La donna è un surrogato della masturbazione.
Ovviamente ci vuole un sovrappiù di fantasia.
(Karl Krauss)
Ovviamente ci vuole un sovrappiù di fantasia.
(Karl Krauss)
Poi magari uno si sbaglia: vede Francesco Alberoni all’inizio, Claudio Sabelli Fioretti alla fine, e deduce di aver erroneamente speso tre euri per comprare un ibrido fra il magazine del Corriere della Sera e il cosone illustrato che si trova (si trovava?) sul retro dei sedili Alitalia, rigonfio di consigli di viaggio in mete esotiche che, nella maggior parte dei casi, non coincidono con la destinazione dell’aereomobile a meno di non volerlo dirottare e pregare che il carburante sia sufficiente all’uopo. Per fugare ogni dubbio, occorre controllare innanzitutto il paginone centrale: se c’è una signorina piegata in tre – intendo la pagina, non la signorina, anche se occasionalmente le due circostanze possono coesistere – avete indubbiamente in mano Playboy. Altrimenti non voglio saperlo.
La signorina c’è: si chiama Sarah Nile e a una conoscenza più approfondita risulta venire da Napoli, cosa che delude chi, me per primo, vorrebbe che Playboy garantisse a ogni latitudine uno spicchio d’America e sperava quindi che il suo nome si pronunziasse Seranàil. Scoprire che invece ha partecipato a Veline (perdendo in finale) aggiunge il danno alla beffa, esacerbata dall’evenienza che nel tripartito paginone centrale la signorina è sistemata nell’unica posizione in cui una donna nuda non differisce gran che da una vestita – non vi spiego qual è, fate le prove per conto vostro. Per fortuna c’è un’altra dozzina di foto di contorno scattate con l’esplicito intento di far dimenticare il paginone centrale e, per estensione, la partecipazione a Veline. Il maschio vuol essere blandito.
Appurato che nonostante Alberoni si tratta effettivamente di Playboy, il primo numero atteso una ventina d’anni della nuova edizione italiana, va specificato che a dire il vero davanti ad Alberoni ci sono 15 (quindici) pagine di pubblicità patinatissime. Alberoni, che (giuro!) spiega la differenza fra maschi e femmine, arriva quando il lettore incuriosito ha perso ogni speranza che il giornale inizi prima o poi. Lo stesso giochino di vedo non vedo, dico non dico, inzio non inizio è annunziato, in sedicesimo, nella copertina sulla quale è effigiato il volto di tale Caterina Murino, che non so chi sia né voglio saperlo visto che nemmeno si spoglia sul serio: detta copertina è aperta da uno spacco in mezzo, come un sipario anzi come le ante di un armadio, ottenendo non solo il curioso effetto che
Timoroso di aver sbagliato copertina (né mi sento di dargli torto), Playboy Italia si premura di informare che la foto esposta è opera di Brian Adams, con annesso servizio interno – di fronte al quale l’intervista a Jovanotti non può che arrossire e chiedere scusa per quanto siamo provinciali. Non riusciamo a concepire l’edizione italiana di un periodico internazionale senza schiaffarci dentro una presunta autorità locale che con la sua sola svogliata presenza dia lustro a un marchio che, per storia e qualità, non ne avrebbe bisogno. Non so voi ma io compro Playboy perché sulla sua prima copertina c’era Marylin Monroe, quando mio padre aveva otto anni, e non perché speri di trovarci l’intervista a Jovanotti. Il maschio vuol essere inserito in una storia più grande di lui.
E non dite che uno lo compra per vedere le donne nude, anzi. Playboy è così: non c’è giornale nel quale le donne nude siano più decorative, più succedanee, più inutili. Primo perché donne nude ormai ce n’è a bizzeffe ovunque, anche quando non le si vuole o si sta pensando a tutt’altro; soprattutto perché Playboy è un marchio che ha avuto successo per il mezzo e non per il fine, riuscendo a veicolare le conigliette con un contorno di alto livello che giustificava e redimeva quasi la loro nudità. Se scorrete le annate di Playboy, oltre a correre il rischio di diventare ciechi sull’istante, vi renderete conto che le sue pagine hanno ospitato fotografi d’arte, inchieste di tendenza, interviste storiche e autori di culto – uno per tutti, Ian Fleming. Il che rientra nel vasto progetto di intrattenimento per adulti di Hugh Hefner il quale ha capito come, per vincere la sua scommessa, l’accento (qualitativo) del tutto non doveva essere calcato sul “per adulti” ma sull’intrattenimento di alto livello, lieve e ammiccante al contempo. Non è facile insegnare quello che nel sottotitolo dell’edizione italiana diventa “il piacere di vivere da uomo”. Leggere un’intervista a Woody Allen, un racconto di Philip Roth o l’anteprima dell’album di John Lennon fa sempre e ovunque piacere; assume un che di sulfureo se si può farlo nascondendosi dietro una copertina scollacciata. Il maschio vuol essere rallegrato.
Questa scommessa è stata vinta, e prima ancora recepita, dall’edizione italiana? Alberoni e Sabelli Fioretti a parte, promette benone la ridda di curiosità e aneddoti cheeky raccolti nelle pagine introduttive, dove si scopre l’esistenza di un vibratore musicale, collegabile all’Ipod ma non scendo in dettagli, e dove viene altresì confermato che ovviamente tutte le ragazze sono profondamente bisessuali, a cominciare dalle più gnocche. Non sono ammessi dubbi al riguardo: sarebbe come se un giornale per bambini non si peritasse di confermare l’esistenza di Babbo Natale. Il maschio vuol essere coccolato. Se uno non ci crede, azzarda l’articolista, provi a mostrare questa stessa copia di Playboy a una sua amica e ne monitori la reazione di fronte alla profusione di conigliette. Io l’ho fatto e l’unica reazione che ne ho ricavato è stato il contenuto stupore dell’amica in questione di fronte al sondaggio che svela come il personaggio più sexy dello scenario internazionale sia l’ovvio Obama, col 58%, ma ex aequo con il decisamente meno ovvio Berlusconi. Tanto per dire, Nicolas Sarkozy in Bruni è al 44%; Zapatero al 40; Gordon Brown, comprensibilmente, all’11 – ma se ciò implica che una donna su dieci e attratta da lui, be’, è comunque il risultato più sorprendente del bigoncio. Il maschio vuol essere rassicurato.
In queste pagine introduttive spiccano gli interventi di Michele Dalai, che narra l’amore impossibile fra uno svitato e la sua panchina, e soprattutto di Andrea G. Pinketts, il cui intervento resta tuttavia misteriosamente incompiuto a metà di una frase (“anche se lo chiamavano la piccola” – e poi?). La letteratura è sempre stata il fiore all’occhiello di Playboy, sempre nell’ambito del progetto di ridefinizione dell’intrattenimento che mira a far sentire un po’ camionisti gli intellettuali e viceversa. Quella che ospita nelle sue pagine è letteratura del disimpegno; nel primo numero italiano tocca a Ron Carlson – non propriamente mister nessuno – con Le donne di Moab, del quale non vi anticipo nulla se non la tramortente domanda: “Chi non è solo?”. Converrete che domande del genere non starebbero bene in un rotocalco per porci (se avessi voglia, a questo punto seguirebbe una lunga tirata sul “se avete domande da porci” di Achille Campanile; ma non ho voglia, quindi vedetevela voi). Il maschio vuol essere interrogato.
Su Playboy invece la domanda non stona; e fa il paio con quella inversa ma altrettanto rimbombante – posta a più d’un intervistato nello stesso numero – su dove e come sia stato consumato il primo rapporto, visivo intendo, dell’intervistato col rotocalco per il quale sta rispondendo. Intervistare qualcuno chiedendogli quando ha visto il suo primo Playboy, anzi quando l’ha sbirciato, implica varie cose: che l’organo sul quale finisce l’intervista sia più importante del personaggio, e che questi lo riconosca abbozzando una specie di genuflessione; che Playboy sia un organo stampa che si compiace di essere quasi illegittimo ed enormemente diffuso, come la letteratura clandestina del ’700; che la sua fruizione porti a un affratellamento un po’ esibizionistico per quanto sia ogni volta necessariamente solitaria (vabbe’, io me lo sono letto di sabato pomeriggio mentre prendevo il caffè in piazza con l’amica di cui sopra, ma forse non faccio testo). Il maschio vuol essere rassicurato.
Chi non è solo, dunque, almeno quando legge Playboy? La domanda di Ron Carlson trova un’inaspettata eco nel bell’intervento di Antonella Landi sulla “sostanziale solitudine” di Giacomo Casanova, dovuto omaggio all’ideale al quale l’edizione italiana di Playboy dovrebbe tendere, magari pubblicando estratti dai Mémoires invece di intervistare Jovanotti, come abbiamo visto, o fare anche di peggio, come vedremo – suspense, suspense. Sulla stessa lunghezza d’onda, ottimo il dossier di Felice Manti sui sexygate e più in generale sulla commistione fra sesso e potere, biechi istinti di dominio privato che schiantano altrettanto bieche aspirazioni di dominio pubblico. Il maschio vuol essere informato di tutto.
Ma, fermo restando che un numero solo non è indicativo e che bisognerebbe analizzare l’annata nel suo complesso, non è tutto rose e fiori. Le dodici pagine di moda maschile sembrano scappate da Donna Moderna. La pagina delle recensioni librarie, curata da Andrea Marrone, parrebbe promettere l’ingresso in una biblioteca infernale (I numeri del sesso, di Sarah Hedley; Fucking Girl, di Miss S.; Taccuino di una sbronza, di Paolo Roversi) e invece tracolla su Viaggio in un’Italia diversa – che non è una guida ai citofoni delle più rinomate drag queen patrie ma l’annuale asessuata fatica di Bruno Vespa. Playboy Italia cerca di forzare l’equilibrio fra corpo e cervello che il Playboy anglofono ottiene naturalmente, un po’ per talento un po’ per esperienza: a ben guardare, le foto di macchine potenti e paccottiglia hi-tech sono quasi preponderanti rispetto agli otto semiposter delle otto signorine provenienti dalla Mansion (menzion d’onore per Iryna Olhovska, ma anche Inna Popenko, giuro che si chiama davvero così, non è male: il che conferma che il futuro è sempre più a oriente). Per ora va bene così ma, dato il mio assoluto disinteresse per automobili a settemila cavalli e telefonini che scaldano i toast, la prossima volta preferirei una maggior compenetrazione fra le due sezioni. Il maschio vuol essere omogeneo.
Per ora va bene così, dunque, tuttavia la provincialata è sempre dietro l’angolo: Playboy Italia ci casca con tutte le scarpe da pagina
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