sabato 31 dicembre 2011


Quest’anno non ho letto tantissimo: 138 libri cominciando con Casa d’Altri di Silvio d’Arzo e finendo con Per chi suona la campana di Ernest Hemingway, tuttora in corso di lettura. In compenso ho letto molto meglio del solito, visto che solo in tre casi ho avuto la netta impressione di star perdendo del tempo: con Help my unbelief: James Joyce and Religion di Geert Lernout, un saggio in cui si cercava di provare che un’intuizione paradossale dell’autore fosse preconizzata da citazioni a caso dal povero incolpevole Joyce; con la Vita di Niccolò Tommaseo di Raffaele Ciampini, che almeno è un testo ormai desueto e ormai può essere rimosso in fretta; e con Uomini e cani di Omar Di Monopoli, il peggio del peggio, roba da chiedere indietro i soldi se l’editore non fosse il più che stimabile Isbn.

S’è verificato un cambiamento notevole: a un certo punto dell’anno ho capito che a mente non potevo ricordare tutto e, dopo dodici anni di letture onnivore, ho iniziato a utilizzare più o meno creativamente la matita sui margini dei volumi. Gli autori che hanno caratterizzato l’anno con letture plurime si sono assestati su cifre basse: Papini (4 libri), Philip Roth (5, di cui una rilettura), Tommaseo (6) e soprattutto Hemingway (altrettanti) il quale costituiva un’imbarazzante lacuna nel mio panorama culturale; per questo ho deciso di dedicargli le ultime settimane dell’anno partendo da Festa mobile a metà dicembre. In fin dei conti abbiamo entrambi un debole per Parigi e per la corrida, ma le cose in comune finiscono qua. Anche le riletture sono state pochine, anzi quattro: Lo scrittore fantasma di Philip Roth, riletto per segnare a matita le macrostrutture narrative e per evidenziare gli indizi che preconizzavano lo sviluppo della trama; Fede e bellezza di Niccolò Tommaseo, riletto perché è il romanzo più meraviglioso del nostro Ottocento e perché dovevo scrivere un articolone sull’autore; Erewhon di Samuel Butler, riletto su un’edizione diversa dalla mia, prestigiosissima trattandosi di una Penguin del 1936, ma che avevo dimenticato in Italia così da essere costretto a prenderne una a caso dalle biblioteche di Oxford; Dio di Levante di Raffaele Nigro, riletto perché nonostante sia stato sottovalutato all’epoca della prima pubblicazione con Mondadori è stato doverosamente ripubblicato, in miglior forma estetica, dalla temeraria editrice Hacca.

Volendo ragionare per settori, posso imbastire tre podi specifici. Per la narrativa prodotta da un italiano vivente, con preoccupante monotematicità metterei al terzo posto Autobiografia erotica di Aristide Gambìa di Domenico Starnone, al secondo Cazzi e canguri (pochissimi i canguri) di Aldo Busi e al primo Canti del caos di Antonio Moresco. Per la narrativa prodotta da uno straniero vivente non ho nemmeno bisogno di un podio completo in quanto ultimamente ne leggo poca: dunque al secondo posto Tutte le anime di Javier Marías, non tanto perché sia il suo miglior romanzo quanto perché con un certo sollievo ho voluto concedermelo dopo essere sopravvissuto a Oxford, così che su di me esercitasse un maggior riverbero di quanto previsto dall’autore per il lettore medio; e al primo, pressoché senza rivali, History of a pleasure seeker di Richard Mason, letto nell’originale appena era uscito, nel corso di un tranquillo fine settimana di giugno a Cambridge. È il romanzo in cui Mason mantiene tutto quello che aveva promesso dal suo esordio e tanto basta a renderlo unico; mi auguro che la traduzione Einaudi sappia rendergli giustizia. Quanto ai saggi, senza distinzione di ordine e grado, direi che al terzo posto si piazza Togliamo il disturbo di Paola Mastrocola, per giustezza di vedute e architettura nell’esporle; al secondo un gran classico quale Machiavelli in Hell di Sebastian de Grazia; al primo un classicissimo pressoché immortale, letto con colpevole ritardo, ossia The Italians di Luigi Barzini.

Non ribadirò mai abbastanza che quando azzardo graduatorie fra i vari libri non mi riferisco al loro valore oggettivo, anche perché sarebbe infingardo paragonare libri usciti avantieri e testi scritti da Dante o Pirandello; mi affido esclusivamente al grado di piacere che ho provato leggendoli, il quale essendo contingente può variare anche in base a fattori non ponderabili. Il saggio della Mastrocola, ad esempio, ho impiegato più di due settimane a finirlo perché è capitato in un periodo in cui pativo male fisico irreprimibile dovuto alla sovraesposizione a Oxford e il medico mi aveva proibito di affaticarmi occhi e cervello (e anche se avessi voluto, mi bastava aprire un qualsiasi libro per avere la tremarella). In condizioni normali, oltre a leggerlo in tempi più ragionevoli, l’avrei magari gradito ancora di più. Premesso questo, passiamo al torneo egotistico che sancisce la più dilettevole lettura dell’anno. Per ricapitolare, nel 2006 aveva vinto Espiazione di Ian McEwan, nel 2007 La vita agra di Bianciardi, nel 2008 Infinite Jest di David Foster Wallace, nel 2009 Aprire il fuoco nuovamente di Bianciardi e l’anno scorso il sullodato Fede e bellezza.

Stavolta mi voglio rovinare e per rendere più emozionante il giochetto non presenterò una lista dei tot libri migliori dell’anno ma ne indicherò crudelmente uno per mese. In gennaio, su 13 concorrenti, scelgo Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi; in febbraio, su 10, The Italians di Barzini; in marzo, su 17, il Diario intimo di Tommaseo; in aprile, su 14, Libera Nos a Malo di Luigi Meneghello; in maggio, su 7 e basta (era il periodo in cui ero verdino), The way of all flesh di Samuel Butler; in giugno, su 10, History of a pleasure seeker di Mason; in luglio, su 11, Cazzi e canguri di Busi; in agosto, su 15, La luna e sei soldi di William Somerset Maugham; in settembre, su 10, Tutte le anime di Marías; in ottobre, su 11, l’Autobiografia erotica di Aristide Gambia di Starnone; in novembre, su 7 (eppure avevo un bel colorito roseo), La famiglia Winshaw di Jonathan Coe; in dicembre, su 12, i Canti del caos di Moresco.

Ora vengono i guai: bisogna dividere il tutto per trimestri e sceglierne uno per stagione. Il libro dell’inverno è The Italians: Barzini sconfigge Pennacchi e Tommaseo perché primeggia nella visione d’insieme che né un romanzo né un diario occasionale riescono a pareggiare, e ciò nondimeno conserva una qualità di prosa (inglese) e una lust zu fabulieren fuori dal comune. Il libro della primavera è History of a pleasure seeker: Mason non sconfigge Menghello e Butler; in realtà pareggiano e vanno ai supplementari, fors’anche ai rigori a oltranza, ma trovandomi con le spalle al muro e dovendo scegliere privilegio il più giovane in quanto lottare alla pari coi fantasmi del passato è un obiettivo fuori portata per molti viventi, quasi tutti a dire il vero. Il libro dell’estate è La luna e sei soldi: Maugham, rispetto a Busi e Marías, mi dà l’impressione di una più solida architettura narrativa sulla quale far volteggiare il bello stile; e la trama, che sarà pure una volgarità da giornalisti ma alla lunga conta abbastanza, è la più rimarchevole del lotto. Il libro dell’autunno è Canti del caos: come Coe e Starnone Moresco coltiva un progetto ambizioso ma, avendo la possibilità di far trascorrere dieci anni e tre editori dalla prima edizione del libro a quella definitiva, è riuscito a spingere l’ambizione ai confini con l’eroismo.

E adesso le semifinali. Fra Barzini e Mason il libro del semestre boreale è, direi, The Italians: sono incomparabili ma, a parità di lingua, vince quello che non la parla dalla nascita. Fra Maugham e Moresco il libro del semestre australe è Canti del caos: non c’è paragone in termini di vastità, coraggio e malleabilità della lingua. Finalissima. Lo dico subito, meglio Moresco; che è riuscito a conseguire la visione complessiva necessaria a un autore che voglia scrivere un saggio ma utilizzandola per un romanzo e mantenendola per mille pagine e più. Mica è vero che le dimensioni non contano.

venerdì 30 dicembre 2011

Nel tragico panorama occidentale dell'anno morente si sono distinte in positivo due nazioni: non sono le ridarole Germania e Francia bensì Spagna e Gran Bretagna. Quest'ultima aveva galleggiato a vista per undici mesi, finendo sovente sotto il pelo d'acqua come in occasione dei moti estivi, prevedibilissimi per chiunque avesse trascorso più di una settimana in Inghilterra di modo tale da apprendere che è una nazione in larga parte composta da teppistelli decerebrati. La Gran Bretagna ha saputo rovesciare le sorti il 9 dicembre, quando si è ricordata di essere una nazione speciale e David Cameron con un giro di parole ha fatto capire a Sarkozy e alla Merkel dove avrebbero potuto infilarsi, una a una, le dodici stelle del vessillo europeo (la scena ricordava un poco la conferenza stampa del patriottico premier Hugh Grant in Love, Actually; ognuno ha i suoi modelli di riferimento).

La Spagna ha fatto di meglio. Precipitata in una crisi che poteva renderla anello mancante fra Italia e Grecia, ha sapientemente gestito il passaggio di poteri fra ex maggioranza ed ex opposizione, comprensivo di nobili dimissioni del primo ministro e campagna elettorale secca ma corretta. Il capolavoro è stato l'ultimo discorso del vecchio governatore, in cui l'uscente Zapatero ha concordato col subentrante Rajoy le parole da utilizzarsi per parlare a nome della Spagna e non del partito socialista o popolare.

Spagna e Gran Bretagna sono nazioni e hanno potuto dimostrare di esserlo in quanto monarchie. Dietro i governatori che si avvicendano resta il sostegno costante di un sovrano che pur nell'inevitabile succedersi di morti e incoronazioni resta idealmente lo stesso perché cessa di essere individuo per farsi uomo nazionale. Questo non è possibile in Francia, dove il Presidente della Repubblica deve curarsi del ritorno elettorale per sé, se è al primo mandato, o per il proprio partito, se è al secondo. Non è possibile in Germania, dove il Presidente della Repubblica è sostanzialmente inutile, tradizionalmente inetto, completamente oscurato dall'ombra del cancelliere e non di rado facilmente rovesciabile con uno scandaletto. Tanto meno sarebbe possibile in Italia, dove il Presidente della Repubblica è un uomo di partito, scelto dopo estenuanti trattative fra capipartito, e  chiamato a dirigere l'infinita quadriglia dei partiti: per quanto correttamente e istituzionalmente possa comportarsi, salterà sempre fuori qualcuno che lo taccerà di parziale e traditore degli interessi nazionali, ora a torto ora a ragione.

In Gran Bretagna risultati e programmi del governo, quale che sia, vengono solennemente esposti nel Discorso del Re (oggi Regina) davanti ai leader di maggioranza e opposizione con tutti i parlamentari alle loro spalle. La voce è del sovrano, le parole sono del governatore e le due cose diventano inscindibili. Ve lo vedete Napolitano o chi per lui a leggere i programmi di Berlusconi o chi per lui? In Spagna ci fu sensazione quando, per difendere Zapatero che pure non amava e del quale presumibilmente non trovava condivisibili le politiche, il cattolicissimo Re Juan Carlos urlò a Hugo Chavez: "Porqué no te calles?", "Perché non ti stai zitto?"; poi prese e se ne andò. In quel momento uscì di fatto dalla stanza tutta la Spagna, mica una persona sola. Ve lo vedete Napolitano o chi per lui che interviene a gamba tesa in un vertice internazionale per difendere Berlusconi o chi per lui? E se anche se ne uscisse dalla stanza, con lui non uscirebbe tutta l'Italia ma sempre una metà quando non un terzo o un quinto.

Giuliano Amato ha rivelato che le celebrazioni per il 150° anniversario dell'unificazione proseguiranno anche nel 2012, a riprova che in Italia perfino le date sono malleabili. Speriamo che il tempo porti consiglio e che festeggiando festeggiando ci si sovvenga di alcuni particolari dimenticati quest'anno:
- nel 1861 venne costituito il Regno d'Italia e, a parte quattro mazziniani, nessuno si sarebbe fatto trafiggere per costituire la Repubblica Italiana;
- a molti patrioti del XIX secolo premeva più l'indipendenza che l'unità della nazione, e nessuno di loro si sarebbe fatto trafiggere per mantenere insieme l'Italia, privarla di valuta propria e consegnarla una e indivisibile a un'entità sovranazionale che la governasse un po' da Strasburgo, un po' da Bruxelles e un po' da Francoforte.

giovedì 29 dicembre 2011

I coreani sono di per sé ridicoli: hanno buffi connotati indistinguibili, movenze bislacche e per nome dei trisillabi onomatopeici. Benedetto più di me dal dono della sintesi, un osservatore della Nazionale di calcio ai Mondiali del '66 riportò le proprie impressioni sulla Corea del Nord definendola "squadra di Ridolini" (poi andò come andò: l'Italia perse 0-1 con rete di Pak-Doo-Ik, forse ufficiale dell'esercito forse dentista, e i coreani vennero strapazzati dal governo al rimpatrio perché il Portogallo li aveva rimontati ai quarti di finale). I coreani fanno ridere soprattutto quando si prendono sul serio e non c'è dubbio che la scena sommamente mesta del funerale di Kim-Jong-Il muova più di ogni altra alla risata isterica. Bisogna andarci piano però col deridere il dolore di massa, manifestatosi nella circostanza in infinite scene di miliziani o anonimi civili (beninteso tutti uguali) che a stento venivano contenuti mentre, lacrimando forte, tentavano di gettarsi sopra o magari sotto il convoglio funebre. Nella migliore delle ipotesi sono cretini, abbiamo pensato; nella peggiore, e più verosimile, sono costretti a esprimere ciò che non provano. Per noi Kim-Jong-Il, con lo sguardo fisso da anni e l'ottuso apparato in costume che abitualmente lo circondava, era facilmente identificabile col male che non era solo un male etico ma anche un male estetico; peggio, un male spropositatamente e mostruosamente ridicolo, un despota più scemo che pazzo dalla cui falange dipendeva il lancio di non so quanti ordigni letali. Ma i coreani non sanno di essere ridicoli e parimenti non potevano concepire l'assurdità del Caro Leader, del polputo erede e dell'apparato carnevalesco. Per loro Kim-Jong-Il era l'immagine rasserenante che occhieggiava da ogni muro, il protettore da un mondo ostile e sconosciuto. Il Caro Leader era tutto; era il mondo che moriva e le lacrime erano vere.

martedì 27 dicembre 2011

Non so se il nuovo inserto culturale del Corriere della Sera abbia una versione elettronica per tavoletta o superfonino. Spero di no. Se ce l'avesse, ci si sarebbe persi un paio di graffianti ironie (volute o meno) nell'impaginazione de La Lettura #7, di domenica scorsa. L'intera pagina 12 era stata acquistata dalla Mondadori per celebrare "le suggestioni della natura, le vibrazioni dell'anima, il mondo di Mauro Corona"; l'irsutissimo volto del'autore appariva da una sfumatura del nero che faceva da sfondo alle copertine dei suoi libri, disposte in dimensione crescente fino a giungere all'ultimissimo e nuovo il cui lancio era: "La ferocia delle montagne. La dolcezza di un amore impossibile". Bene. Se non che sulla gemella pagina 13 campeggiava il titolo "I furbetti della narrativa" e si poteva leggere la seguente dichiarazione di Massimo Onofri: "Penso a uno come Mauro Corona, dove l'ombra del personaggio si proietta sull'autore, per cui piace per ciò che scrive, ma anche perché è un po' boscaiolo". Onofri argomenta che in casi del genere più che di "furbizia" bisognerebbe parlare di "mistificazione" editoriale. Ecco una bella pagina pubblicitaria sprecata, povera Mondadori; o almeno lo sarebbe, se buona parte degli italiani prendesse in mano gli inserti culturali per leggerli anziché per guardare le figure. Seguitiamo. A pagina 16 si riferisce che nel 1996 Mario Vargas Llosa firmò la prefazione di "uno sciocchezzaio della sinistra filocastrista" che si intitolava Manual del perfecto idiota latinoamericano. A pie' della stessa pagina la recidiva Mondadori ha piazzato una multicolore propaganda del nuovo libro di Federico Rampini: titolo, "Alla mia Sinistra"; lancio, "Lettera aperta a tutti quelli che vogliono sognare insieme a me". Non so se sia perfecto ma, a giudicare dall'espressione dell'autore in foto, parrebbe sulla buona strada.

sabato 24 dicembre 2011

Se siete arrivati in affanno alla Vigilia, sul Foglio di oggi consiglio un libro da regalare in extremis e ventinove da evitare assolutamente, soprattutto perché non sono ancora stati pubblicati.

venerdì 23 dicembre 2011

Ricapitoliamo. Nel 1992 Giuliano Amato si infilò una calzamaglia in testa ed esercitò un prelievo notturno sui nostri conti correnti. Era un piccolo sacrificio, si disse, per reggere il passo dell'Unione Europea che ci avrebbe garantito un futuro di prosperità e agiatezza. Negli ultimi giorni del 1996 Romano Prodi si infilò una calzamaglia in testa e ci richiese un contributo straordinario per l'Europa, la famigerata eurotassa. Era un piccolo sacrificio, si disse, per poter reggere il passo dell'Unione Europea che ci avrebbe garantito un futuro di prosperità e agiatezza. Nei primi mesi del 2002 tutti i commercianti si sono infilati una calzamaglia in testa e cambiando i cartellini dei prezzi sulle vetrine equipararono il potere d'acquisto di una moneta da un euro a quello di una banconota da mille lire. L'elevatissimo tasso di cambio lira/euro sancito anni prima da Prodi e Ciampi era, si disse, un piccolo sacrificio per reggere il passo dell'Unione Europea che ci avrebbe garantito un futuro di prosperità e agiatezza. Negli ultimi giorni del 2011 Mario Monti, senza poter nemmeno permettersi una calzamaglia da infilarsi in testa, ha scoperto la via maestra per il risnanamento: una tassazione progressiva dei conti correnti dei cittadini. Si tratta  anche in questo caso di un piccolo sacrificio per reggere il famoso passo. Non so voi ma io sono disposto a rinunciare a tutta l'agiatezza e la prosperità che ci garantirà in futuro l'Unione Europea se ci restituiscono tutti i soldi che abbiamo perso nei vent'anni in cui abbiamo cessato di essere una nazione indipendente.

mercoledì 21 dicembre 2011

Tra i controcanti alla mitologia della sobrietà non c'è solo il Don Giovanni di Robert Carsen, che ha scosso la prima alla scala facendo assolvere anziché sprofondare il dissoluto protagonista. C'è anche Silvio Orlando che porta in giro per l'Italia la riduzione teatrale de Il Nipote di Rameau, forse la più antifilosofica fra le opere di Diderot. 

Ne parlo sul Foglio in edicola oggi.

lunedì 19 dicembre 2011

Una bella notizia: sabato scorso David Cameron ha celebrato a Oxford il quattrocentesimo della Bibbia di Re Giacomo rivendicando - di là dalla pratica individuale - la peculiarità della politica britannica dovuta al costante perseguimento nei secoli di un ideale cristiano e, per l'appunto, biblico. Cameron parlava chiaramente ispirato dal mio paginone uscito sul Foglio del mercoledì precedente, che la redazione ha intitolato "Molta Bibbia, siamo inglesi", e nel quale sviluppavo lo stesso identico concetto su suggerimento dell'ottima Nicoletta Tiliacos. I motivi di soddisfazione sono due: non solo il Foglio dà le notizie prima che gli avvenimenti accadano mentre gli altri giornali le danno dopo; ma soprattutto è bello sapere che i due anni e mezzo che ho trascorso a Oxford non sono passati invano e che gli inglesi hanno saputo trarne qualche giovamento.

domenica 18 dicembre 2011

Ieri pomeriggio, invece di progettare di scrivere queste parole, avrei dovuto essere a Modena per incrociare a sorpresa Michela Murgia che  presentava il suo volume alla biblioteca Delfini, e per fare inoltre le solite cose che d'abitudine si fanno a Modena, a cominciare dal sostituire i pasti con gli aperitivi. Avevo intenzione di andare e tornare in giornata (essendo necessario che trascorressi questa domenica a Pavia) prendendo il treno delle 9:04 e rientrando con quello delle 20:25. Non l'ho fatto. Un impegno che si era protratto fin quasi a mezzanotte al venerdì sera mi aveva costretto a svegliarmi al mattino dopo intorno alle 9:10, ciò che rendeva ardimentoso acciuffare il treno delle 9:04, foss'anche in pigiama. Un ulteriore possibile treno mi attendeva alle 13:02 ma più passavo la mattinata sbrigando commissioni meno mi attraeva l'idea di trascorrere in treno due ore e mezza, arrivare a Modena alle 15:32, rimanerci per quattro ore e cinquantatré minuti, ripartire alle 20:25, trascorrere in treno altre due ore e mezza, arrivare a Pavia alle 22:56 e strisciare verso il mio letto con mezzo fine settimana già alle spalle e la domenica rovinata a priori dalla sveglia del lunedì.

Tutto ciò non meriterebbe di essere riferito se qualche anno fa, diciamo tre, una giornata del genere non fosse solamente stata alla mia portata ma non mi avesse addirittura riempito di entusiasmo e sollievo. Erano tempi in cui non mi pesava alzarmi alle sei della domenica mattina per incontrare la fidanzata a Verona alle dieci e indi ritornare a Pavia in tempo per la pizza vespertina con posticipo sulla pay-tv. Oggi mi basta leggere "Verona" su una carta geografica perché mi assalgano spossatezza e disfattismo. Erano tempi in cui la sera dell'8 dicembre decidevo al volo che l'indomani sarei andato a trascorrere il compleanno a Modena e quando tornavo, la sera dopo, invece di un anno in più me ne sentivo tre in meno.

Quest'anno invece non sono riuscito a spostarmi più in là di piazza Vittoria, per il mio compleanno, trascorrendolo inevitabilmente a calcolare quante persone se ne dimenticavano via via: rispetto a quando avevo, che so, otto o nove anni la percentuale è in continuo calo; un po' come l'editoria, che  stata in crisi dal momento in cui Gutenberg licenziò la prima Bibbia.

Quest'anno per la prima volta le ex fidanzate che hanno dimenticato il mio compleanno sono state più di quelle che se ne sono ricordate; ma è endemico, più passa il tempo più le ex fidanzate aumentano (o, più scientificamente: le fidanzate passano, i compleanni restano; finché non arriva un giorno in cui i compleanni cessano e le fidanzate diventano in qualche modo mezze vedove). Di per sé non mi ha tanto preoccupato questo quanto l'impreveduto effetto di un trucco autolesionista che andavo escogitando da tempo. Quatto quatto, il 7 dicembre ho imposto a facebook di non mostrare più pubblicamente la mia data di nascita; ciò di conseguenza blocca il programmino che segnala a tutti i tuoi contatti quando arriva il tuo compleanno. E' stata una carneficina, non credevo tanto: c'è chi se n'è ricordato un giorno dopo, chi se n'è ricordato due giorni dopo perché gliel'aveva ricordato chi se n'era ricordato un giorno dopo, chi se n'è ricordato una settimana dopo, chi mi adora e non se n'è ricordato affatto, chi dice di adorarmi e se n'è ricordato ancor meno; c'è anche chi mi ha chiamato al mattino del giorno giusto per scusarsi credendo che la ricorrenza cadesse il giorno prima. Vi risparmio altri dettagli più cruenti.

Il punto non è calcolare col bilancino chi ci tenga a me e quanto (non è il caso; scrivo molto vicino a una finestra e, in caso di necessità, potrei rompere il vetro per uscire) ma notare quanta parte del nostro cervello è stata divorata da facebook, tanto che se esso non ci ricorda del compleanno di un amico allora detto compleanno non esiste più. Fa bene Obama a proibire facebook alle proprie figlie; è la prima cosa sensata che fa da quando è stato eletto. E' il Presidente degli Stati Uniti nonché Commander in Chief e può permettersi di impartire ordini. Voi che (presumo) non siete presidenti di una mazza, nel vostro piccolo potreste approfittare del Natale per regalare a ogni amico un'agendina dopo averci evidenziato la data che vi preme.

Dunque non solo la gente si dimentica; non solo invecchio tanto che non mi riesce più di pensare di andare a Modena in giornata senza che mi colga un preventivo attacco d'artrosi; non solo dai trentuno ai quaranta è tutta discesa e dopo i quaranta c'è solo la morte, anzi le tasse e la morte. Per giunta il 10 dicembre vado a comprare il giornale e l'edicolante che mi serve (una bella signora snella che potrebbe anche permettersi di non indossare il berretto da Babbo Natale quand'è in servizio sotto le feste), al mio ennesimo "mi scusi" o "la ringrazio", sbotta: "Ma mi dai ancora del lei? Dammi del tu ché siamo coscritti". Poi commette l'errore fatale di domandarmi: "Te di che anno sei?"; e prima ancora che io finisca di risponderle "Millenovecentottanta" lei ha già dichiarato: "Io del Sessantasei", rendendosene conto quando è troppo tardi.
Si è accorto qualcuno che a Firenze un folle ha preso un'arma da fuoco, ha sparato a dei senegalesi e si è levata l'indignazione generale, con mille cortei solidali per dimostrare che l'Italia non è un paese razzista nonostante le teorie fomentate dal comportamento di certi partiti? Si è accorto qualcuno che a Firenze un folle ha preso un'arma da fuoco, ha tentato di sparare al Vescovo e non s'è levata alcuna indignazione generale, senza nessun corteo solidale per dimostrare che l'Italia non è un paese anticlericale nonostante le teorie fomentate dal comportamento di certi partiti?

venerdì 16 dicembre 2011

Ho sempre qualche difficoltà a spiegare che mestiere faccio. (A spiegarlo, non a capirlo). Sostenere che sono un filosofo è menzogna pura in quanto la mia attività preferita non è pensare bensì masticare. Potrei dire che sono uno storico della filosofia, ma questo non spiegherebbe allora perché per due anni e mezzo  ho lavorato in una facoltà di lingue e letterature straniere - non sia mai che s'insospettiscono e mi chiedono indietro gli emolumenti. Non sono un letterato perché non ho la laurea in lettere (a interpretare il termine secondo la vulgata burocratica) né ho ancora scritto nulla che resterà eternato nei manuali di letteratura (a interpretarlo secondo la vulgata del senso comune). Qualcuno può suggerire di regolarmi in base al massimo titolo di studio conseguito; se non che il mio dottorato risulta in scienze della cultura e io non sono né scienziato né culturista. Sono uno storico delle idee? Non direi, o quanto meno preferirei di no visto che la definizione mi fa piuttosto venire in mente qualcuno impegnato a mettere in fila le lampadine che via via si accendono sulla testa dei passanti. Non è bello. Forse, molto forse, potrei definirmi storico del testo. Non ha molto senso ma suona bene e costituisce effettivamente il mio diuturno battonaggio, da Voltaire al Foglio: prendo le parole di qualcuno, le mastico (appunto), le digerisco e le rivendo in un contesto differente che le illumini di più.

Che ci crediate o no, questa è la necessaria premessa all'anticipo di questa settimana per Quasi Rete, che è Fiorentina-Atalanta 0-1 del 1993.

giovedì 15 dicembre 2011

Mario Monti, sono lo spirito del Natale passato.


Su Tempi in edicola questa settimana spiego il 2010, il 2011 e il 2012 con la favola dickensiana di un sobrio canto di Natale.

mercoledì 14 dicembre 2011

Gli intricati avvenimenti diplomatici degli scorsi giorni hanno dimostrato una volta di più che la principale difficoltà nel comprendere la politica britannica sta in un fraintendimento di fondo: gli europei continuano a interpretare il Regno Unito utilizzando una griglia di canoni principalmente continentali mentre il Regno Unito si percepisce come l'ultima espressione di un'evoluzione coerente nei secoli senza paragoni nel resto d'Europa. Per gli inglesi la Gran Bretagna che anzitutto due cose: un unicum e un continuum; di conseguenza i primi due valori nazionali da salvaguardare, strettamente interconnessi, sono la peculiarità e la tradizione.

Appurato questo, sul Foglio di oggi dedico un paginone a spiegare due curiosi dettagli: che le radici dell'isolazionismo britannico affondano nell'interpretazione della Bibbia e che a dimostrare questa teoria è stato, forse involontariamente, proprio il Guardian che è il gran nemico dell'eccezionalità e della tradizione britanniche. Poi, a mo' di grasso che cola, aggiungo anche un articolino firmato con un'insospettabile sigla (an.gur.) che fornisce un'interpretazione freudiana del secondo numero della rivista letteraria Granta Italia, interamente dedicato al sesso.

Anzitutto Freud avrebbe da dire riguardo al fatto che la costante dei racconti degli italiani sia la mutilazione. Sull'erotico trionfa ciò che Tinto Brass chiama l'orrotico: mancano del tutto la sessualità giocosa di un Pasquale Festa Campanile e perfino quella, grottesca e ripugnante ma titanica, di un Antonio Moresco. Sembra che per gli italiani il sesso si traduca in castrazione. Ciò forse spiega perché i loro racconti siano mediamente più corti dei corrispettivi stranieri.

sabato 10 dicembre 2011

Oggi io e Francesco Savio iniziamo il nostro tour nelle più ridenti città della Padania onde presentarvi Anticipi, posticipi, il volume edito da Italic Pequod che racchiude le migliori fra le nostre rispettive rubriche - "L'anticipo" e "Il posticipo" - sul blog letterario della Gazzetta dello Sport, "Quasi Rete", e che di conseguenza ci renderà ricchi e famosi. Si parte questo pomeriggio da Pavia, alle 18 alla Nuova Libreria Il Delfino (Piazza Vittoria 11). Presenterà Roberto Torti de La Provincia Pavese. In attesa di accorrere numerosi, potete riscaldarvi leggendo l'intervista parallela che io e Savio abbiamo concesso a Roberto Alfatti Appetiti del Secolo d'Italia.

venerdì 9 dicembre 2011

Su Quasi Rete l'anticipo di questa settimana è Torino-Pescara 7-0 del 1989-'90 e di conseguenza si parla di voli aerei, automobili gran lusso, indignados e terroristi cattolici del 1604.

Nonostante che entrambe le squadre fossero appena retrocesse in parallelo, il divario nettissimo segnato dal risultato significava chiaramente che esistono squadre (come il Torino) che restano sempre parte di una serie A ideal eterna anche quando giocano nel sottoscala mentre esistono simmetricamente squadre (come il Pescara) che nonostante tutti i commendevoli sforzi gravitano sempre attorno alla serie B che si portano dentro ovunque vadano. Come conviene qualsiasi persona appena appena ragionevole, l'essenza del calcio non dipende dai risultati così come la nobiltà non dipende dai soldi.

“Essendo italiano il mio nemico è Giorgio Napolitano”, ha esordito quest’estate Camillo Langone scrivendo per Il Foglio un paginone a tema “Il mio nemico”. Poi, considerando che l’inimicizia col suddetto può ricadere sotto l’articolo 278 del Codice Penale, è addivenuto a più miti consigli prendendosela per il resto dell’articolo con un avversario meno inattaccabile quale Oliviero Toscani. Senza per questo voler rischiare la reclusione da uno a cinque anni, l’asserzione langoniana merita tuttavia di essere sottratta al proprio destino di boutade paradossale e va invece riletta alla luce della recente pubblicazione, per Marsilio, dell’edonistico volume Bengodi: i piaceri dell’autarchia.

Su Tempi in edicola questa settimana spiego chi fra Napolitano e Langone è più verosimile nel ruolo di salvatore della patria. Ci vediamo all'ora d'aria.

giovedì 8 dicembre 2011

E io avevo vivamente confidato, mentre Berlusconi annunziava quest'estate la terza o quarta manovra correttiva col cuore che gli grondava sangue, nell'abolizione ultima e definitiva di ogni ponte così che il mio compleanno non finisse stritolato nell'abbraccio mortale fra il giovedì dell'Immacolata e il sabato della settimana corta; avevo auspicato un normale compleanno lavorativo, scandito dai doveri d'ufficio e in qualche modo salvato dalle distrazioni della scrivania obbligatoria poiché le feste in generale mi rattristano, ogni compleanno che passa mi angoscia sempre più manco fossi una diva Lancome, e l'evenienza che il mo compleanno cada all'inizio del piano inclinato che conduce alle feste mi renderebbe compagnia francamente infrequentabile se non provvedessi io stesso non dico a isolarmi, per carità (l'adolescenza è finita da un pezzo) ma quanto meno a evitare ogni contatto ulteriore allo stretto necessario, di modo tale da non dover sentirmi ripetere ognora da ignari: "Gurra', ma che hai? Oggi sei incagabile".

Avevo tuttavia sbagliato i miei conti a priori e non solo perché il decreto antiponte della sanguinolenta manovra di Berlusconi si è perduto nei meandri della sesta o settima manovra correttiva altrui, ancor più sanguinolenta nonché lacrimosa; m'ingannavo soprattutto perché avevo dimenticato che il 9 a Pavia è il giorno del patrono san Siro che lo rende automaticamente festivo nonostante che fra una manovra e l'altra mi era parso di sentire che avrebbero abolito anche le festività patronali accorpandole alla domenica (di sicuro non le hanno abolite a Gravina dove ci si è concessi tre giorni di festa in onore di San Michele, dopo di che l'amministrazione comunale è stata commissariata per manifesta incapacità). Invece niente: festa l'8, festa il 9 e tutto ciò mi riconduce al mio primo compleanno pavese, il diciottesimo peraltro, quando ero ancora fresco di arrivo qui e mi ero ritrovato a festeggiare la raggiunta maggiore età con un party a sorpresa - organizzato ovviamente non da me, sarò anche un po' nevrotico ma qui si tratterebbe di schizofrenia - pieno di giovanotti pressoché sconosciuti, se non fosse stato per la contingente adiacenza spaziotemporale accademica, che non avevo mai visto prima e non avrei mai più visto poi, e sebbene non si possa insinuare che ciò sia un male è senz'altro una tristezza senza pari.

Pazienza, è la dura vita dell'emigrante d'ingegno e da mo me ne sono fatta una ragione. Fatto sta che ho smesso di lavorare sei ore fa e, sit venia verbo, questo ponte non abolito mi ha già cacato il cazzo quando mancano tre giorni e mezzo prima di poter tornare ad avere un ruolo e un senso in ufficio invece che star qui, come domani, a guardare la cassettiera e/o la radio a transistor (che appena alzo il volume si mette a gracchiare orrendamente, è made in chissà dove) mentre mi faccio forza per non elencare a memoria chi chiama e chi non chiama, chi si ricorda e chi non si ricorda, chi da quest'anno non mi fa più gli auguri e chi invece inizia a farmeli senza prima esplicitare eventuali secondi fini (non si può mai dire, la vita è breve et pleine d'anicroches.

Dice: ma se il ponte è iniziato stamattina non avresti dovuto avere smesso di lavorare venticinque ore fa e non già sei? Ben trovato; ma giunto che sono a un'età in cui la data di nascita non si nasconde ancora ma il compleanno non si festeggia più (meglio gli onomastici; meglio l'assunzione collettiva, anonima perché omonima, di tutti gli Antonio alle porte della luminosa estate nell'ancor più luminosa gloria del Santo) ho ritenuto opportuno accettare con gioia la commissione di un articolo da consegnare improrogabilmente entro stasera, festa o non festa; poi, siccome appunto sono nevrotico, prima ho chiesto di prorogare la consegna al mezzogiorno di domani e poi l'ho consegnato allo scoccare del mezzogiorno d'oggi. Dico che ho accettato con gioia, anzi quasi con entusiasmo (alé), perché si trattava alfine di un pezzo umoristico, anzi satirico, come non ne facevo da tempo; e nonostante un po' di ruggine iniziale sono stato lieto di agnoscere veteris vestigia flammae, come diceva il poeta, di incamminarmi nuovamente sulla strada che quand'ero adolescente mi portava a chinarmi sulla prima superficie piana a mia disposizione per scrivere prosette in cui dileggiavo baroccamente chi mi stava attorno, alternando saggiamente l'iperbole all'anticlimax; oppure che quand'ero universitario mi spingeva a intingere la penna nel risentimento traendone rime nella gran parte dei casi di scintillante sconcezza, sinceramente velenose, immancabilmente perfide nell'inchiodare chi conoscevo bene a ciò che magari sapevo solo io e chi non conoscevo affatto a ciò che riuscivo a intuire da una qualche mossa azzardata mentre credeva che nessuno vedesse.

Ora, il punto non è che più mi piace essere umoristico più riesco a sembrare umoristico mentre sono bilioso, né che più faccio ridere chi mi legge più in realtà sono solo e curvo sul mio quadernetto a organizzare un vasto atto di anarchia onanistica che lasci dietro di sé una scia d'inchiostro in cui ogni risata, ogni sorriso, ogni ghigno strappato a chi mi legge è in realtà un colpo d'ascia contro il compleanno, zac, il ponte, zac, la dura vita dell'emigrante d'ingegno, zac, insomma contro tutto ciò che mi circonda e non sopporto, così che quando il pezzo satirico viene pubblicato tutti (tutti quei pochi che lo leggono, s'intende) iniziano a spellarsi le mani per quanto sono brillante e quanto faccio ridere e quanto dev'essere divertente vivere con me, e di conseguenza io che a stento accetto la fedele compagnia del televisore mi irrito per la loro ingenuità e divento ancora più incagabile, non bastassero già il compleanno e le feste e la perniciosa combinazione fra i due.

Io dunque mi annoio così tanto durante i ponti che, di gran lunga stufo perfino di giocare col consueto adombramento genetliaco, stavolta ho iniziato ad annoiarmi già prima che il ponte iniziasse davvero, già mentre scrivevo detto articolo satirico e conservavo un'espressione perfettamente seria mentre imaginavo quante risate si sarebbero fatte i lettori immaginando quante risate secondo loro mi sarei fatto io scrivendolo; e mi annoiavo talmente che, di punto in bianco, ho cancellato tutto quello che avevo faticosamente scritto e ho deciso di ricominciare il tutto strutturandolo sulla base di un'implicita citazione da Dickens, implicita quanto si vuole visto che non ne facevo il nome ma in realtà abbastanza esplicita nella forma da far capire al lettore più analfabeta che dev'esserci qualcosa sotto (e per fortuna anche dalla redazione alla quale è toccata l'anteprima mi è stato confermato che si capiva, altrimenti c'era il rischio che cancellassi ancora tutto e ricominciassi in maniera più cristiana perché a furia di scrivere cose che nessuno capisce si finisce per non venire più pagati o, se la va, per diventare un autore di filosofia contemporanea), se non che poi la struttura della citazione implicita mi è parsa fin troppo esplicita e allora ho deciso di inserire nell'articolo una colta zeppa o meglio tre o quattro ammicchi ad Arbasino, oscuri a sufficienza da non consentire nemmeno a me di stabilire con certezza se fossero tre oppure quattro, e che sicuramente non verranno mai colti da nessun lettore e probabilmente nemmeno da Arbasino, più probabilmente ancora perché Arbasino non lo leggerà nemmeno questo famigerato pezzo satirico che mi ha salvato la mattinata, uno mica può leggere tutto (l'ho imparato perfino io sulla mia stessa pelle): così che alla fine mi sono visto costretto, per fronteggiare l'ansia montante da vigilia autoreferenziale, a scrivere quest'altro pezzo anzi metapezzo a mio uso e consumo, cantandomi e sentendomi la litania degli invisibili ammicchi ad Arbasino incastonati nella citazione implicita ad Dickens; un pezzo che se niente niente fossi nato americano mi avrebbe visto salutato come minimo quale vero erede di David Foster Wallace (ogni tanto ne nasce uno) e per il quale invece non mi saluterà nessuno, tutt'al più mi saluterò da solo, in quanto morirà sulle sterili pagine virtuali di questo mio blog, testata dalla quale non mi dissocio mai abbastanza, testata sulla quale ho da mesi ritenuto giunta l'ora di proibire ogni sorta di commento perché, cazzarola, o si trattava di critiche preconcette e ottuse espresse con sintassi incerta, e quindi erano inutili, o si trattava di complimenti in cui mi si incitava al grido di "Gurra', si' 'nu ggenie", e quindi erano altrettanto inutili se non dannosi, perché posso anche accettare l'idea della disgrazia di essere un genio (non si può mai dire), è solo che alla lunga non mi comprendo proprio.

lunedì 5 dicembre 2011

Sappiamo bene che è il momento della sobrietà, della compostezza, del darsi da fare, del rimboccarsi le maniche, dello stringere la cinghia, dello stringere se necessario anche la cravatta, del rimboccarsi se necessario anche i pantaloni; sappiamo bene che la congiuntura è drammatica, che non c'è niente da ridere, che sarebbe da irresponsabili anche solo azzardare una battuta sul fatto che, mentre in Russia per protestare c'è chi ha espresso il voto in topless, noi abbiamo dovuto rinunciare sia al voto sia ai topless; sappiamo bene che è finito il tempo dei lustrini, del bunga bunga, delle barzellette e delle apicellate. Però nulla mi tratterrà dal tirare un sospiro di sollievo notando che, mentre illustrava questa manovra lacrime e sangue, della ministra che piangeva è stata inquadrata solo la metà superiore.

domenica 4 dicembre 2011

Oggi si sente indubbiamente la mancanza della grafica essenziale, delle divise pastello, dei giocatori che sanno allacciarsi le scarpe e di Fabrizio Bracconeri, oltre che inevitabilmente di Gianfranco De Laurentiis che con la sua professionalità riusciva a rendere credibile perfino il Telebeam. Una cosa però mi manca più di tutte: i calciatori coi baffi, che erano il correlativo oggettivo di un'altra specie in via d'estinzione ossia gli uomini (eterosessuali) coi baffi.


Su Quasi Rete l'anticipo di questa settimana è Fiorentina-Roma 1-0, lo spareggio per la Uefa con la vendetta shakespeariana di Roberto Pruzzo.

giovedì 1 dicembre 2011


Da quando Michela Murgia mi ha definito “maschio e maschilista”, non solo in pubblico ma di fronte alla vasta platea di un collegio universitario femminile, non ho più paura di nulla; quindi posso scrivere senza patemi quanto segue.

Ma che gente frequento? Da ieri pomeriggio ininterrottamente molti giovanotti e giovinette che risultano miei amici su facebook se la stanno prendendo con Libero, che stando ai loro resoconti ieri ha proposto di “chiudere qualche facoltà per aprire più reparti maternità”. Per fortuna anche l’articolo in questione è opera di una persona che frequento e che leggo abitualmente, Camillo Langone, il quale con toni mai così moderati ha evidenziato alcune verità statistiche evidenti a chiunque non vada permanentemente in giro con una copia di Repubblica sugli occhi:
1)      gli italiani non vogliono fare i genitori;
2)      se non nascono figli agli italiani, l’Italia verrà riempita per mera legge fisica dai figli degli stranieri;
3)      la religione, a sorpresa, non sembra avere grande influenza come argine al calo delle nascite, che colpisce parimenti nazioni a maggioranza islamica e a maggioranza cristiana;
4)      dove aumenta la scolarizzazione femminile la maternità diminuisce.

Poiché so che i miei amici di facebook tendenzialmente non mi leggono, mi permetto di criticarli consapevole che ciò non intaccherà i nostri rapporti. I loro lamentosi schiamazzi, pregiudiziali e ripetitivi, non tengono conto di alcuni fattori cogenti:
a)      la posizione espressa nell’articolo di Langone non può essere identificata tout court con la posizione di Libero, che ha dedicato la stessa pagina 17 a un articolo di orientamento opposto scritto da Selvaggia Lucarelli (titolo: “Ma quale cultura? Serve solo più welfare”);
b)      la classica protesta secondo la quale le giovani italiane non fanno più figli perché guadagnano troppo poco è viziata da due paralogismi, vulgo fesserie:
i)                    non considera che situazioni di indigenza estrema non hanno trattenuto le italiane da figliare come chiocce nei secoli passati;
ii)                  rafforza involontariamente la posizione di Langone: è ovvio che le donne guadagnino poco, se si laureano tutte in lettere moderne;
c)      nell’articolo incriminato non c’è scritto niente di nuovo:
i)                    sia in senso relativo, in quanto Langone aveva pochi giorni fa sostenuto sul Foglio la medesima teoria (che non è ripetitiva, è solo giusta) e non era insorto nessuno;
ii)                  sia in senso assoluto, in quanto lo stesso Langone esprimendo tale teoria sul Foglio si era rifatto a Thomas Bernhard (che riteneva l’ignoranza il miglior incentivo alla gravidanza); e se vogliamo dirla tutta il ministro inglese David Willetts, che Langone citava ieri in chiusura d’articolo, sostiene la medesima teoria dai tempi in cui era all’opposizione, tanto che io stesso, si parva licet, gli avevo dedicato un articolone risalente ormai a quasi due anni fa.

Insomma, se qualcuna voleva protestare poteva farlo a suo tempo: accanirsi contro un articolo solo perché viene pubblicato su Libero e viene citato fuori contesto dal vario sottobosco di siti del progressismo viola è un po’ tardivo. Se vogliamo entrare nel merito della questione, potrei raccontarvi un episodio autobiografico che svela come il dilemma figli o istruzione sia un gioco a somma zero: negli scorsi anni mi sono avvalso dell’aiuto costante e benefico di una madrelingua per risolvere complicati problemi di traduzione in francese; costei ha avuto un bambino da poco e quando le ho chiesto aiuto per una semplice questione grammaticale non ha più avuto tempo di rispondermi, e giustamente perché chiunque abbia metà del buon senso necessario a non infilare le dita in un tritacarne si avvede di come prendersi cura di un bambino sia molto più importante della grammatica e pure della sintassi.

Mi sembra però più divertente farvi notare che, alla luce di quanto ho scritto sopra, chi ha criticato Libero per quest’articolo ha dimostrato in un colpo solo di:
I)                   non saper considerare un testo all’interno del suo contesto immediato, visto che non hanno notato l’articolo di fianco a quello di Langone;
II)                non saper considerare un testo all’interno del suo contesto storico, visto che non hanno saputo metterlo in correlazione con quello che Langone aveva scritto in articoli e libri degli anni passati;
III)             non riuscire a distinguere un articolo firmato dalla posizione della redazione di un giornale;
IV)             non leggere né giornali né libri (Langone pubblica con Mondadori e Marsilio, mica con La Compagnia del Torchio Rovente) a meno che non siano segnalati, già digeriti, da siti di veline progressiste;
V)                non saper distinguere la dura statistica dalle loro pie intenzioni o da ciò che sta bene dire in società;
VI)             non saper scrivere altro che non sia la cassa di risonanza di un’opinione altrui.

Sei numeri romani sono più che sufficienti per sancire che chi s’è messo ad abbaiare contro questo famigerato articolo di Libero, in buona sostanza, non sa leggere; quindi se studiasse di meno e facesse qualche figlio in più non sarebbe una gran perdita per l’Italia.
Sul Corriere della Sera del 25 novembre Claudio Magris si inalberava con Thomas Mann, reo di non aver smesso immediatamente di scrivere il giorno in cui la radio aveva annunziato lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Più grave ancora, agli occhi di Magris, è che la madre e la figlia dello scrittore, appreso l'evento, non avessero fatto irruzione nello studio dello scrittore per trascinarlo via dalla sua scrivania. Sul Foglio di oggi difendo le due povere donne dal dovere dell'impegno e, per estensione, la letteratura.


Purtroppo sono passati decenni dalla morte di Mann e nel frattempo abbiamo visto innumerevoli scrittori dichiarare l’irrefragabile perdita di senso della letteratura a seguito del Vietnam, dell’uomo sulla Luna, dell’11 settembre. Ogni rivoluzione copernicana della storia recente diventava una scusa per non lavorare; guadagnavano le prime pagine dei giornali radical-chic per qualche settimana e poi, scoperto che a lungo andare il loro silenzio non faceva più chiasso, zitti zitti si rimettevano a scrivere come se niente fosse.

lunedì 28 novembre 2011

Proprio nei giorni in cui la massima attenzione delle testate nazionali è rivolta alle date italiane del tour di Paul  McCartney, l'editore Robin pubblica un libro che vanta di essere "il più completo dossier sulla 'morte' di Paul McCartney". Questa presunta morte costituisce da quarant'anni una delle più inquietanti leggende di doppelganger e viene alimentata con indizi a decine che sarebbero sparsi nella produzione dei Beatles e altrove; personalmente è una delle cose che trovo più impressionanti al mondo e ne scrivo con qualche brivido. Secondo la macabra vulgata, McCartney sarebbe morto in un incidente stradale nel novembre 1966 e sarebbe stato sostituito da un sosia, leggermente più alto di lui, che ne avrebbe preso il posto in tutto e per tutto nella futura produzione del quartetto. Abitualmente però non si tiene conto di un dettaglio decisivo. Se i Paul McCartney sono due, vuol dire che c'è un McCartney I che ha inciso Please please me, A hard day's night ed Every little thing, e un McCartney II che ha inciso She's leaving home, The fool on the hill e Maxwell's silver hammer; di conseguenza direi che, chiunque egli sia, io sono un fan del secondo.
(Detto questo, riguardo alla leggenda io mi attengo alla risposta dello stesso McCartney alla giornalista che gli chiedeva: "Cos'ha da dire ai sostenitori della teoria secondo la quale lei sarebbe morto?" "Che sono vivo").

domenica 27 novembre 2011

Il campionato spezzatino mi disorienta e di conseguenza per la prima volta pubblico su Quasi Rete l'anticipo dopo che la partita in questione s'è effettivamente giocata. Ma che anticipo: si tratta di Atalanta-Napoli 0-0 sul campo e 0-2 a tavolino, quella dell'immortale monetina di Alemao.

Alessandro Dumas, indipendentemente dall'essere père o fils, non avrebbe saputo immaginare di meglio. Nemmeno Georges Simenon e Lev Tolstoj, messi a lavorare capo contro capo allo stesso tavolino, sarebbero riusciti a concentrare in uno stesso giorno, ma che dico, in uno stesso pomeriggio, anzi nello stesso giro di posta della stessa oretta, il contrappasso che rese il Milan e il Napoli due figure mitologiche opposte (la ragione e l'irrazionale, l'apollineo e il dionisiaco) legate indissolubilmente l'una all'altra e intente per sovrammercato a berciarsi insulti senza riconoscersi come doppelgänger.

giovedì 24 novembre 2011

L'affaire Fassina ha fatto passare inosservata un'altra piccola discrepanza apertasi ieri nel Pd. Sostiene Sandro Gozi, a pagina 17 del Corriere della Sera di oggi: "Non siamo più opposizione, ora siamo maggioranza". Sostiene Pierluigi Bersani, a pagnia 16 del Corriere della Sera di oggi: "Non c'è nessuna maggioranza". (Scusate, lo so che è come sparare sulla croce rossa ma che devo fare? Da una decina di giorni la politica in Italia è improvvisamente noiosissima).

mercoledì 23 novembre 2011

Perché un raffinato editore d'arte con casa e bottega nel centro storico di Pavia, più versato magari in edizioni pregiate dell'opera di Opicino de Canistris (documentatevi), dovrebbe mettersi a pubblicare guide ai campionati inglese, spagnolo e tedesco?


La risposta a quest'inquietante interrogativo, unitamente a una disamina dei vantaggi del libro (che è fatto di carta) sul web (che è fatto di niente) si trova nella mia recensione alle guide alla Premier League, alla Liga e alla Bundesliga opera dell'enciclopedico Renato La Monica, su Quasi Rete.

lunedì 21 novembre 2011

L'imponente vittoria di Mariano Rajoy alle elezioni politiche spagnole può tornare istruttiva a noialtri per almeno quattro ragioni:

1) insegna non solo che un partito di destra può vincere le elezioni senza alleati, ma che per candidarsi credibilmente a guidare un paese deve presentarsi alle elezioni da solo, proponendosi agli elettori moderati come unica opzione possibile de facto, e chi non lo capisce peggio per lui;

2) insegna che la Chiesa non dev'essere una stampella per imbarcare i voti di qualche centinaio di suore di clausura ma è l'unico collante i cui valori possano tenere insieme identità politicamente difformi, e chi non vuole adeguarsi si arrangi;

3) insegna non c'è miglior propaganda elettorale per un candidato di destra di un bel governo che attui una politica di sinistra;

4) insegna che dopo anni e annorum in cui gli intellettuali progressisti ce l'hanno menata con la minaccia di trasferirsi a Parigi a New York o a Malindi in caso di vittoria di Berlusconi, finalmente abbiamo anche noi un posto dove emigrare nel peggiore dei casi.

domenica 20 novembre 2011


Novembre, andiamo. È tempo di occupare. O, meglio, di okkupare con la k, secondo la grafia che sui dazebao viene riprodotta pari pari dai tempi di Cossiga e che dal segnare un elemento di aggressiva rottura col passato è diventata il precipitato stantio della più rassicurante adesione a una tradizione reiterata e immutabile contro ogni progresso. Novembre: non si capisce perché, ma ogni anno la sommossa studentesca casca nello stesso mese, alle prime brume, quando il freddo si fa pungente e l’asserragliarsi fuori orario in un’aula si ammanta dello stesso torpore del rintanarsi in un grembo materno, al riparo dagli elementi e da ogni contrarietà. Mai come quest’anno però il tempismo è infelice. Dodici mesi fa Berlusconi era il nemico di abbattere che giustificava ogni nefandezza, ma quest’anno la festa a base di monetine e champagne è appena stata consumata. Allora imperversava l’iconografia di una Gelmini arcigna nella sua beata ignoranza, mentre oggi non si può riempire in fretta e furia i cartelloni di caricature di Francesco Profumo, sempre ammesso che si riesca a distinguerlo da Ornaghi, Balduzzi o Terzi di Sant’Agata. Nel 2010 il governo stava per cadere (si avvicinava il fatidico 14 dicembre) e a colpi di cortei si poteva rintuzzare una volta per tutte la riforma universitaria di là dal fossato della crisi istituzionale; oggi il governo s’è appena insediato e, con tutte le possibili cattive intenzioni, non ha ancora avuto il tempo materiale di attuarne mezza. Nulla rende lampante il pessimo tempismo di quest’anno più dell’inattualità di terminologia e simbologia. Nel 2008 la marea montante di studenti in piazza aveva imposto l’immagine impressionistica dell’Onda anomala; l’anno scorso la protesta contro i tagli era emigrata sui tetti costringendo Bersani all’atto più memorabile della sua segreteria, l’ascesa su scala a pioli con sigaro fra i denti. Quest’anno, col vizio di aspettare i comodi dell’anno accademico, gli studenti si sono ridotti a utilizzare materiali di risulta imbastendo una protesta a babbo morto. A Pavia, che eleggo a campione per mere ragioni logistiche, lo slogan della protesta è #OccupyPavia, variante in salsa locale delle proteste dello Zuccotti Park e della St Paul’s Cathedral: sebbene arricchita dall’ashtag iniziale che fa tanto protesta globale e primavera techno-cool, rimastica uno slogan estraneo e già trito, peraltro nel momento in cui altrove gli occupanti iniziano a sgomberare. Una protesta che fa il verso a una protesta altrui si riduce a ballo in maschera e festa a tema: infatti prima del corteo “contro debito e austerità” (che è come dire contro botti piene e mogli ubriache) ci si scalda tutti con un bell’Occupy Party: dj, nientemeno, Beppe Rebel. E d’altronde a Pavia cosa vuoi occupare? La stazione dei treni? Ma dopo le venti la zona si desertifica e nessuno si accorgerebbe di un bivacco. Il cortile principale dell’Università? C’è già installato un dinosauro in scala 1:1 per propagandare una mostra a tema preistorico, non è che due tende farebbero più impressione. La centralissima Piazza Vittoria? Il suolo è tutto acciottolato e dormirci dev’essere scomodissimo. Così, mentre le lezioni vanno avanti regolarmente, i tetti restano sgombri e le strade sono presidiate soltanto da un nebbione d’antan, alla fine l’occupazione ha dovuto rifugiarsi nell’Aula Magna sotterranea, un bunker al neon intermittente simbolo perfetto di una protesta che c’è ma non si vede.

sabato 19 novembre 2011

Fra il primo e il secondo goal di Massaro, rispettivamente al 25' e al 45' del primo tempo, si erano intrufolati il goal di Lentini e uno di Gullit, così che il Milan - imbattuto dalla penultima giornata di due campionati prima - all'inopinato svantaggio aveva reagito con una gragnuola di legnate. La Fiorentina aveva fatto la figura del travet che va a litigare per il parcheggio con uno che una volta uscito dall'auto risulta essere un armadio, oppure dell'imbarazzante ladruncolo che in non so quale aeroporto pensò bene di rubare la valigia a Usain Bolt e scappare veloce sicuro di non essere mai acchiappato.

Su Quasi Rete l'anticipo di questa settimana è Fiorentina-Milan 3-7 del campionato 1992-'93. Se non vi basta e ne volete sempre di più, potete andare in libreria e comprare Anticipi, posticipi di Antonio Gurrado e Francesco Savio, editore Italic Pequod, prefazione di Roberto Beccantini.

giovedì 17 novembre 2011

Non me la sento di esprimere un giudizio sul governo Monti perché al terzo o quarto ministro mi sono addormentato e non so come sia andata a finire. A prima vista mi sembra tuttavia che questo governo di filosofi re, per quanto tutti indubbiamente degnissime persone, favorisca la pratica di uno degli sport preferiti degli italiani: l'elogio cautelativo dell'ignoto. Si tratta di uno sport estremamente diffuso - a scuola, nelle accademie, in tv, perfino in famiglia o fra amici - che funziona così: appena viene menzionato un argomento poco noto, tutti gli interlocutori simultaneamente iniziano a esprimere il proprio assenso con cenni del capo, mezze parole, riferimenti vaghi che lasciano intuire una maggiore conoscenza comune che rende superfluo l'approfondimento del tema. Non è sport da sottovalutarsi in quanto vi si basa una cospicua parte della produzione saggistica italiana, scritta e orale: ad esempio, se siete invitati a tenere una conferenza su Teofilo Folengo e putacaso non siete esperti di Teofilo Folengo, vi basterà pronunciare la frase "Non è certo questo il luogo di entrare nel dettaglio riguardo al Folengo" per ottenere compiaciute espressioni di consapevole supporto da parte del pubblico, il quale ovviamente di Teofilo Folengo ne sa forse meno di voi e quindi niente. Così voi siete soddisfatti perché avete tenuto la  vostra conferenza e il pubblico è soddisfatto perché ha avuto l'impressione di conoscere Teofilo Folengo senza prendersi la briga di studiarlo. Così è per il governo Monti. La quantità di elogi sperticati che vengono intessuti a maggior gloria di questi ignoti tecnici sono il segno che nessuno sa davvero chi siano e pertanto tutti ne parlano bene per non sfigurare in società; né qualcuno s'è azzardato a notare che la squadra di governo è composta da diciassette elementi, mica male per uno che ammette di essere terrorizzato dai gatti neri. In definitiva però il problema di un governo così dinamico non è quando cade ma se si rompe il femore.

domenica 13 novembre 2011

Italiani, popolo di avvoltoi, nessuno di voi ritiene di dovere delle scuse alla Lega Nord? Per tutto quest'anno centocinquantenario è stata subissata di reprimende perché si era schierata contro le celebrazioni dell'unità d'Italia, e tutti giù a dire che l'unità era un valore fondante irrinunciabile e che chi era contro l'unità era contro l'Italia stessa. Intanto quegli stessi parrucconi e conformisti che spernacchiavano la Lega si sono prodigati per svendere l'Italia ai mercati globali, alla Banca Centrale Europea e al Fondo Monetario Internazionale, dimenticando che centocinquant'anni fa c'era solo un valore che i risorgimentali avevano più a cuore dell'unità: l'indipendenza dallo straniero.

venerdì 11 novembre 2011

Ieri sera assistevo alla presentazione del volume Storia della cultura fascista di Alessandra Tarquini (Marsilio) e a un dato punto, parlando di Bottai che lamentava di star perdendo in Mussolini "l'uomo che ho amato per vent'anni", a mezza voce è stata espressa sul palco e in platea l'idea che si trattasse di un'assonanza di stretta attualità. Senza voler essere né offensivi né polemici, il parallelo percettivo fra Mussolini e Berlusconi affonda in una serie di documenti che un domani torneranno molto utili agli storici: nel 1993, dopo che a Casalecchio di Reno Berlusconi aveva reso pubblico l'endorsement a Fini come sindaco di Roma, si iniziò a ritrarlo in fez e stivaloni come il Craxi di Forattini; nel 1994, all'insediamento del suo gabinetto, il Manifesto uscì con una prima pagina color seppia uniforme rotta dalla scritta "Ecco il governo nero"; e così via. Senza voler essere né servili né apologetici, il parallelo fra Berlusconi e Mussolini non regge per la diversità delle condizioni storiche e politiche: il bipolarismo non è un totalitarismo, sulla scheda elettorale si trovava anche il nome di Romano Prodi o chi per lui, di tanto in tanto le elezioni si tenevano e talvolta Berlusconi le perdeva, talvolta le vinceva. Sentendo parlare Alessandra Tarquini la principale differenza che ho colto ha a che fare proprio con la creazione di una cultura. Nonostante la nota posizione di Norberto Bobbio, secondo il quale il fascismo era composto esclusivamente da analfabeti intenti a dondolarsi dai rami degli alberi, nessuno storico onesto può negare l'esistenza di una cultura fascista organica e ben strutturata, benché di propaganda, né di alcuni intellettuali di indubbia capacità (Giovanni Gentile, Alfredo Rocco, Massimo Bontempelli, etc.). Quando fra sessant'anni invece verrà studiato il berlusconismo, sarà oggettivamente difficile individuare tanto l'una quanto l'altra. Anzi è difficile già oggi: il Cambridge Companion to Modern Italian Culture, che è forse la radiografia più autorevole dello sviluppo della cultura italiana dal 1946 al 2006, pur procedendo con grandi autorità ed equilibrio non presenta alcuno schema di cultura berlusconiana organica né, Giuliano Ferrara a parte, azzarda alcun nome di intellettuale berlusconiano di spicco. Com'è possibile? Eppure entrambi i periodi storici sono stati caratterizzati da un capo maniacalmente attento alla propaganda, per il quale la creazione di una cultura organica avrebbe costituito un indubbio vantaggio. Avanzo l'ipotesi che la differenza sia da cercarsi nelle finalità della propaganda. L'obiettivo del fascismo era di creare l'uomo nuovo, anzi un italiano nuovo a immagine e somiglianza di Mussolini: quando questi veniva fotografato intento alla mietitura a torso nudo, la diffusione della fotografia serviva a  dare l'esempio. Il fascismo voleva trasformare gli italiani in altrettanti Mussolinini e la cultura fascista era lo stampo per forgiarli: questo consentiva paradossalmente, nonostante la privazione di democrazia, una certa creatività nel decidere forme e confini di questo stampo. L'obiettivo del berlusconismo era opposto: quando Berlusconi veniva fotografato con la bandana, la diffusione della fotografia serviva a dimostrare che il primo ministro seguiva mode e usanze del popolo, a confermare ciò che notava Massimo Gramellini in un ottimo articolone sulla Stampa di ieri: l'italiano medio è Berlusconi senza soldi. Lungi dal voler trasformare gli italiani in altrettanti Berlusconini, lungi dal poter essere stampo, la cultura berlusconiana sarebbe stata esclusivamente specchio: e brillando di luce riflessa, martoriata dalla democrazia che col suffragio universale impone di blandire le maggioranze, non ha potuto esprimere un'originalità né un'organicità perché i contenuti della sua cultura li decideva - attenzione - non Berlusconi ma l'eccesso di democrazia, l'identificazione mistica del leader con la gente e non della gente col leader. Non a caso la creatura politica di Mussolini si chiamava Partito e quella di Berlusconi Popolo; i due ventennii si assomigliano come una piramide che poggia sulla base e una che poggia sul vertice. Ora che siamo arrivati alla fine, e sperando che nessuno venga appeso per i piedi, credo che al dissolvimento dei fumi dell'antiberlusconismo di maniera gli storici dovranno prendere atto di questa discrepanza per chiedersi quale sia il precipitato culturale del berlusconismo e capire perché Berlusconi non ci ha lasciato una riforma Gentile né un codice Rocco.

giovedì 10 novembre 2011

Test a bruciapelo: se dico "Inghilterra", voi a cosa pensate? Le risposte sono prevedibili: al royal wedding, alla principessa Diana, al tè, alla guida a destra, a Oxford e Cambridge senza distinguerle, a David Beckham, ai costosissimi corsi di lingua di vostra figlia (che poi è tornata incinta di un peruviano), a Wembley e Wimbledon senza distinguerli, all'aristocrazia eccentrica ma benvoluta, ai Beatles, al roastbeef e a Beppe Severgnini.


E invece ve la do io l'Inghilterra, sul numero di Tempi in edicola questa settimana: specie se fate parte della numerosa tribù di italiani convinti che non ci sia nulla di meglio di una bella figuraccia di fronte a nazioni estere impeccabili, fareste bene a leggere con me C'è del marcio in Inghilterra di Gaia Servadio (Salani).

mercoledì 9 novembre 2011

Il tempismo è perfetto in quanto casca nel momento in cui da più parti si saluta la fine di una politica mercificata e basata sulla comunicazione pubblicitaria (il famoso partito-azienda) che dovrebbe lasciare spazio a una politica più etica, fondata sui capisaldi di responsabilità, onestà e verità. Bene, bastano tredici pagine del libro di Buzzi per capire da che parte stia la fregatura.

Ammettetelo, voi avete sempre creduto che il successo di Berlusconi sia stato basato su un sapiente utilizzo dei meccanismi pubblicitari. Vi sbagliate. Quelli che hanno fondato tutta la propria propaganda sui cardini più infingardi della pubblicità ingannevole sono tutti i vari Obama e Nichi Vendola, con i loro compagni che stanno nel mezzo, ovvero la sinistra globale. Lo dimostra un insospettabile saggio del 1964: La tigre domestica di Giancarlo Buzzi, appena ripubblicato da Hacca con un decisivo capitolo inedito. Ne disquisisco sul Foglio in edicola oggi.

martedì 8 novembre 2011

Per una curiosa coincidenza proprio oggi che probabilmente siamo all'ultimo giorno mi è capitato di leggere un passo de La Famiglia Winshaw di Jonathan Coe in cui si riproduce il diario (fasullo) di un parlamentare Tory alla fine degli anni '80. Siamo a cavallo fra la pagina 138 e 139 dell'edizione economica Feltrinelli, tradotta da Alberto Rollo. Il primo brano risale al 6 ottobre 1987, pochi mesi dopo la terza vittoria elettorale di Margaret Thatcher:

Non dobbiamo mai dimenticare che dobbiamo tutto a Margaret. Se il sogno ambizioso diverrà realtà, sarà grazie a lei, e lei sola. E' magnifica, inarrestabile. Non ho mai visto tanta determinazione in una donna, un tale coraggio. Si libera dei suoi avversari come se fossero erbacce che le intralciano il cammino. Li elimina con uno schiocco di dita. Sembrava così bella quando ha vinto. Come potrò mai ripagarla, come si potrà solo cominciare a ripagarla per tutto ciò che ha fatto?


Senza soluzione di continuità, il brano successivo risale invece al 18 novembre 1990, pochi giorni prima della deposizione della Thatcher dal ruolo di capo del partito conservatore:

La telefonata è arrivata alle nove di sera. Non c'era ancora niente di deciso, ma cominciavano a sondare l'opinione tra i fedeli. Io fui tra i primi a essere consultato. I sondaggi vanno male: diventa sempre più impopolare. Anzi, non si tratta più solo di impopolarità ora. L'unica verità è che con Margaret come leader, il partito non può sostenere la corsa alle elezioni.
"Via la puttana", dissi, "e in fretta".
Niente ci deve fermare.


Ora, è curioso notare come fra 1987 e 1990 intercorra lo stesso lasso di tempo che fra il 2008 e il 2011.

sabato 5 novembre 2011

Non è vero che le partite non servono a nulla. Per comprendere a fondo il commissariamento dell'Italia, la Merkel e Sarkozy, la Lagarde e Kakkonen, Draghi e Bini Smaghi, Giuliano Ferrara e Geminello Alvi, gli austroungarici di ieri e di oggi, una delle principali chiavi interpretative giace nell'anticipo odierno di Quasi Rete, un Napoli-Juventus 3-0 ai supplementari per il ritorno dei quarti di finale della Coppa Uefa 1989-'89.

L'avete vista l'Udinese massacrata dall'Atlético Madrid? Io no, ho preferito guardare i Simpson. Avete festeggiato per la Lazio che riesce nientemeno a sconfiggere di misura lo Zurigo? Io no, ho preferito guardarmi la partita, vecchia ormai di più di vent'anni, che ci aveva fatto sospettare davvero che l'Italia fosse una nazione e che la sua preminenza continentale fosse un atto dovuto (e invece). Mettetevi comodi.

giovedì 3 novembre 2011

L'iPad mette a disposizione degli alunni strumenti potenzialmente infiniti; ma l'attenzione, la precisione, la consapevolezza nell'uso di tali strumenti si acquisiscono soltanto con lo studium, l'applicazione quotidiana e seria sulle care vecchie sudate carte che oggi diventano sudati tablet. Su questo ci troviamo rapidamente d'accordo: che sia studio su carta stampata o su pergamena, su tavole di pietra o su display, l'importante è che si sudi.

Su Tempi in edicola questa settimana un franco (e sorprendente) dialogo fra Diego Sempio, rettore della fondazione Ikaros di Bergamo che sui banchi di scuola ha sostituito i libri con l'iPad, e uno come me, secondo il quale cultura deve per forza rimare con rilegatura.

mercoledì 2 novembre 2011

Soprattutto, Paolo di Paolo sbaglia a cercare il proprio nome su blog e social network. Ora, è chiaro che per chi non ha letto il suo romanzo il protagonista non esiste ed è curioso sentirne dibattere sulle pagine di un quotidiano. Allo stesso modo i grafomani della rete - magari camuffati dietro pseudonimo e senza uno straccio di lettore fisso - non esistono finché qualche perditempo non va a scovarli.

Sul Foglio in edicola oggi intervengo sulla polemica fra i lettori virtuali che criticano Paolo di Paolo su internet e Paolo di Paolo che critica i lettori virtuali sul Sole 24 Ore, il tutto per un fraintendimento sull'esistenza dell'uno e degli altri.

venerdì 28 ottobre 2011

Non sopporto coloro i quali non fanno nemmeno finire di morire una persona che già sono lì pronti in tv, sui giornali, addirittura su facebook e twitter a seppellirla col congedo di prammatica: "Ciao, Nome di Battesimo". Uno dei principali motivi per i quali preferisco venire chiamato esclusivamente per cognome è che, una volta morto, potrò rapidamente scoprire tutti quelli che in vita mi hanno voluto un bene superficiale e disattento: saranno quelli che mi liquideranno con un "Ciao, Antonio".

Col povero Simoncelli è andata peggio e forse era inevitabile. I "Ciao, Sic" si sono sprecati. Questo è niente tuttavia se paragonato all'ingresso ed egresso delle sue motociclette dalla chiesa dove si sono tenuti i funerali. Sia chiaro che qui non intendo fare una colpa al padre, che ha insistito per farle entrare; presumo che perdere un figlio sia il dolore più insopportabile e non si può pretendere lucidità, bisogna solo offrire comprensione. Me la prendo col parroco che non l'ha impedito (e col vescovo che non ha strigliato il parroco). Non mi riferisco solo a una questione di opportunità teorica spiccia, ossia se sia il caso che una motocicletta entri in chiesa: in realtà la questione specifica non sta in piedi perché com'è noto è possibile far benedire qualsiasi oggetto. Mi preoccupano invece il contesto teologico, le implicazioni spirituali e le conseguenze pratiche. Com'è noto erano gli antichi egizi a seppellire i cari estinti insieme alle loro motociclette, ossia insieme agli strumenti di lavoro o agli oggetti che i defunti più avevano amato in vita; è un'usanza toccante ma al parroco (e al vescovo) dovrebbe essere abbastanza chiaro che uno dei principali pregi del Cattolicesimo è di avere garantito un progressivo smarcamento dal culto degli antichi egizi. Vorrei inoltre chiedere al parroco e al vescovo conforto riguardo a due temi che mi stanno ancora più a cuore. Uno: hanno pensato che far accompagnare la bara di qualcuno dall'oggetto che costui ha più amato in vita può dare l'impressione che venga sminuito il senso stesso della morte cristiana, che dovrebbe essere un sereno mollare gli ormeggi per passare a un aldilà più luminoso di qualsiasi carenatura? Due: hanno pensato al neopaganesimo nazionalpopolare al quale davano la stura col proprio avallo? Gli Italiani, si sa, sono così: dopo avere scritto "Ciao, Sic" e "Ciao, Karol" vorranno diventare essi stessi Sic o Karol o chi per loro; e dopo avere istituzionalizzato prima e democratizzato poi l'applauso funebre che originariamente risuonò per Anna Magnani e ora è riservato alle vittime degli sgozzamenti da strada nonché al nonnino spentosi in grazia di Dio, ora vorranno altresì essere accompagnati nell'ultimo viaggio dagli oggetti che più hanno amato in vita. Allora avremo finalmente compiuto il tragitto completo, dalle mummie alla risurrezione della carne e ritorno.

Già che siamo in argomento ne approfitto per dare le mie ultime disposizioni (mamma, non allarmarti, sto una bellezza ma non si sa mai). Non azzardatevi a portare in chiesa la mia bara seguita uno a uno dai circa duecento volumi blu dell'edizione critica delle opere complete di Voltaire alla quale collaboro, né dalle ultime annate del Foglio, che pure è la prima cosa che leggo ogni mattino, e nemmeno da chicchi di caffè o cabosse di cacao. Sconsiglio vivamente anche la presenza di avvenenti signorine in bikini, ferma restando la mia forte predilezione al riguardo, e dietro l'altare non piazzate un megaschermo sul quale scorrano le immagini delle vittorie del Milan in Coppa dei Campioni. Fate una messa semplice, se proprio volete suonate il Dies Irae di Mozart, dopo di che provvedete a seppellirmi sotto la seguente dicitura senza fronzoli retorici (niente "lavoratore indefesso", "amico sincero", "fidanzato discutibile", "figlio snaturato", "intellettuale arzigogolato", etc.):

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Antonio Gurrado
ghisleriano
1980-2099

E invece lo so già, scriverete "Ciao, Antonio" e io non potrò nemmeno rivoltarmi nella tomba perché l'avrete riempita di tutti i Guerin Sportivo che conservo da più di vent'anni.
Solo una sana e consapevole libidine salva il giovane dallo sport e dall'azione cattolica. Ora, se devo giudicare dalle persone che abitualmente gestiscono quest'ultima, probabilmente è un bene (l'ha detto fra le righe anche il Papa ieri ad Assisi e per accorgersene non ci voleva molto, bastava essere cattolici); per quel che concerne lo sport la situazione è più controversa. Per riuscire a spiegarlo bene mi ci vorrebbe tutto il talento dei contemporanei romanzieri patri, che in Italiano neo-standard riempiono i loro volumi di frasette brevi come se avessero il singhiozzo e usano a ogni pie' sospinto l'aggettivo dimostrativo "quello, quella, quel".


Tranquillizzatevi, perfino con premesse del genere riesco agevolmente ad arrivare al punto e trattare, come ogni settimana su Quasi Rete de La Gazzetta dello Sport, l'anticipo di turno: oggi è Inter-Juventus 2-2 del 9 marzo 2002, benedetto da una doppietta epocale di Clarence Seedorf. Dov'ero quella sera?

martedì 25 ottobre 2011

Popoli padani, oggi verrà presentato a Milano il romanzo Quarto tempo di Claudio Gavioli, già medico sociale del Modena Football Club. Ne parleranno Gino Cervi e Andrea Maietti ma sarà l'occasione per scoprire dal vivo quanto siano belli anche gli altri autori del presidio di fabulazione sportiva em bycicleta sul blog letterario della Gazzetta dello Sport, Quasi Rete. Fra questi perfino l'autore dei posticipi Francesco Savio, perfino io autore degli anticipi. Ci vediamo dunque alle 18 alla trattoria della Madonnina, in via Gentilino 6: non piove, è solo un'illusione ottica.

lunedì 24 ottobre 2011

Ieri ho visto al Fraschini Il nipote di Rameau (riduzione teatrale di Silvio Orlando, per la regia di Silvio Orlando, con Silvio Orlando): ottimo spettacolo breve ma intenso, che fa venir voglia di rileggere il testo di Diderot - sia chiaro che uso "rileggere" nella comune accezione italiana del termine, ossia correre a recuperare una qualsiasi copia di un classico e, nascondendosi dietro il rossore della propria vergogna, aprirla per la prima volta in vita propria. Come sempre a teatro, tuttavia, nonostante l'ottima sceneggiatura i migliori dialoghi si sono svolti in platea, grazie soprattutto alla verve di una signora in poltronissima, ossia nella prima fila a ridosso del proscenio sive ribalta, che ha parlato contemporaneamente al personaggio di Diderot nei primi cinque minuti di spettacolo finché, scorgendo l'ombra di Silvio Orlando che fingeva di essere abbioccata sullo sfondo, ha esclamato: "Guarda! C'è Silvio Orlando!", così fugando ogni pericolo di crisi d'identità del noto attore. Di là da questo monologhetto, eterno i tre scambi più significativi.

Dialogo primo
Egli (vegliardo azzimato che pare appena fuggito dalla prima comunione della nipotina): "E' così breve che non c'è nemmeno l'intervallo per fare i commenti".
Ella (vegliarda cotonata e tenuta su da non so quale impalcatura): "Be', li faremo alla fine".

Dialogo secondo
Signora di mezz'età (sporgendosi verso la fila davanti): "Che piacere rivederla! Ha passato una bella estate?"
Signora di un'età e mezza (voltandosi, ma con artritica cautela, verso la fila dietro): "E' passata".

Dialogo terzo
Sciura pavese (installandosi sul posto che per diritto di prelazione sull'abbonamento per prosa, lirica e danza occupa dal tardo Settecento e scorgendo di fianco a sé una giovine sconosciuta): "Lei è la figlia?"
Giovine sconosciuta (chiaramente non indigena, espressamente spaesata, leggermente sovrappeso, non accompagnata, veste con malagrazia gonna lunga e tacchi alti cercando qualcuno che la riaccompagni mentre ostentatamente la ignoro): "No".

domenica 23 ottobre 2011

In tribuna si distingue Gianfranco Fini, tutto gongolante di fianco a sua moglie (Daniela Di Sotto; oggi ex) e con in petto un partito ai massimi storici (Alleanza Nazionale al 15,7% alle politiche del 21 aprile; oggi Futuro e Libertà è ottimisticamente valutato intorno al 3,9%, appena sotto lo sbarramento minimo per venire rappresentato alla Camera). Rileggendo la storia col senno di poi, non sorprende che nella circostanza - lui bolognese sposato con una laziale - avesse dichiarato di tifare per entrambe le squadre.


Fini a parte, l'anticipo di oggi su Quasi Rete è il più anticipo di tutti, il peccato originale che ha portato alla smania anticipatoria di oggidì: Bologna-Lazio 1-0 dell'ottobre 1996.

sabato 22 ottobre 2011

Mentre mi dibatto dilaniato su quale sia il titolo migliore del giorno - se quello epocale del Giornale sulla depressione dei gatti o quello più esistenzialista de La Stampa che recita "La bellezza è una maschera di guano" - mi casca l'occhio sulle pagine e pagine che Repubblica ha dedicato al primo (e si presume ultimo) congresso del partito di Domenico Scilipoti, il Movimento di Responsabilità Nazionale. Come sempre, il demonio è nei dettagli: racchiuso all'interno dello stemma del partito sta il simbolo, che riproduce in verde e rosso i semicerchi di yin e yang che sicuramente avrete visto tatuati sulla zona pelvica di qualche massaggiatrice cinese. Ora, se uno niente niente aveva una mezza intenzione di votare Scilipoti (sempre ammesso che il partito si presenti davvero alle elezioni che allo stato attuale delle cose potrebbero tenersi tanto fra un anno e mezzo quanto posdomani) la visione dell'infingardo stemma sinofilo dovrebbe essere sufficiente a farlo recedere: ma come, Scilipoti prima dice ben a ragione che chi vuol levare il Crocifisso dai muri delle scuole è uno scimunito e poi sceglie di identificarsi in un disegnino buono tutt'al più per una beauty farm di patrioti new age? Non bastasse questo sconforto, l'autorevole didascalista di Repubblica ha pensato bene di argomentare che lo stemma raffigura "un tao tricolore". Avete capito bene, un tao tricolore: e dire che tutte le massaggiatrici cinesi che mi si sono mai parate dinanzi mi hanno sempre insegnato, così alla spicciolata, che lo yin-yang è il simbolo della fusione di due forze contrapposte mentre il tao è una filosofia in senso lato. Ora, Repubblica non è nuova a questi inciampi e anche per questo è un giornale ameno: ricordo ancora con piacere pressoché fisico il giorno in cui, a elezione di Ratzinger ancora calda, inserì a tutta pagina lo stemma delle due chiavi legate da una corda spacciandolo quale nuovo stemma pontificio. Lo aveva probabilmente trovato pari pari sul sito del Vaticano, dove a qualche ora dall'elezione campeggiava ancora (con didascalia) questo stemma della "apostolica saedes vacans", sede apostolica vacante. Confondere tuttavia lo yin e yang col tao è un po' più significativo dei suoi metodi in quanto è come se, volendo descrivere con compiaciute sufficienza e albagia il logo della Democrazia Cristiana, Repubblica lo definisse "scudo con la scritta Libertas che campeggia su un catechismo". Ecco cosa accade  a sentirsi sempre superiori agli altri, più educati più dritti e più belli: mi sa che alla fine ha ragione quel titolo, la bellezza è una maschera di guano.

venerdì 21 ottobre 2011

Splendori e miserie di Silvio Berlusconi il quale ieri, nel breve volgere di poche ore, è riuscito a dire le parole più intelligenti e quelle meno furbe della giornata.

L'espressione più intelligente è stata quella con la quale ha seppellito Gheddafi, "sic transit gloria mundi", concentrando in quattro sole parole il dolore per la perdita di un amico controverso, l'inevitabilità della politica che deve comunque andare avanti, il mugugno per l'annullamento delle conseguenze pratiche di accordi internazionali stipulati con fatica e forse anche un'ombra di mesta autoreferenzialità. Come spesso gli accade, non è stato compreso. Ad esempio Massimo Donadi dell'Italia dei Valori, con la consueta aria da Venerdì Santo in servizio permanente effettivo, ha replicato con un altro detto latino a caso per poi chiedere coram populo cosa c'entri mai la gloria con Gheddafi che era un sanguinario dittatore. Io non lo frequento abitualmente, ma se vi capita dite a Donadi che nell'espressione latina si fa riferimento alla "gloria del mondo", che con versione un po' libera potrebbe essere resa con: "gli abiti scintillanti, gli occhiali da sole, le tende in Campidoglio, le hostess, il titolo di Re dei Re d'Africa e il figlio che gioca nell'Udinese".

L'espressione meno furba è invece quella con la quale, durante un vertice coi parlamentari del suo partito, Berlusconi ha commentato un intervento televisivo dell'onorevole Laura Ravetto arguendo che costei avrebbe prestato troppa attenzione mentre parlavano gli esponenti dell'opposizione e non avrebbe scosso sufficientemente il capo in senso di diniego. Io non lo frequento abitualmente, ma se vi capita regalate a Berlusconi una copia dell'opera omnia di Achille Campanile nella quale troverà (credo tratto da Gli Asparagi e l'Immortalità dell'Anima) un utile consiglio da seguire quando si visita la mostra personale di un amico che si diletti mediocremente di pittura: mai iniziare elogiando oltremodo il primo quadro perché l'amico si aspetta un crescendo e dunque al decimo, al ventesimo, al cinquantesimo quadro non si avranno più parole per esprimere il proprio entusiasmo. Meglio iniziare con un apprezzamento contenuto, quasi indifferente, e la progressione nel giudizio fra il primo e l'ultimo quadro procurerà all'amico una soddisfazione maggiore della vana e frustrante ricerca di iperboli arrampicate sugli specchi. Questo vale, mutatis mutandis, per i dibattiti politici. Se l'onorevole Ravetto avesse dovuto scuotere il capo a qualsiasi frase pronunziata dagli esponenti dell'opposizione, avrebbe dovuto scuoterlo più forte quando fossero arrivate le prime immancabili boutade incondivisibili, ondeggiare con tutto il busto da sinistra a destra e viceversa nel momento in cui fossero state chieste le dimissioni del premier, roteare la testa di 360° sentendo profferire che la crisi globale è colpa di Valter Lavitola, staccarsela e brandirla come Bertrand de Born nel momento in cui si fosse argomentato che il video hard di Belen è stato girato a Palazzo Grazioli e infine lanciarla contro l'oppositore mentre questi spiegava che la manifestazione del 15 ottobre a Roma era di natura pienamente pacifica.

giovedì 20 ottobre 2011

Ora che Gheddafi è morto (così dicono) e abbiamo smesso di poter distrarci col giocherello della caccia all'uomo, avremo tutto l'agio di concentrarci sull'identità dei ribelli libici e chissà, magari anche di rimpiangere Gheddafi che, sia detto fuori dai denti, aveva tre principali difetti: era mussulmano; era un dittatore; era Gheddafi. Ciò nondimeno avere a che fare con lui, come dimostrano le varie foto cinicamente messe online che lo ritraggono con Berlusconi e Prodi sorridenti (mentre Gheddafi non sorrideva affatto, si vede che si vergognava a farsi vedere in compagnia simile), è stato molto meglio che avere a che fare in futuro con i suoi sostituti: non lo dico io ma autorevoli commentatori sospettano che il ruolo di Gheddafi fosse simile a quello che l'Impero Romano lasciava ai dittatorelli africani degli stati confinanti, ossia parafulmine e calmiere. Vedrete ora quanto pagheremo in termini di immigrati, di perdita di vantaggi economici, di vicinanza con uno stato sempre più islamizzato.

Al riguardo, appena ho appreso della (presunta) morte di Gheddafi una repentina associazione di idee mi ha portato dritto a una scena magistrale de Scipione detto anche l'Africano, opera del mai troppo lodato Luigi Magni. Massinissa, re di Numidia, si appoggia a una colonna e ricorda sognante: "La verità è che diventai alleato de Roma solo divorato dall'odio che ci avevo contro Siface, re de Mauritania, che alleato de Cartaggine s'era sposato Sofonisba. Scipione e io sbaragliamo Siface. La notte stessa della battaglia acchiappai Sofonisba che scappava e me la sposai sur campo seminato de cadaveri. Ma datosi che anche lei era bottino de guera, Scipione disse: 'Se manni schiava Sofonisba a Roma'. E nun ce fu verso: così je'mponeva la legge de Roma e Scipione nun poteva chiude 'n'occhio solo per me. Io capii tutto er dramma de Scipione, per cui ammazzai Sofonisba. Pure Scipione capì er dramma mio, e come: tant'è vero che per consolamme me regalò el regno de Mauritania. Hai capito er dramma nostro?". Al che ribatte Scipione l'Asiatico, fratello del più noto omonimo: "Eh, io ho capito sì. Ma qui er dramma de Sofonisba non l'ha capito nessuno". Ecco, qui mi pare che er dramma de Sofonisba lo capiremo presto sulla pelle nostra.

mercoledì 19 ottobre 2011

Ma come per Aristide Gambia "fottere" è soprattutto "smemorarsi", chi legge romanzi erotici lo fa anche per non pensare alla politichetta; bisogna dunque ignorare il nome di Berlusconi che Starnone infila nelle pagine estreme del testo, quasi si fosse improvvisamente ricordato di essersene dimenticato, e concentrarsi invece sul riferimento chiave dell'impalcatura romanzesca: il guardacaccia Mellors, l'amante di lady Chatterley.

Sul Foglio di oggi non recensisco il nuovo romanzo di Domenico Starnone, l'Autobiografia erotica di Aristide Gambia, perché è un bel romanzaccione che sta in piedi da sé e quindi non ha bisogno di recensori compiacenti; cerco invece di rintracciare su per i secoli di letteratura la genealogia erotica di autore e protagonista.

martedì 18 ottobre 2011

"I cattolici abbandonano Berlusconi", o forse "I cattolici dimenticano Berlusconi", se non addirittura "I cattolici sconfessano Berlusconi". Bon, in questi giorni io sono oltremodo impegnato a leggere con colpevole ritardo Guido Gozzano quindi non ho tempo sufficiente a ricordare a memoria i titoli dei giornali, ma desidero cogliere l'occasione per rallegrarmi dell'improvvisa attenzione che il noto quotidiano intitolato come un dialogo di Platone ha deciso di riservare al mondo cattolico: attenzione testimoniata dal titolo cubitale che ho appena citato approssimativamente, attenzione che si riverbera anche nella notizia dell'uccisione nelle Filippine del missionario don Fausto Tentorio, al quale era dedicato in prima pagina uno spazio orientativamente pari a un francobollo, se non pari al puntino sulla "i" dei "cattolici" che "scaricano Berlusconi".

Che poi questo famigerato discorso del cardinal Bagnasco io l'ho letto integralmente e tutto questo abbandono, questa dimenticanza, questa sconfessione, questo scaricamento di Berlusconi non l'ho ravvisato, almeno non più di quanto non fosse già implicito (e plausibilmente giustificato) da tempo. Io sono uno che va per il sottile quindi non intitolo questa mia paginetta virtuale con un bell' "I cattolici abbandonano Bersani", o "I cattolici dimenticano Prodi" se non addirittura "I cattolici sconfessano Nichi Vendola"; però, applicando all'inverso il metodo di cui sopra potrei farlo se citassi il passo estremamente di destra, estremamente anti-arcobaleno, estremamente avverso all'andazzo eticamente molle di mezza Italia sul quale non ho visto soffermarsi alcun giornalista (ma sarà una mia mancanza): "Nel corpus del bene comune non vi è un groviglio di equivalenze valoriali da scegliere a piacimento, ma esiste un ordine e una gerarchia costitutiva".

Che poi ben venga Todi con tutti i suoi todini ma questo discorso del cardinal Bagnasco era già stato fatto da padre Dante che con mirabile dono della sintesi l'aveva racchiuso in una terzina del Purgatorio (X, 124-126): "Non v'accorgete voi che noi siam vermi / nati a formar l'angelica farfalla, /che vola a la giustizia sanza schermi?". Ditelo al titolista del noto quotidiano intitolato come un dialogo di Platone, diteglielo che il fulcro del discorso era la farfalla e non il verme.

lunedì 17 ottobre 2011

Nichi Vendola, Oliviero Diliberto, Paolo Ferrero, Barbara Contini, Norma Rangeri e compagnia, coi loro solerti distinguo e con le loro indignate recriminazioni, col patetico tentativo di tentare di attribuire altrui una responsabilità che è sotto gli occhi di tutti, con la caccia all'infiltrato e col negare l'evidenza di come la guerriglia sia stata portata a Roma sabato scorso, mi ricordano gli indignados della Lombardia spagnola alla cui ignoranza Manzoni accredita il diffondersi incontrollato della peste: "Coloro che credevano esser quella un'unzione velenosa, chi voleva che la fosse una vendetta di don Gonzalo Fernandez de Cordova, per gl'insulti ricevuti nella sua partenza, chi un ritrovato del cardinal di Richelieu, per spopolar Milano, e impadronirsene senza fatica; altri, e non si sa per quali ragioni, ne volevano autore il conte di Collalto, Wallenstein, questo, quell'altro gentiluomo milanese. Non mancavan, come abbiam detto, di quelli che non vedevano in quel fatto altro che uno sciocco scherzo, e l'attribuivano a scolari, a signori, a uffiziali che s'annoiassero dell'assedio di Casale. Il non veder poi, come si sarà temuto, che ne seguisse addirittura un infettamento, un eccidio universale, fu probabilmente cagione che quel primo spavento s'andasse per allora acquietando, e la cosa fosse o paresse messa in oblio".

Nichi Vendola, Oliviero Diliberto, Paolo Ferrero, Barbara Contini, Norma Rangeri e compagnia, con la loro escalation di eufemismi lenitivi, mi ricordano gli esperti immunologi del Seicento di cui Manzoni riferisce la recalcitrante presa di coscienza dei dati di fatto: "In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l'idea s'ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, ma una cosa alla quale non si sa trovare altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s'è attaccata un'altra idea, l'idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l'idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro".

Nichi Vendola, Oliviero Diliberto, Paolo Ferrero, Barbara Contini, Norma Rangeri e compagnia, con la loro dura condanna di un manipolo di circa cento facinorosi ben distinti da una vasta maggioranza di manifestanti pacifici colorati e creativi, mi ricordano i contagiati che, scoprendosi un bubbone, pensavano che fosse malata solo l'ascella e non che tutto il corpo avesse la peste.