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venerdì 11 settembre 2015
E se domani Jeremy Corbyn venisse eletto, sarebbe il primo leader laburista ad avere alle spalle una raccolta di poesie in suo onore, Poets for Corbyn, pubblicata da un editore deluxe. Mica male per un leader pauperista che sogna di essere Nichi Vendola e si ritrova senza un governo ombra ma coi poeti di corte. Sul Foglio di oggi, a pagina 2.
mercoledì 9 settembre 2015
Per annunziare l'articolo di oggi lascio cavallerescamente la parola a Sofia Silva, pittrice padovana come si deve:
Antonio Gurrado e io siamo follemente innamorati della Regina Elisabetta, è il nostro unico argomento di conversazione, la pensiamo tutti i giorni a tutte le ore del giorno (ora, che io la emuli è del tutto comprensibile, ma se provate a fare una lettura comparata tra gli articoli di Gurrado e i Queen's Speeches...).
Sta di fatto, ci siamo spartiti i ruoli in questa pagina a due su Il Foglio di oggi in maniera molto primitiva, nel senso che Gurrado fa Gurrado scrivendo del magnifico eloquio della sovrana e io faccio me stessa scrivendo di vestiti, dita nel naso e dei miei trip romantici sui principi consorti che rimangono sempre azzurri senza mai diventare blu.
Antonio Gurrado e io siamo follemente innamorati della Regina Elisabetta, è il nostro unico argomento di conversazione, la pensiamo tutti i giorni a tutte le ore del giorno (ora, che io la emuli è del tutto comprensibile, ma se provate a fare una lettura comparata tra gli articoli di Gurrado e i Queen's Speeches...).
Sta di fatto, ci siamo spartiti i ruoli in questa pagina a due su Il Foglio di oggi in maniera molto primitiva, nel senso che Gurrado fa Gurrado scrivendo del magnifico eloquio della sovrana e io faccio me stessa scrivendo di vestiti, dita nel naso e dei miei trip romantici sui principi consorti che rimangono sempre azzurri senza mai diventare blu.
martedì 1 settembre 2015
Arriva l'ultimo mio giorno a Cambridge e, poiché non voglio proprio andarmene, sul Foglio esce un articolo sugli happy returns; ossia sulla mania tutta inglese di tornare sempre sui propri passi, guardare indietro per andare avanti e fare in modo che ciò che è già stato (ad esempio le carrozze per sole donne sui mezzi pubblici) possa sempre tornare a essere, Balotelli a parte. Lo trovate in edicola, con rivelazioni sulla prossima stagione televisiva britannica.
giovedì 27 agosto 2015
Non è curioso che proprio nel giorno in cui parto da Cambridge per ripassare dopo anni da Oxford esca sul Foglio un mio articolo sulla Oxbridge connection, ossia sul patto del Nazareno fra Cambridge e Oxford? In Inghilterra qualcuno avanza il sospetto che esista un accordo fra politici laureati nelle due università per continuare a governare all'infinito indipendentemente dal colore e dal partito. Nell'articolo spiego cosa c'è di vero e cosa no.
mercoledì 26 agosto 2015
Ogni volta che devo andare a Oxford accade qualche disgrazia, e infatti stamattina non appena ho fatto il biglietto del treno è venuta giù un'acqua battente che ancora non accenna a smettere e forse non solo funesterà l'intera trasferta di domani ma probabilmente durerà una quarantina di giorni, rendendo necessario costruire un'arca sulla quale far salire solo e soltanto due studiosi di sesso diverso per ogni materia così da garantire la salvezza della cultura: un professore e una ricercatrice di accadico, una lecturer e un dottorando di meccanica quantistica, un assegnista di studi voltairiani (bellissimo) con un'ospite a sua discrezione e così via. Comunque. Il principale motivo di orgoglio per questa trasferta a Oxford è avere scoperto che la rivalità con Cambridge è talmente radicata e capillare da essersi diffusa perfino nei bigliettai in stazione. Allo sportello infatti ho escogitato il numero di chiedere prima I wish to go to Oxford, desidero andare a Oxford, correggendomi poi con I would like to go to Oxford, mi piacerebbe andare a Oxford, e poi concludendo con un Well, I'm not so keen on that, dopotutto non sono così entusiasta di farlo, che per poco il bigliettaio non scavalcava la vetrata per venire a stringermi la mano ridendo.
martedì 25 agosto 2015
Grazie alle diatribe laburiste e al barbuto Jez Corbyn che va di gran moda, i riflettori sono puntati sulle diverse anime della sinistra fino al punto da far dimenticare che in Inghilterra esiste e resiste una destra non cameroniana. L'ho incontrata di persona stamattina. Avevo bisogno di una lavanderia e per evitare il traffico del bank holiday incombente ne ho cercata una piccolina, nella zona del Grafton Centre che è il principale centro commerciale di Cambridge. Il gestore era sulla cinquantina e mi ha guardato con il sospetto che si deve a un cliente nuovo che non solo è chiaramente straniero ma dichiara anche di avere bisogno di camicie stirate per martedì perché poi mercoledì parte per sempre e chi s'è visto s'è visto. Il modo in cui ha indagato su di me è stato educatissimo oltre che raffinato, inserendo nello smalltalk della consegna dei miei stracci una serie di considerazioni o domande volte a scoprire non tanto da dove venissi ma cosa pensassi, perché è quella la discriminante. Non gli interessava tanto sapere se fossi italiano quanto capire che idea mi fossi fatto della Rinascente, e quando gli ho spiegato del nome dato da d'Annunzio e dell'edificio milanese che mi piace perché è coerente col resto della città si è sentito libero di lamentare che il Grafton Centre non sarebbe mai dovuto sorgere perché non c'entra nulla con Cambridge, oltre a danneggiare i negozi più piccoli su cui la società locale si reggeva. L'ha ripetuto tre volte prima di esaminarmi introducendo nel discorso Michael Portillo; la delusione che ho causato non sapendo che dopo essersi dimesso da parlamentare Portillo aveva condotto una trasmissione di viaggi per la BBC è stata bilanciata dalla mia competenza nel ricordare che Portillo aveva perso le primarie per la leadership conservatrice da Iain Duncan Smith. A quel punto il lavandaio s'è sentito libero di esprimere l'idea che Portillo non fosse gran che come politico ma andasse bene come persona - rimarchevole la distinzione, l'opposizione anzi, fra person e politician - e mi ha fatto pagare perché altrimenti saremmo andati avanti all'infinito, io a rispondere alla sua interrogazione e lui a scoprirsi un po' di più a ogni risposta esatta rivelandomi di essere non ostile ai conservatori e non favorevole agli stranieri, non ostile però a quelli che si integravano con la cultura inglese ed erano in grado di sostenere una conversazione, ma nemmeno favorevole ai fat cats della finanza ai cui soldi i Tory si sono asserviti temo definitivamente; e così via a precisare sempre più la propria posizione differenziandola da quella del partito che avrebbe naturalmente supportato. All'uscita ho notato che mentre Cameron per cinque anni ha parlato e parlato della big society, la quale doveva venire in soccorso dei meno abbienti creando dei plotoncini locali di aiuto spicciolo, ma alla fine non credo che abbia combinato gran che, il lavandaio esponeva fuori dalla porta un cartello in cui prometteva che, se dimostravi di essere disoccupato e avevi bisogno di far lavare e stirare un abito per un colloquio di lavoro, lui lo faceva gratis. Lo vedrei bene come candidato alla leadership conservatrice nel 2020.
venerdì 14 agosto 2015
Ma le avete viste le facce dei quattro candidati alla leadership laburista? Siccome so che non sapete nemmeno chi siano, vi suggerisco di cercare su google gli identikit di Andy Burnham, Yvette Cooper, Jeremy Corbin e Liz Kendall. Non sorprende che buona parte del dibattito interno al partito verta sulla prospettiva di restare all'opposizione per altri dieci anni o forse venti, nonostante quanto avevo scritto sul Foglio nel giorno in cui Gordon Brown cedeva a tempo potenzialmente indeterminato la casa di Downing Street al dinamico ciuffo conservatore di David Cameron:
Gli inglesi hanno da sempre un rapporto controverso col corpo dei loro leader. La Regina, per esempio, ogni estate va in vacanza nello stesso paesino e la prassi è che tutti gli abitanti del luogo fingano di non vederla: è la loro maniera di tributarle onore. Ma un giorno un turista non molto pratico del tacito accordo, avendo scorto in una sala da tè questa signora dall’aria familiare, le si avvicinò sussurrandole discretamente: “Sa che somiglia moltissimo alla regina?”. E lei: “Grazie, è davvero rassicurante”.
Il desiderio di ignorare a ogni costo il sembiante di chi rappresenta la nazione è stato rimosso senza ritegno di fronte a Gordon Brown. Nel giorno che avrebbe portato alle sue dimissioni, quasi tutti i quotidiani – senza distinzioni fra raffinati broadsheet e tabloid popolari – hanno incentrato la prima pagina su un primissimo piano del suo volto accigliato, quasi grottesco per quanto infantile appariva la sua espressione. Sembrava volessero certificare all’unisono che Brown era da tempo la caricatura di se stesso, schiacciato sotto il peso di una fisicità che non riusciva più a governare e che lo rendeva un po’ ridicolo e un po’ implausibile. Per quanto i media inglesi abbiano iniziato a danzare intorno al cadavere di Brown già nel giugno 2009, quando le dimissioni in serie di ministri chiave lo costrinsero a un rimpasto estremo e quasi eroico per il suo equilibrismo, il momento in cui l’attenzione dell’opinione pubblica è stata fatta convergere sul corpo del primo ministro è arrivato a settembre. A Brighton, nel corso del congresso laburista, Andrew Marr della Bbc gli rivolse una raffica di domande improvvide sul suo effettivo stato di salute e Brown fu costretto a entrare nei dettagli su come avesse perso la vista dall’occhio sinistro durante una partita di rugby al college. Mai un premier era apparso tanto isolato e sperduto come Brown sul palco di Brighton mentre cercava affannosamente di non rispondere all’inquisitorio Marr, che gli chiedeva se davvero assumesse psicofarmaci.
Da allora le immagini imbarazzanti si sono susseguite incalzandolo. In un corteo solenne a Buckingham Palace si lascia sfuggire un incongruo sorriso che sembra piuttosto un rictus; visita le truppe in Afghanistan indossando (Dio solo sa perché) due elmetti uno sull’altro; sprofonda il volto fra le mani scoprendo di aver lasciato il microfono acceso mentre offendeva un’elettrice. Oppure, stando alle rivelazioni di Andrew Rawnsley in “The end of the party”, in auto conficca una penna nel sedile di un sottoposto che gli aveva fatto perdere la pazienza. I dibattiti televisivi hanno fatto il resto: mettendo Brown a confronto con due consapevoli posatori quali David Cameron e Nick Clegg, hanno contribuito a diffondere l’idea che non fosse adatto a governare perché muoveva la mascella in modo buffo e non sapeva mai come sistemare le mani sul leggio.
Il triste paradosso di Gordon Brown è che nessun primo ministro sembra aver dato meno di lui peso alla propria immagine e ciò nonostante verrà ricordato soprattutto per il suo corpo brutto, goffo e malandato. Non gli si può negare una grandezza tragica. Lui forse aspirava a essere un Macbeth destinato al dolce tormento di vedersi le mani sempre macchiate del sangue dei suoi alleati, divenuti avversari e via via sconfitti; invece i media hanno trasformato la sua inesausta furia politica nella rabbia di Calibano che scorge la propria immagine riflessa in uno specchio.
Gli inglesi hanno da sempre un rapporto controverso col corpo dei loro leader. La Regina, per esempio, ogni estate va in vacanza nello stesso paesino e la prassi è che tutti gli abitanti del luogo fingano di non vederla: è la loro maniera di tributarle onore. Ma un giorno un turista non molto pratico del tacito accordo, avendo scorto in una sala da tè questa signora dall’aria familiare, le si avvicinò sussurrandole discretamente: “Sa che somiglia moltissimo alla regina?”. E lei: “Grazie, è davvero rassicurante”.
Il desiderio di ignorare a ogni costo il sembiante di chi rappresenta la nazione è stato rimosso senza ritegno di fronte a Gordon Brown. Nel giorno che avrebbe portato alle sue dimissioni, quasi tutti i quotidiani – senza distinzioni fra raffinati broadsheet e tabloid popolari – hanno incentrato la prima pagina su un primissimo piano del suo volto accigliato, quasi grottesco per quanto infantile appariva la sua espressione. Sembrava volessero certificare all’unisono che Brown era da tempo la caricatura di se stesso, schiacciato sotto il peso di una fisicità che non riusciva più a governare e che lo rendeva un po’ ridicolo e un po’ implausibile. Per quanto i media inglesi abbiano iniziato a danzare intorno al cadavere di Brown già nel giugno 2009, quando le dimissioni in serie di ministri chiave lo costrinsero a un rimpasto estremo e quasi eroico per il suo equilibrismo, il momento in cui l’attenzione dell’opinione pubblica è stata fatta convergere sul corpo del primo ministro è arrivato a settembre. A Brighton, nel corso del congresso laburista, Andrew Marr della Bbc gli rivolse una raffica di domande improvvide sul suo effettivo stato di salute e Brown fu costretto a entrare nei dettagli su come avesse perso la vista dall’occhio sinistro durante una partita di rugby al college. Mai un premier era apparso tanto isolato e sperduto come Brown sul palco di Brighton mentre cercava affannosamente di non rispondere all’inquisitorio Marr, che gli chiedeva se davvero assumesse psicofarmaci.
Da allora le immagini imbarazzanti si sono susseguite incalzandolo. In un corteo solenne a Buckingham Palace si lascia sfuggire un incongruo sorriso che sembra piuttosto un rictus; visita le truppe in Afghanistan indossando (Dio solo sa perché) due elmetti uno sull’altro; sprofonda il volto fra le mani scoprendo di aver lasciato il microfono acceso mentre offendeva un’elettrice. Oppure, stando alle rivelazioni di Andrew Rawnsley in “The end of the party”, in auto conficca una penna nel sedile di un sottoposto che gli aveva fatto perdere la pazienza. I dibattiti televisivi hanno fatto il resto: mettendo Brown a confronto con due consapevoli posatori quali David Cameron e Nick Clegg, hanno contribuito a diffondere l’idea che non fosse adatto a governare perché muoveva la mascella in modo buffo e non sapeva mai come sistemare le mani sul leggio.
Il triste paradosso di Gordon Brown è che nessun primo ministro sembra aver dato meno di lui peso alla propria immagine e ciò nonostante verrà ricordato soprattutto per il suo corpo brutto, goffo e malandato. Non gli si può negare una grandezza tragica. Lui forse aspirava a essere un Macbeth destinato al dolce tormento di vedersi le mani sempre macchiate del sangue dei suoi alleati, divenuti avversari e via via sconfitti; invece i media hanno trasformato la sua inesausta furia politica nella rabbia di Calibano che scorge la propria immagine riflessa in uno specchio.
mercoledì 12 agosto 2015
C'è quel racconto di Aldo Palazzeschi in cui (mi pare) un inglese va in Egitto per una spedizione archeologica con la moglie e un coccodrillo poco educato se lo pappa. La moglie allora presenta le proprie rimostranze al coccodrillo offrendogli un matrimonio riparatore; il coccodrillo accetta di buon grado e si trasferisce con lei in Toscana, dove si piazza sulla sedia a dondolo a leggere il giornale in tweed mentre fuma la pipa. Una lucertola vedendolo riconosce in lui un lontano parente e gli domanda cosa faccia conciato a quel modo. "Non lo vedi? Faccio l'inglese". Così anch'io al mattino leggo il giornale cercando di camuffarmi il più possibile perché vado a farlo da Savino, lo storico bar italiano di Cambridge che ha il pregio di vendere caffè Illy quindi viene frequentato da inglesi che se ne intendono, tanto che è sempre pieno e arrivano sempre persone che finiscono per chiedermi se possono sistemarsi sulle sedie vuote del mio tavolino; poiché io non amo il reducismo evito di prendere le copie tentatrici del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport (del giorno prima, si capisce) ma leggo con sussiego il Guardian e poi sfoglio rapidamente il Telegraph, il Times e l'Independent in ordine decrescente d'importanza e di necessità. Faccio l'inglese talmente bene che ieri il signore col tweed e la moglie che condividevano il mio tavolino nell'atto di andarsene mi hanno sussurrato con fare cospiratorio: "Lei è italiano? Anche noi".
lunedì 10 agosto 2015
A completamento del mio pezzo uscito sabato sul Foglio riguardo alle nuove tendenze del teatro britannico e in particolare alla messinscena dell'eutanasia al Fringe Festival di Edimburgo, devo segnalare che questo fine settimana sui palchi scozzesi tutte le attenzioni sono state accentrate su uno spettacolo in cui due attori si spogliavano progressivamente lanciandosi reciprocamente addosso della vernice. Bello, intenso, significativo; come hanno segnalato alcuni recensori, un percorso per giungere alla piena liberazione del popolo britannico, troppo spesso costretto da cliché e obblighi sociali.
Prima che io possa liberarmi e andare in giro per Cambridge nudo cosparso di vernice deve passarmi il raffreddore, frutto delle temperature improvvisamente estive del fine settimana (il mio povero corpo, che si era acclimatato sul tipico freddolino di queste latitudini, non ha retto); vi terrò aggiornati. Posso però segnalare che oggi un ulteriore passo è stato fatto verso la liberazione del popolo britannico, proprio stamattina, proprio a Cambridge, proprio mentre ero in fila da WH Smith per comprare il giornale. Il signore davanti a me, in attesa che si liberasse l'unica cassa monopolizzata da un tale che stava comprando dei Gratta & Vinci e si dilungava in chiacchiere con la cassiera che per educazione gli dava corda, a un certo punto ha fatto l'imponderabile: si è raschiato la gola per farsi notare. Non contento, in seguito ha sbuffato; e quando il troppo gli è parso troppo, ha anche fatto minacciosamente un passo in avanti verso la cassa. Non vedo l'ora di leggere la recensione della performance domani su Cambridge News.
Prima che io possa liberarmi e andare in giro per Cambridge nudo cosparso di vernice deve passarmi il raffreddore, frutto delle temperature improvvisamente estive del fine settimana (il mio povero corpo, che si era acclimatato sul tipico freddolino di queste latitudini, non ha retto); vi terrò aggiornati. Posso però segnalare che oggi un ulteriore passo è stato fatto verso la liberazione del popolo britannico, proprio stamattina, proprio a Cambridge, proprio mentre ero in fila da WH Smith per comprare il giornale. Il signore davanti a me, in attesa che si liberasse l'unica cassa monopolizzata da un tale che stava comprando dei Gratta & Vinci e si dilungava in chiacchiere con la cassiera che per educazione gli dava corda, a un certo punto ha fatto l'imponderabile: si è raschiato la gola per farsi notare. Non contento, in seguito ha sbuffato; e quando il troppo gli è parso troppo, ha anche fatto minacciosamente un passo in avanti verso la cassa. Non vedo l'ora di leggere la recensione della performance domani su Cambridge News.
sabato 8 agosto 2015
Pensavate di volare a Londra per venire a vedere Benedict Cumberbatch che recita Amleto? Tanto vale che allunghiate il tragitto arrivando fino al Fringe Festival di Edimburgo, così potete andare a teatro per provare la macchina della dolce morte salendo sul palco durante un monologo sull'eutanasia: non avrete più dubbi su essere e non essere. Ne parlo sul Foglio in edicola oggi.
venerdì 7 agosto 2015
Ieri sera ero tutto ammirato da una brevissima recensione nel tradizionale dorsetto culturale sul Guardian del sabato, in cui Il libro delle cose nuove e strane di Michel Faber (Bompiani) viene raccontato in trenta righe dal punto di vista della moglie del protagonista nonostante che il romanzo sia scritto dal punto di vista del marito - quand'ecco che subito sotto ho scorto qualcosa di ancora meglio. Yes Please dell'attrice scollata Amy Poehler viene recensito da Laura Miller in questi termini:
Viene presentato su pagine stampate infilate fra due fogli cartonati a mo' di copertina; pertanto, tecnicamente parlando, è un libro. Tuttavia è il tipo di titolo cui nell'ambiente editoriale si fa talvolta riferimento come "non-libro", nel senso che ha poche delle qualità che la gente libresca abitualmente ama ritenere esemplificative dell'oggetto. Non è un atto di scrittura coerente e ben ordito attorno a una storia o a un argomento. Viene difficile immaginare qualcuno che riesca a trovare un senso in parti di esso, o addirittura a leggerlo tutto.
Purtroppo non conoscevo prima Laura Miller e purtroppo l'impietoso Google mi svela stamattina che si tratta di una lettrice professionista che scrive anche per Slate, New Yorker, Harper's Magazine. Peccato. Per tutta la notte avevo sognato che si trattasse dello pseudonimo con cui Fabio Fazio si vendicava di tutta la melassa che a Rai 3 gli fanno da anni riversare su libri e non libri.
Viene presentato su pagine stampate infilate fra due fogli cartonati a mo' di copertina; pertanto, tecnicamente parlando, è un libro. Tuttavia è il tipo di titolo cui nell'ambiente editoriale si fa talvolta riferimento come "non-libro", nel senso che ha poche delle qualità che la gente libresca abitualmente ama ritenere esemplificative dell'oggetto. Non è un atto di scrittura coerente e ben ordito attorno a una storia o a un argomento. Viene difficile immaginare qualcuno che riesca a trovare un senso in parti di esso, o addirittura a leggerlo tutto.
Purtroppo non conoscevo prima Laura Miller e purtroppo l'impietoso Google mi svela stamattina che si tratta di una lettrice professionista che scrive anche per Slate, New Yorker, Harper's Magazine. Peccato. Per tutta la notte avevo sognato che si trattasse dello pseudonimo con cui Fabio Fazio si vendicava di tutta la melassa che a Rai 3 gli fanno da anni riversare su libri e non libri.
giovedì 6 agosto 2015
Dall'affaire Edward Heath - primo ministro negli anni '70, immortalato nel coretto di una canzone dei Beatles sulle tasse, oggi accusato di pedofilia a furor di popolo dai quotidiani bassi - si apprende lo slittamento di alcuni concetti chiave nella cultura britannica. Heath è stato uno dei due primi ministri single nella storia contemporanea del Regno Unito, settant'anni dopo il notorio snob e libertino conte Balfour. Per dirvi l'inverosimiglianza di un primo ministro single, pensate che attorno a questo rarissimo caso è stata imbastita la trama del film Love, actually, con Hugh Grant che balla da solo di sera giù per le scale di 10 Downing Street. Heath era un modello di single molto diverso da Balfour (e da Hugh Grant, che alla fine sposa una stagista) in quanto alla carenza di una famiglia non sopperiva con un'attività seduttiva pubblicamente chiacchierata. Alle domande sulla sua vita privata, anche gli amici più intimi rispondevano: "Non ne ha". Ciò che nell'Inghilterra di quarant'anni fa era visto se non come un pregio come un'eventualità, ossia il sostanziale disinteresse dell'uomo nei confronti di tormenti sentimentali o turbamenti sessuali che lo avrebbero distolto dalla gestione del potere in cui era assorbito, oggi viene immediatamente interpretato come copertura di un'attività omosessuale. Può anche essere, ma who cares?
Qui entra in gioco infatti il secondo fattore. L'aggettivo più comune nel descrivere Heath era secretive, ovvero discreto ai limiti dell'occultamento. Anche questo era reputato un pregio nell'Inghilterra di quarant'anni fa, ritenendo che l'esposizione di emozioni, affari propri e mutande sporche fosse continentale, latina - anzi peggio, common: ossia una tentazione per così tante persone di varia estrazione che tanto valeva che nessuno vi cedesse, soprattutto chi copriva ruoli di responsabilità. Nessun inglese serio avrebbe voluto per amico uno che gli raccontava pettegolezzi su sé stesso. Oggi invece si ritiene che chi non metta in piazza la propria privacy abbia necessariamente qualcosa da nascondere. Nel caso di Heath, l'omosessualità; ma come mai era così secretive? Non è che c'è qualcosa di peggio?
Ecco il terzo tassello. La discrezione iperbolica di Heath deve nascondere qualcosa di losco, che colori di nero l'ormai acclarata predilezione per i maschi; anzi, per i ragazzi; anzi, per i bambini. Voilà. Basta che una tenutaria di bordello, ormai carampana, dichiari di avere servito Heath e il gioco è fatto: il privato diventa pubblico, il sesso reato, la passione delitto, inevitabilmente. Poco conta che la dichiarazione sia stata resa venticinque anni fa e mai confermata, anzi smentita dalla medesima; l'enjeu politico pretende che le indagini vadano a fondo e, se non c'è nulla, vuol dire che un quarto di secolo fa esse furono fermate per impedire di arrivare a colpire nomi molto in alto. Heath sembrava una persona discreta, forse un po' troppo solitaria, e invece era un diabolico complottista.
Non basta. Le indagini si sono basate sulle rivelazioni di un bambino di sessantacinque anni il quale si è improvvisamente ricordato di avere subito sevizie dal futuro primo ministro nel 1961. Non commenterò la credibilità del singolo caso ma mi limiterò a ricordarvi che scrivo da Cambridge, dove un'inchiesta ha rivelato che il 30% degli studenti universitari sostiene di avere subito violenza sessuale e il 77% molestie sessuali; se tanto mi dà tanto, è sorprendente che dopo un'intera settimana qui io non sia stato violentato. O non sia in galera.
Manca l'ultimo pezzo. La polizia. Le forze dell'ordine del Wiltshire, di fronte al sospetto di avere insabbiato un'inchiesta nei primi anni '90, hanno reagito con forza tenendo una conferenza stampa di fronte alla casa di Heath. Santo cielo! Ma nemmeno in Corea del Nord, spero almeno, la polizia tiene conferenze stampa davanti alla casa dell'indagato! Non solo: in barba a ogni principio di giustizia basata sulle indagini, e non sull'inquisizione, la polizia ha invitato a uscire allo scoperto chiunque da bambino abbia subito violenza sessuale, benché retribuita, da Edward Heath. Accorreranno a frotte, richiamati dalla succosa madeleine giuridica: così si potrà finalmente far pagare il fio a un orrido pedofilo che a prima vista sembrava un politico discreto e melanconico, un romantico che teneva sul comodino la foto di una fidanzata mai sposata. E che è morto dieci anni fa.
Qui entra in gioco infatti il secondo fattore. L'aggettivo più comune nel descrivere Heath era secretive, ovvero discreto ai limiti dell'occultamento. Anche questo era reputato un pregio nell'Inghilterra di quarant'anni fa, ritenendo che l'esposizione di emozioni, affari propri e mutande sporche fosse continentale, latina - anzi peggio, common: ossia una tentazione per così tante persone di varia estrazione che tanto valeva che nessuno vi cedesse, soprattutto chi copriva ruoli di responsabilità. Nessun inglese serio avrebbe voluto per amico uno che gli raccontava pettegolezzi su sé stesso. Oggi invece si ritiene che chi non metta in piazza la propria privacy abbia necessariamente qualcosa da nascondere. Nel caso di Heath, l'omosessualità; ma come mai era così secretive? Non è che c'è qualcosa di peggio?
Ecco il terzo tassello. La discrezione iperbolica di Heath deve nascondere qualcosa di losco, che colori di nero l'ormai acclarata predilezione per i maschi; anzi, per i ragazzi; anzi, per i bambini. Voilà. Basta che una tenutaria di bordello, ormai carampana, dichiari di avere servito Heath e il gioco è fatto: il privato diventa pubblico, il sesso reato, la passione delitto, inevitabilmente. Poco conta che la dichiarazione sia stata resa venticinque anni fa e mai confermata, anzi smentita dalla medesima; l'enjeu politico pretende che le indagini vadano a fondo e, se non c'è nulla, vuol dire che un quarto di secolo fa esse furono fermate per impedire di arrivare a colpire nomi molto in alto. Heath sembrava una persona discreta, forse un po' troppo solitaria, e invece era un diabolico complottista.
Non basta. Le indagini si sono basate sulle rivelazioni di un bambino di sessantacinque anni il quale si è improvvisamente ricordato di avere subito sevizie dal futuro primo ministro nel 1961. Non commenterò la credibilità del singolo caso ma mi limiterò a ricordarvi che scrivo da Cambridge, dove un'inchiesta ha rivelato che il 30% degli studenti universitari sostiene di avere subito violenza sessuale e il 77% molestie sessuali; se tanto mi dà tanto, è sorprendente che dopo un'intera settimana qui io non sia stato violentato. O non sia in galera.
Manca l'ultimo pezzo. La polizia. Le forze dell'ordine del Wiltshire, di fronte al sospetto di avere insabbiato un'inchiesta nei primi anni '90, hanno reagito con forza tenendo una conferenza stampa di fronte alla casa di Heath. Santo cielo! Ma nemmeno in Corea del Nord, spero almeno, la polizia tiene conferenze stampa davanti alla casa dell'indagato! Non solo: in barba a ogni principio di giustizia basata sulle indagini, e non sull'inquisizione, la polizia ha invitato a uscire allo scoperto chiunque da bambino abbia subito violenza sessuale, benché retribuita, da Edward Heath. Accorreranno a frotte, richiamati dalla succosa madeleine giuridica: così si potrà finalmente far pagare il fio a un orrido pedofilo che a prima vista sembrava un politico discreto e melanconico, un romantico che teneva sul comodino la foto di una fidanzata mai sposata. E che è morto dieci anni fa.
mercoledì 5 agosto 2015
Vi spiego rapidamente come funziona il giornalismo britannico. Prendiamo il Guardian; prendiamo anche un numero vecchio (venerdì scorso) così facciamo del vintage e possiamo concentrarci sui meccanismi anziché sulla stretta attualità. Partiamo da una pagina interna, quella degli editoriali, in fondo alla quale si trova il pezzo sul dottor Palmer o meglio su Cecil, il leone ucciso in un safari facilitato dal dentista americano. Il pezzo del Guardian lo paragona a Putin (il medico, non il felino) per via della passione nel farsi fotografare con selvaggina inerte, talvolta perfino a torso nudo. Putin lo ritroviamo in prima pagina, in un articolo che riferisce della visita in Scozia di Donald Trump. Il candidato alle primarie repubblicane, visitando un campo da golf nelle Highlands, ha dichiarato che col presidente russo avrebbe rapporti più amichevoli di quelli che Obama ha saputo costruire nel suo mandato e mezzo. Dunque, per la proprietà transitiva, da un lato troviamo i cattivoni Palmer, Putin e Trump; dall'altro i buoni che per ora sono soltanto un leone e Obama. Le schiere sono destinate a rimpolparsi rapidamente. Qual è la principale accusa che viene rivolta a Donald Trump dai benpensanti? Quella di avere rivelato che gli immigrati messicani portano in larga parte delinquenza. Inaudito. Infatti cosa c'è proprio di fianco all'articolo su Trump, sempre in prima pagina? Il resoconto dell'indignazione laburista a fronte delle dichiarazioni di David Cameron; in riferimento agli assalti di immigrati a Calais, il primo ministro li aveva definiti swarm, sciame, e giù proteste perché è un linguaggio disumanizzante, e le parole sono importanti, e bisogna rispettare gli animali ma anche gli immigrati, e così la Gran Bretagna scopre di essere governata da una specie di Donald Trump meno pacchiano. Ma corriamo all'inserto G2, quello degli approfondimenti sagaci e irriverenti, dove troviamo un'intervista ai Blur il cui membro Alex James è costretto a difendersi dalle accuse dovute alla scoperta di una vecchia foto che lo ritrae, orrore degli orrori, indovinate con chi? Con David Cameron: il simil-Trump quasi-Putin che se fosse un dentista se ne andrebbe in giro per l'Africa ad ammazzare tutti i leoni e i potenziali immigrati. Aggravante: nella foto incriminata appare anche Jeremy Clarkson, anchorman di enorme successo ed ex conduttore di Top Gear, trasmissione di punta dalla quale la BBC l'ha cacciato per presunte molestie sessuali; e chi c'è a pagina tre del quotidiano? Proprio Jeremy Clarkson: una pagina intera viene dedicata al fatto che Amazon gli ha affidato - insieme ad altri due tizi che qui sembrano famosissimi ma ai miei occhi sono ignoti - la conduzione di un'altra trasmissione sulle automobili volta a rivaleggiare con Top Gear. Sdegno di fronte a un'azienda che assumendo un potenziale stupratore retroattivo, noto per le sue foto con musicisti adusi a farsi fotografare con primi ministri che vorrebbero essere Donald Putin o Vladimir Trump al solo scopo di sparare a Obama in un safari facilitato, non tiene in debito rispetto le donne. Bisogna fare come invece suggerisce Mark Haddon - autore de Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte - il quale nella rubrica "Il libro che mi ha cambiato la vita" approfitta dello spazio concessogli dal Guardian per confessare che prima di leggere negli anni '80 Spare Rib reader (sottotitolo: "100 argomenti per la liberazione delle donne") non solo era un fedelissimo fan delle comiche scollacciate di Benny Hill ma nemmeno credeva che il mondo fosse così preclusivo e violento nei confronti delle donne. Da allora però Haddon è diventato un convinto femminista, uno di quelli che - si deduce - non solo ha iniziato a guardare Top Gear solo nella nuova versione corretta e declarksonizzata ma non sparerebbe mai nemmeno a un dentista americano, anzi se gli capitasse di incontrare un leone immigrato se lo sposerebbe immediatamente.
giovedì 30 luglio 2015
Bene, oggi prendo e vado a lavorare a Cambridge per un mesetto. Ciao. Mia madre, dal 1998 sempre attenta ai miei spostamenti, mi ha domandato perché non andassi piuttosto a Oxford, visto che ci avevo già vissuto e lavorato per due anni e mezzo; la domanda è saggia ma la risposta si trova già in un mio pezzo uscito sul Foglio nel settembre di cinque anni fa, subito dopo che Cambridge aveva superato Oxford e Harvard in vetta alla classifica delle migliori università del mondo:
Infilare le università in una graduatoria mondiale non ha molto senso perché la loro qualità andrebbe calcolata sul beneficio che ciascuna facoltà o dipartimento può garantire a ogni singolo alunno. Per questo i QS World University Rankings hanno risultati discutibili: Oxford peggio dell’University College London? L’École Normale Superieure trentatreesima? Bologna e La Sapienza uniche due università italiane decenti? Fra le righe la graduatoria fornisce anche un’importante indicazione per il futuro delle accademie. Sulle duecento università eccellenti, la prima non anglofona è Zurigo al diciottesimo posto, quelle francofone arrancano, le italofone sono disperse. Si è creata una lega stabile di sedi nelle quali circola un vortice pubblicazioni accademiche in inglese, che traggono affidabilità e prestigio da pareri favorevoli incrociati. Triste ammetterlo, ma pubblicare in italiano significa condannarsi alla periferia dell’Impero.
Se c’è una cosa sulla quale non mi sento di discutere è il primato di Cambridge, che finalmente quest’anno scavalca Harvard e ristabilisce l’ordine naturale del creato. Chiunque sia passato per Cambridge deve riconoscere (o ammettere a denti stretti, se viene da Oxford) che il primo posto è sacrosanto. È scritto nei muri della stessa città, nella sua cristallina coerenza architettonica. Cambridge non è una cittadella universitaria rinchiusa all’interno di una città che nel migliore dei casi la ignora e nel peggiore la osteggia; non è sgranata in infiniti dipartimenti e college distanti chilometri l’uno dall’altro. A Cambridge l’università è la città. Nella strada principale del centro, uno accanto all’altro si passano in rassegna i college più importanti: da nord a sud il St John’s, il Trinity, il King’s, ognuno con la sua peculiare costruzione che però non fa a pugni con il resto ma sembra volerlo completare, aggiungere qualcosa al tutto senza subissarlo. Nel quadrato costruito su quella strada dritta, che cambia nome a seconda del collegio davanti a cui passa, studenti e professori trovano tutto ciò di cui possono avere bisogno: supermercato, libreria, pub, centro commerciale, discoteca, biroccino che vende gli hot dog e senato accademico. Tutto il centro si percorre in lungo e in largo nel giro di dieci minuti. Uno può perdere così poco tempo che finisce per studiare con gioia.
È il fiume a sancire la coerenza di Cambridge. Oxford ne ha tre ma sono disposti malissimo. Il Cam invece passa parallelo alla strada principale attraversando i college e separandone la parte antica dalla parte nuova, generalmente ottocentesca, e da quella nuovissima dietro la quale si estendono i backs, ossia gli infiniti prati che ricongiungono il retro dei vari college in un’unica passeggiata. Né è una passeggiata di mero piacere: dai backs si percorre la strada più breve per arrivare alla University Library, il giardino proibito che custodisce tutto ciò che bisogna sapere. La University Library è il motivo per cui Cambridge, classifiche o no, sarà sempre e inevitabilmente la migliore università al mondo. Consta di due ali di sei piani ciascuna, separate da un torracchione in stile anni ’30 nel quale sono nascosti i libri preziosi o rari, che possono venire ordinati online e vengono consegnati nel giro di una mezz’oretta, con tante scuse per il rallentamento degli studi. Nelle due ali, divise per aree tematiche, i volumi sono disposti su scaffali ravvicinatissimi, che consentono il passaggio a una persona per volta e contengono tutto ciò che si possa desiderare di leggere. Essendo ad accesso libero permettono di avventurarsi in passeggiate tematiche in cui si scopre sempre la pubblicazione che non si conosce e si inizia a studiare qualcosa di nuovo mossi dalla curiosità e non dalla necessità. Questa è la grande differenza con altre università a scaffale chiuso: altrove bisogna sapere a priori cosa si sta cercando sul catalogo e quindi la propria ricerca consiste in un cauto ampliamento delle nozioni di partenza. A Cambridge invece il sapere ti salta addosso: si può entrare in biblioteca totalmente ignoranti e uscirne qualche anno dopo sapendo tutto.
Infilare le università in una graduatoria mondiale non ha molto senso perché la loro qualità andrebbe calcolata sul beneficio che ciascuna facoltà o dipartimento può garantire a ogni singolo alunno. Per questo i QS World University Rankings hanno risultati discutibili: Oxford peggio dell’University College London? L’École Normale Superieure trentatreesima? Bologna e La Sapienza uniche due università italiane decenti? Fra le righe la graduatoria fornisce anche un’importante indicazione per il futuro delle accademie. Sulle duecento università eccellenti, la prima non anglofona è Zurigo al diciottesimo posto, quelle francofone arrancano, le italofone sono disperse. Si è creata una lega stabile di sedi nelle quali circola un vortice pubblicazioni accademiche in inglese, che traggono affidabilità e prestigio da pareri favorevoli incrociati. Triste ammetterlo, ma pubblicare in italiano significa condannarsi alla periferia dell’Impero.
Se c’è una cosa sulla quale non mi sento di discutere è il primato di Cambridge, che finalmente quest’anno scavalca Harvard e ristabilisce l’ordine naturale del creato. Chiunque sia passato per Cambridge deve riconoscere (o ammettere a denti stretti, se viene da Oxford) che il primo posto è sacrosanto. È scritto nei muri della stessa città, nella sua cristallina coerenza architettonica. Cambridge non è una cittadella universitaria rinchiusa all’interno di una città che nel migliore dei casi la ignora e nel peggiore la osteggia; non è sgranata in infiniti dipartimenti e college distanti chilometri l’uno dall’altro. A Cambridge l’università è la città. Nella strada principale del centro, uno accanto all’altro si passano in rassegna i college più importanti: da nord a sud il St John’s, il Trinity, il King’s, ognuno con la sua peculiare costruzione che però non fa a pugni con il resto ma sembra volerlo completare, aggiungere qualcosa al tutto senza subissarlo. Nel quadrato costruito su quella strada dritta, che cambia nome a seconda del collegio davanti a cui passa, studenti e professori trovano tutto ciò di cui possono avere bisogno: supermercato, libreria, pub, centro commerciale, discoteca, biroccino che vende gli hot dog e senato accademico. Tutto il centro si percorre in lungo e in largo nel giro di dieci minuti. Uno può perdere così poco tempo che finisce per studiare con gioia.
È il fiume a sancire la coerenza di Cambridge. Oxford ne ha tre ma sono disposti malissimo. Il Cam invece passa parallelo alla strada principale attraversando i college e separandone la parte antica dalla parte nuova, generalmente ottocentesca, e da quella nuovissima dietro la quale si estendono i backs, ossia gli infiniti prati che ricongiungono il retro dei vari college in un’unica passeggiata. Né è una passeggiata di mero piacere: dai backs si percorre la strada più breve per arrivare alla University Library, il giardino proibito che custodisce tutto ciò che bisogna sapere. La University Library è il motivo per cui Cambridge, classifiche o no, sarà sempre e inevitabilmente la migliore università al mondo. Consta di due ali di sei piani ciascuna, separate da un torracchione in stile anni ’30 nel quale sono nascosti i libri preziosi o rari, che possono venire ordinati online e vengono consegnati nel giro di una mezz’oretta, con tante scuse per il rallentamento degli studi. Nelle due ali, divise per aree tematiche, i volumi sono disposti su scaffali ravvicinatissimi, che consentono il passaggio a una persona per volta e contengono tutto ciò che si possa desiderare di leggere. Essendo ad accesso libero permettono di avventurarsi in passeggiate tematiche in cui si scopre sempre la pubblicazione che non si conosce e si inizia a studiare qualcosa di nuovo mossi dalla curiosità e non dalla necessità. Questa è la grande differenza con altre università a scaffale chiuso: altrove bisogna sapere a priori cosa si sta cercando sul catalogo e quindi la propria ricerca consiste in un cauto ampliamento delle nozioni di partenza. A Cambridge invece il sapere ti salta addosso: si può entrare in biblioteca totalmente ignoranti e uscirne qualche anno dopo sapendo tutto.
mercoledì 29 luglio 2015
Sarà che domani torno a riconciliarmi (spero) con l'Inghilterra, land of hope and glory, quindi sospetto che dati i precedenti potrei non tornarne vivo; sarà che stamattina mi ha suggestionato sui giornali la magna copia di articoli sulla ragazza della Fortezza dopo che la corte d'appello ha sancito che non fu stuprata bensì consenziente, con profluvio inevitabile di campagne online a colpi di hashtag #nessunascusa; sarà che la rapidità, l'esattezza, la previdenza oramai preoccupanti con cui preparo i bagagli mi fanno balenare in mente che forse come casa ho una valigia, inducendomi pertanto a distoglierne i pensieri facendoli vagare lontano; fatto sta che mi sono ricordato all'improvviso che quattro anni fa avevo seguito dal vivo la Slut Walk organizzata a Londra per un caso assimilabile a quello della Fortezza e avevo scritto queste tremila battute che poi mai più avevo pubblicato. Quindi eccole:
Alla stazione di Oxford, la signorina in coda dietro di me sfoggia un boa violetto, il bordo delle autoreggenti che sfugge all’orlo della minigonna e vari cuoricini di rossetto dipinti sulle guance: sta andando a Londra per la Slut Walk, la marcia delle zoccole inventata in Canada dopo le esternazioni poco furbe di un vigile (“Per evitare di venire stuprate, le donne non dovrebbero vestirsi in maniera discinta”) ma culminata la scorsa settimana in una serie di eventi britannici con sorprendente partecipazione da Newcastle in giù. Una volta giunti davanti all’Hard Rock Cafe di Green Park, balza all’occhio un dettaglio fondamentale: anche se l’obiettivo della protesta è di rivendicare il diritto a vestirsi in modo più che provocante senza rischiare di subire violenza, hanno optato per abiti oggettivamente discinti quasi solo cinquantenni o sessantenni ignare che gli anni ’70 sono finiti da un pezzo. A parte un paio di universitarie conciate come manichini da sexy shop e una trentenne coraggiosamente in topless, buona parte delle migliaia di partecipanti si presenta all’appuntamento nell’abito che avrebbe verosimilmente usato nel resto del fine settimana. Ciò si deve a una certa confusione di intenti, che ha reso la marcia londinese molto diversa dall’originale nordamericano; l’infelice frase del vigile canadese viene rapidamente dimenticata e lascia campo libero all’espressione di pulsioni puritane e antipuritane profondamente radicate nella società britannica. Insieme a chi si arroga il diritto alla zoccolaggine marcia chi vuole che il corpo femminile non venga mai considerato oggetto sessuale e ne sortisce una protesta di tutti contro tutti, anzi tutte contro tutti: donne nere tirano in ballo Strauss-Kahn col cartello “Siamo tutte cameriere”; volantini criticano un vigile scozzese che, esasperato dalla movida del sabato sera, aveva raccomandato ad alcune ragazze di bere di meno e coprirsi di più; smunte funzionarie del Socialist Workers Party, unica formazione politica presente alla marcia, scandiscono slogan contro Ken Clarke, il ministro della giustizia recentemente costretto a rimangiarsi l’asserzione che non ogni approccio possa essere equiparato alla violenza sessuale; immancabili gli attivisti gay, quelli pro aborto e perfino i raeliani. Desta sconcerto la delegazione di zoccole vere, professioniste, col cartello “Le prostitute hanno bisogno del femminismo e il femminismo delle prostitute”; fa un po’ ribrezzo la tredicenne spedita in giro a vendere biscotti allo zenzero rilasciando alle tv locali dichiarazioni sul timore che in ogni fidanzatino possa celarsi un maniaco. Ma nulla ha colpito più della massiccia presenza di uomini, che hanno superato di gran lunga le femministe quanto a provocatorietà. Oltre a una cospicua delegazione di veterani del travestitismo, moltissimi ragazzi hanno deciso di accompagnare amiche e fidanzate indossando solo parrucche, mutandine di pizzo e reggiseno dall’imbottitura improvvisata, sfilando orgogliosi di mostrare la nuova tendenza estrema del progressismo britannico: l’autocastrazione del maschio femminista.
Alla stazione di Oxford, la signorina in coda dietro di me sfoggia un boa violetto, il bordo delle autoreggenti che sfugge all’orlo della minigonna e vari cuoricini di rossetto dipinti sulle guance: sta andando a Londra per la Slut Walk, la marcia delle zoccole inventata in Canada dopo le esternazioni poco furbe di un vigile (“Per evitare di venire stuprate, le donne non dovrebbero vestirsi in maniera discinta”) ma culminata la scorsa settimana in una serie di eventi britannici con sorprendente partecipazione da Newcastle in giù. Una volta giunti davanti all’Hard Rock Cafe di Green Park, balza all’occhio un dettaglio fondamentale: anche se l’obiettivo della protesta è di rivendicare il diritto a vestirsi in modo più che provocante senza rischiare di subire violenza, hanno optato per abiti oggettivamente discinti quasi solo cinquantenni o sessantenni ignare che gli anni ’70 sono finiti da un pezzo. A parte un paio di universitarie conciate come manichini da sexy shop e una trentenne coraggiosamente in topless, buona parte delle migliaia di partecipanti si presenta all’appuntamento nell’abito che avrebbe verosimilmente usato nel resto del fine settimana. Ciò si deve a una certa confusione di intenti, che ha reso la marcia londinese molto diversa dall’originale nordamericano; l’infelice frase del vigile canadese viene rapidamente dimenticata e lascia campo libero all’espressione di pulsioni puritane e antipuritane profondamente radicate nella società britannica. Insieme a chi si arroga il diritto alla zoccolaggine marcia chi vuole che il corpo femminile non venga mai considerato oggetto sessuale e ne sortisce una protesta di tutti contro tutti, anzi tutte contro tutti: donne nere tirano in ballo Strauss-Kahn col cartello “Siamo tutte cameriere”; volantini criticano un vigile scozzese che, esasperato dalla movida del sabato sera, aveva raccomandato ad alcune ragazze di bere di meno e coprirsi di più; smunte funzionarie del Socialist Workers Party, unica formazione politica presente alla marcia, scandiscono slogan contro Ken Clarke, il ministro della giustizia recentemente costretto a rimangiarsi l’asserzione che non ogni approccio possa essere equiparato alla violenza sessuale; immancabili gli attivisti gay, quelli pro aborto e perfino i raeliani. Desta sconcerto la delegazione di zoccole vere, professioniste, col cartello “Le prostitute hanno bisogno del femminismo e il femminismo delle prostitute”; fa un po’ ribrezzo la tredicenne spedita in giro a vendere biscotti allo zenzero rilasciando alle tv locali dichiarazioni sul timore che in ogni fidanzatino possa celarsi un maniaco. Ma nulla ha colpito più della massiccia presenza di uomini, che hanno superato di gran lunga le femministe quanto a provocatorietà. Oltre a una cospicua delegazione di veterani del travestitismo, moltissimi ragazzi hanno deciso di accompagnare amiche e fidanzate indossando solo parrucche, mutandine di pizzo e reggiseno dall’imbottitura improvvisata, sfilando orgogliosi di mostrare la nuova tendenza estrema del progressismo britannico: l’autocastrazione del maschio femminista.
martedì 21 aprile 2015
Giù la maschera, Oxford! Sul Foglio in edicola oggi, inchiesta letteraria su lavoro, potere, soldi, sesso e morte nella più antica università inglese; collegi veri e collegi immaginari, town & gown, il marchio registrato e i venticinque colori che si abbinano all'Oxford blue. Un paginone con dentro Martin Amis, Javier Marias, Naomi Alderman, Ian McEwan, Evelyn Waugh, Thomas Hardy e purtroppo anche Harry Potter.
di che si parla?
auto da fé,
diario inglese,
nomi cose città,
tamburino
mercoledì 4 giugno 2014
Oggi compio cinque anni che scrivo sul Foglio, che ritenevo il giornale più bello del mondo quando lo leggevo e basta, e che tale è rimasto nonostante me. Avevo iniziato così, il 4 giugno 2009, con una cordiale stretta di mano al luogo dove m'ero trasferito a vivere poche settimane prima.
La Noemi d’Inghilterra si chiama Ruth Padel: non vince concorsi di bellezza ma scrive poesie, e anzi può vantarsi di essere stata la prima donna a occupare la cattedra di Poesia a Oxford. Per quasi due settimane. Dopo di che è stata invitata a dimettersi per aver favorito con qualche mail delatoria il ritiro dalla competizione del suo più accreditato rivale, il Nobel Derek Walcott. Pochi giorni prima dell’assegnazione della cattedra qualcuno aveva improvvisamente ricordato che una ventina d’anni fa Walcott avrebbe molestato delle sue alunne, anche se non s’è ben capito quante, come e soprattutto chi. Fatto fuori il primo a metà maggio, fatta fuori la seconda l’altro giorno, ora la cattedra fluttua verso l’indiano Arvind Mehrotra, persona noiosissima che a quanto pare non ha mai molestato né diffamato nessuno. Il tutto a conferma che Oxford è un’accademia trasparente e democratica, e che quindi facciamo bene a invidiarla; quando invece ogni elemento dello scandalo dimostra che non dovremmo affatto.
Innanzitutto l’esistenza di una cattedra di Poesia, con l’iniziale maiuscola, è aberrante. Ricorda i grafici cartesiani atti a misurare la grandezza di un’opera ne L’Attimo Fuggente; richiama un’istintiva assonanza col ministero dell’Amore in 1984. Oxford patrocina un’idea di eugenetica culturale per cui tutto può essere insegnabile, smontabile, riproducibile; tutto dev’essere infilato nel tritacarne accademico per uscirne riassunto, codificato, omologato. Senza contare che suona ridicolo che un premio Nobel debba mettersi in fila per una cattedra nel suo campo, e magari perdere, in nome di un egualitarismo prudente e parossistico. Ci si è basati sull’assunto che fosse l’istituzione a dar gloria all’individuo quando è l’esatto contrario. Oxford avrebbe dovuto implorare Walcott per ottenerne l’onore di concedergli la cattedra. Walcott avrebbe dovuto rinunciare nobilmente dicendo che certe cose sono troppo importanti e belle per essere insegnate.
E poi, le molestie. Gli Inglesi godono del vizio vittoriano-protestante di valutare una persona in base a quello che combina in camera da letto. Nel 2004 un buon ministro come David Blunkett fu rimosso perché aveva fatto non so cosa con non so chi, caso che non aveva niente a che vedere col bene della nazione, così come le eventuali molestie di Walcott non avrebbero niente a che vedere col suo talento poetico. Oxford è una perfetta cassa di risonanza per questo moralismo da tre lire, con la sua morbosa lista di cose consentite e vietate che opprime ogni studente o ricercatore; per ottenere accesso alla biblioteca Bodleiana bisogna ancora certificare esplicitamente la propria intenzione di non dar fuoco agli incunaboli. Sull’ottusità del luogo ha scritto passi memorabili gente come Oscar Wilde o Martin Amis, quindi è inutile tornare sull’argomento.
In generale il confine delle molestie inglesi si è allargato a dismisura: nei pub si appendono predicozzi sulla sconvenienza di attaccare bottone con sconosciute; in ufficio bisogna presentarsi con la cintura di castità perché ogni atto può essere frainteso e ogni contatto potrebbe valere una denuncia. Non sto parlando di pacche sul didietro, bensì di portare a una collega un cioccolatino assieme al caffè. Magari un giorno verrà fuori che vent’anni fa Walcott ha lasciato cadere complimenti innocui. Magari è solo un vecchio porco maldestro, e se non altro ciò lo renderebbe più simpatico.
Infine l’atteggiamento degli intellettuali. La più rappresentativa di tutte è stata Jeanette Winterson, la quale non s’è l’è fatto dire due volte e ha dichiarato che Oxford è un “piccolo cesso maschilista”. Non ha considerato che Oxford non è piccola affatto e soprattutto che la principale vittima di questo scandalo provinciale è un maschio. Non ha capito che grazie a gente come lei la nazione intera sta venendo immobilizzata dall’isteria per il politically correct. Se si chiede a un africano di rispettare la fila per l’autobus, è razzismo. Se non si concede la strada principale ai predicatori musulmani, è discriminazione religiosa. Se in metrò si cede la seggiola a una signora è sessismo, se si offre aiuto a una nonnina che deve attraversare la strada è ageism – un reato che in Italia scopriremo fra qualche tempo e tradurremo con “vecchismo”. Guai a sorridere a un bambino. Guai a calciare un pallone al di fuori delle zone e degli orari previsti.
In tutto questo emerge un solo aspetto positivo. Grazie alle sue mail delatorie, Ruth Padel ha finalmente scritto qualcosa per cui varrà la pena di ricordarla.
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La Noemi d’Inghilterra si chiama Ruth Padel: non vince concorsi di bellezza ma scrive poesie, e anzi può vantarsi di essere stata la prima donna a occupare la cattedra di Poesia a Oxford. Per quasi due settimane. Dopo di che è stata invitata a dimettersi per aver favorito con qualche mail delatoria il ritiro dalla competizione del suo più accreditato rivale, il Nobel Derek Walcott. Pochi giorni prima dell’assegnazione della cattedra qualcuno aveva improvvisamente ricordato che una ventina d’anni fa Walcott avrebbe molestato delle sue alunne, anche se non s’è ben capito quante, come e soprattutto chi. Fatto fuori il primo a metà maggio, fatta fuori la seconda l’altro giorno, ora la cattedra fluttua verso l’indiano Arvind Mehrotra, persona noiosissima che a quanto pare non ha mai molestato né diffamato nessuno. Il tutto a conferma che Oxford è un’accademia trasparente e democratica, e che quindi facciamo bene a invidiarla; quando invece ogni elemento dello scandalo dimostra che non dovremmo affatto.
Innanzitutto l’esistenza di una cattedra di Poesia, con l’iniziale maiuscola, è aberrante. Ricorda i grafici cartesiani atti a misurare la grandezza di un’opera ne L’Attimo Fuggente; richiama un’istintiva assonanza col ministero dell’Amore in 1984. Oxford patrocina un’idea di eugenetica culturale per cui tutto può essere insegnabile, smontabile, riproducibile; tutto dev’essere infilato nel tritacarne accademico per uscirne riassunto, codificato, omologato. Senza contare che suona ridicolo che un premio Nobel debba mettersi in fila per una cattedra nel suo campo, e magari perdere, in nome di un egualitarismo prudente e parossistico. Ci si è basati sull’assunto che fosse l’istituzione a dar gloria all’individuo quando è l’esatto contrario. Oxford avrebbe dovuto implorare Walcott per ottenerne l’onore di concedergli la cattedra. Walcott avrebbe dovuto rinunciare nobilmente dicendo che certe cose sono troppo importanti e belle per essere insegnate.
E poi, le molestie. Gli Inglesi godono del vizio vittoriano-protestante di valutare una persona in base a quello che combina in camera da letto. Nel 2004 un buon ministro come David Blunkett fu rimosso perché aveva fatto non so cosa con non so chi, caso che non aveva niente a che vedere col bene della nazione, così come le eventuali molestie di Walcott non avrebbero niente a che vedere col suo talento poetico. Oxford è una perfetta cassa di risonanza per questo moralismo da tre lire, con la sua morbosa lista di cose consentite e vietate che opprime ogni studente o ricercatore; per ottenere accesso alla biblioteca Bodleiana bisogna ancora certificare esplicitamente la propria intenzione di non dar fuoco agli incunaboli. Sull’ottusità del luogo ha scritto passi memorabili gente come Oscar Wilde o Martin Amis, quindi è inutile tornare sull’argomento.
In generale il confine delle molestie inglesi si è allargato a dismisura: nei pub si appendono predicozzi sulla sconvenienza di attaccare bottone con sconosciute; in ufficio bisogna presentarsi con la cintura di castità perché ogni atto può essere frainteso e ogni contatto potrebbe valere una denuncia. Non sto parlando di pacche sul didietro, bensì di portare a una collega un cioccolatino assieme al caffè. Magari un giorno verrà fuori che vent’anni fa Walcott ha lasciato cadere complimenti innocui. Magari è solo un vecchio porco maldestro, e se non altro ciò lo renderebbe più simpatico.
Infine l’atteggiamento degli intellettuali. La più rappresentativa di tutte è stata Jeanette Winterson, la quale non s’è l’è fatto dire due volte e ha dichiarato che Oxford è un “piccolo cesso maschilista”. Non ha considerato che Oxford non è piccola affatto e soprattutto che la principale vittima di questo scandalo provinciale è un maschio. Non ha capito che grazie a gente come lei la nazione intera sta venendo immobilizzata dall’isteria per il politically correct. Se si chiede a un africano di rispettare la fila per l’autobus, è razzismo. Se non si concede la strada principale ai predicatori musulmani, è discriminazione religiosa. Se in metrò si cede la seggiola a una signora è sessismo, se si offre aiuto a una nonnina che deve attraversare la strada è ageism – un reato che in Italia scopriremo fra qualche tempo e tradurremo con “vecchismo”. Guai a sorridere a un bambino. Guai a calciare un pallone al di fuori delle zone e degli orari previsti.
In tutto questo emerge un solo aspetto positivo. Grazie alle sue mail delatorie, Ruth Padel ha finalmente scritto qualcosa per cui varrà la pena di ricordarla.
martedì 25 febbraio 2014
Dall'Inghilterra arrivano tre notizie da hit parade. Al terzo posto c'è lo stanziamento di fondi governativi per chi vuole incidere musica rock; a cinquant'anni dall'esordio bohémien dei Beatles, si avvicinano dunque i tempi delle rockstar statali, impiegatizie. Incideranno solo fino alle cinque del pomeriggio? Lasceranno la chitarra elettrica accesa in sala di registrazione e usciranno un attimo per fare la spesa, andare dal barbiere, pagare le bollette in posta? Intenteranno vertenze sindacali contro produttori che insisteranno per un eccessivo uso di alcolici e sostanze stupefacenti? Quando il pubblico li acclamerà durante i concerti esortandoli a suonare ancora una canzone di successo risponderanno forse: "Mi spiace, non dipende da me, io ho le mani legate, dovete chiamare il numero verde specificando il vostro codice fiscale"?
Al secondo posto c'è la scuola di Leeds che ha cambiato le date delle vacanze per far coincidere le pause dell'anno scolastico coi periodi in cui sono attive le promozioni per voli supereconomici, i quali per definizione non coincidono mai con le pause dell'anno scolastico. Ciò porterà le compagnie aeree ad aumentare i prezzi dei viaggi durante il nuovo periodo di vacanze scolastiche (novembre? febbraio?), causando un fuggi fuggi di genitori che vorranno pertanto organizzare le gite di famiglia in bassa stagione, cioè a Natale e d'estate, causando un nuovo aumento delle tariffe in questi periodi, così da disseminare per tutta l'Inghilterra un'ondata di collettiva simpatia nei confronti di Leeds, cittadina che di conseguenza finirà per ottenere l'indipendenza, a sorpresa, ben prima della Scozia.
Al primo posto l'annuncio del rimodernamento dell'immagine del partito Conservatore. Pare che il nuovo slogan in vista delle elezioni del prossimo anno sarà, con la benedizione di David Cameron, "the workers' party". Un giornalista del Guardian ha fatto notare che, in questo contesto, "the workers' party" non ha la tradizionale benevola accezione di "festicciola della servitù" bensì significa proprio "il partito dei lavoratori". Sgomento. Viva soddisfazione sarà stata espressa in ciò che resta dei democratici di sinistra italiani, visto che da una decina d'anni il nuovo simbolo dei Conservatori (quello vecchio era una fiaccola) è la quercia. Un'accurata indagine erudita su affidabili vocabolari d'Inglese ha rivelato che fra i sinonimi del termine "work", che significa "lavorare, produrre", c'è il termine "labour", che significa "lavorare, far fatica". Un apposito think tank legato alle alte sfere conservatrici sta indagando per scoprire se in Inghilterra esista di già un partito laburista, il quale pertanto risulterebbe avere rubato l'idea grazie a una verosimile benché inaccettabile fuga di notizie.
Al secondo posto c'è la scuola di Leeds che ha cambiato le date delle vacanze per far coincidere le pause dell'anno scolastico coi periodi in cui sono attive le promozioni per voli supereconomici, i quali per definizione non coincidono mai con le pause dell'anno scolastico. Ciò porterà le compagnie aeree ad aumentare i prezzi dei viaggi durante il nuovo periodo di vacanze scolastiche (novembre? febbraio?), causando un fuggi fuggi di genitori che vorranno pertanto organizzare le gite di famiglia in bassa stagione, cioè a Natale e d'estate, causando un nuovo aumento delle tariffe in questi periodi, così da disseminare per tutta l'Inghilterra un'ondata di collettiva simpatia nei confronti di Leeds, cittadina che di conseguenza finirà per ottenere l'indipendenza, a sorpresa, ben prima della Scozia.
Al primo posto l'annuncio del rimodernamento dell'immagine del partito Conservatore. Pare che il nuovo slogan in vista delle elezioni del prossimo anno sarà, con la benedizione di David Cameron, "the workers' party". Un giornalista del Guardian ha fatto notare che, in questo contesto, "the workers' party" non ha la tradizionale benevola accezione di "festicciola della servitù" bensì significa proprio "il partito dei lavoratori". Sgomento. Viva soddisfazione sarà stata espressa in ciò che resta dei democratici di sinistra italiani, visto che da una decina d'anni il nuovo simbolo dei Conservatori (quello vecchio era una fiaccola) è la quercia. Un'accurata indagine erudita su affidabili vocabolari d'Inglese ha rivelato che fra i sinonimi del termine "work", che significa "lavorare, produrre", c'è il termine "labour", che significa "lavorare, far fatica". Un apposito think tank legato alle alte sfere conservatrici sta indagando per scoprire se in Inghilterra esista di già un partito laburista, il quale pertanto risulterebbe avere rubato l'idea grazie a una verosimile benché inaccettabile fuga di notizie.
venerdì 10 febbraio 2012
Da un paio di giorni io e Fabio Capello abbiamo una cosa in comune, ma non si tratta né dei quadri di Kandinsky che lui ama collezionare, attirandosi le sapute ironie di chi vorrebbe che il rutilante mondo del calcio si limitasse al collezionismo di auto sportive e cosce aperte, né dei ciclopici prosciutti che stando ad alcune fonti gli vengono recapitati annualmente dalla Spagna quale parziale ricompensa per avere contribuito alla manutenzione della gloria del Real Madrid. Quando era arrivato in Inghilterra il giardino davanti alla sua nuova casa era stato assalito dai giornalisti a caccia di non si sa cosa; poiché non trovavano niente da rimproverargli così su due piedi, i quotidiani del giorno seguente (non mi riferisco solo ai tabloid scandalistici) si concentrarono sulla notiziona che, cacciandoli dal suolo privato, Capello aveva commesso un solecismo in quanto si era rifugiato in una farraginosa traduzione letterale dell'italiano "Andatevene da casa mia" invece di utilizzare l'espressione idiomatica "Get out of here". Quando l'Inghilterra è stata eliminata dagli ultimi Mondiali, riproducendo una volta di più il risultato che le compete ininterrottamente dal 1950 - a eccezione del 1966 (quando s'organizzò la vittoria in casa) e del 1990 (quando in un paio di occasioni rischiò comunque di essere ridicolizzata, perfino dal Camerun) - i giornali inglesi hanno abbandonato i toni trionfalistici che li caratterizzano a bocce ferme per puntare l'indice contro l'italiano e addossargli il grosso della colpa della sconfitta: che evidentemente non dipendeva invece dalla masnada di calciatori coi piedi quadri, la testa vuota, la bottiglia facile e il testosterone iperbolico che rappresentavano la patria in Sudafrica.
Gli Inglesi, si sa, inventarono il calcio per voluttà d'esser sconfitti; ma nella monotonia della disfatta ultimamente hanno scoperto il diversivo del linciaggio per futili motivi: fu così con Steve McClaren, colpevole di avere assistito a un'imbarazzante partita contro la Croazia sotto un ridicolo ombrello gigante coi colori della Federazione; fu così con Sven Goran Eriksson, colpevole di essere svedese e di avere una donna (relativamente) giovane, bella e per giunta italiana; figuriamoci come poteva andare con Capello, che era italiano egli stesso e a prima vistanon corrispondeva a nessuno dei principali luoghi comuni sugli italiani. Non gli hanno mai perdonato di non sembrare ciò che si aspettavano che fosse e l'hanno colto in castagna su quella che resta, secondo me, la principale differenza fra gli anglosassoni e noi.
In Italia, periodicamente, siamo vittime della coazione al politicamente corretto e ci facciamo un dovere, sui campi da calcio, di presentarci due o tre domeniche l'anno con gli striscioni ammonitori, le magliette indignate, le sciarpe dell'amore e così via. Tuttavia fingiamo di essere e non siamo: ci adeguiamo un po' per ipocrisia, un po' per opportunismo, un po' per pecorismo ma appena finisce la partita - o magari anche prima - torniamo a essere persone normali, con idiosincrasie inevitabili e pregiudizi più o meno giustificati, con interessi di bottega e un pizzico di sana cattiveria, o cinismo, o realpolitik. Sappiamo tutti dalla culla che gli Stati non si tengono co' i Paternostri in mano e ce ne facciamo una ragione, anzi ci giochiamo, trasformiamo questa consapevolezza in una disfida nera sulla quale ricamare le nostre vite e misurarne il successo. In Inghilterra la distinzione fra essere e dover essere - fra sein e sollen, visto che ormai qui bisogna parlare tedesco - è svanita da tempo. Si esige che gli Inglesi siano veramente ciò che sarebbe auspicabile che fossero: sobri, non fumatori, non razzisti, aperti alle religioni altrui (specie se islamiche), gay-friendly, un po' zoccole ma col preservativo, eccetera eccetera. Ciò ha portato da un lato a un inedito culto delle apparenze e dei formalismi ai quali ha fatto seguito la proliferazione di posizioni professionali (inutili e dannose) volte a monitorare la correttezza politica, religiosa, sanitaria, sessuale, sociale, culturale, storica, geografica, geometrica, metafisica, eccetera eccetera. Dall'altro ha patrocinato un progressivo appiattimento sulla convenienza a discapito del merito, ritenendo che non importi il talento di una persona, o la veridicità di ciò che sostiene, se contravviene all'idée reçue impanata e fritta che si ritiene debba essere preponderante onde evitare disparità, malinconie, offese.
I fatti sono questi, per chi non li conoscesse. Al capitano dell'Inghilterra, John Terry, la Federazione ha levato la fascia dal braccio perché avrebbe rivolto degli insulti razzisti a un avversario durante una partita di campionato. Si è ritenuto di deprivarlo sulla scorta dell'idea che un capitano debba dare il buon esempio; quando il calcio - che è sudore e fango, niente a che spartire col premio Nobel per la pace - esige che il capitano sia o il calciatore con più esperienza in squadra (modello Franco Baresi) o quello più rappresentativo e talentuoso (modello Diego Armando Maradona). Non importa se poi l'uomo in questione sia un puttaniere o un cannibale; l'importante è che si comporti abbastanza correttamente sul terreno di gioco, cercando comunque di favorire la propria squadra e non l'altrui. Fabio Capello, che pure non ama Terry (a differenza delle mogli di alcuni compagni di squadra), ha sostenuto esattamente questo: che la Federazione poteva togliere a Terry tutte le fasce che voleva e magari pure amputargli il braccio, ma non per questo sarebbero venute meno l'esperienza e il talento di Terry che lo rendono il più rappresentativo fra i connazionali e quindi capitano de facto. Aggravante, Capello ha osato sostenere quest'enormità su una tv italiana, quando è noto che le uniche fonti fededegne di informazione siano quelle d'oltremanica. Invitato - nella maniera in cui lo fanno gli inglesi, con mezze parole costernate e singulti di stupore - a ritrattare ciò che aveva sostenuto, in quanto corrispondeva alla verità effettiva e non a quella auspicata, Fabio Capello ha prenotato il primo aereo con biglietto di sola andata.
Ha fatto bene. Va bene i soldi ma la libertà di comportarsi da persona normale invece che da burattino del politicamente corretto vale di più. Gli restano i prosciutti barocchi di Spagna e la collezione di quadri di Kandinsky, che subito sono diventati "presunti Kandinsky" sulla stampa britannica. Presto, c'è da scommetterci, sentiremo parlare perfino di "presunti prosciutti". E adesso segnatevi la data: la stessa stampa gli darà immancabilmente dello Schettino il 20 giugno, quando l'Inghilterra sarà stata eliminata dall'Europeo con due punti su tre partite con Francia, Svezia e Ucraina e la polemica uscita di scena di Capello sarà ritenuta l'unica responsabile del fallimento; quando invece il problema non è il capitano che la abbandona, il problema è la nave che affonda da quarantasei anni.
Gli Inglesi, si sa, inventarono il calcio per voluttà d'esser sconfitti; ma nella monotonia della disfatta ultimamente hanno scoperto il diversivo del linciaggio per futili motivi: fu così con Steve McClaren, colpevole di avere assistito a un'imbarazzante partita contro la Croazia sotto un ridicolo ombrello gigante coi colori della Federazione; fu così con Sven Goran Eriksson, colpevole di essere svedese e di avere una donna (relativamente) giovane, bella e per giunta italiana; figuriamoci come poteva andare con Capello, che era italiano egli stesso e a prima vistanon corrispondeva a nessuno dei principali luoghi comuni sugli italiani. Non gli hanno mai perdonato di non sembrare ciò che si aspettavano che fosse e l'hanno colto in castagna su quella che resta, secondo me, la principale differenza fra gli anglosassoni e noi.
In Italia, periodicamente, siamo vittime della coazione al politicamente corretto e ci facciamo un dovere, sui campi da calcio, di presentarci due o tre domeniche l'anno con gli striscioni ammonitori, le magliette indignate, le sciarpe dell'amore e così via. Tuttavia fingiamo di essere e non siamo: ci adeguiamo un po' per ipocrisia, un po' per opportunismo, un po' per pecorismo ma appena finisce la partita - o magari anche prima - torniamo a essere persone normali, con idiosincrasie inevitabili e pregiudizi più o meno giustificati, con interessi di bottega e un pizzico di sana cattiveria, o cinismo, o realpolitik. Sappiamo tutti dalla culla che gli Stati non si tengono co' i Paternostri in mano e ce ne facciamo una ragione, anzi ci giochiamo, trasformiamo questa consapevolezza in una disfida nera sulla quale ricamare le nostre vite e misurarne il successo. In Inghilterra la distinzione fra essere e dover essere - fra sein e sollen, visto che ormai qui bisogna parlare tedesco - è svanita da tempo. Si esige che gli Inglesi siano veramente ciò che sarebbe auspicabile che fossero: sobri, non fumatori, non razzisti, aperti alle religioni altrui (specie se islamiche), gay-friendly, un po' zoccole ma col preservativo, eccetera eccetera. Ciò ha portato da un lato a un inedito culto delle apparenze e dei formalismi ai quali ha fatto seguito la proliferazione di posizioni professionali (inutili e dannose) volte a monitorare la correttezza politica, religiosa, sanitaria, sessuale, sociale, culturale, storica, geografica, geometrica, metafisica, eccetera eccetera. Dall'altro ha patrocinato un progressivo appiattimento sulla convenienza a discapito del merito, ritenendo che non importi il talento di una persona, o la veridicità di ciò che sostiene, se contravviene all'idée reçue impanata e fritta che si ritiene debba essere preponderante onde evitare disparità, malinconie, offese.
I fatti sono questi, per chi non li conoscesse. Al capitano dell'Inghilterra, John Terry, la Federazione ha levato la fascia dal braccio perché avrebbe rivolto degli insulti razzisti a un avversario durante una partita di campionato. Si è ritenuto di deprivarlo sulla scorta dell'idea che un capitano debba dare il buon esempio; quando il calcio - che è sudore e fango, niente a che spartire col premio Nobel per la pace - esige che il capitano sia o il calciatore con più esperienza in squadra (modello Franco Baresi) o quello più rappresentativo e talentuoso (modello Diego Armando Maradona). Non importa se poi l'uomo in questione sia un puttaniere o un cannibale; l'importante è che si comporti abbastanza correttamente sul terreno di gioco, cercando comunque di favorire la propria squadra e non l'altrui. Fabio Capello, che pure non ama Terry (a differenza delle mogli di alcuni compagni di squadra), ha sostenuto esattamente questo: che la Federazione poteva togliere a Terry tutte le fasce che voleva e magari pure amputargli il braccio, ma non per questo sarebbero venute meno l'esperienza e il talento di Terry che lo rendono il più rappresentativo fra i connazionali e quindi capitano de facto. Aggravante, Capello ha osato sostenere quest'enormità su una tv italiana, quando è noto che le uniche fonti fededegne di informazione siano quelle d'oltremanica. Invitato - nella maniera in cui lo fanno gli inglesi, con mezze parole costernate e singulti di stupore - a ritrattare ciò che aveva sostenuto, in quanto corrispondeva alla verità effettiva e non a quella auspicata, Fabio Capello ha prenotato il primo aereo con biglietto di sola andata.
Ha fatto bene. Va bene i soldi ma la libertà di comportarsi da persona normale invece che da burattino del politicamente corretto vale di più. Gli restano i prosciutti barocchi di Spagna e la collezione di quadri di Kandinsky, che subito sono diventati "presunti Kandinsky" sulla stampa britannica. Presto, c'è da scommetterci, sentiremo parlare perfino di "presunti prosciutti". E adesso segnatevi la data: la stessa stampa gli darà immancabilmente dello Schettino il 20 giugno, quando l'Inghilterra sarà stata eliminata dall'Europeo con due punti su tre partite con Francia, Svezia e Ucraina e la polemica uscita di scena di Capello sarà ritenuta l'unica responsabile del fallimento; quando invece il problema non è il capitano che la abbandona, il problema è la nave che affonda da quarantasei anni.
di che si parla?
diario inglese,
selvaggio e sentimentale
giovedì 3 dicembre 2009
La patria della tolleranza
Sanzionami questo
Albione rapace
lo so che ti piace
ma non te lo do
(Motivetto in voga al tempo
dei Patti Lateranensi)
lo so che ti piace
ma non te lo do
(Motivetto in voga al tempo
dei Patti Lateranensi)
Voltaire, un pensatore che a Oxford va per la maggiore, sosteneva già duecentocinquant'anni fa che "da uomo libero ogni Inglese va in Paradiso scegliendo la strada che più gli piace", e che in Inghilterra la pacifica convivenza delle diverse confessioni era assicurata dal fatto che fossero così tante da non poter scannarsi a vicenda. Ora finalmente i tempi stanno cambiando, come dimostra questa foto (fonte l'Economist) che è facilmente interpretabile una volta appurato che "C of E" significa "Church of England, Chiesa d'Inghilterra" e che "Pope" significa "Papa".
di che si parla?
abba abba,
diario inglese
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