Tutto il calcio in un minuto

(Gurrado per Quasi Rete)

Qui davanti ho il televisore e la finestra. Cosa c’è nel televisore, quando lo accendo, lo sapete già: la Rai, Mediaset, La7 e le caratteristiche reti appulo-lucane (niente abbonamento a Sky). Sulla finestra vi devo qualche spiegazione in più. La casa dei miei genitori si affaccia su una scuola elementare che per tutta l’infanzia ho frequentato ogni mattina e guardato ogni pomeriggio. Davanti alla scuola c’è uno spiazzo, un cortile recintato che ne percorre l’intera facciata: era il posto dove al mattino gli alunni si riunivano alla rinfusa per poi entrare in ordine di classe e di sezione, e dove all’ora di pranzo i maestri unici li riaccompagnavano in fila, cominciando dalle prime e finendo con le quinte, per ordinare lo sciogliete le righe e restituirli al disordine familiare e cittadino. Questo fino al 1990: poi, con la riforma del maestro triplo, è misteriosamente svanito anche questo rito in favore dell’ingresso selvaggio, ma è un altro discorso.

Ciò che conta è che questo medesimo spiazzo, finito l’orario scolastico, diventa ora come allora il principale stadio per il calcio di strada, il che conferisce un ragguardevole valore aggiunto alla finestra e a tutta la casa dei miei. I bambini si davano appuntamento lì e piuttosto che disputare vere e proprie partite si dividevano in gruppetti, il muro era la rete e il cornicione la traversa, per riprodurre singoli gesti tecnici che avevano visto in televisione. La distribuzione più consueta era l’uno contro uno: questo faceva l’attaccante e quello il portiere. Meglio, uno rifaceva quello che aveva visto fare in tv dal tale attaccante, e l’altro dichiarava di volta in volta di abbassare la saracinesca del Milan, della Juve, della Germania Ovest o più modestamente del Bari.

Quand’ero bambino anch’io si spacciavano per Maradona e Zenga, Giovanni Galli e Roberto Baggio, Gullit e Tacconi. Ai tempi del liceo, un mio compagno di classe diventava Peter Schmeichel due volte a settimana. Io sono stato Ronaldo una volta sola, ma solo perché mi ero rasato a zero. Oggi, i figli di quelli che fingevano di essere Platini dichiarano di essere Giovinco.

Quando le partite venivano giocate di pomeriggio, l’adiacenza fra televisore e finestra mi consentiva gustosi raffronti contemporanei. Ma anche la differita non era male: affacciandomi di lunedì pomeriggio, nel caparbio tentativo di non imparare il Greco, ho potuto assistere alla riproduzione in miniatura della rovesciata di Vialli contro la Cremonese, della palombella viola di Del Piero alla Fiorentina, del coast-to-coast di Weah contro il Verona – ossia l’unica volta che ho visto una squadra segnare su un calcio d’angolo per gli avversari. La replica infantile del campionato del giorno prima era limitata alle azioni principali e piuttosto che sull’andamento della partita preferivano concentrarsi sul singolo gesto tecnico: lo pseudo-Vialli si sistemava spalle alla porta, lanciava la palla al cielo e sulla ricaduta tentava la rovesciata. Non ci riusciva e riprovava. Se ci riusciva riprovava lo stesso. Nel frattempo veniva travolto dallo pseudo-Weah che si era fatto allungare la palla da un passante e arrivava come l’uragano dal lato opposto del cortile. Per il portiere non faceva differenza, lui dichiarava di essere chissà chi ma al massimo gli riusciva Garella, e si gettava a corpo morto per respingere qualsiasi cosa gli tirassero: con le ginocchia, con le unghie, con la faccia e – quand’anche la palla impattasse il muro pieno – negava la rete dicendo che era palo. Di solito questo circo cominciava con un rigore, tanto per prendere confidenza.

Alessio Scarpi era portiere della primavera del Cagliari quando io avevo appena abbandonato le scuole elementari. Ora fa il portiere di riserva al Genoa, ed è l’unico a poter testimoniare personalmente l’inquietante somiglianza fra il facciume di Diego Milito e il naso triste di Enzo Francescoli. In Coppa Italia, martedì scorso, s’è trovato a dover contenere l’Inter sapendo che il i basilari elementi di capitalismo pedatorio impongono che trovandosi di fronte ad Adriano, Zanetti e Maicon non ci sia nessuna speranza per i portieri di riserva che hanno tutt’al più trascorso un’onesta carriera invecchiando nella Reggina e nell’Ancona.

Questo deve aver pensato quando la partita è iniziata davvero e Adriano già stava sistemando la palla sul dischetto, tanto per prendere confidenza: lui è Adriano, ergo non c’è speranza per Alessio Scarpi. E allora pùm: nell’istante stesso in cui Adriano mirava angolato e dritto, nella rete del Genoa s’è materializzato Goycochea, s’è allungato a spingere la palla lontano dal palo e mentre Adriano restava a capo chino, Alessio Scarpi urlava posseduto.

Da quel momento in poi, Alessio Scarpi non c’era più. Adriano correva, sbuffava, si levava gli avversari di dosso, tirava da vicino e da lontano – dalla porta del Genoa gli rispondeva ogni volta un portiere diverso. Adriano provava di testa, e veniva respinto da Gordon Banks. Si avventava sulla palla con una rovesciata, e trovava ad aspettarlo Ladislao Mazurkiewicz. Riusciva finalmente a segnare, ed era Gilmar a raccattare la palla dal sacco e a rispedirla veloce verso i compagni perché rimediassero velocemente all’infortunio.

Per cento minuti Alessio Scarpi è stato Zoff, Jongbloed, Sepp Maier, Maspoli, Zamora e Dio solo sa chi altro; non era più un trentaseienne in gita premio a San Siro ma un bambino nel cortile sotto casa sua o sotto casa mia, e questo bastava a renderlo invincibile. Al decimo dei supplementari, per fregarlo c’è voluto uno che sa applicare sempre questo stesso trucchetto: Zlatan Ibrahimović il quale – se guardate al rallenty – al momento di tirare soffia sul pallone e dice: “Sono Van Basten”, oppure “sono Pelè”, o “sono Crujff, sono Eusebio, sono Kevin Keegan”. Lo diventa e tira.

Nel minuto in cui Crujff, Eusebio e Keegan, sotto le comuni mentite spoglie di Zlatan Ibrahimović, lasciavano partire potente e secco un tirone da fuori area, Alessio Scarpi stava decidendo se essere Jascin o Higuita. Il tempo di pensarci e diventava Garella: il pallone gli sbatteva sulle braccia, o sul petto, o sul naso, e lui non riusciva a vedere chi lo ribatteva fulmineamente in rete. Tentava di rialzarsi dicendo: “Non vale”, ma era inutile: il bambino nel cortile era stato sconfitto, e restava solamente Alessio Scarpi minuscolo in un San Siro enorme e nerazzurro.

[Poiché ieri in serie A non c’è stato alcun risultato sorprendente, sulla stretta attualità mi limito a una considerazione di carattere generale: Kakà è Kakà, ma i soldi sono soldi.]

venerdì 16 gennaio 2009

Letterine letterarie (16)

Gurrado,
parlaci d’amore. Qui si parla di libri, di calcio, di altri libri, di pubblicazioni diverse, ancora di libri, di Papi e di carriera. Complimenti, ma non ti sembra che sia arrivato il momento di altre escalation, non solo professionali? Non pensi che sia tempo di sposarti, cioè, di organizzarti in vista di un futuro matrimonio? Forse non ti senti portato al matrimonio perché non ti senti pronto a garantire stabilità e fedeltà, ma come puoi vederti solo, benché magari eroticamente attivo, per il resto della vita? Niente compagne, niente figli, solo libri? Sono sicura che fra dieci anni ti ritrovo con una moglie, varia prole e una decina di tristi amanti. Ci tengo a specificare che questa non è una proposta di fidanzamento, anche perché a me i fidanzamenti non piacciono: li ritengo passaggi intermedi inutili e devastanti. Qualora un giorno dovessi incontrare qualcuno di diverso, lo sposerei in meno di un mese.
Maria

Maria, quest’anno è appena iniziato ma vorrei che finisse in fretta perché mi ci sono ritrovato con un sacco di cose da fare, professionalmente parlando, e le escalation estranee alla carriera finirebbero per farmi perdere del tempo che già non ho. Questo almeno per quel che riguarda le escalation erotiche; per quel che riguarda le escalation sentimentali, l’adolescenza è finita da molto tempo e mi stupisce quando amiche di, che so io, magari trentadue, trentatre, trentacinque anni mi mandano l’augurio di trovare (per sé e per me) un amore per sempre (fermo restando che lo augurano per sé e per me separatamente, almeno spero). Sarò cinico ma dico io, non hai trovato l’amore per sempre a quindici anni, non l’hai trovato a venti, non l’hai trovato a ventinove trenta trentuno e ti metti a cercarlo quando rotoli verso la quarantina? O si tratta di una frase di circostanza, un po’ come quando si dice che mangiando lenticchie al 31 si guadagnano molti soldi a partire dall’1, o si tratta di una pia intenzione, come quando si decide di dimagrire e nel frattempo si continua a festeggiare indefessi, o si tratta di un tentativo più o meno patetico di convincersi che c’è ancora uno spiraglio, un po’ come quando si pensa che il 2009 sarà meglio del 2008 e intanto l’invasione mussulmana del mondo civile procede senza tentennamenti (esclusi i tentennamenti del mondo civile, ovvio). Il fatto che personalmente oggidì non mi senta chiamato al matrimonio più di quanto non mi senta chiamato al sacerdozio (anzi, anche meno magari, non fosse che il sacerdozio presenta alcune clausole sulla castità che mi aprirebbero dei contenziosi) non toglie che il matrimonio degli altri sia un’istituzione che sostengo volentieri e me l’augurerei io stesso se non sapessi di essere alla lunga poco domestico e quindi inadatto a svegliarmi ogni mattina per trovare sempre la stessa persona tra i piedi in casa mia. Diciamo che preferirei evitare tutto l’armamentario di rendiconto, pretese, lamentele, senso del dovere incombente, minacce implicite che si porta dietro il fidanzamento prima e il matrimonio poi. Proprio mi secca l’idea di dover rendere conto a qualcuno di quello che faccio – indipendentemente dalla fedeltà, che tradizionalmente ha poco a che fare col sacro vincolo del matrimonio, parlo anche solo del voler andare a fare un weekend a Padova, o del vedere una partita di Coppa Italia per conto mio, o del leggere in silenzio, o dell’andare a Messa di mattina presto, o di lasciare le cose mie lì dove le ho messe e non dove verrebbero inevitabilmente spostate. Non che la prospettiva mi sorrida, ovviamente, ma al momento non sembro promettere di meglio. L’alternativa dell’accoppiamento forzato mi sembra ancora più triste e l’attività erotica in sé e per sé alla lunga è stancante e interferisce notevolmente con la carriera, a meno di finalizzare la prima alla seconda – cosa che tradizionalmente però riesce meglio alle femminucce. E fra dieci anni chissà, la mia non è una promessa (non mi sposerò, etc.) ma solo il delineamento di quella che al momento mi sembra la strada più verosimilmente praticabile. Poi cambiano circostanze ed esigenze, ovviamente – ma non sempre cambiano in meglio: ragionando mi sembra lampante che verso la metà del XXI secolo sarà molto difficile che un eventuale figlio si sistemi prima dei venticinque-ventisette anni, e che quindi per evitare di mantenerlo fino a quando si va in pensione sarebbe meglio farlo entro i trentacinque anni, ma è meglio non fare un figlio solo quindi se il secondo va fatto entro i trentacinque il primo va fatto intorno ai trentatre, e guai a chi fa figli senza sposarsi, quindi bisogna sposarsi entro i trentadue, ma se vogliamo fare almeno un periodo di matrimonio senza figli per ambientarsi a casa, calibrare la coppia, etc etc., bisognerebbe sposarsi entro i trent’anni ma prima di sposarsi sarebbe bene restare fidanzati un paio d’anni per capire se ne valga la pena (poiché superare un Natale coi parenti acquisiti può essere fortuna, superarne due è talento), quindi bisognerebbe trovare la fidanzata definitiva a ventott’anni, e anche se sembro giovane sono ormai all’ultima cartuccia e molto probabilmente è bagnata – quindi meglio pensare al lavoro e alla carriera e fidanzarsi coi libri altrui e con la propria gloria. Auguri per il tuo venturo matrimonio-lampo ma cerca di ricordare questo, anche se non è scritto sui Baci Perugina: nessuno è diverso, al massimo può essere un po’ peggio.

…marziane queste trasmissioni in cui si possono guadagnare centinaia di migliaia di euro senza saper fare nulla.
Walter

Scusi, e lei?