domenica 31 maggio 2009

Scribi e farisei: aprile 2009

(Gurrado per Books Brothers)

Libri letti (10): Tremor of Intent, di Anthony Burgess; The Rachel Papers, di Martin Amis; L’Integrazione, di Luciano Bianciardi; Nothing like the Sun, di Anthony Burgess; Cima delle Nobildonne, di Stefano D’Arrigo; Molloy, Malone Dies, The Unnamable, di Samuel Beckett; Lettere a Nessuno, di Antonio Moresco; Fratelli d’Italia, di Alberto Arbasino; È Forse Amore, di Giuseppe Berto; L’Italiano, di Sebastiano Vassalli.

Libri acquistati (3): Molloy, Malone Dies, The Unnamable, di Samuel Beckett; Night and Day, di Virginia Woolf; Ulysses: the 1922 text, di James Joyce.

A seguito di uno scambio di persona mi è stata assegnata una fellowship all’Università di Oxford, cosa che già soltanto nella settimana corrente mi renderà difficoltoso tanto comprare il nuovo libro di Baricco, che non avrei comunque comprato manco se fossi vissuto in Italia o fossi stato il vicino di casa di Baricco, quanto guardare il Giro d’Italia che sinceramente avrei seguito molto più volentieri. Mi devo, qui, accontentare dei surrogati: sbirciare l’andamento di ogni tappa sul sito della Gazzetta, quando e se si può, nonché apprendere della pubblicazione del nuovo Baricco dalle newsletter editoriali. Mi è drammaticamente preclusa la partecipazione piena alla vita sportiva e alla vita culturale d’Italia – dove in entrambi i casi fungevo da via di mezzo fra il passante curioso e il dilettante d’ingegno. Devo abituarmi allo scoppio ritardato e a un continuo doppiaggio fuori sincrono, o con un’immagine più poetica alla contemporaneità dell’astronomo, il quale sa che quando vede una stella morirgli davanti sta assistendo a un evento accaduto, nel più rapido dei casi, un milione di anni fa.

Il fuso orario vuole l’Inghilterra un’ora indietro; dal versante editoriale ci sta invece un anno avanti, poiché ha il vantaggio di non dover quasi mai aspettare le traduzioni. Buona parte della narrativa mondiale di successo (britannica, irlandese, americana, colonica) viene prodotta nella stessa lingua che qui si ha la fortuna di parlare e quindi può venire seguita in diretta grazie all’uscita simultanea, mentre noi dobbiamo attendere necessariamente come minimo qualche mese. Esplorare lo scaffale delle novità di una libreria inglese serve a trarre auspici su cosa verrà tradotto in Italia, e in alcuni casi consente di assumere atteggiamenti di snobismo estremo una volta tornati a casa – ad esempio quando un libro anglofono, freschissimo di traduzione, sta per venire comprato da uno sconosciuto potete sempre avvicinarglivi circospetti e sussurrargli nel padiglione auricolare: “L’ho già letto, non è un gran che.”

Ma non sempre, vi assicuro, arrivare in anticipo è una cosa gradevole: non solo perché gli sconosciuti in libreria raramente gradiscono le recensioni a scatola chiusa, non solo perché, se rileggo il mio contratto, prima che io possa tornare a casa fanno in tempo a tradurre in Italiano i prossimi tre romanzi di Thomas Pynchon. Ci sono anche ragioni più profonde e forse irrazionali. Faccio un esempio pratico.

Tutte le altre volte che sono stato all’estero mi sono sempre piccato (o, come dicono qui, I made a point) di leggere libri nella lingua della nazione in cui mi trovavo. In questo mi ha molto avvantaggiato il fatto di aver trascorso complessivamente in vita mia più di un anno in Inghilterra, quattro giorni in Francia, un paio in Vaticano e nessuno in Germania o in Arabia Saudita. La lingua di solito non è un problema, perché ogni libro è un insieme coerente – almeno dovrebbe esserlo – e quindi i pezzi mancanti sono facilmente ricostruibili facendo riferimento al contesto generale oppure ricorrendo al volgare dizionario o meglio ancora fermando in strada delle passanti ubriache chiedendo se vogliono fare un salto da me a spiegarmi una parola che non capisco.

Più che la lingua ferisce la cultura. Ove si intende non già lo sfoggio di erudizione intrinseca a ogni volume che non sia la quarta autobiografia di David Beckham, ma il sistema di riferimento nel quale l’idea del libro ha prima fecondato il cervello dell’autore, s’è poi embrionizzato in appunti sparsi qua e là e ha infine preso forma canonica su un file word del suo computer risultando, dopo qualche passaggio intermedio che trascuro, pronto per la stampa e per le librerie. Ogni libro è una risposta a degli stimoli: universali, come nel caso dell’erudizione che si appoggia a dati magari ignoti ma facilmente e oggettivamente verificabili al costo di un po’ di pazienza; soggettivi, come nel caso dei riferimenti autobiografici o lirici che hanno nella loro stessa espressione la propria ragion d’essere e che tutt’al più traggono giovamento da una vaga oscurità; infine stimoli sociali, ovvero il terreno al quale ogni libro s’aggrappa per muovere i primi incerti passi e che è necessariamente condiviso soltanto con un ristretto numero di persone nello spazio e nel tempo.

Il primo libro che ho letto appena preso contatto con il mio materasso oxoniano si intitola Falling Palace ed è stato scritto da Dan Hofstadter, un americano pessimista ma non per questo meno piacione: o dovrei dire forse “fariniello”, visto che il suo romanzo era ambientato a Napoli e allenta la trama autobiografica con tutta una serie di spiegazioni su com’è Napoli e come ci si vive, per lo più superflue agli occhi del lettore italiano. Pare che quando Monicelli vedeva al cinema qualcosa di Nanni Moretti solesse dire alla sagoma del regista sullo schermo: “Lèvati, voglio vedere il film”. Nel mio caso è stato il contrario: “Leva Napoli, voglio sapere i fatti tuoi”. Per questo sono certo che il romanzo di Hofstadter non potrà mai e poi mai essere tradotto in Italia, poiché in questo caso i sistemi socio-culturali di riferimento più che coincidere stridono. Difatti una rapida ricerca mi conferma in quest’istante che Falling Palace è stato tradotto l’anno scorso col titolo Interludio Napoletano dalle Edizioni Scientifiche Italiane, 256 pagine, 16 euri.

Non per questo ritengo di sbagliarmi: né lascerò mai che un dato di fatto possa contraddire una mia ipotesi teorica. Nel caso di Hofstadter, che pure è uno scrittore abbastanza gradevole, dopo aver letto il suo libro ho ricavato la sensazione di aver perso un po’ di tempo, la stessa che si proverebbe dopo aver interrotto ogni attività per ascoltare il serrato dialogo di due tizi nello scompartimento di un treno. Se i due si sono appena conosciuti, l’orecchio del terzo è un ospite accettabile e soprattutto viene aiutato a ricostruire parallelamente la privata vicenda di ciascuno, poiché ogni interlocutore deve fornire all’altro dati reciprocamente comprensibili sulla base di un terreno che presume universalmente noto. Se i due si conoscevano già prima di salire, sentiremo parlare di tutta una serie di faccende che abbiamo direttamente esperito pure noi: il lavoro va male, e le tasse sono alte, e quello fa le corna alla moglie, e ieri a calcetto mi sono rovinato uno stinco, e appena arriviamo ti porto a cena nel ristorante di mio cognato. Origliando vediamo rapidamente costruirsi un mondo composto di elementi familiari disposti secondo criteri che ci restano estranei, perfettamente funzionante in linea di principio ma profondamente inquietante perché ne siamo esclusi.

Ecco, trasferirsi in Inghilterra significa vedere innumerevoli ristoranti senza mai sapere chi è il cognato del proprietario. Io ho trovato un metodo geniale per sopravvivere senza impazzire, ma ve lo dico la volta prossima: ora vado a chiedere alla commessa di Waterstone’s che significa sexploitation, anche se lo so già.

venerdì 29 maggio 2009

Figli di un Dio minore


Per fortuna Franceschini è riuscito a volgere a suo svantaggio
 una situazione che rischiava di favorirlo.

venerdì 22 maggio 2009

A destra fino a dove?

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Uno dei più conclamati difetti della sinistra italiana è quello di aver sempre cercato oltreconfine dei modelli di riferimento, il più delle volte assecondando l’andazzo. Per concentrarci solo sull’ultima dozzina d’anni: la vittoria del New Labour in Inghilterra nel 1997, che avrebbe garantito a Tony Blair tre mandati consecutivi e avrebbe cambiato per sempre la maniera di far politica oltremanica, aveva fatto sentire l’esigenza di riconsiderare le linee del primo governo Prodi, inseguendo forse troppo ottimisticamente il sogno di un Ulivo mondiale; la vittoria dello Psoe in Spagna nel 2004, pochi giorni dopo l’attentato di Atocha, aveva portato l’opposizione su posizioni oltranziste in materia di politica scientifica e religiosa; adesso è il turno di Barack Obama, ma presto passerà di moda anche lui. La girandola di punti di riferimento esterni ha quasi inevitabilmente portato con sé uno svuotamento sul fronte interno e una crisi di identità che, almeno a giudicare dai risultati delle ultime elezioni politiche, può essere riassunta così: chi sosteneva la sinistra italiana vent’anni fa, quando Blair non si sapeva nemmeno chi fosse, oggi nella migliore delle ipotesi la vota senza convinzione, in subordine diserta le urne o, caso estremo, vota per la Lega. Controprova: Diliberto e Ferrero alle elezioni europee si confedereranno sotto un’enorme falce e martello, allo scopo di frenare l’emorragia identitaria prima che sia troppo tardi. Se non lo è già.

Allo stesso modo deve procedere coi piedi di piombo anche l’altra metà dell’emiciclo. L’uscita de La destra nuova – che raccoglie nove saggi sui modelli politici francesi, britannici e svedesi inaugurando la collaborazione fra la fondazione finiana FareFuturo e l’editore Marsilio – è stata quasi contemporanea al duplice congresso che ha portato, nel giro di due weekend, allo scioglimento di An e alla nascita del Pdl. Pare però che si sia trattato di una fortuita coincidenza. Gli stessi curatori Campi e Mellone lo spiegano nell’introduzione, specificando come ai loro due libri di analisi berlusconiana (L’ombra lunga di Napoleone, Campi; Cara Bombo, Mellone) farà seguito un terzo esplicitamente focalizzato sulla fusione di An e Forza Italia con conseguente ricerca, necessariamente travagliata, di un’identità comune dall’interno. L’analisi estera de La destra nuova si colloca dunque su un piano parallelo e non intende fornire modelli precotti per il neonato Pdl; si limita a presentare i dati di fatto relativi a due esperienze di governo diversissime fra loro (Francia e Svezia) e una di opposizione pressoché trionfale ma potenzialmente pericolosissima (Gran Bretagna). Per usare i termini di Immanuel Kant, non parlano del “dover essere” ma del “come è”.

L’esperienza più interessante per noialtri è senz’altro quella francese. Oltre alla vicinanza geografica, Francia e Italia hanno una classe intellettuale tradizionalmente progressista e una classe media che si scopre sempre meno lassista. Inoltre, in entrambi i casi la compagine di destra arriva da recenti e consistenti esperienze di governo: l’era Chirac per Sarkozy e Berlusconi I, II e III per Berlusconi IV. In entrambi i casi i due leader hanno vinto le elezioni puntando su un personalismo esasperato (ma, è innegabile, può puntare sul personalismo solo chi ha personalità) e soprattutto proponendosi come novità e punti di svolta; cosa non completamente vera né per Sarkozy, che era ministro sotto Chirac, né per Berlusconi, già reduce da esperienze di governo in alcuni casi piuttosto logoranti. Le ragioni del successo di Berlusconi sono piuttosto evidenti. Le 40 pagine che La destra nuova dedica alla Francia servono a penetrare nel dettaglio dell’operazione neo-neo-gollista di Sarkozy, e soprattutto a capire come questi sia riuscito nel vaste programme a voltare in suo favore, uno a uno, tutti i suoi punti di debolezza.

La parte più consistente del volumetto è dedicata alla Gran Bretagna ed è magistrale. In particolare è utile il primo dei tre saggi, di Luigi Di Gregorio, che serve a sfatare numerosi luoghi comuni sulla politica britannica. Alcune scoperte sono scioccanti. Credete che Londra sia la capitale del bipartitismo? Balle, in Parlamento sono rappresentati tredici partiti, ivi inclusi i Democratic Unionists, Sinn Féin, Plaid Cymru e Kidderminster Hospital (quanto meno non sono stati eletti membri del Monster Rave Meeting Party). In Italia sono la metà – non avrei mai pensato di poterlo scrivere. Sapete qual è il partito che ha il miglior trend? I Liberal Democrats, se non che sono così mal distribuiti sul territorio che col sistema maggioritario guadagnano un seggio ogni centomila voti. Alle elezioni vinte dai Laburisti, quale è stato il partito più votato in Inghilterra? I Conservatori. I sondaggi che danno David Cameron in netto vantaggio percentuale su Gordon Brown sono rassicuranti? Macchè, per ottenere più seggi i Conservatori devono sperare in circostanze piuttosto inusuali.

La Svezia, della quale abitualmente si sente parlare molto poco, sta vivendo un momento storico. Universalmente riconosciuta come socialdemocrazia che funziona (è la patria dei sussidi di disoccupazione), s’è ritrovata invischiata in fatti di corruzione e una generale sfiducia nei confronti del sistema assistenziale (i sussidi di disoccupazione alla lunga non funzionano più). Pur confermando i Socialdemocratici come primo partito, le elezioni del 2006 hanno visto un netto spostamento di voti da questi ai Nuovi Moderati di Fredrik Reinfeldt, che sono così stati in grado di formare un governo di coalizione anti-socialdemocratica. Pochi giorni dopo il ministro della Cultura s’è dovuto dimettere per non aver pagato il canone della tv pubblica, ma a quanto pare il governo regge forte di un vasto consenso popolare. È infatti accaduto, spiega nel suo saggio Göran von Sydow, che i Moderati di Reinfeldt sono riusciti a caratterizzarsi come Nuovi sfondando in un fasce d’elettorato stabilmente presidiate dalla sinistra e conquistando se non il cuore almeno il cervello di lavoratori stanchi di un sistema corrotto e di una socialdemocrazia azzoppata.

Cosa insegna questo pregevole libretto, a voler leggerlo fra le righe? Innanzitutto che ogni esperienza nazionale fa storia a sé, e che la globalizzazione del pensiero politico è ancora molto più in là di quello che si crede. Basta mezz’ora in Inghilterra per capire che un elettore dei Conservatori non voterebbe Berlusconi e che un elettore di Berlusconi non saprebbe chi votare. Poi, che un vento di cambiamento sta spirando in tutti i partiti, quale che ne sia la collocazione geografica e politica: Campi & Mellone illustrano questo minimo comun denominatore nella “volontà di lasciarsi alle spalle quel culto sentimentale del passato e della tradizione, quell’enfasi retorica in materia di patriottismo e religione, quelle rigidità ideologiche e quei pregiudizi mentali in materia di immigrazione, diritti civili o politiche economiche”. Infine che non bisogna farsi prendere troppo la mano. Bisogna sempre tener presente la reazione di un anziano militante alla notizia che nei progetti di David Cameron c’era la definizione di un New Conservatism: “Se siamo Conservatori, come facciamo a essere nuovi?”.

giovedì 21 maggio 2009

La mia lunga intimità

(Gurrado per Il Sottoscritto)

C’è dunque questo film in cui Sean Connery interpreta un vecchio scrittore che ha abbracciato la saggia decisione di non pubblicare più niente e di non vedere più nessuno. Ci riesce finché non gli s’intrufola in casa un giovanotto dei sobborghi, il quale putacaso nutre una passionaccia per la scrittura: tanto dice e tanto fa che alla fine Sean Connery acconsente ad accoglierlo ogni giorno e a leggere gli infiniti quaderni che il giovanotto ha riempito di abbozzi narrativi. Nella scena più bella del film, del quale mi piacerebbe tanto ricordare ancora il titolo, il ragazzino riapre i suoi quaderni e li trova pieni delle note a margine del vecchio scrittore, e la domanda più acuta e ricorrente è quella che ogni lettore esplicitamente o implicitamente si pone di fronte a ogni romanzo: “Dove mi stai portando?”

Pertanto: dove mi stai portando, Covacich? Mi permetto di darti del tu anche se non abbiamo il piacere di conoscerci perché nelle quasi trecento pagine di Prima di sparire racconti tanti di quei fatti tuoi da tramortirmi quasi, e da darmi l’impressione di una lunga intimità. C’è tua madre, c’è tua nonna, tua moglie e la tua – si può dire? – nuova fidanzata, ci sono i dubbi fra le due possibili vite, gli sms cancellati, i mezzucci per portarti da Trieste a Roma. E tutti chiamati per nome di battesimo, anche gli amici, anche i personaggi celebri: è un effetto di trompe l’oeil che porta il lettore avveduto a partire per la tangente e cercare di decorare il romanzo con brandelli di cognizioni cronachistiche che restano sottintese. Toh, c’è un vecchio scrittore che si chiama Dudù; toh, c’è un regista che si chiama Piergiorgio; c’è un altro scrittore che si chiama Christian, chissà se sua sorella si chiama Veronica. E ci sono tonnellate di segreti imbarazzanti, di confidenze non richieste, di nomi che io stesso non riscrivo per naturale ritegno a impicciarmi delle vite altrui. Dove mi stai portando?

Sarò malizioso ma ho l’impressione che tutto ciò sia un fuoco di sbarramento destinato a selezionare il livello dei lettori. Si sa che le case editrici da anni proclamano che il pubblico vuole storie, preferibilmente vere, e colgono al balzo l’opportunità di gettargli in pasto la vita privata dell’autore, specie se raccontata da lui consenziente. Tu l’hai fatto. Uno compra Prima di sparire nella consapevolezza che prima aveva solo una vaga idea di chi sei, come persona intendo, e trecento pagine dopo ne saprà più del tuo psicanalista o confessore o commercialista. Bella forza, direi, a questo punto va a finire che chiunque racconti i fatti propri è degno di venire pubblicato, dall’Einaudi magari, e viene meno ogni distinzione fra autore e pubblico: tutti lettori, tutti scrittori.

Devo riconoscere che il romanzo è avvincente e forse io stesso mi sono lasciato trascinare dall’istinto voyeuristico di sapere se lasci la moglie per la fidanzata. L’ho letto a mezzanotte, l’ho letto alle sette del mattino, ho dovuto trattenermi a viva forza dal leggerlo in ufficio: l’istinto spione si sa che è debole e facilmente accalappiabile. Volevo sapere dove mi stavi portando. Ora che invece sono passati un po’ di giorni, mi sono reso conto che i punti di forza del romanzo, intendo le pagine che restano fisse nell’antologia della memoria, sono due tirate metanarrative: quella in cui racconti della nottataccia in stazione bloccato da una bufera di neve, a parlare di poesia con una tua ex allieva, e quella in cui il protagonista del romanzo che stai scrivendo da sei anni trova un cagnolino su una panchina e sfida mezza Budapest per portarlo in salvo. E non è poco perché si tratta di due tirate lunghe, che mantengono un ritmo costante ed elevato, forse godendo della tua esperienza di ex maratoneta. Sono le tirate ai limiti della sofferenza di cui forse ho sentito la mancanza quando ho letto Fiona, il tuo romanzo precedente.

Per questa tua indubbia capacità tecnica intuisco che la scelta di mettere in vetrina i fatti tuoi fosse un artificio per distinguere le due categorie di lettori: chi dà un’occhiata, passa e va, da chi invece si ferma e vuole entrare a vedere cosa c’è dietro. Dietro ci sono le pagine del tuo romanzo incompiuto che usi come specchio e intermezzo della principale linea narrativa: lì mi accorgo di trovare un Dario Rensich che è la proiezione narrativa di te stesso, ex maratoneta diventato artista, il quale ha sposato una donna che ha il tuo nome voltato al femminile, Maura, la quale si sottopone a infinite sessioni erotiche, estenuanti quasi quanto i viaggi in treno da Trieste a Milano Porta Genova, col bombarolo protagonista di Fiona. Covacich, a me puoi dirlo, non barare: la seconda di copertina cerca di spacciare il tuo romanzo come vera verità – “la sfida impudica di dire io”, recita – o meglio come peep show della tua storia intima, della tua vita privata, e invece la realtà è senz’altro più complessa e stratiforme. Come minimo stai controbilanciando la situazione esterna, piena di mogli fidanzate Piergiorgi e Dudù, con una situazione interna altrettanto sfaccettata, dove le personalità si accavallano nel tentativo di uscire dal tuo intimo e diventare parole su carta. Il protagonista che dice “io” non è più te di quanto non lo sia, che so, questa Maura che accoglie alternativamente le tue due metà proiettate, l’ex maratoneta e l’ex bombarolo. C’è più te stesso dentro le pagine che sorvolano sui fatti tuoi e che magari il lettore superficiale, abbagliato dalla vetrina, ha saltato perché voleva sapere quante volte sei andato a letto con chi. Era qui che volevi portarmi?

Invece l’unica punta di delusione mi arriva dall’ultima pagina, la prima dopo la fine del romanzo, intitolata “Coi nostri nomi”. Fortunatamente è scritta in piccolo e magari qualcuno la salterà; così non saprà mai con quanta forza asserisci che “questi fatti esistono, queste persone esistono, io esisto”. Non vale, dovevi lasciarmi nell’illusione. Avresti dovuto fare come Boris Vian, assicurare che “questa storia è vera perché me la sono inventata da cima a fondo”. Allora il tuo romanzo più bello sarebbe stato mozzafiato.

lunedì 18 maggio 2009

Dissoi logoi


Vorrei dare degno spazio alla grande novità dell'Inter che finalmente vince lo scudetto con un allenatore, ma la nuova vita censurabile che conduco non mi consente di scrivere più di poche righe. Pertanto rimesto nel torbido e mi do agli aggionramenti vintage e in contraddizione fra loro, nella miglior tradizione della sofistica precristiana:

- se siete filo-interisti celebrate rileggendo Effetto Speciale da Quasi Rete, dicembre 2008;
- se siete anti-interisti consolatevi rileggendo Lo scudetto dove lo metto da Il Resto del Pallone, maggio 2007;
- se siete neutrali non so, fate le parole incrociate.

martedì 12 maggio 2009

Col fiocco rosa


Nella notte fra il 12 e il 13 maggio 1909 partiva il primo Giro d’Italia. Cent’anni dopo, più modestamente, su Quasi Rete parte stasera un curioso progetto di narrative nonfiction che seguirà in tempo reale – benché in leggera differita – questa corsa d’altri tempi. Dalla testa di Gino Cervi, dalla penna di Antonio Gurrado, ecco a voi il calendario di Dentro una nube rosa:

sabato 9 maggio 2009

Il G d'Italia

Il Giro del Centenario parte oggi senza di me ma fino a un certo punto: in libreria potete trovare Il Giro d'Italia: strade storie oggetti di un mito, pubblicato da Bolis e scritto da Gino Cervi (coordinatore di Quasi Rete / Em Bycicleta per la Gazzetta dello Sport) e Paolo Facchinetti (già direttore del Guerin Sportivo) con la collaborazione di, ehm, Antonio Gurrado. Nella fattispecie ho curato la sezione statistiche, quindi una volta tanto potrete trovare non già parole bensì numeri accuratamente scelti e disposti esteticamente. 24x27cm, 176 pagine, 250 illustrazioni, full color, cartonato con sovracoperta, 30 euri tondi tondi. Ah, e fatemi sapere chi vince.

venerdì 8 maggio 2009

Un continuo stillare di parole

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Antonio Delfini è un uomo fortunato, benché morto da quasi cinquant’anni: gli è stata intitolata nel centro di Modena una biblioteca comunale che spicca per dimensioni, modernità, duttilità e capacità di venire incontro alle esigenze di lettori di ogni estrazione. Ristrutturata nel 2006, la biblioteca Delfini consente a chiunque sia domiciliato a Modena di avere gratuitamente accesso al prestito di volumi, anche novità freschissime, dvd e cd audio; ha una zona per bambini, una per ragazzi, un’ampia aula studio, una piazzetta semiaperta per i quotidiani, un settore riviste di svago con poltroncine e tavolini simil-bar, un piccolo anfiteatro per la visione collettiva di film, una bancarella per acquistare a prezzo ridicolo doppioni o scarti del catalogo. La provincia di Modena è quella dalle cui biblioteche vengono presi in prestito più libri in assoluto, stando alle statistiche; e basta trasferirsi lì una mezz’oretta per rendersi conto di come la biblioteca Delfini sia l’epicentro di questo continuo tramestio culturale e di come anche i più riottosi fra gli studenti liceali, per non dire gli universitari, abbiano prima o poi infagottato i libri e detto: “Vado in Delfini”, magari ogni giorno per anni.

A prima vista questo col libro non c’entra nulla. C’entra invece se ci si concentra sull’aspetto che il titolo stesso vuol mettere in evidenza: Antonio Delfini come autore negletto, “ignoto” appunto, facilmente dimenticabile e che, come crudamente rilevato dall’Einaudi quando tentò di ripubblicarne l’opera omnia negli anni ’80, “non vende”. Autore Ignoto Presenta è un nuovo tentativo, stavolta antologico, di presentare Delfini al grande pubblico: l’operazione vive e forse un po’ risente del suo carattere complessivo ma non esaustivo, volto a presentare l’autore con una portata completa e qualche assaggino.

La portata completa è Il Ricordo della Basca, raccolta di racconti che Delfini pubblicò nel 1998 e che era stata riproposta l’ultima volta da Garzanti all’inizio degli anni ’90. Einaudi la colloca al centro del volume, dopo le prime prose incerte e prima di testi più corposi che, in una maniera o nell’altra, alla Basca si rifaranno. I dieci racconti ondeggiano fra una terza persona piuttosto compenetrata, sempre attenta ai movimenti dell’animo interiore dei protagonisti via via sulla scena, e una più riuscita prima persona che fornisce pienamente la cifra caratterizzante lo stile di Delfini. I racconti in prima persona sono forse la realizzazione più compiuta dell’atteggiamento svagato che sempre conservò la sua scrittura, come nella consapevolezza che nella vita ci fossero faccende più urgenti, o piacevoli, da sbrigare e che comunque sedersi a scrivere fosse a un certo punto necessario, qualcosa a metà fra un bisogno istintivo e un gravame fastidioso.

Il valore aggiunto di quest’edizione è la giustapposizione dei testi compiuti di Delfini a quelli incompiuti, abbozzi mai sviluppati o volutamente lasciati a metà. La scelta è stata affidata a Gianni Celati. Nel volume possiamo trovare quindi cerchi chiusi di varia dimensione: ad esempio il lungo vibrante sfogo autobiografico Il Ricordo del Ricordo (1956), nel quale Delfini ricostruisce la genesi della Basca offrendo un affresco intimo e politico al tempo stesso, nel quale magra figura ricava il suo allora amico Mario Pannunzio; come anche le cinque paginette de La Vita, che nel 1933 lo stesso Pannunzio insisté per pubblicare sulla rivista “Oggi” diretta insieme da lui e Delfini, nelle quali viene mantenuto dall’inizio alla fine un ritmo narrativo e sentimentale talmente intenso che, spalmato sull’opera omnia di Delfini, ne avrebbe reso ogni pagina un capolavoro.

Non meno affascinanti si palesano qua e là i cerchi aperti. L’ottativo Se io sapessi scrivere racconti (1936) passa velocissimamente da possibili trame a suggestioni, immagini folgoranti o progetti di riviste futuribili, per chiudersi su aforismi un po’ enigmatici e battute estemporanee che Delfini stesso così suggella: “questa è proprio stupida”. All’altro capo del volume troviamo invece la Storia d’amore intorno a un quaderno smarrito, che partendo dal decimo compleanno dell’autore/narratore/protagonista intende forse ricostruire nel dettaglio il suo indissolubile rapporto con Modena nel più ampio respiro di un romanzo, che s’interromperà dopo trentotto pagine dattiloscritte. Tuttavia lo stesso valore aggiunto dell’edizione variegata e antologica potrebbe, chissà, rivelarsi un’arma a doppio taglio nei confronti dell’autore, come se qua e là questo sapiente lavoro di collage tradisse il carattere complessivo degli scritti di Delfini – un continuo inarrestabile stillare di parole in ogni forma nel vano e frustrante tentativo di cavare la pietra dell’indifferenza editoriale, del disprezzo del pubblico, della propria stessa immaturità. La nuova edizione Einaudi può risultare decisiva solo se serve come spunto per il ripescaggio dei Diari, che la stessa casa editrice pubblicò nel 1982.

La prosa di Delfini è tenue, rarefatta. Pare talvolta di una semplicità talmente immediata che, bisogna dedurne, o le frasi gli venivano subito in mente così filanti, come su un abbecedario ideale, oppure passava i giorni a pensarle e a levigarle. E, sempre, la sua prosa pare sul punto di svanire: talvolta sparisce per davvero, come a realizzare una costante poetica dell’incompiuto che lo stesso Delfini adombra nella premessa a Racconto non finito (1957): “In un primo tempo s’intitolò Racconto triste; in seguito coll’andare degli anni, persuadendomi dell’impossibilità di continuare una cosa verso la quale non portavo più alcun interesse, ma soltanto il pregiudizio di un dovere che sapevo di non voler compiere, il titolo è stato mutato in quello definitivo di non finito.”

La Ghirlandina, la torre del Duomo che segna il centro di Modena, è una costante del volume. A pagina quaranta la “torre snella” appare “unico scampo alla fantasia di un povero viandante esiliato dai campi”; a pagina 319 “spiccava sola e imponente come una freccia d’amore lanciata verso il cielo”. Chi ci è passato sotto prima o poi, o chi l’ha scorta camminando da lontano, sa che entrambe queste definizioni più che calzanti sono vere, come può esserlo una proposizione in logica e non un paragone o una metafora. Nella sua prosa svogliata Delfini ha inteso incarnare il ritmo placido e un po’ lassista di una città accogliente e morbida qual è Modena; e ha saputo ritrarre nelle piccole storie dei suoi personaggi meglio di chiunque i modenesi: “tedeschi vestiti da inglesi, con qualche liberalità francese di costume insieme a un’eccessiva sentimentalità italiana, che da noi diventa magón”.

Vero, Delfini ha forse sprecato un enorme talento, non ci ha lasciato il grande romanzo che critica e pubblico sembrano esigere da ogni autore, ha frequentato i giri sbagliati, è stato fascista prima della dittatura, se n’è pentito dopo Matteotti, e una volta che l’antifascismo era diventato sport nazionale s’è macchiato della dichiarazione: “Gli antifascisti non esistono”. Lui stesso insomma s’è condannato al dimenticatoio, e ha iniziato a lamentarsene ancora vivo e operante, anzi già da giovane e prima ancora di scrivere ciò per cui vale la pena di ricordarlo. Tuttavia l’immagine di Delfini autore impolverato, lamentoso in vita circa il proprio destino postumo, contrasta in maniera scioccante con la vivida realtà della biblioteca che gli è intitolata, e del suo nome che corre di bocca in bocca – “vado in Delfini”, “sono in Delfini”, “ci vediamo in Delfini” – fra ragazzi appartenenti a generazioni che lui stesso non avrebbe mai immaginato di poter toccare. Forse è il destino più adatto a un autore svogliato, non avere bisogno di un libro per restare nella storia.

giovedì 7 maggio 2009

Scribi e farisei: marzo 2009

(Gurrado per Books Brothers)

Libri letti (13): Don Giovanni, di Molière; Sfere I: Bolle, di Peter Sloterdijk; Il mistero della cripta stregata, di Edoardo Mendoza; Manifesti Futuristi, a cura di Guido Davico Bonino; Gli Anni, di Virginia Woolf; Storia dell’Irlanda, di Robert Kee, L’incanto del lotto 49, di Thomas Pynchon; La decadenza della menzogna e altri saggi, di Oscar Wilde; Lucina, di Luigi Magni; Gli uccelli e altri racconti, di Daphne Du Maurier; La solitudine dei numeri primi, di Paolo Giordano; La destra nuova, a cura di Alessandro Campi e Angelo Mellone; Falling Palace, di Dan Hofstadter.

Libri acquistati (5): L’incanto del lotto 49, di Thomas Pynchon; Gli uccelli e altri racconti, di Daphne Du Maurier; The Rachel Papers, di Martin Amis; Tremor of Intent, di Anthony Burgess; Nothing like the Sun, di Anthony Burgess.

Bisognerebbe considerare il libro anzitutto come oggetto da viaggio. Preso singolarmente è decisamente portatile, a meno che non si tratti della Ricerca del tempo perduto o del De Felice o peggio ancora dell’Encyclopaedia Britannica, sempre ammesso che portarsela appresso serva a qualcosa. Quando invece si affronta un trasloco complessivo, ogni singolo libro si carica di un peso che a prima vista non aveva: questo, credo, perché è difficile se non impossibile considerare i libri uno a uno. Ogni libro esiste –nella realtà effettiva come nella mente del lettore – in relazione ai potenzialmente infiniti libri che l’hanno preceduto o seguito e comunque lo circondano. Nessun libro è un’isola. Dovendo cambiare casa, la scelta più semplice e meno dolorosa è quella fattivamente più complicata: ossia li si imballa nessuno escluso e li si porta di peso dall’indirizzo A all’indirizzo B, che sia l’emisfero opposto o la porta accanto.

Si creano in queste circostanze delle adiacenze anzi degli apparentamenti che, temporanei quantunque, Pirandello definirebbe speciosissimi. Ogni volta che ho dovuto imballare, ahimé più spesso di quanto non gradissi, un individuo incrollabilmente positivista come mio padre avrebbe preteso che impacchettassi i miei libri secondo l’unico criterio ragionevole, ovverosia la dimensione del volume. Venivano così passati in cavalleria metodi forse risibili, magari più estetici e sicuramente più graditi dai libri stessi, lo garantisco, quali l’associazione per genere (secondo l’esempio di Renato Pozzetto ne La casa stregata: “Tutte le puttane da una parte, tutti i froci dall’altra”), oppure per autore (vivaddio, come faccio a mettere nello stesso pacco Voltaire e Antonio Rezza? Cosa farà Giuseppe Genna a Jane Austen?), oppure ancora per editore – versione rigorosa del più volubile criterio di impacchettare secondo la gradazione del colore delle copertine, i gialli coi verdi e mai coi viola, gli azzurri coi grigi e mai con gli arancio.

Senza considerare che più un libro è particolare e viene concepito dagli editori come unico nel suo genere, più le sue dimensioni spiccano per l’impossibilità di uniformarsi a quelle altrui. Si tratta del volume-albatro: quando lo si vede in libreria è una bellezza, quando lo si deve infilare in un pacco è una tragedia. Per esempio, nelle loro seppur minime differenze tutti i romanzi tascabili che mi vengono in mente ora – gli Einaudi e i Bompiani e i Mondadori e i Rizzoli – rientrano nei margini di una perimetrazione assimilabile, e con qualche accorgimento di buon senso possono venire mirabilmente sistemati senza la minima sporgenza, dando anzi un’impressione di impenetrabile compattezza che fa sorgere un’imprevista fiducia nell’unitarietà del sistema editoriale italiano, come il pacchetto di mischia di una squadra di rugby.

Ma, signori, l’Almanacco del Ciclismo? Come lo accoppio l’Almanacco del Ciclismo? Spesso, oblungo, patinato, sembra una rivista con una malformazione congenita, la librite, che l’abbia fatta venir fuori con una rilegatura di cinquecento pagine. È l’incrocio fra un volpino e un sanbernardo. Dove lo trovo un, uno almeno, altro libro della stessa dimensione o conformazione? Allora prendo a fare esperimenti e a provare a sistemare due libri per il lungo – ma niente, finisce sempre che entrambi, o peggio ancora uno solo dei due, ecceda da un versante o dall’altro creando degli spuntoni potenzialmente assassini, di quelli che appena in viaggio provano un piacere irrefrenabile nel conficcarsi di taglio fra le seriche pagine di un Meridiano pagato chissà quanto. L’unica sarebbe non spedire l’Almanacco del Ciclismo e promuoverlo al ruolo di bagaglio a mano, viaggiando con l’ingombrante volume-rivista sotto braccio. Ciò torna utile solo se nel corso dell’itinerario si prevede di incontrare Davide Cassani. Avendolo firmato lui, sarebbe l’unico a non concludere che se uno viaggia con l’Almanacco del Ciclismo sotto braccio allora è autistico.

Il più delle volte, però, i trasferimenti non sono definitivi e la retta ragione sconsiglia di portarsi appresso tutti ma proprio tutti i libri che si possiedono. Allora la scelta si fa sanguinosa. Quali porto e quali no? L’idea di partenza è sempre la stessa: sto via poniamo due settimane, leggo mediamente cento pagine al giorno, mi porto tanti libri quanti ammontano a un equivalente complessivo di millecinquecento pagine. Elementare, no? Se sto via una settimana, settecento pagine. Se sto via un mese, tremila. Ma se sto via un’intera stagione?

Questo accorgimento si pregia di non considerare plausibile l’ipotesi che io possa comprare dei libri una volta giunto a destinazione. L’obiezione, terra terra ma incontestabile, suona: “E se una volta arrivato ti rendi conto che lì a Pavia, Modena, Milano tutte le librerie hanno deciso di restare chiuse per mesi e mesi? E se, in subordine, nelle librerie di Pavia e/o Modena e/o Milano non riesci a trovare nessun libro che ti piaccia? Meglio se ti porti da casa tutto il necessario.” Inoltre tale accorgimento, che mi equipara al saggio che dovendo allontanarsi per un mese si porta appresso trenta chili di pane per garantirselo sempre fresco, è a priori destinato al fallimento per via di un meccanismo che mi riesce oscuro.

Se per esempio devo star via due settimane, l’equivalente di millecinquecento pagine grossomodo, la prima cosa che faccio è prendere un libro di ottocento pagine, poniamo I Tre Moschettieri per giunta in Francese. Ne restano settecento, che completo agevolmente con tre libri, uno da duecento, uno da trecento e un terzo che dev’essere falso magro perché a prima vista sembrava di centocinquanta, massimo duecento pagine, e invece a un più attento sguardo esse si rivelano trecentoventi. La somma supera milleseicento, bisogna rifare tutto. Quale dei tre libri medi abbandonare? L’ultimo, il falso magro, non ci penso nemmeno – se l’ho scelto in extremis qualche motivo ci sarà. Ovviamente abbandono il più corto, quello da duecento, e la somma si stabilizza consolatoriamente sotto la soglia-millecinquecento.

Sotto, appunto. E se una volta lì mi annoio più del previsto e un giorno leggo, che so, centocinquanta o duecento pagine invece delle cento quotidiane? Che faccio nell’ultimo giorno che resta scoperto, il turista? Meglio riprendere il libro da duecento pagine, anzi cautelarmi prendendone uno da quattrocentocinquanta, dimensione che fa sempre compagnia. A questo punto la somma è milleottocento, duemila, ho perso il conto. Fatto sta che è tanto. E fatto sta che io leggo di solito tre libri a settimana, com’è che stavolta per due settimane me ne porto solo quattro? Colpa de I Tre Moschettieri, senz’ombra di dubbio. Ottocento pagine per un solo libro sono troppe, e per quanto il suo formato ipercompatto lo renda facile all’impacchettamento, vantaggioso per i traslochi, non è adatto al soggiorno, alla permanenza. Come dire che è un libro facile a trasportarsi ma una volta arrivato potrei non sapere che farmene – l’esatto contrario dell’Almanacco del Ciclismo. Putacaso la storia mi annoia, o Milady mi sta sullo stomaco. O che il Francese si riveli per quello che è, un incomprensibile balbettio dall’ambigua identità sessuale (diceva Voltaire che l’Italiano dice quel che vuole, il Francese dice quel che può – questo è vero soprattutto nel mio caso). Meglio leggerlo a casa, con calma. Io viaggio continuamente purtroppo, e potrete intuire che I Tre Moschettieri non l’ho letto mai.

domenica 3 maggio 2009

Mussolini, il caffè e l'Italiano in trasferta

(Gurrado per Quasi Rete)

“Non sarò l’uomo più simpatico del mondo ma il mio lavoro l’ho fatto, come, bah, come Mussolini” – una frase del genere non riuscirà mai a venire infilata in qualche fiction o situation comedy italiana e invece costituisce, a mio modesto avviso, il punto più alto raggiunto dalla produzione televisiva britannica nella settimana passata. L’ha pronunziata un attore comico di cui non ricordo il nome, ma che qui va per la maggiore, interpretando il personaggio di un dentista verso la fine della scorsa puntata di My Family, la versione locale di Casa Vianello: giovedì scorso poco prima delle venti e trenta su BBC1. In Italia sarebbero seguite, come minimo, indignazione popolare, sommosse capeggiate da Pecoraro Scanio (se esiste ancora, tenetemi informato), interrogazioni parlamentari, censura morale dal Colle, revisionismo creativo da ambienti vicini a Palazzo Chigi e nuovo benché non richiesto giuramento sulla Costituzione da parte di Dario Franceschini (se esiste ancora pure lui, tenetemi informato).

Ma in Italia siamo abituati ad avere le catene ai piedi e un’arancia in bocca, facendoci correggere da un’autorità irraggiungibile, invisibile, forse anche inesistente se non dentro di noi; un po’ come il correttore automatico di Word che nel solo paragrafo precedente ha trasformato “Mussolini” in “mussolina”, “Pecoraro” in “Pecoraio”, “Vianello” in “Vinello” e se solo avesse potuto avrebbe sostituito “censura morale” con “cesura molare”. Viviamo e scriviamo col pilota automatico: l’altra sera stavo leggendo L’Italiano di Sebastiano Vassalli e persino le ultime pagine del volumetto, le uniche decenti, dedicate a tale signor B. che s’è arricchito grazie all’intervento della M., sono talmente pervase da una gimcana di distinguo (e alcuni dicono che le sue ricchezze siano di origine dubbia, e però è il mio editore, e però ne parlo male, e però non abbastanza) da far dubitare della riuscita dell’operazione.

Poniamo che la battuta con cui ho aperto avesse dovuto venire pronunziata in prima serata su Rai1; l’avesse scritta Vassalli sarebbe diventata: “Non sarò l’uomo più simpatico del mondo ma il mio lavoro l’ho fatto, come M.”. Dopo di che un capostruttura coscienzioso avrebbe deciso che non si può impunemente associare (in prima serata! su Rai1!) il concetto di Mussolini, benché evocato esclusivamente da un’iniziale, con il concetto di simpatia, benché evocata per reciso contrasto; quindi la battuta sarebbe diventata: “Non sarò l’uomo più, bah, del mondo, ma il mio lavoro l’ho fatto, come” – e qui l’audio viene sfumato per passare alla scena successiva. Ovviamente a questo punto sarebbe intervenuto il presidente della commissione di vigilanza Rai (se esiste ancora, tenetemi informato) per risolvere la questione dei sottintesi troppo politicizzati di questa scena, nella quale la battuta sarebbe stata con ogni probabilità ridotta a: “Il mio lavoro l’ho fatto”. Quest’esempio è sufficiente a spiegare perché le situation comedy in Inghilterra fanno ridere e in Italia fanno piangere.

Ora, la copia de L’Italiano che leggevo l’ho presa in prestito alla biblioteca di lingue straniere – l’edizione costava quattordici euri e mezzo, decisamente non valeva la pena di comprarlo, forse non valeva nemmeno la pena di pubblicarlo – e non avevo la minima intenzione di parlarne qui adesso, anzi in realtà per l’intera settimana ho covato tutt’altri progetti che sono stati rimandati d’urgenza a data da destinarsi ieri pomeriggio, a seguito di un incontro sconvolgente a tratti allucinante. Antefatto. Nella stessa biblioteca di lingue straniere, che il Signore la preservi, ero addirittura riuscito a trovare l’ultimissimo numero di Panorama che era perfino possibile prendere in prestito (in Italia è tuttora sorprendente l’idea di una biblioteca che dia in prestito i periodici in corso, già per i libri bisogna combattere). Non ho dunque resistito alla tentazione di arraffarlo e portarmelo da Blackwell’s, una grande libreria che c’è solo a Oxford e che contempla al secondo piano un angolo-bar dove una nota multinazionale britannica si vanta testualmente di fare un caffè buono quasi quanto quello che fanno a Milano. Dovete sapere che mentre gli Italiani amano sedersi a un tavolo con una birra per rilassarsi o fare due chiacchiere, mentre il caffè tendono a prenderlo in piedi di corsa al bancone, gli Inglesi prendono la (prima) birra in piedi di corsa al bancone, mentre quando bevono un caffè espresso passano ore e ore seduti al tavolino muniti di quotidiani, riviste, libri, laptop e iPod. Sono degli esibizionisti che vogliono far vedere di essere intelligenti (poi ditemi voi come si fa a leggere o peggio ancora scrivere fruttuosamente in mezzo al casino più smodato), ma io mi adeguo e dopo aver resistito all’impulso di risputare il single shot espresso nella tazzina ho preso a sfogliare compenetrato Panorama, trattenendomi venticinque minuti sull’editoriale di Giuliano Ferrara tanto per dare spettacolo alla signorina di fianco munita di laptop, pile di appunti manoscritti e libro di Andy Wharol in edizione economica. Lì l’ho incontrato, lì l’ho visto per la prima volta con piena consapevolezza.

Come se fosse sbucato dal volume di Sebastiano Vassalli – come se mi fossi dimenticato di richiuderlo, come se non l’avessi restituito immediatamente dopo averlo finito – l’Italiano era seduto a un tavolo piuttosto distante dal mio, ma non abbastanza da farmi ascoltare dettagliatamente ogni sua parola. D’altra parte il volume della sua voce era sufficiente a raggiungere senza problemi il settore dei libri usati, che si trova al quarto piano. Nutro il sospetto che dovesse essere famoso, almeno fino a un certo punto, non tanto perché la sua faccia mi sapeva di già visto, forse in qualche trasmissione à la Corrado Augias, quanto perché serbava l’atteggiamento di chi attende di essere riconosciuto da un momento all’altro, e man mano che i momenti passano senza che nessuno lo riconosca prende a parlare a voce sempre più alta volgendo attorno lo sguardo compiaciuto e preoccupato al contempo. Era accompagnato da una coppia di, presumo, ricercatori alla locale università, sicuramente appena trasferiti visto che la moglie poteva ancora ostentare una pettinatura decente, il cui principale problema era dover acquistare un televisore – e l’Italiano giù a pontificare che assolutamente dovevano prendere uno al plasma, e che forse a Oxford non si trovava e bisognava andare a Londra. Quando la femmina della coppia gli ha fatto notare che lì in centro c’è un centro commerciale che vende le tv al plasma addirittura, l’Italiano dapprima è parso sorpreso, quindi ha iniziato a passarsi con sussiego l’indice sul labbro mentre la giovine signora pettinata gli spiegava che detto centro commerciale era grossomodo attaccato a High Street, e poi ha ripetuto senza posa: “La conosco bene, High Street la conosco bene” – dandosi arie di chi a Oxford è a casa propria, senza considerare invece che High Street è la strada principale e quindi la conoscono bene perfino i turisti giapponesi che oggi sono a Oxford, domani a Firenze e dopodomani a Istanbul.

Ora, solo ora, mi viene il sospetto di chi potesse essere l’Italiano, che parlava di filosofia esprimendo sorprendenti pareri riguardo ad Aristotele, sosteneva che in Italia l’università è stata completamente rovinata e vantava come qualcuna, potrebbe essere sua figlia come la sua amante, vincesse borse all’estero a ripetizione, notificando quattro volte a volume progressivamente crescente che “dopo Oxford, ha vinto una fellowship in Australia”, e provate solo a immaginare con quanta passione pronunziasse la parola “fellowship”, ci si rotolava come una cotoletta nel pan grattato, salvo poi iniziare a chiedere al maschio della coppia se al bar c’era una ciambella perché i muffin gli piacevano molto ma mai quanto le ciambelle, ottenendo il risultato che leggendo l’editoriale di Giuliano Ferrara io potessi estrapolarne esclusivamente i tre concetti-chiave “plasma, Australia, ciambella”. Una mezz’idea sull’identità d’er ciambella me la sono fatta: è arrivata con calma stamattina dopo una notte per lo più insonne per motivi che, mi rincresce rivelarglielo se mi sta leggendo a casa sua, esulano dall’esistenza dell’Italiano misterioso. Mi sto trattenendo a viva forza dal controllare su Google Images se la faccia corrisponde al nome che m’è venuto in mente, per evitare che la mia impressione d’impatto venga edulcorata dalla sua fama. O eventualmente esacerbata.

Ieri sera invece guardavo le sintesi della Premier League e sentendo l’intervista a Gianfranco Zola non mi sono limitato a rammaricarmi che il mio Inglese fosse radicalmente migliore del suo: ho anche pensato cosa accadrebbe se calciatori e/o allenatori italiani andassero in giro per l’Inghilterra a vantarsi di star lavorando lì. Mi sono immaginato uno Zola spocchiosissimo, al bar con gli amici, che inizia a dire: “Io l’Old Trafford lo conosco bene”, oppure: “In Italia il calcio non vale più la pena di essere giocato”, o anche: “Il cheddar mi piace molto ma preferisco il pecorino”. Fortunatamente non accade; non solo perché Zola è un uomo umile e che senza lamentarsene ha raccolto forse meno di quanto ha seminato, ma piuttosto perché Zola usa i piedi e non la testa. Non è questione di statura. Quando si fa il calciatore, e dopo di che l’allenatore, dovunque si vada resta insindacabile la capacità universale di giudizio, basata su alcune costanti: la qualità del gioco espresso, l’affetto per la maglia, i risultati che si riesce a ottenere. Sbagliare un rigore o perdere 0-3 è una scoppola a qualsiasi latitudine, e non c’è verso di farlo passare per un mezzo pareggio solo perché è accaduto a Londra invece che a Oristano. Nella filosofia e più in generale nelle attività intellettuali il riscontro univoco è più raro, se non del tutto assente, ed ecco che il luogo dove si esercita diventa una discriminante. Ne consegue la necessità di vantarsene apertamente per dar lustro al proprio lavoro, davanti agli altri e a sé stessi. Io vedo nel mio essere finito all’estero piuttosto la punizione per non essere riuscito a trovare un lavoro decente in Italia, e ancora mi va bene che sia Oxford e non la legione straniera; in ogni modo non mi vanterei mai e poi mai a voce alta di essere nell’angolo bar al primo piano di Blackwell’s.

Anche perché gli Inglesi (sobri) sono notoriamente gente tranquilla ma da Blackwell’s ieri pomeriggio, mentre l’Italiano strillava per l’ennesima volta: “La conosco bene”, oppure: “Fellowship in Australia”, o anche: “Ciambella”, stava per scoppiare su questo suolo la prima rivoluzione dopo trecentoventun anni. Per fortuna le ciambelle erano finite, e l’Italiano col suo codazzo ha dovuto andare a cercarsele altrove, e io ho finalmente potuto tornare all’editoriale di Giuliano Ferrara e offrire il mio disinteressato aiuto alla signorina di fianco munita di laptop, pile di appunti manoscritti e libro di Andy Wharol in edizione economica, la quale da cinque minuti tentava invano di svitare il tappo di un succo di frutta dal dubbio accostamento. Alla mia offerta di favorire in quel frangente della mia italica forza bruta, s’è barricata dietro un retrivo mutismo.