giovedì 30 ottobre 2008

Il paradosso terrestre


La cosa curiosa è che proprio oggi non ho avuto un attimo per lo sciopero generale, altrui, perché è tutto il giorno che lavoro come un cane, io.

mercoledì 29 ottobre 2008

Dentro la protesta

La studentessa vien dalla campagna e non si capacita di perché mai i professori dell’Università degli Studi di Pavia seguitino indefessi a far lezione anche e soprattutto durante le assemblee indette dai collettivi universitari. Probabilmente perché costei, da poco abbandonato il liceo, è abituata alla tacita alternanza che consentiva la sospensione delle lezioni un giorno al mese per l’assemblea d’istituto, più due ore al mese per l’assemblea di classe. All’università evidentemente non è più così; ragion per cui lo studente è libero di non presentarsi quando sa che il professore fa lezione e per contro il professore è libero di far lezione quando sa che gli studenti sono impegnati altrove (né ci vuol tanto per saperlo, ci sono manifesti su tutta la sede centrale dell’ateneo nonché nelle sue varie metastasi in giro per la città): quindi, ognuno per sé e Dio per tutti. Ma non è questo il punto.

Il punto è che, da un lato, la protesta degli studenti è endemica. Tendenzialmente, arriva ottobre e protestano, un po’ come arriva la primavera e si accoppiano. Se ottobre arriva portando con sé un governo di destra, la protesta è quintuplicata – è noto infatti che la cultura è un affare interno alla sinistra, e chi s’intromette si brucia. Se il governo di destra si azzarda a toccare l’università, la protesta viene decuplicata, centuplicata, spezzettata in infiniti rivoli che si convincono di essere un unico enorme fiume in piena e invece sono scarico di fogna.

Ma forse il punto non è nemmeno questo. Il punto è che ogni tot anni gli studenti si mettono in testa di rifare il ’68. Se capita un anno con l’8 finale, poi, alla protesta si unisce la celebrazione tronfia. Anzi nessuno mi leva dalla testa che quest’autunno caldo (si fa per dire; qui piove che Berlusconi la manda; piove sui giusti e sugli ingiusti, su scioperanti e scioperati, sui cortili e sui cortei) sia stato scientificamente preparato con lo stillicidio di mitologia sessantottarda nelle menti dei poveri studenti i quali, frequentando l’università, hanno molto tempo libero e trovano modo di credersi chissà chi o chissà cosa, dandosi arie di superiorità antropologica e sfociando spesso in un serioso e becero moralismo intellettuale. Gli Studenti per la Libertà avevano impostato tutta la scorsa campagna elettorale universitaria sullo slogan: meno sessantotto, più sessantanove.

Che poi i capi di questa rivolta – presunta rivolta che lascia più o meno indifferente una città refrattaria a tutto com’è Pavia, tanto che ieri il serpentone di protesta annunziato dal tremendismo barricadero s’è risolto in un serpentino viscido che sotto la sede centrale dell’ateneo intimava anzi implorava col megafono “Fuori, fuori” a tutti quelli che invece erano dentro a farsi i beati fatti propri, si trattasse dei corsi o degli esami o della stesura della tesi, mentre ai bordi delle strade i cittadini (i borghesi? i filistei?) assistevano al tutto con la stessa compita e vergognosa curiosità occasionale che si riserva ai carri di carnevale. Dicevo, i capi di questa rivolta sono bene o male tutti ascrivibili all’Udu, il movimento sinistrorso universitario che si dichiara “per il diritto allo studio” e ha il principale merito di organizzare periodicamente nelle sedi universitarie feste dalle quali (dichiarano i loro stessi manifesti) “resta fuori solo il numero chiuso”. L’Udu ha per simbolo un cubo con le gambe (audace riferimento forse ai suoi militanti con la testa quadra) ed è così ripartito: una buona parte di studenti ossessionati dal numero chiuso, probabilmente consapevoli che in tal caso sarebbero in miniera; qualche signorina convinta di essere più intelligente di quel che è; qualche figaccione che ha fatto voto di lavarsi saltuariamente; un manipolo di persone preparate, brillanti, consapevoli dei propri mezzi ma con le idee assolutamente confuse e paraocchi talvolta finemente ricamati dai loro stessi professori.

Se ben ricordo ieri hanno organizzato assemblee di singole facoltà, oggi hanno in programma assemblee dell’Università tutta. Ricordo benissimo che per protestare meglio ieri notte hanno organizzato una festa intesa, stando ai loro stessi manifesti, “contro la legge 133” e manco a dirlo “contro il numero chiuso”.

C’è gente tristissima, calva, che si stava laureando quando io ero matricola e sta per laurearsi ora che sono dottore di ricerca. Ci sono quelli dei centri sociali, che fanno pipì fra le sbarre dei cancelli altrui (in via Siro Comi, andate a controllare) e poi invocano la sacra costituzione antifascista quando uno s’azzarda appena appena a protestare. Ci sono quelli che per far bella figura leggono Habermas sdraiati sulle panche sotto le tre torri; quelli che si danno arie perché scrivono sul giornale gratuito dell’Università; quelli che si alzano a mezzogiorno, hanno la caratteristica panza da bevitori di birra e leggono il Manifesto, o quanto meno lo comprano.
Soprattutto, in tutta Italia c’è un’ampia maggioranza di studenti che protesta per difendere i diritti più iniqui dei professori più sfaticati, penso per la prima volta nella breve storia dell’Italia de-monarchizzata. Si sono convinti che la legge 133 li renderà più ignoranti, senza rendersi conto che in buona parte dei casi renderli più ignoranti di quanto già siano è impresa sovrumana. Sono contenti di frequentare università che nel migliore dei casi sono inutili e nel peggiore sono dannose. Sono felici di avere libretto e statino e, fin tanto che paga papà, sono ancora più felici di poter protestare a oltranza contro chi sulla lunga scadenza potrebbe togliere loro il diritto di riposarsi fino ai trent’anni.

Io sono una persona pacifica, mi basta che oggi piova tantissimo e che l’assemblea universitaria si risolva con lo scioglimento fra le bestemmie per impraticabilità di campo o con un’epidemia di broncopolmoniti e conseguente selezione naturale. Riconosco appieno il diritto degli studenti a protestare; protestino oggi, protestino tutta la settimana, dieci giorni, un mese. Prima o poi si stancheranno, e tutto finirà com’è iniziato: dal nulla, nel nulla, per nulla.

martedì 28 ottobre 2008

Tutti i libri che non ho letto (7)

(Gurrado per Books Brothers)

Da grande voglio fare il re
perché
si guadagna bene;
ma mia madre mi fa fare i concorsi
vuol dire che
non ha fiducia in me.
(Lello Arena, Enzo Decaro, Massimo Troisi)

Una contegnosa signorina s’è meravigliata leggendo, alla fine della puntata scorsa, che per sopravvivere alla villeggiatura fossi andato in libreria a comprare una copia de Il Giro del Mondo in Ottanta Giorni. “Non potevi pazientare un altro paio di giorni e usare, una volta a casa, la copia di quand’eri bambino, che sicuramente era pure scritta più larga?” “Macché, quand’ero bambino non possedevo copia alcuna del Verne, indi per cui mi era mestieri comperarla.” “Quindi da piccolo hai letto il Verne ricevendolo in prestito dalla locale biblioteca?” “Macché, quand’ero bambino non ho letto il Verne né mio né altrui, tanto più che l’unica biblioteca del mio paese pare aver chiuso gli acquisti prima che il Verne iniziasse a scrivere o addirittura nascesse issofatto”.

Se dovessi redigere una succinta biografia (in tre comode rate) della mia onorata carriera di non lettore, inizierei senz’altro dal Verne e dai libri per l’infanzia. Mentirei dicendo che casa mia, piena di libri fino al soffitto, non contemplasse nemmeno una copia del Giro del Mondo nel breve corso della mia infanzia (infatti alla signorina l’ho detto; ma è diverso, perché alle signorine si deve mentire sempre, per non perdere l’allenamento); una me ne era stata regalata per la Prima Comunione, o per la Prima Confessione, o per l’Unica Cresima o per una delle varie pratiche parrocchiali che vengono solitamente sbrigate in gran furia fra la terza e la quinta elementare, accuratamente prima che qualcuno possa capirne qualcosa, con la ragionevole eccezione del parroco e del Vescovo in persona. Si trattava di un’attraente edizione illustrata con tratto espressionista, in cui le immagini erano saggiamente alternate ai testi sulla stessa larga pagina, che avrebbe fatto venir voglia di saltar dentro alle avventure di Phileas Fogg e Passepartout perfino a un cinghiale analfabeta. Io, ça va sans dire, non lessi: lo ricevetti, educatamente ringraziai, promisi di iniziarlo a temo debito e per custodirlo lo nascosi così bene che tuttora non l’ho ancora ritrovato.

Avrei potuto rifarmi col resto della produzione dello stesso autore. Ventimila Leghe Sotto i Mari mi venne regalato l’anno dopo, forse dalla stessa persona che non ricordo chi fosse, ma a questo punto dovrebbe trattarsi di qualcuno che incassava i residui diritti del Verne, vista la pervicacia con cui lo riportava a galla; infatti di lì a poco mi fu regalato anche Dalla Terra alla Luna, e ogni componente del trittico verniano (vernesco?) fece la stessa fine, come un sol libro. I due ulteriori volumi del Verne avevano formato diverso, meno simile a un albo e più simile a un libro propriamente detto, e le immagini non erano più intersecate coi capoversi ma di volta in volta intercalate ogni decina, o trentina, o cinquantina di pagine narrative. Sul retro di ogni immagine, vista la differente qualità della carta, la pagina restava bianca, rendendo l’idea che sul recto il disegnatore mettesse quello che era riuscito a dedurre dal testo romanzesco, sul verso quello che ogni bambino avrebbe dovuto immaginarsi per conto proprio. Sempre che leggesse, ovviamente; ma io, ça va sans dire, non lessi e quindi non immaginai un bel niente. Immaginarono invece i miei genitori i quali, apprezzando la bella edizione per ragazzi che riuniva i due ulteriori romanzi del Verne, pensarono bene di seguitare la raccolta comperandomi altri volumi da mettere in fila sullo scaffale unico di camera mia. Arrivò Senza Famiglia. Arrivarono I Tre Moschettieri, grazie a Dio in formazione ridotta. Arrivò, con eccessiva fiducia nelle mie capacità, Quo Vadis? - io girai coscienziosamente le pagine di ognuno, controllai accuratamente che dietro ogni immagine ci fosse una pagina bianca, e non lessi un accidente.

Il disperato tentativo venne compiuto dai miei genitori durante la notte di Natale del 1990, un paio di settimane dopo il mio decimo compleanno (per un bambino, entrare in doppia cifra è il primo confronto della vecchiaia, quindi è una data da maneggiare con cautela). Sotto l’albero trovai una copia finemente illustrata delle Avventure di Huckleberry Finn. Reagii con entusiasmo, spingendomi all’eccesso di iniziare a leggerlo quella stessa notte - poi ovviamente mi addormentai e, ça va sans dire, per quel che riguarda Huckleberry Finn è come se da allora io non mi sia mai risvegliato. Non a caso i miei genitori hanno pensato bene di non farmi più regali, né mi sentirei di dar loro torto. Per rappresaglia hanno addirittura smesso di imbastire l’albero di Natale, né il Presepio, il tutto per colpa di Mark Twain.

“Ma, sant’Iddio, qualcosa avrai pur letto da bambino”, insiste la contegnosa signorina la quale, essendo appunto contegnosa, rifugge dal giustapporre alla sua istanza rutilanti perifrasi che la mia lingua grassa ficca un po’ ovunque (anche quando scrivo, ma poi cancello il tutto). Contando sulle dita di una mano, a prezzo di enorme concentrazione e sovrumani sforzi mnemonici, posso ricordare di aver letto, da bambino, un’edizione a fumetti dei Promessi Sposi, che è fatta benissimo e tuttora conservo con morbosità, tanto che ancor oggi, ogni volta che ripiglio un passo del romanzaccione, mi figuro tutti i personaggi con le facce altamente colorate. Poi ho letto una roba chiamata Atomino, della quale sinceramente non ricordo l’autore, ma che mi ha impresso nel cuore un assioma fondamentale, ove dice “un generale in mutande non è più un generale”; certezza che nei decenni m’è stata di molto momento ogniqualvolta mi sono trovato a dover parlare in pubblico di un argomento che non conoscevo (l’altra sera mi hanno fatto presentare una conferenza sul jazz, e io sono pure mezzo sordo, ditemi voi), o a sostenere un esame senza aver studiato (cosa relativamente semplice, sono laureato in filosofia), o a dichiarare il mio amore eterno e indefettibile a damigelle delle quali già allora non ricordavo il nome. Dovrei aver letto Il Giornalino di Gian Burrasca, ma forse ho fatto solo finta per contentare la maestra. Soprattutto ho letto e riletto Pinocchio in una preziosa edizione illustrata da Jacovitti, che non è quella corrente che si trova tuttora in commercio e alla quale state pensando voi, ma una più antica e arcana in cui Jacovitti non jacovitteggia ma affresca letteralmente le scene via via che accadono, roba che nel suo piccolo regge il confronto con De Chirico e fa una pernacchia al resto della produzione artistica italiana del Novecento; un’edizione che so benissimo dov’è ma da anni non mi azzardo ad aprire per non scoppiare a piangere al pensiero che il tempo sfugge secondo dopo secondo e che nessuno lo può fermare, nemmeno un libro.

D’altronde, diceva Picasso, ci vuole molto tempo per diventare giovani - o forse diceva semplicemente che solo dopo anni di pratica aveva imparato a disegnare come un bambino. Io ci ho messo parecchio per imparare a leggere libri per ragazzi, e sulla stessa spiaggia dove quest’anno ho letto Il Giro del Mondo in Ottanta Giorni, nel 1991 leggevo L’Antologia di Spoon River - ero un bambino decadente, che aveva fretta di diventare adulto, invecchiare e morire. Diciassette anni dopo, avendo accumulato molto tempo perso, la situazione è diventata pressoché irrimediabile quindi ho un po’ meno fretta. La contegnosa signorina è una grande sostenitrice di Harry Potter e sta cercando di inculcarmelo poco a poco, lasciandolo cadere nel discorso; ma sento di non essere ancora abbastanza vecchio per affrontarlo come si deve.

(Postilla storico-sociologica: ma com’è che all’epoca, pur leggendo tanto, sono riuscito a scansare tutta la narrativa per l’infanzia, tutte le avventure avventurose che costituiscono la memoria comune dei bambini di ogni tempo? La butto lì: io sono stato consapevolmente bambino fra il 1987 e il 1992. In quel tempo c’erano, tutti insieme, Gorbaciov, Ceausescu, Mandela, Clinton, il Muro di Berlino, la Guerra del Golfo, Tangentopoli; e poi Gullit, Van Basten, Maradona, Baggio, Indurain, Bugno, Chiappucci, Prost, Senna, Lendl, Becker e così via. Bastava aprire un giornale per venire catapultati in un mondo esclamativo. Beato il bambino che non ha bisogno di eroi immaginari.)

lunedì 27 ottobre 2008

Circo Walter

Io me li ricordo quelli della Fgci,
sono cresciuti guardando Happy Days.
(Nanni Moretti)

Il lunedì su queste pagine virtuali - anzi, su queste pagine immaginarie, su queste pagine inesistenti - è tradizionalmente dedicato allo sport: ossia a un'attività ripetitiva e sopravvalutata che, per quanto apparentemente entusiasmante, è priva di senso alcuno. Quindi parlerò dell'ultima manifestazione del Partito Democratico.

Accapigliarsi sui numeri è stucchevole. Averroè direbbe che si tratta un caso di doppia verità, nonostante la discrepanza fra dati ufficiali e dati ufficiosi superi di fin troppo il buon senso. Quelli erano veramente duecentocinquantamila come ha detto la questura, visto che il Circo Massimo non può essere stato ingrandito apposta, visto che se Roma fosse stata invasa da due milioni e mezzo di persone ci sarebbero state delle conseguenze se non logistiche quanto meno termodinamiche, e visto che - insomma - Veltroni quand'è stato eletto ha dichiarato di aver avuto tre milioni di voti sparsi su tutta Italia. Ora, arrotondando per difetto, vi pare che di tutti quelli che sono andati sotto casa a votare Veltroni un anno fa, due su tre hanno preso un treno un pullman una nave per arrivare a Roma e sventolare le novissime e glamorose bandierone del Pd? Ma, al contempo, quelli erano veramente due milioni e mezzo: perché Veltroni mentre parlava li ha visti, anzi deve averli contati uno a uno, e perché ognuno era convinto di essere un duemilionesimo (e mezzo) della manifestazione.

Né la cosa mi preoccupa più di tanto, da destra. Veltroni ha fatto una gaffe scivolosissima quando s'è autolegittimato vantandosi del fatto che un terzo degli Italiani è con lui. Se il mio unico e solo esame di logica è servito a qualcosa, vuol dire che due terzi degli Italiani non sono con lui; e infatti è all'opposizione. D'altronde Veltroni s'è sbilanciato fino a dire che il Partito Democratico non resterà per sempre all'opposizione (e già il fatto che abbia usato il complemento di tempo "per sempre" vuol dire che un po' teme di restarci per sempre, appunto) e che anzi già da ora lui si sente in grado di avanzare concrete proposte di governo. Ha detto: "Mi impegno sin d'ora davanti a tutti a far-" e a questo punto la saggia, forse pietosa regia de La7 ha sfumato per mandare in onda la pubblicità di un tonno in scatola.

Dalla grande manifestazione del Partito Democratico emergono due considerazioni politiche. La prima è un po' arzigogolata, ma merita attenzione. I dati di fatto dicono che il Partito Democratico alle ultime elezioni ha preso il 33,1% (che Veltroni, evidentemente poco aduso ai decimali, spaccia per 34%), a fronte del 37,8% del Popolo della Libertà. Senza contare gli alleati, per poter vantarsi di guidare il primo partito d'Italia Veltroni ha bisogno di recuperare circa il 5% a Berlusconi. Per farlo, deve sottrargli voti e portarli a sé; deve quindi blandire questi elettori o quanto meno tentare di parlare con loro cercando una piattaforma comunicativa d'intermediazione. E invece Veltroni che fa? Prima si gloria del fatto che gli elettori del Pd si alzano quand'è ancora buio, vanno a lavorare e tornano a casa che è già sera (se ne deduce che il restante 65,9% degli Italiani non fa un beato cazzo?). Poi accusa la maggioranza di razzismo, citando l'episodio esplicativo delle celebri sagome nere pitturate di bianco (se ne deduce che nottetempo Calderoli e Gasparri siano andati lì con lo spray?). Quindi ritorna al grande classico di Berlusconi dittatore mediatico, nemico dei giudici, cannibale d’Europa, cacatore di leggi delega. Dopo di che si lascia sfuggire un’allusione al riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali (se ne deduce che vuole corteggiare Ferrero invece di Casini?); e infine, il capolavoro. Attacca Maria Stella Gelmini, la donna che sta tentando di salvare l’università da studenti e professori, dicendo che è la diretta espressione di un’ampia fascia di popolazione che ha per unica scuola la tv, per unica cultura il facile protagonismo. Di là dal fatto che è una considerazione sbagliata (può essere che nel 37,8% di Berlusconi non ci sia una persona una che legga qualche libro? può essere che il mitologo della Nutella, dei B-movie e delle figurine Panini abbia improvvisamente deciso di scagliarsi contro la benemerita cultura d’intrattenimento leggero?), emerge che il leader del Partito sedicente Democratico ripesca il mito della superiorità culturale/umana/aprioristica della sinistra e rifiuta l’idea che il Popolo della Libertà, con quella riforma in programma, abbia avuto più voti di lui - qualcosa vorrà dire.

La seconda considerazione politica è lampante: Veltroni in primo piano parlava, parlava, parlava, e dietro di lui si stagliava netta, irremovibile e inevitabile la sagoma di D'Alema.

Ormai è tardi ma se avessi potuto dare un consiglio a Berlusconi su come rispondere ai giornalisti che gli chiedevano della manifestazione del Pd, gli avrei suggerito di dire: “Sono felice, è stato uno straordinario successo, a me sembravano più di cinque milioni, ora però devo lavorare.” Veltroni avrebbe apprezzato perché è la stessa identica tattica del Marchese del Grillo quando deve pagare Aronne Piperno ebanista: “Aronne mio, tu lavori bene: begli gli armadi, belle le cassettiere, begli gli intarsi. Bravo, bravo, bravo. Mo, te ne pòi annà.”

Infine concludo con una bella notizia che non ha niente a che vedere con la politica: finalmente sono dimagrito e al momento peso 79 kg (secondo la questura; peso invece cinque quintali secondo Veltroni).

venerdì 24 ottobre 2008

Letterine letterarie (7)

Gurrado,
predetto che ho letto "Gomorra" (libro scritto da Saviano sulla camorra se nn lo sai) più di un anno fa, quando ancora nn era così popolare e che ero già bene a conoscenza dell'esistenza della mafia... il fatto che le minacce a questo giovane scrittore abbiano sensibilizzato il Paese è solamente positivo... a te più che gli insulti manderei delle molotov...ignorante!
PP
PP,
inizio specificando che in realtà tu sei un falso anonimo in quanto ti sei firmato con nome e cognome, ma io mi sono contenuto e mi limito a riprodurre le tue iniziali per due motivi: 1) la pronuncia dell’acronimo è “pipì”; 2) mi ricorda il film, credo I due marescialli, in cui Totò legge una lettera e interpreta “PP.VV.” come “pistole, proiettili e V2”. Questo ben si sposa con il tuo impeto bombarolo, oltre che con la tua dinamitarda destrutturazione della grammatica italiana alla quale ho comunque tentato di dare un senso senza per questo tradire la ruspante spontaneità della tua prosa. Mi compiaccio per la geniale coerenza di minacciare qualcuno di mandargli delle molotov (come, poi? a mezzo corriere espresso?) perché a quanto pare questo qualcuno non è sensibile a delle (fantomatiche) minacce di morte rivolte a qualcun altro. Quando mi spiegherai perché sono ignorante, mi degnerò di spiegarti perché lo sei invece tu.

Salviamo Gurrado dalle molotov!

Umberto

Infatti, si potrebbe fare un appello su un quotidiano autorevole tipo Repubblica e diventerei famosissimo. Per fortuna un quotidiano più serio, il Riformista, mi ha offerto qualche giorno fa un motivo di consolazione (tale da spingermi addirittura a comprarlo, per la prima e ultima volta in vita mia) grazie a un lungo articolo di una persona intelligente come Andrea Di Consoli. Cito sintetizzando. Scrive Di Consoli che su Saviano c’è in giro tanta retorica, anche per chi passa per critico letterario. In rete circola un testo di Carla Benedetti in difesa di Saviano che è meglio non commentare, per quanto è offensivo e conformista quel che dice. Di Consoli spiega: Gomorra raccontava dal di dentro un clima, un’atmosfera, dei fatti precisi. Lo faceva da scrittore. Poi ha alzato il tiro. Ha insultato i camorristi. A quel punto lo scrittore è diventato un simbolo nazionale dell’anticamorra. Ora tutti sono dalla sua parte. Chi osa criticare Saviano?Ho riletto in questi giorni le pagine “a futura memoria” di Sciascia sui professionisti dell’antimafia. Saviano non è un professionista dell’anticamorra. Ha fatto qualcosa di ancora più grave: si è presentato agli occhi del mondo come un modello superiore di scrittore. Qual è il torto di Saviano? Aver occultato la verità, ovvero che lui non è diventato un simbolo per quel hce scrive, ma per come si pone, per il tono truce che assume. Saviano ha cercato lo scontro mediatico, e purtroppo l’ha ottenuto. Ora deve assumersene la responsabilità, anche perché la lotta alla camorra esiste già nei piani dello Stato, molto prima della sua comparsa, e se lui l’ha voluta impostare sull’insulto, sulla spacconeria personale, allora se ne assuma la piena responsabilità. Perché la Capacchione, autrice de “L’oro della camorra” (Rizzoli), non fa tutte queste moine? Perché Saviano ha giocato a fare l’eroe. Ma lui era uno scrittore e tale doveva rimanere. Invece si è dimesso da scrittore, ed è diventato un eroe, senza però dire che quello che lui fa non lo fa più da scrittore, ma da eroe. Eppure: a cosa servono gli eroi? A niente. Ora, purtroppo, Saviano sarà vittima del suo stesso clichè. Quelle masse che lui ha chiamato a raccolta, come niente gli volterebbero le spalle se lui scrivesse un romanzo d’amore. Saviano adesso sarà costretto a scrivere Gomorra 2, e poi 3, 4, 5. Io non ci sto. Continuo a credere nella libertà della letteratura e nello scrittore Saviano, e non nel suo doppio eroico e mediatico e simbolico. Ciò nondimeno il nuovo Riformista non mi pare questo gran che, sembra la versione politically correct di Libero, e in tal caso è meglio l’originale che la copia. Anche Guia Soncini, che sul Foglio era sempre grandissima, sul Riformista brilla ma mi pare ridimensionata, un po’ intristita. Sono certo che migliorerà, fatto sta che non lo compro più.

giovedì 23 ottobre 2008

Per disfare un albero

Ci volevano gli stati generali dell'editoria per scoprire che in Italia non si legge abbastanza. Fossi stato invitato a parlare avrei esposto il mio parere secondo tre punti magari semplicistici ma decisamente sintetici. Secondo me, la gente non legge abbastanza perché:

1) i libri costano troppo per quel che valgono;
2) c'è troppo snobismo nella classe intellettuale;
3) l'oggetto-libro è spesso difficilmente raggiungibile.

Svolgimento:
1) Io penso di far testo perché leggo tanto ma leggerei di più. Se decidessi di stanziare cinquanta euro mensili all'acquisto di libri, potrei permettermi grossomodo tre o quattro classici in edizione economica (Il Circolo Pickwick costa 10 euri con la Rusconi, 12 con la Garzanti, 14,80 con la Mondadori, 15 con la Bur), oppure due novità di alto tasso qualitativo (l'ultimo di Grossman, Mondadori, costa 22 euri; l'ultimo di Roth, Einaudi, ne costa 19; i racconti di Nabokov, Adelphi, ne costano 38). Va a finire che per i classici uno ricorre alla Newton Compton (che però sta pian pianino imparando a fare edizioni economiche di lusso, che costano 9,90 euri, mah); quanto alle novità, oggettivamente i prezzi non sono tali da permettersi di correre il rischio che il libro acquistato non piaccia o, peggio ancora, venga accantonato a mezzo. Finisce dunque che o si comprano solo autori di cui si è arcisicuri, ampliando la propria conoscenza in profondo ma non in orizzontale, per cerchi concentrici; oppure si pazienta diciotto mesi per l'uscita in edizione economica, che pure è poco economica (un tascabile di Grossman, sempre Mondadori, costa generalmente 8,40 euri; ma un tascabile di Roth, sempre Einaudi, costa anche 12,80 euri, e un tascabile di Nabokov, sempre Adelphi, costa minimo 12 euri).

2) Leggere è bello e piacevole. Se un libro non piace, o non attira, non c'è nessun bisogno di leggerlo. Leggere un libro non è preferibile su scala assoluta a guardare la tv, o giocare a calcio, o andare in discoteca. Questi tre assiomi sembrano duri a entrare nella testona della classe intellettuale italiana, che quando ne ha l'opportunità tende a veicolare questi tre uguali e contrari: leggere un libro è un dovere civile; se un libro non piace, bisogna sforzarsi di farselo piacere o comunque spacciare di averlo letto; leggere un libro previene dal rimbambirsi davanti alla tv, o dallo spezzarsi le gambe dietro a un pallone,o dallo sballarsi in discoteca. Errore madornale, perché se si vuole attrarre nuovi lettori (per l'editoria, clienti) è necessario che la classe intellettuale dimostri quel minimo di modestia da riconoscere che esiste un mondo di là dai libri e che esistono tipologie di svago differenti ma non per questo meno dignitose. Probabilmente la classe intellettuale italiana ritiene che aver letto più libri di altri sia un titolo di merito assoluto, e che di conseguenza si debba preservare questa presunta superiorità chiudendo il più possibile l'accesso alla classe intellettuale stessa.

3) A Gravina in Puglia, dove mi trovo in quest'istante, non ci sono librerie. Esistono due edicolanti i quali, oltre a vendere gli allegati dei quotidiani, hanno un settore libri che, per ovvie ragioni di spazio, è limitato soltanto a grandi editori, novità, bestseller e ragazzi. Esiste una biblioteca che chiude alle cinque del pomeriggio (nota: in Puglia, come in buona parte del sud, dalle tre alle cinque del pomeriggio si dorme; i negozi sono abitualmente aperti dalle quattro e mezza alle nove di sera; chi va in giro alle tre del pomeriggio, di solito, o è un drogato o va a gettare l'immondizia), nella quale non mi è parso di aver visto edizioni più recenti degli anni '70, per quanto trabocchi di studi locali recentissimi e pregevoli. Tuttavia, un gravinese che desiderasse leggere, che so, Estensione del Dominio della Lotta di Houellebecq (Bompiani, 2001, 6 euri) non potrebbe comprarlo nelle due super-edicole in quanto è troppo antiquato per essere una novità, né potrebbe prenderlo in prestito dalla biblioteca perché è troppo recente per essere in catalogo. Come avviene a Gravina, lo stesso avviene in ampie sacche del sud Italia soprattutto.

Statistiche ragionevoli dicono che Modena, dove mi sono rassegnato a non trasferirmi, è la provincia in cui le biblioteche danno più libri in prestito , e ciò nondimeno le librerie prosperano. Com'è possibile? Perché vengono risolti in un sol colpo i tre punti di cui sopra. Prendo come riferimento la biblioteca Delfini (corso Canalgrande 103), dalla quale ero solito servirmi.

1) Un libro è troppo costoso? Alla Delfini qualsiasi iscritto ha la possibilità di ordinarne due al mese (cioè ventiquattro all'anno), scegliendolo fra le novità che non sono segnate come prossimamente in arrivo nella medesima libreria. In compenso, quasi tutte le novità dei principali editori sono facilmente rintracciabili senza che ci sia bisogno di richiederle, e vengono addirittura evidenziate con apposito scaffale. Questo consente di incuriosirsi, scegliere libri che abitualmente non si leggerebbero, scoprire nuovi autori, appassionarsi e, se li si ritiene validi, andare in libreria e comprare nuovi titoli che altrimenti si ignorerebbero.

2) Volete essere intellettuali senza farvene accorgere? Solo dalla pubblicità appesa nell'atrio della Delfini, vi rendete conto che a Modena c'è una quantità impressionante di iniziative culturali, tutte ben calibrate e finalizzate a una sana e seria divulgazione. Da quel che ricordo, è pressoché impossibile trovare una sala vuota, che si tratti di un concerto o della presentazione di un volume o di una conferenza o di una pièce teatrale. Si verifica un circolo virtuoso tale che anche iniziative apparentemente ostiche o su un argomento negletto stimolano la curiosità di un pubblico abituato ad aspettarsi un'alta qualità media e a venire saggiamente incoraggiato a uno sforzo culturale. Sostanzialmente, non c'è frattura percepibile fra la classe intellettuale e la (oggi mi sono svegliato marxista) società civile.

3) Iscriversi alla biblioteca Delfini è gratuito e basta essere domiciliati, non residenti, a Modena. All'atto dell'iscrizione si viene dotati di un codice che vale anche per tutte le altre biblioteche del comune e della provincia. Oltre a una quantità teoricamente infinita di libri, l'utente ha a disposizione: una piazzetta per la lettura dei quotidiani, anche stranieri, e per la consultazione dell'ultim'ora di televideo e dei siti di notiziari; un angolo per le riviste da meditazione o relax (anche fumetti), con annesse comode poltroncine; un ampio settore studio, peraltro sempre pieno di ragazzine; un'area video insonorizzata in cui guardare film in Italiano o lingua originale, con annesso anfiteatro per le visioni collettive; un settore per ragazzi; un settore per bambini non alfabetizzati, comprensivo di libri di stoffa e materiali simili per far familiarizzare gli infanti (presumibilmente figli di lettori che sono in altre zone della biblioteca) con l'oggetto-libro; una pletora di computer per la consultazione del catalogo, completamente informatizzato; un servizio prestito rapidissimo (un mese per i libri, una settimana per cd e dvd); un banchetto per la vendita dei doppioni in possesso della biblioteca, a prezzi stracciati (ho comprato per un euro ciascuno i preziosi Libri dell'Anno della De Agostini); un ambiente estremamente favorevole al passeggio, alla sosta prolungata e alla socializzazione; orario il più ampio possibile (dalle nove del mattino alle otto di sera, chiuso la domenica per riposo e il lunedì mattina per inventario).

Soluzione:
per ottenere che in Italia leggano tutti, bisogna far sì che Modena abbia cinquantasei milioni di abitanti.

mercoledì 22 ottobre 2008

Montagne innamorate

(Gurrado per Quasi Rete)

Mette gioia solo a pensarci, un libro così. I libri di sport, in generale, corrono abitualmente due pericoli: l’eccesso di partecipazione emotivo-celebrativa (sconfinando in tal caso nell’agiografia, a detrimento del pubblico neutrale o peggio ancora avverso) o l’eccesso di minuzia narrativa (scadendo in tal caso nella mera cronaca, a detrimento dell’autore e dello stesso oggetto-libro). La Fiamma Rossa di Gianni Mura (minimum fax, 17 euro e mezzo) cammina in perfetto equilibrio sul filo che lambisce questi due abissi. La partecipazione emotiva è viva, vivissima, poiché Gianni Mura si dichiara a priori innamorato del Tour al di sopra di ogni altra corsa né potrebbe essere altrimenti, visto che ha iniziato a seguirlo nel 1967 per la Gazzetta dello Sport e, fatto salvo l’intervallo di una breve ventina d’anni, ha proseguito imperterrito fino ai giorni nostri. La minuzia cronachistica c’è pure, inevitabilmente, stante che il grosso del libro è composto da pezzi redatti quale inviato unico di Repubblica, dal 1991 al 2005 (la scelta, dolorosa ma necessaria a non trasformare un’antologia in un elenco telefonico, è a cura di Simone Barillari).

Per procedere diritto senza schiantarsi contro le nude rocce della retorica precotta e partigiana (Scilla?) né lasciarsi inghiottire dai gorghi del dettaglio buono un giorno e inutile la settimana dopo (Cariddi?) ci voleva evidentemente un fuoriclasse dell’Olivetti Lettera 32. Mi sono ripromesso di non fare paragoni con Gianni Brera (tanto li hanno già fatti in tanti), ragion per cui mi limito ad avanzare una sommessa constatazione di natura schifosamente editoriale: prendete un qualsiasi centinaio di articoli sullo stesso tema, rilegateli in volume e otterrete miracolosamente tutta la noia che i medesimi articoli non sono riusciti a produrre nel formato usa e getta. Se l’argomento è lo sport, peggio che andar di notte: all’effetto-noia si aggiunge uno straniante senso da delirio ossessivo compulsivo che può essere superato solo dall’evenienza in cui gli articoli trattino tutti della stessa identica competizione, nei giorni mesi e anni. Basta tuttavia che il proprietario della Olivetti Lettera 32 sappia distinguere l’atto di scrivere bene da quello di battere velocemente a macchina, ed ecco che miracolosamente l’effetto-noia svanisce, il delirio ossessivo compulsivo diventa una dolce commossa fissazione e il centinaio di articoli difformi si trasforma in un libro fatto e compiuto, graniticamente coerente dalla prima all’ultima pagina.

Così accade a Gianni Mura, forse perché ha studiato e conosce i dettami aristotelici sulla tragediografia (poco ma sicuro, il ciclismo non è comico). L’unità di tempo: ogni anno dalla prima all’ultima settimana di luglio, asfalto bollente e facce rigate dal sudore, crudeli scrosci di pioggia e inverni montani fuori stagione. L’unità di luogo: la Francia, certo, ma fino a un certo punto (il Tour è un serpentone che resta de France anche se invade la Spagna, l’Italia, il Belgio o l’Irlanda); più ancora la corsa, indubbiamente, ma questo non giustificherebbe le lunghe continue e sorprendentemente ragionevoli digressioni che Mura dedica alla gastronomia, alla musica, alla storia e a tutte le produzioni socioculturali dell’uomo, che volentieri si lasciano attraversare dal ciclismo. Più di tutto, direi che la vera unità di luogo è conferita dalla strada: una maglia gialla che comanda, o che arranca, un plotone che si regola di conseguenza, le ammiraglie che sfiatano, i giornalisti che per capire la corsa negli anni ’60 la inseguivano e dagli anni ’90 la precedono: tutti sullo stesso asfalto.

Tutto sullo stesso asfalto, anzi: neutro singolare invece che maschile plurale. Il ciclismo è l’unico sport che trascina tutto appresso, storia geografia cronaca letteratura musica religione, perché è l’unico sport che scende per strada senza filtro e può permettersi di passare attraverso i fatti nostri. Non ha bisogno di circuiti posticci e le transenne lo contengono a malapena. Si scava un solco tra la gente e la gente diventa parte integrante della corsa, si tratti degli intenditori che scrutano col binocolo i tornanti più lontani o delle incontrovertibili teste di cazzo che frustano acqua gelida in faccia ai fuggitivi e ne spaccano la schiena a forza di carezze. Per le strade di Francia ogni dettaglio grida di gioia al passaggio di gruppo e carovana, la cornice è inscindibile dal quadro e anzi è quadro essa stessa. Benissimo ha fatto la minimum fax a piazzare in copertina un campo largo nel quale i corridori sembrano quasi un’inezia sotto il cielo, davanti agli alberi, in mezzo a una distesa apparentemente infinita di grano; aguzzando l’ingegno l’occhio allenato riesce a distinguere Lance Armstrong in giallo, con davanti tre pretoriani della Discovery Channel e dietro due cagnacci della Csc, il secondo dei quali ha il naso di Ivan basso ma, essendo complessivamente grande quanto la falange del mio pollice, non ci giurerei.

Sulle pagine della Gazzetta prima e di Repubblica poi, Mura è stato non solo testimone privilegiato della corsa gialla ma anche suo raffinatissimo complice. Sulla strada, dietro o davanti alla corsa, all’arrivo, in sala stampa, ha sempre portato con sé il proprio bagaglio di uomo (che, colpo di scena, gli viene pure rubato a pagina 363, con annessa Olivetti Lettera 32; lui non demorde, scrive a mano e lascia sottinteso che al Tour un po’ di giallo in più non stona, pazienza); e questo gli ha consentito di conseguire tre risultati in un sol colpo, che il volume antologico rende trasparenti.

Ha reso giustizia al carattere onnicomprensivo e onnipervasivo del Tour, che può essere il muto ricordo di un meccanico o la musica da banda sul marciapiede, i libri da mettere in valigia e le fanfaronate davanti ai microfoni, piazze e deserto, fame e indigestione: tutto quello insomma che si può incontrare in tre settimane digerite di corsa, se guardiamo le medie delle tappe, e però a rilento, se pensiamo a quanto tempo ci mettono per andare, poniamo, da Lione a Parigi (1991, sul libro i sono anche le piantine per controllare).

Ha fiutato la corsa come pochi, arrogandosi la facoltà canina di prevedere Pantani o Armstrong come si presentono i terremoti, perché ha saputo calcolare a occhio la caratura umana di ogni corridore guardandolo in faccia o facendogli domande incongrue (“Armstrong, cos’è la felicità?” “Chiappucci, è vero che tuo padre viene da Marina di Massa?” “Bugno, attaccherai domani?”). Ogni articolo diventa resoconto psicologico prima ancora che agonistico, e ne restano ritratti memorabili che ci fanno dire che tizio e caio erano proprio così: ora tratteggiati in poche righe esemplari, specie per i minori dei quali s’è perso il ricordo se non nel cuore degli appassionati, dei morbosi, dei matti; ora stilizzati in un unico, icastico soprannome che non inseguisse la moda del momento - Chiappucci è Bull, Armstrong Fortebraccio, il tentennante Bugno, genialmente, Vedremo. E Pantani, all’agonia del quale è dedicata una sezione speciale, per Mura non è mai Pirata né Diavoletto ma sempre e soltanto Pantadattilo: un fossile preistorico che allarga le ali minaccioso e poi si estingue in maniera misteriosa, enorme, sovrumana.

Ha, soprattutto, lasciato intendere che il Tour è il punto d’incontro sentimentale del tempo con lo spazio: una quarta dimensione che si misura da un lato con il freddo, inarrestabile fluire dei secondi e dei minuti, con i distacchi da calcolare col cronometro di precisione o coi rintocchi della pendola ogni quarto d’ora; dall’altro con il nobile e impassibile permanere delle strade e delle distanze, delle città e delle montagne, che ogni anno guardano passare corridori uguali e diversi e poi tornano a undici mesi di letargo innamorato.

È questa dimensione che dà un sapore d’eternità, di là dal doping, gli incidenti, i campioni che sorgono e tramontano e ogni contingenza; e spiega l’irrazionale ghiribizzo vergato sul nuovo marchio della corsa gialla, Le Tour tojours, il Tour sempre.

martedì 21 ottobre 2008

Fisiologia del perdente

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Il gregario dell’omonimo esordio di Paolo Mascheri non ha nome. Da dati contingenti - come l’ambientazione ad Arezzo e l’età del protagonista - si potrebbe evincere una sostanziale identità con l’autore, se non altro per quel che concerne i dati anagrafici; ma presumo che queste coincidenze siano piuttosto rivelatrici di una linea poetica più generale. Non avendo nome e venendo dunque designato con una generica terza persona singolare (esattamente come accade per l’Everyman di Philip Roth, anche se ovviamente parliamo di due contesti ben differenti), il gregario può essere identificato sostanzialmente con chiunque, all’interno di una data generazione e una data cerchia sociale; l’evenienza che Paolo Mascheri gli abbia prestato la propria città e la propria data di nascita ha senso solo perché il gregario doveva avere una determinata età e doveva vivere in un determinato posto.

L’attacco del romanzo è indicativo al riguardo. Mascheri delinea in poche righe particolarmente understated la vita intera del gregario sulla base di asciutte coordinate sociali. Senza bisogno di girare la prima pagina, il lettore sa già quanti anni ha il gregario, quali studi ha compiuto, che lavoro fa, quanto guadagna, dove va in vacanza e che macchina guida. Questo ritratto appena abbozzato è più che sufficiente a delineare un uomo indubbiamente più fortunato della media dei suoi coetanei: ha un posto fisso nella farmacia del padre, guadagna 2000 euro al mese, gira in Bmw e può permettersi due vacanze l’anno. Ha pure l’abbonamento a Sky, e ovviamente una fidanzata borghese, con altrettanto posto fisso, non trascendentale ma se non altro sessualmente volenterosa. A questo punto, volendo, il romanzo potrebbe concludersi con la notazione che l’anonimo gregario è ragionevolmente felice, e che ne ha ben donde.

Questo ovviamente non accade. Innanzitutto perché Mascheri lascia cadere - sempre nella prima pagina, già all’inizio del quarto capoverso - il primo punto di domanda del suo romanzo quasi totalmente enunciativo, dove le frasi interrogative sorgono di tanto in tanto a increspare il ritmo del nudo resoconto di dati di fatto. La prima domanda suona appunto: “Si considera felice?”. Questo dubbio, saggiamente appena insufflato dal narratore, lievita progressivamente fino a diventare l’impalcatura stessa del romanzo.

Il gregario, va specificato, non ha nulla a che fare col ciclismo. Resta sottintesa tuttavia, agli occhi di chiunque abbia un minimo di perizia sulla bicicletta, la differenza fondamentale fra il gregario e il campione: entrambi pedalano sulle stesse strade, entrambi hanno il compito di andare in fuga, ma non condividono gli obiettivi finali. Il campione va in fuga per vincere; il gregario attacca per far vincere il campione. Il campione sa, in gergo, far saltare la corsa: se si trova in una situazione di difficoltà, può tentare di lasciare il gruppo all’inizio del percorso, quando nessuno se l’aspetta, e se anche non dovesse vincere riesce comunque a creare scompiglio, a far muovere i pezzi grossi, a dare un senso alla corsa intera. Il gregario che va in fuga all’inizio del percorso fa la stessa fatica del campione, ma sa che sotto l’impulso dei suoi polpacci la corsa non salterà mai né si creerà scompiglio alcuno: il gruppo lo lascerà fare, magari fino a fargli raggiungere un vantaggio considerevole che poi, pian pianino, eroderà senza far mostra di darsene troppo pensiero, fino a raggiungerlo e piantarlo lì, superandolo a velocità doppia.

La fuga del gregario di Paolo Mascheri è solitaria e disperata: decide di mettersi in proprio, molla la fidanzata, tenta di scuotere il giogo che lo mantiene indissolubilmente legato al (piuttosto ingombrante) padre. Va a donne e bene o male riesce a comprare l’affetto di una nightclubber ucraina; tenta di ripescare la passione artistica che aveva sepolto in favore della farmacia. Come tutte le fughe dei gregari, c’è un momento in cui sembra che le cose girino per il verso giusto e che questa volta, eccezionalmente, la fuga andrà in porto. Invece è inesorabile il rinvenire del gruppo - nel quale spiccano il padre imponente, la madre ipocrita, la fidanzata piagnucolosa - che senza batter ciglio fagocita il gregario prima che possa vedere il traguardo e lo lascia peggio di come stava prima, con nelle gambe il peso e la frustrazione dell’ineluttabile fallimento.

La prosa di Paolo Mascheri è sorprendentemente funzionale a questo tipo di narrativa. Come ho anticipato, abbonda di verbi senza soggetto, o con soggetto seccamente pronominale. Le frasi sono per lo più descrittive di dati di fatto, con l’inserzione di dubitativi che fanno muovere la trama concordemente con l’avvicendarsi dei tornanti interiori del gregario. Il tempo verbale è un presente continuo, che contribuisce a generalizzare la storia del gregario (quando invece un passato remoto l’avrebbe storicizzata, determinando maggiormente l’univocità dell’ambientazione), e che rende perfettamente l’idea del succedersi di giornate monotone e vacue tutte alla stessa maniera. Come in molta narrativa giovane italiana, c’è qualche dubbio sull’iniziale di Dio, che è minuscola a pagina 39 e maiuscola a pagina 124; forse a indicare la vana tensione verso l’alto di un uomo assolutamente medio che aspira a qualcosa di sovrumano ma passa la domenica (Mascheri lo specifica implicitamente) nel culto di sé stesso, senza andare in chiesa. La politica fa capolino qua e là, trattando il romanzo di farmacie e quindi di un tema caldo come le privatizzazioni: l’equanimità del gregario nel giudicare Storace e Bersani parimenti loschi demagoghi indica probabilmente la fuga dall’impegno politico foss’anche a livello concettuale, l’incapacità di riconoscersi in una classe sociale prima ancora che in una fazione.

Se vogliamo trovare un padre nobile per l’esordio di Mascheri, indubbiamente bisogna risalire a La Noia di Moravia, il cui protagonista condivideva col gregario un’incapacità atavica a porsi in diretta relazione con gli oggetti che lo circondavano, e tanto meno con le persone: viene detto esplicitamente che al sesso, immediato e problematico, il gregario preferisce la pornografia, mediata e governabile a colpi di telecomando. Il mondo gira, il gruppo pedala, il gregario non può far altro che veder muoversi il ciglio della strada e tentare pigramente di salvare il salvabile. Dettaglio chiave, talmente incidentale che rischia di perdersi nelle pieghe del romanzo benché fondamentale: il gregario ha 28 anni, la stessa età che aveva suo padre quando lui era nato. Una generazione produce, si arricchisce, genera e incombe sulla generazione successiva; che a sua volta tenta di produrre, si impoverisce, resta sterile e viene divorata dalla generazione precedente, come in un mito eterno.

lunedì 20 ottobre 2008

Settima giornata


Si pensava che la nuova sponsorizzazione del Modena, le onoranze funebri Gianni Gibellini (non sto scherzando, il nuovo sponsor del Modena sono veramente le onoranze funebri Gianni Gibellini), potesse portare una fresca ventata di ottimismo all'ambiente; invece venerdì è arrivata un'altra sconfitta, contro l'Ancona. Questo ha probabilmente trattenuto dall'innescare una nuova reazione a catena: niente sponsorizzazione del Funeral Center per il (la) Bari, che già che c'era ha perso ad Avellino rendendo nulli tutti i discorsi di novità che facevamo fino all'anno scorso; e per il Pavia, che pure continua a perdere indefesso, niente maglia griffata onoranze funebri Fratelli Malattia (non sto scherzando, a Pavia imperversano davvero le onoranze funebri dei Fratelli Malattia).

Stavolta non si scampa, devo parlare della Serie A. Sabato sera il Napoli ha vinto contro la Juventus e alè, alle ventidue e quaranta Sabato Sprint (su Rai2) è tutto incentrato sul Napoli che torna in vetta al campionato dopo ben diciassette anni. Viene taciuto che mancano altre otto partite per completare il quadro della giornata, ma poco importa: alle ventitre e quindici Guida al Campionato (su Rete4) incensa gloriosamente il Napoli che torna in vetta al campionato dopo ben diciassette anni. Al pomeriggio successivo il Napoli viene raggiunto (ma non superato) da Udinese e Catania (mancavano la Pro Patria e il Vigor Lamezia), e allora alle diciassette esatte Sabato Sprint (su Rai2) intesse magnifiche lodi del Napoli che, seppur in condominio, è tornato in vetta al campionato dopo ben diciassette anni. Viene sottovalutato che incombe l'Inter e che manca giustappunto la sua partita per completare il quadro della giornata, ma poco importa: alle diciotto e cinque Novantesimo Minuto (ancora su Rai2) trasuda napoletanità in odore alla compagine che torna in vetta al campionato dopo ben diciassette anni. Poi va a finire che l'Inter vince mille a zero in trasferta con la Roma e alle ventidue e trentacinque sia La Domenica Sportiva (su Rai2) sia Controcampo (su Rete4) fra una cosa e l'altra devono leggere la classifica (Inter 16; Napoli, Udinese e Catania 14) e riconoscere tacitamente che il Napoli non è ancora tornato in vetta al campionato dopo ben diciassette anni.


Su Roma-Inter non posso dilungarmi perché, non disponendo di abbonamento a Sky, non l'ho vista (invece ho dovuto vedere Veltroni su Rai3 durante il primo tempo e Fassino su La7 durante il secondo: forse facevo meglio ad abbonarmi a Sky). Dalle sintesi e analisi successive, abbiamo avuto la conferma che quest'anno l'Inter è particolarmente forte (a partire dalla testa, ossia la capacchiona di José Mourinho, lo Specialone), e che la Roma è particolarmente vulnerabile. Forse ha influito qualcosa sul risultato la scelta tattica di Luciano Spalletti, ossia giocare eroicamente in nove pur di schierare Aquilani con la febbre e Totti senza. Un aiutino è decisamente arrivato dal primo goal di Ibrahimoviç, dopo meno di cinque minuti, in più che sospetta posizione di fuorigioco (come notato in primo luogo da mio padre, il quale avrebbe dovuto fare il guardalinee). Per carità, l'Inter avrebbe vinto lo stesso perché ha giocato gran bene ma, senza la favorevole circostanza, il risultato sarebbe magari stato meno smisurato. Onore ulteriore a José Mourinho, lo Specialone, che prima si inventa Obinna (e Obinna segna), poi incrocia Totti in diretta televisiva e gli chiede di portargli una maglia per suo figlio.

La par condicio impone che si noti l'aiutino (-one) goduto anche dal Milan: sarò tifoso ma non sono orbo, quindi mi stupisco che Jankulovski non sia stato espulso per il pregevole colpo di karate effettuato nel corso del primo tempo. Dopo di che, su tiro dello stesso Jankulovski, è stato espulso Lucchini (secondo giallo) per aver acchiappato la palla col polso mentre tentava di scansarsi: vabbe' il rigore, ma la superiorità numerica mi è parsa eccessiva. Idem come sopra: il Milan avrebbe vinto lo stesso ma, senza la favorevole circostanza, il risultato sarebbe stato meno carnevalesco. Menzion d'onore per Ronaldinho, al quale evidentemente fa bene andare non in Brasile da Dunga ma da Gerry Scotti per Paperissima.

Su Damiano Cunego che vince per la terza volta il Giro di Lombardia, eguagliando così Girardengo e Bartali (mentre Binda ne ha vinti quattro, Coppi cinque, ma c'è tempo) ci sarebbero varie cose da dire, alcune delle quali intraducibili per iscritto come ad esempio le urla belluine nelle quali mi sono prodotto sabato pomeriggio nel momento in cui tagliava il traguardo facendo tre con la manina. Più delle altre volte mi è piaciuta la sua convinzione e la consapevolezza di essere superiore al resto del gruppo, dal primo all'ultimo chilometro. Onore al campione del mondo, Alessandro "Chi?" Ballan, il quale si è ricordato di venir pagato dalla Lampre per aiutare Cunego, e sembra un uomo più che decente e consapevole che si debba aiutare anche nel poco chi ti ha già aiutato nel molto.

Stupisce infine la somiglianza fra Lewis Hamilton e Barack Hussein Obama. Sono giovani, affascinanti, simpatici come un sondino anale e lì lì per per trionfare immeritatamente. Fra il 2 e il 4 novembre può darsi che perdano tutto.

venerdì 17 ottobre 2008

Letterine letterarie (6)

Anto', parliamoci chiaramente. Se non ci fosse stato il web (blog, email e quant'altro) io e te non saremmo mai diventati amici. Dico di più: non ci saremmo mai incrociati, ché ci separano diverse centinaia di chilometri. Io ho moglie e figli e una vita - come ho scritto - più complicata di Rachida Dati, senza avere i mezzi economici (e non) a disposizione del ministro. Tu hai diecimila amanti e scrivi ventitré ore al giorno; da Facebook ho appreso che giochi anche a bigliardo, mentre io la stecca non l'ho appesa al muro, l'ho regalata. Anni fa una comune amica mi disse: dovresti conoscere Antonio Gurrado, avete molte affinità culturali, sono sicura che diventereste amici. Così è stato. Da allora io passo a leggerti su Allineato e Coperto e tu vieni a trovarmi sull'Eminente Dignità del Provvisorio. Grazie a Facebook abbiamo un altro luogo da condividere, nel quale tenersi d'occhio è ancora più immediato e facile.
Roberto Alfatti Appetiti

Robbe', alla primavera dello scorso anno ero a Oxford e un'universitaria americana mi aveva proposto: "Ci sentiamo su Facebook". Ho dovuto ammettere la mia ignoranza (una volta tanto). Lei mi ha spiegato di cosa si trattasse, nell'Inglese incerto che caratterizza le universitarie americane, io ho espresso un sano scetticismo (un po' come il signore ottocentesco che, guardando partire il primo treno, dichiarò che non sarebbe andato lontano - in tutti i sensi; un po' come il signore novecentesco che, ascoltando il primo provino dei Beatles, disse che il loro sound era decisamente superato), quindi le ho detto che allora non ci saremmo sentiti affatto.
Poi, a partire dall'autunno, ho vissuto a Pavia e lì sono stato progressivamente accerchiato da un centinaio di universitari italiani impazziti i quali, nell'Italiano incerto che li caratterizza, hanno intessuto magnifiche lodi (e progressive) di Facebook facendo riferimento a gruppi e consorterie massonico-esoteriche di questo o quel Collegio, di questa o quella Carboneria, tanto da farmi prendere il coraggio a due mani, un pomeriggio invernale, scolpire il mio profilo ed entrare per uno o due giorni di prova, tanto per vedere com'era. Oggi ho 143 amici, fra i quali te (ma anche Sabina Guzzanti e Annalena Benini, Michela Murgia e Livio Romano e Cosimo Argentina, oltre a ex fidanzate mie e altrui, signorine inverosimili, morbosi rompicoglioni, etc.), 8 foto (nella maggior parte delle quali gioco al bigliardo, appunto) e 15 gruppi (fra i quali spiccano "Io odio Trenitalia", "Monty Python's Completely Unnecessary Webring" e "Il Telo Sulla Ghirlandina". Risulto altresì fan sfegatato di 12 faccende: Sarah Palin, il Milan, Damiano Cunego, Corrado Guzzanti, Yelena Isinbaeva, Giovannino Guareschi, Voltaire, James Joyce, Berlusconi, i Beatles, Franco Battiato e San Pio V.
Il bello è che da un paio di settimane stanno crescendo esponenzialmente gli iscritti meridionali - cosa che, oltre a consentirmi di ritrovare compagni di liceo dimenticati (a torto o a ragione), dimostra come Facebook abbia conquistato l'Italia.
L'altro giorno mia madre ha detto che se la aiuto si apre un profilo anche lei. Non la aiuterò.

Onorevole Gurrado,
se non ora, quando? Se non ora, dove? Se non ora, chi?
Antonio Di Pietro

Giusto, le dirò di più: se non ora, come? Se non ora, quanti? Se non ora, perché?

Gurrado, ma queste lettere son vere o fanno parte della fiction? Ma sai che a te dovrebbero farti columnist del Giornale, chessò, o dell'Independente? Ho una domanda pure io, vera (non scherzo): qual è il mezzo tecnico-giuridico con cui il Papa dà direttive ai vescovi e quale quello con cui emana urbi et orbi la dottrina al popolo? Non scherzo, davvero, non mi far tirare giù il manuale di diritto canonico. Lettera episcopale la prima ed enciclica la seconda? Mi par troppo semplice...
Livio Romano

È vero Livio, ti avevo promesso di documentarmi e invece - colpevolmente - non l’ho fatto così come non ho provveduto a documentarmi sulla situazione politica scozzese riguardo alla quale mi chiede lumi Giancarlo (il quale, essendo scozzese e vivendo in Iscozia, dovrebbe tuttavia saperne un po’ più di me; credo; spero). Il fatto è che sabato pomeriggio mi sono messo a leggere un libro, e questo libro è lungo 1304 pagine senza contare le ulteriori 130 di note per un complessivo ammontare di 1434 pagine, e questo libro è Infinite Jest e il suo autore è David Foster Wallace, e questo libro parla fra le varie altre cose di un film che se guardato una volta trasmette l’irrevocabile desiderio di riguardarlo una volta ancora senza smettere giammai secondo le più elementari leggi della dipendenza, e questo libro enorme causa lo stesso identico effetto del film di cui parla, e se arriva un momento nella giornata in cui ho tempo e modo di prendere un libro per documentarmi sul Papa o sulla Scozia finisco invece irrimediabilmente per prendere Infinite Jest e leggerlo fino al momento in cui non crollo o in cui scade il tempo a mia disposizione, e così senza contare le note sabato sera ero a pagina 90, domenica sera a pagina 303, lunedì a pagina 501, martedì 642, mercoledì 908, giovedì niente perché avevo la febbre, oggi vedremo, e insomma se tutto va bene lo finisco entro il weekend e spero bene di non ricominciarlo da capo, altrimenti la vedo male per te e per Giancarlo e per il Papa e per la Scozia.

E io me ne vado dall'Italia.
Roberto

E noi non sentiremo la mancanza.

mercoledì 15 ottobre 2008

Nonostante le apparenze

Infatti, sebbene la ragione umana, per dirla semplicemente,
con le sole sue forze e la sua luce naturale
possa realmente pervenire
ad una conoscenza vera e certa
di un Dio personale,
il quale con la sua provvidenza
si prende cura del mondo e lo governa,

come pure di una legge naturale
inscritta dal Creatore nelle nostre anime,

tuttavia la stessa ragione incontra non poche difficoltà

ad usare efficacemente e con frutto
questa sua capacità naturale.

(Pio XII, Humani generis)

Senza considerare Jim Carrey, Una Settimana da Dio è un film molto meno cretino di quel che vuol sembrare (a cominciare dal titolo, inadeguata traduzione di Bruce Almighty, Bruce onnipotente).

Prima cosa, siamo in un ambiente del tutto luterano, in cui l’uomo si abbandona completamente alla grazia salvifica di Dio, anche qualora si tratti di far carriera in televisione o di evitare di finire in una pozzanghera coi pantaloni nuovi. È un atteggiamento a doppio taglio (come solo i protestanti non hanno realizzato), in quanto questo grava Dio di una responsabilità eccessiva anche lì dove l’uomo può benissimo arrivare con le sue sole forze.

Bruce, ovvero Jim Carrey, a quanto pare ha tutte le disgrazie; che saranno comiche, così come vengono rese sullo schermo, ma pur sempre disgrazie restano. Per certi versi la prima metà del film è una parodia del libro di Giobbe, in cui una serie inverosimile di sventure si abbatte su un sol uomo al solo scopo di testarne la reazione. Infatti nel libro di Giobbe c’è una specie di scommessa fra Dio e Satana, per vedere se Giobbe - persi tutti i suoi averi, devastato negli affetti, per giunta tormentato da un trio di amici moralisti e rompipalle - finisca per perdere le staffe e maledire il Signore. In tal caso vincerebbe Satana, altrimenti Dio (il finale lo scoprirete solo leggendo la Bibbia).

Va specificato che l’ebraismo prevede una stretta correlazione fra colpa e disgrazia. Se a un uomo brucia la casa, muore la moglie, isteriliscono le vacche, per l’opinione comune vuol dire che ha fatto qualcosa che non doveva, onde per cui ne paga il fio. Così lo stesso Bruce/Jim Carrey/Giobbe, nel suo monologo di ribellione al Padreterno, rimprovera Dio di punirlo per una colpa che non ha commesso; e, sentendosi nel giusto, sfida Dio (per bocca di Satana?) a lasciargli le chiavi del mondo per farlo funzionare un po’ meglio, a partire dai fatti suoi.

Dio, una volta tanto, ascolta e lo accontenta; dopo di che va in vacanza. In virtù dei poteri conferitigli, Bruce sistema dapprima le faccende private (si garantisce un avanzamento di carriera, si vendica dei soprusi, fa crescere le tette alla fidanzata/Jennifer Aniston) e poi, tormentato dalle preghiere che gli ronzano nelle orecchie, decide di accontentare tutti. Ne consegue fra l’altro che tutti vincono la lotteria, ricavandone circa 17 dollari; col paradossale effetto che le preghiere ascoltate e accontentate generano più frustrazione di quelle che cadono nel vuoto, fino a sfociare in tumulti di piazza.

Bruce realizza che la situazione gli è sfuggita di mano e deve quindi restituire le chiavi a Dio, che in realtà non è mai andato in vacanza e provvede a rimettere tutto a posto nel giro di mezza giornata scarsa. Dimostrazione pratica che è sempre meglio che l’uomo faccia l’uomo e Dio faccia Dio; soprattutto, che criticare è facile e sostituire molto difficile: se ne pagano sempre le conseguenze con sovrabbondanti interessi.

Se ne consiglia la visione ai giudici che, godendo di buona salute, vogliono sindacare su quella di Eluana Englaro.

martedì 14 ottobre 2008

Narrare con passo sperimentalista

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Lo sperimentalismo è un’arma a doppio taglio. Quando riesce, è la prova più evidente della bravura di un autore e della sua originalità nel rielaborare criticamente i confini letterari di chi l’ha preceduto. Quando non riesce la controprova è ben più atroce, tanto per l’autore che si sente continuamente frustrato nel proprio slancio iconoclasta quanto per il lettore costretto a fronteggiare pagina dopo pagina, riga dopo riga, un fallimento incomprensibile del quale non ha colpa. La principale difficoltà di fronte a un romanzo dichiaratamente sperimentale risiede appunto nel capire se l’esperimento è riuscito o meno: infatti, per definizione, gli strumenti atti alla comprensione dello sperimentalismo letterario non coincidono con quelli della tradizione; e, tuttavia, esclusivamente alla tradizione si può far capo per avere delle coordinate in base alle quali valutare un romanzo. Si può uscire dal circolo vizioso, credo, solo nel caso in cui si consideri se l’autore sperimentale – una figura che spesso e volentieri assomma in sé del genio e del ciarlatano – sia o non sia innanzitutto un autore, ovvero (banalmente) una persona avvezza a usare le parole. Si tratta in sostanza di diradare il fumo dello sperimentalismo e di vedere se sotto c’è dell’arrosto o invece uno zampirone impazzito.

Mi sono permesso questo lungo ragionamento perché la stessa Arianna Giorgia Bonazzi lo sottintende in poche righe del suo breve romanzo sperimentale. Racconta delle medie: “Il professore di disegno (…) aveva detto perché se io faccio una donna con l’occhio sul culo non sono picasso?”. Il problema è esattamente lo stesso, se non ci si fa sviare dalla punteggiatura inconsulta e da Picasso con l’iniziale minuscola (d’altra parte è in buona compagnia: la Bonazzi riserva la minuscola non solo a “dio” ma perfino a “berlusconi”; in compenso Pasolini ha la maiuscola, come anche lo stesso Picasso un paio di righe più tardi). Il professore di disegno, nella circostanza, indaga riguardo allo schema kantiano dello sperimentalismo, e si chiede perché la riproduzione del medesimo schema non valga a rendere sperimentale anche chi si accoda al tentativo primigenio. Risponde la narratrice-protagonista-autrice: “perché è personale”.

Dobbiamo dedurre che alla ricerca di quest’identico schema personale s’è mossa la Bonazzi con Oggi stesso sarai con me in Paradiso. Ha trovato un suo ritmo narrativo in un romanzo brevissimo, spezzato in capitoli mediamente di cinque pagine (ma anche di poche righe), a loro volta spezzettati in segmenti di pochi capoversi, talvolta uno soltanto, e ogni capoverso è costituito da poche righe, generalmente tre, alle volte una soltanto. Ne consegue che alcuni segmenti narrativi della Bonazzi si esauriscono nel giro di una riga (esempio: “I cuori in discoteche facevano rumore”) e che non sempre è facile seguirne lo sviluppo, indipendentemente dalla concentrazione e dalla buona volontà che si dedica loro.

L’esperimento della Bonazzi riesce meglio se si considerano le singole frasi. La punteggiatura, come abbiamo visto, salta spesso e volentieri, lasciando spazio alla giustapposizione di nudi sostantivi o aggettivi, nella quale traspare meglio che altrove la mesta ironia dell’autrice (“Una borsetta non classica dorica ionica corinzia”): una rielaborazione della tecnica dell’accumulo che, personale quantunque, ha padri nobili che risalgono fino a Giordano Bruno e oltre. La struttura sintattica della frase viene smontata in anacoluti colloquiali o, più spesso, viene mozzata da virgole assassine che s’infilano fra soggetto e predicato – la Bonazzi, beninteso, saprà benissimo che non si fa, e anzi l’abuso di questo artificio grammaticale dovrebbe denunziarne l’intenzionalità.

Non troppo di rado, però, queste stesse frasi evocano immagini o collegamenti piuttosto ardimentosi che, alla lunga, risultano forzati. In queste circostanze la Bonazzi concede troppo all’imperante maledettismo della narrativa femminile italiana di questi tempi (capostipite Simona Vinci), che rende difficile distinguere sulla cadenza di una singola frase un’autrice dall’altra. Se non altro, la Bonazzi si riconosce anche quando si lancia in inserti che ricadono in tematiche narrative à la page ma vagamente ritrite (esempio: “La mia amica punkabestia dopo mi aveva detto che si sentiva in colpa a toccare i ragazzini in un modo perché dio la guardava io le ho detto, sei cretina?”).

Parrebbe anzi che qua e là troppo sperimentalismo danneggi le capacità della Bonazzi, il cui indubbio talento – spesso usato come bestia da soma, per sopportare il peso di arditi sperimentalismi non sempre richiesti dall’andamento del romanzo – traspare da alcuni slanci narrativi icastici e folgoranti: “Ogni tanto se mi sentivo sola nel silenzio di plastica, accendevo google scrivevo il nome di una persona che amavo o un poeta, cercavo di scoprire che cosa aveva fatto nel frattempo”. Passaggi simili non sono rarissimi, per fortuna, e fanno ben sperare per le prove successive della Bonazzi che ha 26 anni e una carriera potenzialmente infinita davanti a sé; in questi casi il suo furore sperimentale si calma, il ritmo narrativo si fa più blando e avvolgente, il lettore si appassiona salvo venire nuovamente preso a ceffoni a partire dal capoverso immediatamente successivo. Di sicuro infatti le scelte stilistiche estreme della Bonazzi danneggiano la trama. Per centotrenta pagine, inerpicandosi per scoscesi avanguardismi, si aspetta che il romanzo inizi; e invece, all’improvviso, finisce.

lunedì 13 ottobre 2008

La duplice Italia

Sia benedetto Iddio, all’ottavo tentativo il Modena riesce a vincere una partita (1-0 in casa contro il temibile e rubicondo Piacenza). Senza la Serie A che fagocita l’attenzione, questa è la principale notizia della domenica sportiva, con la d e la s minuscole - quella con la D e la S maiuscole, invece, è andata in onda alle 23: 35, ossia a notte fonda, per evitare che la gente sappia che c’è una vita oltre alla Serie A. Prima, si sono viste trasmissioni fondamentali come N.C.I.S. e Criminal Intent, entrambe meno emozionanti di una vittoria del Modena e meno spaventose della sua posizione in classifica.

Altre faccende domenicali. All’alba non accade nulla di speciale: il miglior pilota di Formula 1 vince il Gran Premio del Giappone, capirai che gran notizia. Nel primo pomeriggio il Pavia perde con la consueta autorevolezza e conquista saldamente l’ultimo posto in una roba che si chiamava Serie C2 e ora, per far miglior figura, si chiama Lega Pro Seconda Divisione (ma sempre Serie C2 è). Nel tardo pomeriggio si soffre ma ne vale la pena: Santeramo vince al tie-break (pallavolo femminile) e la Lottomatica Roma ai supplementari (pallacanestro maschile). Alla sera, niente.

Il sabato era stato sufficientemente intenso da farmi scegliere, con piena avvertenza e deliberato consenso, di guardare due intere partite di calcio in un sol giorno. La giovine Italia di Pierluigi Casiraghi (del quale, tristemente, ricordo benissimo la giovinezza, accaduta quando io ero bambino) parte a razzo contro il povero Israele, in casa. Nel giro di dieci minuti crea due-tre nitide palle goal. Tuttavia non segna. Allora s’innervosisce e stabilisce di giocare come se avesse già segnato: ritmo morbido e palla profonda. Non segna. Giovinco con la palla fa quello che vuole (ma non segna), ragion per cui senza palla pensa bene di spintonare un avversario senza motivo. L’arbitro lo ammonisce, Casiraghi avrebbe dovuto passare i quindici minuti d’intervallo a prenderlo a calci nel sedere (Giovinco, non l’arbitro). Nel secondo tempo entra un’ala destra, il buon Abate, e cambia lo schema di gioco in un più ragionevole 4-4-2. Ciò nondimeno non si segna. L’unico che tenti di tirare in porta è l’ardimentoso Marchisio - c’è bisogno di dirlo? non segna nemmeno lui. Alla fine assalto all’arma bianca, l’Italia trascorre tutto l’ultimo quarto d’ora nell’area di rigore del sempre meno povero Israele, così come aveva fatto nei primi dieci minuti. Non segna. Il ritorno di martedì (o mercoledì? non ricordo più) in Terra Santa sarà molto meno piacevole di quanto possiamo immaginarlo.

Non segna nemmeno l’Italia d’oro di Marcello Lippi, la quale (l’Italia, che è femmina, non Lippi, che è maschio) non lo dice ma lo fa: va in Bulgaria con il preciso intento di pareggiare in trasferta. Sarà un atteggiamento criticabile per gli esteti del calcio ma per noi, che ai fronzoli preferiamo la sostanza, va benissimo in quanto si tratta pur sempre di imporre un risultato sfavorevole a una delle due avversarie quasi decenti che ci ritroviamo nel girone. Il calcio non è matematica, ragion per cui due risultati identici - quello del pomeriggio e quello della sera - hanno effetti opposti. Il primo non dispera ma preoccupa, il secondo non entusiasma ma tranquillizza. Mio padre avanza il dubbio: e se al posto di Lippi ci fosse stato Donadoni, non l’avrebbero mica crocifisso per aver pareggiato in Bulgaria? Come no, arguisco, e avrebbero fatto benissimo: perché mentre Lippi sa cosa sta facendo, e di lui ci si può fidare (ha vinto tutto con la Juventus, ha vinto il Mondiale con l’Italia), Donadoni aveva solo una mezza idea approssimativa del mestiere per il quale veniva pagato (prima della Nazionale, aveva allenato il Lecco e un po’ il Livorno, fate voi); ragion per cui un pareggio a Sofia per Lippi è un mattoncino in una costruzione elaborata, per Donadoni sarebbe stato l’incapacità di vincere una partita che potevamo pure perdere.

Centottanta minuti di calcio, dunque, con annessa mezz’ora d’intervallo per vedere due mesti 0-0. Prima di coricarmi mi levo un calzino, lo appallottolo e con un plastico collo pieno lo mando nel riquadro dell’armatura della sedia, dritto sotto lo schienale. Finalmente, un goal.

venerdì 10 ottobre 2008

Letterine letterarie (5)

Cardinal Gurrado,
com’è che il Papa prima dice che i soldi non sono nulla e poi, quando arriva il giorno della dichiarazione dei redditi, pretende che gli si versi l’otto per mille?
Matteo Levi
Vedo che si fa sul serio, oggi, e preparo la contraerea. Iniziamo col dire subito che quando arriva il giorno della dichiarazione dei redditi il Papa non pretende un bel niente, poiché nessuno va all’Inferno né viene scomunicato se si tiene l’otto per mille o lo versa alla comunità ebraica o agli avventisti del settimo giorno (se invece decide di versarlo all’Ucooi, non posso metterci la mano sul fuoco). In secondo luogo, l’otto per mille non viene versato al Papa ma alla Chiesa Cattolica, e per quanto paradossale si tratta di due cose piuttosto differenti. A quanto ne so l’otto per mille non viene usato per impreziosire la tiara pontificia né per rifare gli stucchi del suo studio vaticano, ma viene trasmesso dalla Cei ai parroci d’Italia per aiutare i bisognosi.
Se vogliamo spingerci all’analisi semantica, il Papa - ad ascoltarlo per intero - ha detto che non bisogna fondare tutta la propria vita sulla carriera e sul denaro perché i soldi, in sé e per sé, non sono niente, svaniscono nel nulla. In questi giorni a tutte le latitudini stiamo vedendo che quest’assioma non abbisogna di dimostrazioni aggiuntive (l’unica cosa che mi consola è che soldi non ne ho, e come quel tale stoico dei tempi antichi se me ne vado in giro nudo porto con me tutto ciò che possiedo; però mi dispiace per quelli che i soldi ce li hanno, per esserseli lavorati e averli risparmiati, poiché a differenza dei progressisti non ritengo che i soldi altrui siano un immorale schiaffo alla miseria). La Chiesa è una ben precisa gerarchia che culmina nel Papato, ha un apparato che necessita di carriere e soldi come qualsiasi altra istituzione con dentro degli omini; tuttavia a differenza di altre istituzioni è divina, ragion per cui qualora venissero spazzati via soldi e carriere ecclesiastiche la Chiesa potrebbe continuare imperterrita anche nel sottoscala di casa mia, la Borsa invece no.
A questo punto mi farai la morale tirando fuori il discorso che invece di ricoprire il Papa di soffici drappeggi e le chiese di barocchi ornamenti potrebbero spendere i medesimi soldi per i bisognosi di cui sopra. Ora, a parte che non esistono solo i bisognosi della tasca ma anche i bisognosi del cuore, a parte che la Chiesa serve a entrambi e forse addirittura più a questi ultimi, l’obiezione che mi muovi è già prevista da opinionisti più autorevoli di quelli che scrivono su Repubblica. Il Vangelo di Giovanni (12, 4) racconta che Gesù fu invitato a cena da Lazzaro, già risuscitato, circa una settimana prima di Pasqua. La sorella di Lazzaro unse i piedi di Gesù con dell’olio raffinato e costosissimo; allora uno dei Dodici non poté trattenersi e sbottò protestando: “Perché tale unguento non s’è venduto per trecento denari che potevano essere dati ai poveri?”. Ti trovi d’accordo coi principi etico-economici di quest’apostolo di buon senso? Bravo, era Giuda.
E poi uno a chi dovrebbe versarlo, l’otto per mille, ai giudici che oggi vogliono far morire Eluana Englaro e domani chissà?

Cher Gourradeau,
giustizia alfine è fatta! I saggi di Stoccolma hanno giustamente attribuito il premio Nobel per la letteratura a Jean-Marie-Gustave Le Clézio, autore di opere immortali quali La Febbre, Il Diluvio, Deserto e, non ultimo, Onitsha. È un tardivo e inadeguato riconoscimento al più grande scrittore vivente sulla faccia della terra.
Jean-Marie-Gustave Le Clézio
Di questo passo ci sarà da vantarsi se non si vince, ci sarà da stampare delle fascette con la scritta L’AUTORE AL QUALE NEANCHE QUEST’ANNO È STATO RICONOSCUTO IL PREMIO NOBEL per avvolgerci le copertine non dico di Philip Roth, Ian McEwan e Thomas Pynchon, che già spareremmo troppo alto, ma almeno di Pennac, Houellebecq e Camilleri, tanto per dire i primi tre che mi vengono a mente(senza contare fascette retroattive per le copertine di Joyce e Proust, quando il Nobel era ancora una cosa seria abbastanza da venir vinto da Shaw e Pirandello).
In compenso, dal 1996 io ho iniziato ad appuntare un elenco di tutti i libri che leggo, così da poter presentare delle cifre precise e non campate in aria, stando alle quali risulta che dal 1996 ho mediamente letto una decina di libri al mese, facciamo dieci esatti, che moltiplicati per dodici mesi fanno grossomodo centoventi libri all’anno, che moltiplicati per i dodici anni che intercorrono dal 1996 a tutt’oggi fanno (un attimo, prendo la calcolatrice) la bellezza di millequattrocentoquarantaquattro libri, con buona approssimazione millecinquecento. In compenso, dal 1996 a tutt’oggi, prima che gli conferissero il prestigioso riconoscimento, non avevo idea di chi cazzo fosse Jean-Marie-Gustave Le Clézio, e per certi versi non ce l’ho ancora adesso; ma forse è solo perché voto Berlusconi e quindi sono ignorante.