giovedì 31 gennaio 2008

Né rituale né dilatorio

Sciogliere le Camere è una decisione grave.
(Giorgio Napolitano)


Dopo una notte di riflessione, è stato finalmente chiarito il dettaglio del percorso istituzionale per uscire indenni dalla crisi di Governo. Dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha conferito un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, al Presidente del Senato Franco Marini. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, al Presidente della Camera Fausto Bertinotti. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, al Ministro dell’Interno Giuliano Amato. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, al Ministro delle Riforme Istituzionali Vannino Chiti. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, al Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio Enrico Letta. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, allo Zio del Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, al Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, al Prestigioso Economista Cavalier Mario Monti. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, al Commissario Straordinario per l’Emergenza dei Rifiuti Gianni De Gennaro. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, all’Alto Commissario per la Prevenzione e il Contrasto della Corruzione nella Pubblica Amministrazione Achille Serra. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, allo Sferzante Corsivista Michele Serra. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, al Magniloquente Fondatore Eugenio Scalfari. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, all’Intellettuale di Spicco Umberto Eco. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, al Romanziere di Rilievo Roberto Saviano. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, al Celebre Conduttore Fabio Fazio. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, al Calciatore Militante Cristiano Lucarelli. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, al Mordace Vignettista Vauro Senesi. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, al Cadavere Riesumato di Rita Levi Montalcini. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, conferirà un mandato esplorativo, o piuttosto un preincarico, al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Questi, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, rimetterà il proprio mandato nelle mani del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che lo pregherà di restare in carica per il disbrigo degli affari correnti. A questo punto il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, dopo aver consultato tutte le forze politiche, ravvisata l’assenza di un’ampia maggioranza favorevole alle riforme ovvero al ritorno alle urne, addiverrà alla grave decisione di sciogliere le Camere, indire i comizi e convocare le elezioni anticipate per domenica 10 aprile 2011.

Il bene del Paese 2


La Consulta
ha rilevato pericolose carenze nella legge elettorale vigente. Potrebbe consentire una vittoria del centrodestra.

Chiedete a Gurrado

[Pubblico l'intervista concessa qualche settimana fa al webmagazine Graphomania della casa editrice Graphe, e pubblicata ieri nell'aggiornamento quindicinale del webmagazine - dove potrete leggere le medesime parole ma altresì godere della visione della fotografia di un Gurrado con barba, camicia lunga e copiose tracce di sangria nelle vene.]

- Parlaci un po’ del blog. Quando è nato e per quale motivo hai deciso di aprirlo?

Ci sono due risposte uguali e contrarie. La prima riguarda la mia attività come blogger in generale, che è iniziata nel febbraio 2004 senza altro preciso motivo che non fosse il ritrovarmi un pomeriggio libero (uno dei tanti) e che a Napoli, dove vivevo in quel periodo, stesse piovendo una volta tanto. Di modo tale che avevo aperto un blog su Splinder, che fra alterne vicende è stato attivo fino al febbraio 2007 e sul quale inserivo a varia scadenza ciò che viene inserito sulla pressoché totalità degli altri blog, ossia un ingente quantitativo di sciocchezze autoreferenziali.

La seconda risposta potrebbe raccontare che il 9 dicembre 2005, come inconsapevole regalo di compleanno, il giovane scrittore Gabriele Dadati mi aveva chiesto di entrare a far parte del team di Ore Piccole, che avrebbe iniziato la propria attività col nuovo anno; avevo accettato e il 9 gennaio 2006 ho scritto la mia prima recensione, Ian McEwan e il male domestico. Dal gradimento ricevuto ho tentato di sviluppare uno stile personale di recensire libri di ogni genere ordine e misura, così che l’amica Michela Murgia si è spinta fino ad asserire pubblicamente e testualmente che mi leggerebbe anche se facessi la recensione delle etichette dello shampoo che trovo in bagno – punto estremo fino al quale tuttavia non mi sono ancora spinto. Col passare del tempo, infatti, ho seguitato con le mie recensioni su Ore Piccole (l’ultima, Critica della ragion tonda, a un corposo saggio del filosofo tedesco Peter Sloterdijk) nonché su qualche rivista a stampa (in particolare Stilos, quando esisteva ancora); su invito del critico letterario Michele Trecca ho preso anche a collaborare al webmagazine letterario Books Brothers, per il quale da quest’anno curo la rubrica Tutti i libri che non ho letto; dopo che Carlo Tecce mi aveva chiamato a scrivere di calcio per Il Resto del Pallone, una volta che questo sito è passato a miglior vita mi sono evoluto e, grazie all’attenzione di Gino Cervi, sono passato a Quasi Rete/Em Bycicleta, blog poetico e nostalgico della Gazzetta dello Sport.

Poiché la carne al fuoco non manca, per organizzarla e renderla facilmente fruibile ho repentinamente ucciso il blog su Splinder e dato alla luce Scribacchiature su Blogspot, nel quale come da sottotitolo mi ripropongo di raccontare sempre e recensire tutto. Su questo sito, visitato soprattutto da mia madre all’esclusivo scopo di rintracciarvi refusi e anacoluti, non solo raccolgo i miei interventi sparsi in giro per vari webmagazine, ma inserisco una notevole quantità di miei testi capricciosi sugli argomenti più disparati: non solo libri (tag auto da fé) e sport (selvaggio e sentimentale), ma in particolare politica (radio londra), religione (abba abba), tv (la scatola nera), personaggi (dramatis personae) e luoghi (nomi cose città); l’ultimo esperimento, in ordine di tempo, è un’esplorazione delle scuole superiori italiane (lo stato dei licei) grazie alla valida collaborazione di una signorina la cui effettiva esistenza è tuttora incerta. Spero con questo di avere esaurientemente dimostrato che sul mio attuale (e definitivo) blog pubblico ancora delle sciocchezze autoreferenziali, però decisamente più sofisticate.

- Nel 2001 hai pubblicato “Il Gatto che si morde la coda”. Raccontaci qual è stato il percorso dalla stesura alla pubblicazione.

Ecco, brava. La mia preoccupante verbosità riguardo alla mia attività di scrittore per il web denunzia un’evidente disagio per l’assenza della carta stampata come supporto delle mie parole. Quest’instabilità nasce da due motivi precisi. Il primo è che sono conservatore e reazionario fin quasi alla caricatura, tanto che su internet avanzerei lo stesso giudizio che i migliori fra i borbonici riservavano a Garibaldi: è il demonio, ma per fortuna non esiste veramente. Nel senso che non ritengo quelle su internet delle effettive pubblicazioni, non solo per l’assenza della carta che ha sempre un suo fascino ma anche – tanto per dirne una – per l’impossibilità di selezionare il pubblico, cosa che invece un libro o una rivista, per la sua stessa forma chiusa, fa automaticamente. Per questo al momento mi trattengo su internet solo ed esclusivamente in attesa di tempi migliori, cartacei, rilegati.

Il secondo motivo è che io nasco come scrittore di carta. Quando facevo il liceo, alla fine dello scorso millennio, internet non aveva ancora attecchito e già soltanto avere il computer era una benedizione tale da procurarsi in casa l’incontrollato afflusso di amici che non ce l’avevano. Io, ad esempio, non ce l’avevo; così che quando ho sentito l’istinto a scrivere narrativa – molto presto, intorno ai 14 anni – giocoforza ho dovuto produrmi su dei quaderni a quadretti, così da sviluppare un rapporto viscerale con la materialità della scrittura. Insomma, dal 1995 io scrivo per essere pubblicato; e, per quanto fortunatamente i quaderni che raccolgono i miei primi esperimenti narrativi siano stati smarriti e vaghino nell’oblio più meritato (oltre che nell’illeggibilità, vista la mia grafia contorta), ha avuto miglior fortuna il romanzo in cui faccio una parodia dei diversi stili della scrittura autobiografica degli adolescenti e mia in particolare. Ora, sia chiaro: Il Gatto che si morde la coda (Schena, 2001) è un romanzo ingenuo, composto in un carattere estremamente minuto che garantisce tuttavia, al lettore che avrà l’ardimento di rovinarcisi gli occhi, la viva soddisfazione di scoprirvi un barocco ammontare di errori di stampa. Più che il suo contenuto, amo la sua storia editoriale: poiché la sua esistenza (e di conseguenza il mio esordio come scrittore, e tutto ciò che ne è conseguito finora e oltre) è dovuta alla mia reiterata partecipazione al Premio Nazionale di Narrativa “Valerio Gentile”, che mette in palio appunto la pubblicazione dell’opera vincitrice con l’editore Schena. Al premio Gentile devo moltissimo, e non solo per questo lo ritengo un’iniziativa lodevole in assoluto per dedizione e qualità; da qualche anno il premio è riservato ad esordienti under 30 e io sono stato inserito nella giuria – per cui ne approfitto per ricordare che per il 2008 la scadenza è prevista per il 14 marzo e che chi vorrà spedire il proprio manoscritto avrà l’onore di venire giudicato (anche) da me, nientemeno.

- Tra i due romanzi, pubblicati (e quindi stesi?) a quattro anni di distanza l'uno dall'altro, come è cambiato e cresciuto Antonio come autore?

Mi sono sviluppato soprattutto nella maniacale ricerca della parola giusta e del ritmo della frase: non ho mai sopportato la poesia contemporanea (né tampoco i poeti ancora vivi) che mettono da parte la metrica e tutti gli altri necessari paletti compositivi e sostengono che non siano più necessari al solo scopo di giustificare la propria imperizia stilistica. Incapace di essere tanto incapace, vado orgoglioso di produrre prosa fluente e corposa, che serbi fra le proprie righe una metrica interiore utile a distinguere – spero – il ben scritto dallo scritto malaccio. Il mio secondo romanzo, 2 5 98, di là da un titolo pressoché incomprensibile (a chi non si accorga che è una data) presenta i frutti di questo sviluppo: ho ripreso infatti il nucleo narrativo de Il Gatto, l’ho guardato in trasparenza, capovolto, smontato e rimesso insieme pezzo per pezzo fino a produrre un romanzo completamente nuovo: in cui i personaggi e la trama sostanzialmente coincidano, ma mutino radicalmente la diegesi e il taglio narrativo, nonché il tempo del racconto che da cinque interi anni viene ridotto a poche ore. Per divertirmi, ho immaginato una voce narrante onnisciente che potesse planare – quasi cinematograficamente – su un congruo numero di luoghi diversi nel corso della stessa giornata, e che per adattarsi a momenti e personaggi cambiasse di volta in volta il proprio timbro adottando uno stile narrativo differente a seconda dell’occasione (un po’ come ci si cambia d’abito a seconda della circostanza); con l’eccezione del lungo episodio centrale, ambientato a mezzanotte, che prevede la partecipazione fugace di tutti i personaggi e – di conseguenza – il repentino mutamento di timbro e stile della voce narrante, esattamente come accade quando si segue alla radio Tutto il Calcio Minuto per Minuto. È stato un esperimento curioso, coi suoi pregi; ovviamente oggi non lo rifarei più.

- Calcolando che le tue pubblicazioni sono a scadenza olimpica e che quindi non puoi lasciarci senza nulla da leggere per il prossimo anno, hai qualcosa nel cassetto per il 2009?

Dirò di più: come 2 5 98 era stato scritto nel corso della stesura della tesi di laurea (Voltaire e gli ebrei, vi risparmio i dettagli), così non ho potuto trattenermi dal comporre un altro romanzo nei tre anni che ho dedicato alla tesi di dottorato (Teocrazia e monarchia ebraiche: Voltaire fra religione e politica; vi risparmio gli ulteriori dettagli). Si tratta di quello che una mia amica inglese ha generosamente definito “the Great Italian Novel”, il Grande Romanzo Italiano – tanto che sotto questo titolo camuffo è stato noto ai pochissimi amici e addetti ai lavori che ne hanno via via seguito le fasi compositive per curiosità o compassione; non dico di più poiché parlo soltanto dei libri che esistono, e i libri esistono soltanto una volta pubblicati. È tuttavia stata una faticaccia, trattandosi del mio primo tentativo di romanzo lungo (intorno alle quattrocento pagine) e avendolo scritto e riscritto dal giugno 2004 all’agosto 2007; d’altra parte, come tutte le faticacce, molto probabilmente non verrà ricompensata adeguatamente. Tanto più che ritengo di non dover darmi fretta e preferirei attendere chissà quanto fino al momento in cui verrà notato da una qualche casa editrice di peso (al momento, alcune lo stanno leggendo); se per un motivo o per l’altro non verrà notato, pazienza: non me l’ha ordinato il dottore né di scrivere né di pubblicare, e – qualora non attecchisse – riterrei patetico tentare all’infinito di pubblicarlo con case editrici sempre più piccole, o peggio ancora di provare a scrivere qualcosa di nuovo per riparare all’insuccesso segreto del vecchio. Allora potrei, sapendo di aver dato il massimo che potevo, senza troppi rimpianti evitare di scrivere oltre e soprattutto non essere più costretto a leggere ogni cosa per migliorarmi sempre un poco; tornerei libero e felice, e non invidierei più gli scrittori di maggior successo ma, non potendo disimparare a leggere, solo e soltanto gli analfabeti.

mercoledì 30 gennaio 2008

Mi sono innamorato di Marini


Ovvero: ci voleva un comunista
per far risorgere la Democrazia Cristiana.

Il bene del Paese

Tanto per sapere, com’è che se il centrodestra chiede le elezioni anticipate non lo fa per alti ideali democratici ma sta cercando di approfittare il prima possibile del vento favorevole, mentre se il centrosinistra prolunga oltre ogni ragionevolezza la legislatura corrente non lo fa per salvarsi il culo ma sta pensando al bene del Paese?

Vita da Presidente

(Pausa di riflessione)

Gurrado, conservatore perplesso: "Ma secondo te oggi Napolitano che fa?"

(Pausa di riflessione)

Mirko Zavaglia, calabro indomito: "Si alza, va in bagno, fa colazione, legge il giornale, esce, incontra i presidenti emeriti della Repubblica, parla di calcio, torna, pranza con la famiglia e schiaccia un pisolino. Verso le cinque/sei va al circolo a giocare a carte, oppure a bocce. Poi torna, cena, si guarda Juve-Inter e va a coricarsi."

(Pausa di riflessione)

La melassa olocaustica

Il n’y a point de metus judaeorum.(Voltaire)


Premesso che io e Lisa abbiamo vissuto insieme per due anni, benché non more uxorio (eravamo compagni di collegio a Modena), e che quindi provo per lei un affetto pari almeno al piacere che mi deriva dal contraddirla; premesso che non ritengo facile trovare in giro per l’Italia persona più filosemita, filogiudea, filoebraica e filosionista di me (sono quattro cose diverse che vanno sovente a braccetto, e bisogna sospettare di chi avanza pelose distinzioni); premesso che in generale io sto con Israele nelle sue molteplici forme politiche, religiose, culturali e umane – premesso tutto questo, la giornata della memoria è una boiata pazzesca per almeno sei motivi.

1) Perché generalmente si tende a dover ricordare le faccende che altrimenti si dimenticherebbero. Io sono agendina-dipendente ma sulla medesima agendina segno le date fluttuanti (la conferenza su Zanardelli è il 13 o il 20 febbraio? quand’è che si sposa mio cugino? la roba in lavanderia devo ritirarla lunedì o martedì?) oppure gli impegni ai quali preferirei sottrarmi (le pasticche di Immubron; i viaggi in treno; le cose stesse che devo scrivere qui sopra). Non ho alcun bisogno di segnarmi ciò che mi piace fare – nessun bisogno di ricordarmi per iscritto che al martedì mattina devo comprare il Guerin Sportivo, o che al martedì sera devo vedere Desperate Housewives) – né ciò in cui credo fermamente – dovrei ricordarmi per iscritto che ogni giorno c’è da dire lodi, ora media, vespri e compieta? o, più banalmente, che è sempre bene farsi una doccia? La stessa esistenza della giornata della memoria è quindi una forzatura, un monumento alla coscienza sporca, e più la si ostenta più si è consapevoli che altrimenti la si dimenticherebbe, più si denunzia che la si vive come una memoria innaturale, indotta, ipocrita.

2) Perché chi ricorda un giorno all’anno, dimentica facilmente nei restanti trecentosessantaquattro (o trecentosessantacinque, visto che quest’anno siamo bisestili). È la stessa psicologia di coloro i quali a Natale vanno alla messa di mezzanotte, affollano i banchi della stessa chiesa che disertano per il resto dell’anno liturgico, vanno a prendere la comunione al solo scopo di sfilare nella navata centrale. Una giornata della memoria comporta un anno di dimenticanza, e celebrarla ha lo stesso senso della messa natalizia in cui sfoggiare la pelliccia nuova.

3) Perché la giornata della memoria diventa facilmente il lavacro della coscienza. In altri termini, fare gli afflitti per un dì, prima e dopo i pasti, consente poi di avere maggior agio nell’attaccare i vari versanti dell’ebraismo fino alla giornata della memoria dell’anno successivo. Un po’ come quelli che ogni 11 settembre versano lacrime di coccodrillo ma poi, quando si tratta di sostenere gli Stati Uniti con i fatti e non coi piagnistei, si ritengono legittimati a sfilarsi. Così si celebra in maniera rutilante la giornata della memoria e poi si dice che non sta bene lasciare un enorme cratere al posto dell’Iran di Ahmadinejad, tanto per dire, o che i kamikaze palestinesi hanno le loro buone ragioni, poverelli.

4) Perché è vittimistica. Presentando gli ebrei esclusivamente come vittime della Shoah, ne deforma la storia millenaria secondo quella che autorevoli studiosi ebrei, che si evita accuratamente di studiare, hanno definito con disprezzo “l’interpretazione lacrimosa” (David Abulafia, tanto per dire). La giornata della memoria dà pertanto alle persone intellettualmente neutre (id est ignoranti) che vi si accostano (e troppe ce ne sono), l’idea che gli ebrei siano agnellini sacrificali, e come tali da compiangere e basta là.

4) Perché è diabolica. Introduce una sottile distinzione lì dove non c’è nulla da distinguere. La prima cosa che si impara sull’ebraismo è che è l’unico caso in cui razza, terra, religione e Stato coincidano appieno, senza che nessun elemento abbia la preminenza decisiva sugli altri, ma in maniera tale che tutti cooperino allo stesso mosaico armonico. La giornata della memoria, invece, fa la capziosa ed esprime sostegno alla razza ebraica (riconoscendovi le vittime dei nazisti), ma non alla sua terra (in quanto antisionista) né al suo Stato (figuriamoci, essendo mondialista) né tampoco alla religione ebraica (in nome del solito ritrito noiosissimo laicismo, per cui il culto di Dio è un accidente folkloristico nonché un attentato al buon nome dell’umanità). Se fossi ebreo, mi sentirei offeso da uno che in sostanza mi dicesse: “Ti ospiterò a casa mia quando ne avrai bisogno, ma per favore non venire vestito da ebreo!”

5) Perché è controproducente. Il quidam ragazzino, costretto a trascorrere la domenica mattina al freddo e al gelo ad attaccare foto di vittime della Shoah in giro per il suo paesello, con ogni probabilità diventerà antisemita e per il resto della vita sua vorrà fare agli stessi ebrei quello che invece andrebbe fatto ai suoi professori che l’hanno buttato giù dal letto alle sette nell’unico giorno libero della settimana.

6) Perché è intellettualmente provinciale. Mentre noi non ebrei stiamo qui a ritornare di anno in anno sulla necessità di non dimenticare la Shoah (e allora? dobbiamo ricordarci di non dimenticare la Notte di San Bartolomeo? i massacri di cattolici irlandesi ad opera di Cromwell? le incursioni mussulmane a Otranto e dintorni? io me le ricordo benissimo
anche senza l’aiuto del calendario), l’ebreo Woody Allen l’ha consegnata con sette parole alla storia dell’ironia e dell’autoironia: “I record sono fatti per essere superati”. Guardiamo avanti, pensiamo a Israele oggi.

Zapping

Avvertenza per il telespettatore superficiale e malaccorto, che magari a furia di pigiare sul telecomando scambia una trasmissione per l’altra. Ieri sera, quella su Canale5 era La Sai L’Ultima?, con Lorella Cuccarini e Massimo Boldi. Quella su Rai3 era Ballarò, con Anna Finocchiaro e Oliviero Diliberto.

martedì 29 gennaio 2008

La ronda del martedì

Sarà che la giornata della memoria sparge un pollice di melassa sulle coscienze di ognuno, ma ho notato che ben due mie amiche, Lisa e Piccola Fiammiferaia, pur senza conoscersi fra di loro hanno pubblicato entrambe una citazione da Primo Levi. Livio Romano ci dà la (bella) notizia che ad aprile sarà in Inghilterra per la London Book Fair. Michela Murgia protesta contro la bella presenza come requisito fondamentale per la selezione delle commesse ma ovviamente io non concordo, tanto più che volevo scrivere una guida a commesse e cassiere di Modena con le valutazioni espresse in cuoricini (♥♥♥♥: bella, cortese, ammiccante e consapevole che il cliente ha sempre ragione; ♥♥♥: carina, gentile, dolce e sorridente; ♥♥: modenese media; ♥: isterica femminista storpia; ♥♥♥♥♥: cassiera del Caffè Farini, che però l’anno scorso ha cambiato gestione per cui il titolo resta vacante). Spangly Princess va a comprare i biglietti per vedere la Roma in curva sud e viene presa per una signora (inglese) incinta - o sta cercando di dirci qualcosa che non sappiamo?

Quanto ai non amici (non per questo meno stimabili), Baudelaire lo struzzo metafisico regala una vignetta futurista: chomp buuurp bang. Christian Rocca (mediante articolo sul Foglio) spiega il fenomeno Obama a cinquanta milioni di Italiani che credono di averlo capito da soli; con lo stesso insight Maria Luisa Rossi Hawkins dimostra che la figlia di JFK sostiene lo stesso Obama perché è diverso, non perché è uguale. The Right Nation, nel delirio degli endorsement, ricorda che per Rudolph Giuliani è meglio correre solo che male accompagnato. Roberto Alfatti Appetiti (con un articolo sul Secolo d'Italia) fornisce una gustosa anticipazione da Metodo della Sopravvivenza, romanzo del paranazista Dante Virgili (PeQuod), gustosa abbastanza da far venir voglia di recensirlo pure a me (sempre che sopravviva al mal di gola, alla disoccupazione e alle citazioni da Primo Levi). Giancarlo Rinaldi illustra la tragedia di essere al contempo scozzese e tifoso della Fiorentina. Perla Scandinava invece canta. Dopo un mese di silenzio, Uto torna nella sua nuova veste di studente universitario fuori sede (ulteriore conferma che sarebbe meglio fermarsi subito dopo gli esami di maturità).

Il sito del Foglio fa il gioco del silenzio (ma è sempre possibile aderire via mail alla moratoria sull’aborto, se avete cuore). A quanto pare, con l'anno nuovo si sono suicidati tutti i collaboratori di Ore Piccole tranne me (poco male: valga la considerazione di cui sopra su Rudolph Giuliani). Infine, il meglio: su BooksBrothers c’è una lunga, profonda, appassionata intervista di Maurizio Cotrona a Cosimo Argentina. Cosimo, amico di vecchia data, è – nelle parole di Giancarlo De Cataldo – “uno scrittore appartato”, e questo non può che far del bene sia a lui come persona (gli scrittori sono pessime compagnie) sia a quello che scrive (la caciara non concilia la bella prosa). Si parla del potere della scrittura, di Taranto, del tifo violento e soprattutto di Maschio Adulto Solitario, il nuovo romanzo di Argentina che verrà pubblicato da Manni ad aprile. Il titolo di per sé è sensazionale, con l'acronimo MAS e tutte le implicazioni che comporta; l’entusiasmo con cui Cosimo me ne ha parlato lungo gli anni di lavorazione (ricevendone in cambio lo scarso entusiasmo col quale gli parlavo del mio) è senza precedenti; le prime righe del testo, pubblicate in esergo all’intervista, promettono più che bene, fanno venir voglia di leggere più oltre e, se manterranno, si tratterà di uno dei romanzi italiani meglio scritti dell’anno nuovo. Scommettiamo?

La marcetta su Roma

Tanto per sapere, com'è che quando la sinistra va in piazza è la voce del popolo, la forza della partecipazione, la nuova alba della democrazia - mentre quando ci vorrebbe andare Berlusconi è un segnale di debolezza, un'inquietante intimidazione e come minimo la marcia su Roma?

(Aiutìno per i meno esperti: i cortei di noglobal e pacifisti finiscono a vetrine sfasciate e macchine incendiate; la manifestazione del centrodestra il 2 dicembre 2006 non vide in tutta Roma nemmeno la rottura di uno specchietto retrovisore.)

Non me n'ero nemmeno accorto


Solamente stamattina, non ancora completamente sveglio, mi sono reso conto che il numero vecchio del Guerin Sportivo, il 4, quello con in copertina la schiena di Ibrahimovic - insomma, il numero che da oggi non è più possibile trovare nelle edicole e che è già diventato carta straccia per chiunque non sia un morboso collezionista della mia risma - contiene a pag.80 gli auspici del neo-ex-direttore Andrea Aloi per "Antonio Gurrado di Pavia" (vabbe'). Scrive Aloi:


Il Guerino è una grande "nave scuola". Per chi ci lavora affinando le proprie capacità e per chi lo legge impegnandosi su articoli che onorano insieme l'informazione sportiva e la qualità della scrittura. È anche il tuo caso. Felice, visto che collabori a Quasi Rete, il blog della Gazzetta che, sottolinei, "accoglie e accudisce gli orfani di Brera". D'obbligo segnalare il tuo recente contributo derbistico
.

Leggere un giornale per rilassarsi e trovarsi onusto di complimenti. Che posso volere di più? (Scrivere sul Guerino, ovviamente, ma tempo al tempo).

E pensate

Pensate se stamattina il Quirinale non riuscisse a scovare una qualsiasi sintesi fra le posizioni di PD e Forza Italia, i due effettivi competitors della democrazia italiana. Pensate se gira e rigira Napolitano non fosse in grado di attaccare il ciuccio dove vuole il padrone coi baffi. Pensate se oggi pomeriggio Cossiga sparigliasse e se n’uscisse con l’idea che, invece di sciogliere le camere, sarebbe bene sciogliere direttamente il Capo dello Stato. Pensate se il ritrito buon senso di Ciampi risultasse troppo fioco e restasse inascoltato. Pensate se venisse conferito un mandato esplorativo a Marini e se Marini finisse peggio degli esploratori bolliti in pentola dai cannibali. Pensate se Amato azzardasse un governo della non sfiducia che, al primo passaggio in Parlamento, si trasformasse immediatamente in un governo della non fiducia. Pensate se con le lacrime agli occhi i difensori della Costituzione a intermittenza si vedessero squagliare dinanzi le Camere. Pensate se si andasse a votare e se, come alternanza vuole, vincesse l’opposizione. Pensate se la rimonta che Veltroni minaccia sin d’ora si risolvesse con ogni verosimiglianza in una loffetta. Pensate se la legge elettorale che non garantisce la governabilità garantisse venti, trenta, quaranta senatori di margine al centrodestra di governo. Pensate se Berlusconi si facesse nuovamente prendere dal furore sacro di fare, disfare, formare, riformare, nominare nel giro di cento giorni scarsi. Pensate a tutto ciò: per quanto possano essere troppe variabili impazzite, per quanto questo si possa risolvere in una martingala incontrollabile, per quanto con condizionali e congiuntivi la storia non si faccia – pensate che enorme cazzata avrebbe fatto Marco Follini a passare da qui a lì.

Diciannove voci per Bearzot


Questa sera (29 gennaio 2008 dopo Cristo) alle ore 19
presso l'Osteria La Madonnina (Via Gentilino 6) di Milano
il presidio di fabulazione sportiva Em Bycicleta, per il cui tramite collaboro a Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport, organizza la presentazione del volume

UN CORO PER IL VECIO
diciannove voci per Enzo Bearzot

Oltre agli autori interverranno Gigi Garanzini (Radio24) e Carlo Annese (Gazzetta dello Sport).

Se sopravvivo al mal di gola, sarò fra il pubblico in prima fila.

lunedì 28 gennaio 2008

Il povero Piero

Povero, povero Fassino. Da segretario dei Democratici di Sinistra fa vincere le elezioni a un centrosinistra altrimenti spacciato, garantendogli i voti di uno zoccolo duro immarcescibile, e ne ricava un misero seggio in Parlamento, povero Fassino. In tutti i paesi civili è prassi che il capo del partito di maggioranza relativa diventi primo ministro, ma il centrosinistra gli preferisce aprioristicamente Romano Prodi, pur nella certezza consolidata già da un decennio che questi sia un imperito coglione; e lui zitto, il povero Fassino, accetta e fa il parlamentare semplice, nemmeno capogruppo. Viene formato il Governo, scorre la lista dei ministri e c’è D’Alema, c’è Bersani, c’è perfino la Melandri ma di Fassino non resta traccia; gli viene spiegato che è meglio che resti a guidare il partito, tant’è bravo, povero Fassino, ché a fare il ministro sarebbe sprecato, mica è un Vannino Chiti, mica è una Livia Turco, mica una Pollastrini; e lui, zitto, povero Fassino, accetta e fa il segretario a tempo determinato, come il più magro dei telefonisti precari. Dopo di che gli sciolgono il partito, e lui guida la transizione dal partito vecchio al partito nuovo, zitto, povero Fassino; gli scappa una lacrimuccia, ma è di contentezza: accetta il ruolo con dignità e fa l’ultimo segretario del partito che non c’è più, povero Fassino. Fanno il nuovo partito, Democratico ma non più di Sinistra, e a guidarlo invece di lasciare il povero Fassino, che era tanto bravo da non poter fare il ministro, mettono su un sindaco nuovo di zecca; e lui zitto, povero Fassino, accetta e fa campagna elettorale interna all’uomo che gli divorerà il ruolo. Povero Fassino, vengono elette le alte cariche del partito neonato e Veltroni spiega che c’è bisogno di volti nuovi, meno emaciati, meno macilenti, più sanguellatte: tipo il pertondo Goffredo Bettini, ad esempio, e non come il povero Fassino, che tace accetta e si siede in seconda, terza, quarta fila. A questo punto, lo mandano in Birmania, povero Fassino, nella speranza che venga scambiato per un monaco buddista in isciopero della fame; e lui zitto, accetta e se ne va all’altro mondo. Giovedì scorso cade il Governo, che avrebbe dovuto essere guidato dal povero Fassino, per colpe neanche tanto larvate del nuovo partito, che avrebbe dovuto essere guidato dal povero Fassino; c’è bisogno di qualcuno da mandare da Bruno Vespa a fronteggiare un raggiante Fini e Prodi non può, Veltroni non può, D’Alema non può, Bersani non può – quindi chi mandano? Il povero Fassino; e lui zitto, accetta e va a difendere di fronte agli Italiani altre persone per colpe non sue. Finché arriva il momento in cui un giornalista, in collegamento video, muova una ragionevole e cortese critica al peggior Governo degli anni passati e al peggior partito di quelli futuri – ed ecco che Fassino non riesce più a star zitto, urla la propria rabbia, conduce alla riscossa, si sbraccia con gli occhi fuori dalle orbite, protesta con cadenza sabauda che i giornalisti pretendono di dettare tempi isterici e contenuti assurdi all’agenda politica salvo poi criticare i politici per quegli stessi tempi isterici, per quegli stessi contenuti assurdi. Ha ragione, povero Fassino; ma fra tutte le persone che sono in studio, da Bruno Vespa ai direttori di questo e quel quotidiano al pubblico giovane e generalista, fra tutti questi va a finire che gli dà ragione soltanto Fini, povero, povero Fassino.

sabato 26 gennaio 2008

Lo Stato dei Licei, 8: l'uscita fuori orario

[Gurrado è stanco, sfatto, sfinito: con l'offensiva finale di quattro articoletti per il suo blog ha fatto cadere il Governo. Come potete pretendere che vi intrattenga, e scriva fregnacce su quando faceva il Liceo e c’era già un Governo Prodi – come se non fosse bastato, peraltro? Pertanto oggi Gurrado resta silente, tutto preso nei suoi crucci politici, e lascia che Silvia G racconti senza disturbo alcuno, né fisico né psicologico. D’altra parte Gurrado non ha avuto l’onore di veder cadere Prodi, secondo l’abitudine, ai beati tempi del Liceo, ma alla fine della sua prima settimana da universitario; gioia che invece Silvia G ha provato da liceale, guadagnandosi gloria sempiterna nell’atto di aprire il giro di consultazioni private col suo perspicuo parere racchiuso in un messaggino rimato e ritmato: Giro giro tondo, casca il mondo, casca il Governo, d’altronde nulla è eterno. Nemmeno io, temo.]

Gurrado, il liceo Voltaire è un luogo in cui è facile entrare, ma da cui è difficile uscire; non solo in riferimento alle avversità che il corso di studi classici presenta, e alle conseguenti difficoltà che si incontrano nel tentativo di portarlo a termine, superando l’Esame di Stato e lasciando per sempre le scuole superiori. Tuttavia, la frase può anche essere interpretata alla lettera: una volta varcati i cancelli del liceo Voltaire, l’impresa di uscirne prima del suono dell’ultima campanella si rivela sempre alquanto problematica. Nonostante tutti gli studenti vengano forniti all’inizio dell’anno di un apposito libretto personale, contenente decine di permessi di entrata e uscita fuori orario, la burocrazia interna regna sovrana e dissuade chiunque dal proposito di utilizzarli, se non in caso di estrema necessità.

Capitò un giorno che la sottoscritta Silvia G, dovendosi recare dal dentista (giustificazione classica, ed essendo io iscritta ad un liceo classico, accettabilissima), decidesse di compilare arditamente uno dei suoi permessi di uscita fuori orario, e di lasciare quindi l’edificio scolastico prima della fine delle lezioni. Poiché la visita era fissata per le undici, consapevole che lo studio dentistico distava dalla scuola poco più di un chilometro, fissai l’orario di uscita per le dieci e trentacinque, cioè all’inizio della ricreazione. Consegnato che ebbi il mio permesso in segreteria per farlo firmare dal sommo dirigente scolastico, mi fu comunicato appena due ore dopo che quest’ultimo si era assentato per cause ignote, e che la vicepreside era misteriosamente sparita con lui, creando gran scompiglio tra i corridoi (e soprattutto turbando non poco il professor Barocchi, marito della stessa vicepreside, che da anni paventava una relazione adultera tra la moglie e il superiore). Non mi rimaneva quindi che cercare per le classi del liceo il vice-vicepreside professor Rulli, persona alquanto irritabile, che detestava l’idea di essere interrotto nel bel mezzo di una lezione. Attesi dunque che la campanella della ricreazione suonasse e che la lezione finisse per presentarmi al suo cospetto; l’omone, gigantesco e burbero, firmò il permesso d’uscita con studiata lentezza, non mancando di commentare sarcasticamente la banalità della mia giustificazione.

Ottenuta che ebbi la sospirata firma, tornai in classe, prelevai il mio zaino, mi misi la giacca e feci per uscire. Un pensiero improvviso, tuttavia, mi sovvenne: il permesso doveva essere controfirmato dall’insegnante di quell’ora, o la bidella non mi avrebbe mai concesso di varcare il portone. Era però suonata la campanella della ricreazione, ragion per cui nessun mio insegnante, per almeno un quarto d’ora, si sarebbe presentato in classe e avrebbe posto la sua firma sul foglietto verde. Non mi restava che immergermi nell’orda disordinata di studenti che sempre affolla i corridoi durante l’intervallo e cercare la professoressa Pedro. Quest’ultima però, raffinata buongustaia grande amante del caffè e della cioccolata calda, mal sopportando l’idea di adattarsi allo squallore delle macchinette automatiche, aveva lasciato l’edificio scolastico per concedersi una pausa caffè nel bar lì vicino, impedendomi così di raggiungerla. Decisi dunque di esporre il mio dramma alla bidella di turno, la quale non macò di ricordarmi che, senza un permesso firmato dal docente, non mi sarei potuta allontanare dall’edificio per nessuna ragione. Le feci notare che, per coprire il tratto di strada che mi separava dalla docente in questione, avrei dovuto far uso di un nuovo permesso di uscita e ripetere dunque tutte le operazioni. Rise, e seguitò a spazzar per terra.

Si erano fatte le dieci e cinquantacinque, e della professoressa Pedro, nessuna traccia. Testimoni affermarono successivamente di averla intravista mentre chiacchierava col barista sudamericano del caffè vicino alla scuola (il quale le offriva di continuo nuovi tipi di cioccolata calda aromatizzata, che lei puntualmente accettava), del tutto dimentica dei suoi doveri di insegnante. Indispettita dal fatto che proprio quel giorno la mia professoressa di fisica avesse deciso di battere la fiacca, quando in una qualsiasi altra mattinata la cosa non mi avrebbe causato nessun disturbo, andai a cercare l’Allori, insegnante di storia dell’arte, che aveva tenuto la lezione precedente all’intervallo. La segreteria mi informò che anch’essa aveva lasciato l’edificio, poiché il suo turno si era concluso con la terza ora. Uno strano sentimento di stizza cominciò dunque a impadronirsi della mia persona.

Era nel frattempo tornato il preside, accompagnato, come di consueto, dalla fidata vice. L’orologio segnava ormai le undici e mezza, e il mio appuntamento era inevitabilmente stato prorogato; non intendevo tuttavia demordere. Bussai alla porta dell’ufficio del sommo dirigente, brandendo il foglietto verde e richiedendo formalmente il suo permesso di lasciare l’istituto. Egli mi studiò da capo a piedi con fare sospettoso, certo che il mio proposito di uscire in anticipo fosse animato dalle peggiori intenzioni, e chiese di vedere la firma dei miei genitori sul permesso. Risposi dunque che, essendo maggiorenne, la firma non era necessaria. Replicò che in quanto membro della Terzaddì, non poteva fidarsi della mia parola, poiché la sezione non godeva certo di una buona fama. Fui costretta a dettargli il numero dell’ufficio di mia madre, la quale, come la professoressa Pedro, era in pausa caffè e aveva staccato l’apparecchio. Cercammo dunque di rintracciare mio padre; quest’ultimo, oberato di lavoro, non solo si disse ignaro del mio appuntamento col dentista, ma rispose anche malamente al sommo dirigente, il quale decise all’improvviso di fidarsi della mia parola, e di aprirmi le porte del Voltaire.

Erano le dodici e diciannove di un martedì mattina; undici minuti dopo, sarebbe suonata l’ultima campanella, che indicava la fine delle lez [Nota di Silvia G, stante la latenza di Gurrado: su questo punto della pagina è caduto il Governo, per cui il manoscritto termina qui]

venerdì 25 gennaio 2008

Leggende metropolitane


Brindare co’ Funari a sciampagna e mortadella.
(Piotta, Supercafone)



Così, a caldo, ci sono due considerazioni che vengono spontanee, con altrettanti miti da sfatare.

La prima è che si è addossata tutta la colpa della crisi a Mastella, si è detto che è un traditore,un fedifrago, un porco, un democristiano, un camorrista, un ciccione immondo, un rifiuto tossico, un marito del Presidente del Consiglio Regionale della Campania; e chi sono io per contraddire tutto ciò? Però mi permetterei di far notare, prima che il compagno Mastella venga processato ed eventualmente lapidato, che i voti di cui il suo partito disponeva in Senato erano tre: di cui in definitiva uno favorevole e due contrari alla fiducia a Prodi. Alla fine, Prodi ha ricevuto 156 voti a favore (compreso uno dell’Udeur), 161 contro (compresi due dell’Udeur) e un astenuto (che non aveva niente a che fare con l’Udeur). Se non fosse successo nulla e Mastella avesse votato in massa con tutto il suo partito, ovvero tre persone, in favore di Prodi, ne sarebbero risultati 158 voti favorevoli, 159 contrari, un astenuto: il Senato non approva lo stesso, e Mastella è innocente.

La seconda è che non si può votare con questa legge elettorale, perché questa legge elettorale è brutta, sporca, cattiva e fatta da Berlusconi. Come controprova i luogocomunisti portano l’esempio del Senato, in cui non è stato loro possibile governare per via della maggioranza risicatissima di mezzo senatore. Mancano però di portare l’esempio della Camera, dove il premio previsto dalla medesima legge elettorale ha consentito loro di avere una comoda maggioranza in seggi per ovviare alla scoreggina di vantaggio in suffragi. Mancano inoltre di ricordare che al Senato il governo Berlusconi aveva architettato un premio di maggioranza nazionale, che avrebbe consentito risultati in proporzione analoga a quelli della Camera, ma che l’allora Presidente della Repubblica Ciampi impedì di applicare imponendo il premio di maggioranza su base regionale, che renderà giustizia alla Costituzione ma toglie un po’ alla governabilità. Infine i luogocomunisti evitano scientemente di ammettere che se al Senato avessero preso, poniamo, tre milioni di voti in più del centrodestra invece che duecentocinquantamila voti in meno, be’, forse avrebbero avuto una maggioranza più sicura e oggi staremmo parlando d’altro, invece che di pezzi di merda e checche squallide. Ma perché una legge elettorale sia buona bisogna (anche) avere i voti, non basta lamentarsi.

giovedì 24 gennaio 2008

Fuori dai veltroni!


Nunc est bibendum, nunc pede libero
pulsanda tellus, nunc Saliaribus
ornare pulvinar deorum
tempus erat dapibus, sodales.
(Orazio, Odi 1, 37)

Una campana che suona


Onde ora avendo a traverso tagliato
Questo Pagan, lo fe’ si destramente,
Che l’un pezzo su l’altro suggellato
Rimase senza muoversi niente:
E come avvien, quand’uno è riscaldato,
Che le ferite per allor non sente;
Così colui, del corpo non accorto,
Andava combattendo, ed era morto.
(Matteo Maria Boiardo, Orlando Innamorato, LIII[1])

Claudius, ut vidit funus suum,
intellexit se mortuum esse.
(Seneca, Apokolocyntosis Divi Claudii)


Ieri sera il teledipendente medio (io) aveva l’imbarazzo della scelta. Su Rai1 Inter-Juventus. Su Rai2 Mona Lisa Smile, che è un film tanto carino. Su Rai3 una puntata speciale di Ballarò su un argomento particolare del quale non s’è capita un’acca. Su Canale5 Aldo Giovanni e Giacomo. Su Sky Sport1 Atalanta-Milan. Su Sky Sport2 la vibrante, meravigliosa, eroica vittoria per mezzo canestro della Lottomatica Roma sul parquet catalano (barcellonese?) del Palau Blaugrana. Il tutto condito da frequenti e insistite incursioni su Sky Tg24 e su La7 – non tanto per vedere la bella faccia di Parisi ospite di Ferrara, bensì per cogliere l’attimo della notizia più agognata della settimana, la fine del prodismo (e il conseguente, almeno per lui, inizio del podismo). Questa continua angoscia, la reiterata attesa di una notizia che mai arrivava nei fatti, e che al contempo era già accaduta nelle menti, mi è parsa ricalcare la tre giorni di attesa della morte del Papa nell’aprile 2005. Senza voler offendere la sensibilità di nessuno, una volta tanto: è solo che mi sembra di ritrovarne lo schema, il medesimo atteggiamento morboso e ripetitivo nei media, dovuto a chi li fa come a chi se ne pasce traendone sommo piacere (io).


La morte diluita e televisiva del Papa era iniziata di giovedì con lo Speciale Tg1 in cui Fabio Zavattaro, nel deserto notturno di piazza San Pietro, dava la notizia dell’improvviso peggioramento delle sue condizioni di salute (il cui equivalente politico è stata la conferenza stampa in cui Mastella ha reso nota la sua improvvisa uscita dalla maggioranza). Erano seguiti, di venerdì, i titoli allarmati dei giornali (replicati nel caso-Mastella) e il primo affollarsi di fedeli-curiosi (ora per lo più senatori incerti) attorno al futuro cadavere. Una mia amica romana, alla quale avevo chiesto se pensava di aggregarsi alla ciurma, mi aveva risposto con una domanda: “E che dovrei, che dovremmo andare a fare in piazza San Pietro? A fare gli avvoltoi? Ad aspettare una campana che suona?”


Al sabato mattina, la Stampa aveva dedicato al Papa una – peraltro molto bella – copertina commemorativa, con tanto di data definitiva, senza tener presente che fosse ancora vivo (idem sta facendo da un paio di giorni il Giornale con Prodi; e se, putacaso, estraesse qualche senatore dalla manica?). Le apparizioni di Bruno Vespa non si contavano più, Porta a Porta sembrava essere diventata Telethon (ieri c’era Livia Turco al posto di monsignor Fisichella). Edizioni speciali di tg su ogni rete possibile e immaginabile, tutte riunite nel sommo paradosso di star parlando da giorni e giorni di una notizia non ancora avvenuta. Infine, la voce che il Papa aveva effettivamente chiamato qualcuno – e segnatamente i giovani credenti, sentinelle del mattino – attorno al suo capezzale (Prodi, con minor senso estetico, ha chiamato a raccolta i residui senatori nella folle speranza che, a furia di ricontarli, aumentino di numero). Poi, alla sera, era davvero suonata la campana; ma non so se Prodi troverà tanta gente disposta a pregare per lui.







[1] E non, come tutti ma proprio tutti hanno detto in questi giorni, Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, chissà che canto.

mercoledì 23 gennaio 2008

Prodi due minuti

Il Governo parla e il cittadino lo ascolta. Ma io sono allergico alla tv dopo colazione, pertanto ho guardato il discorso di Prodi su internèt, dal sito della Camera; fonti autorevoli, poco dopo, mi hanno assicurato che il medesimo sermoncino non era stato trasmesso su nessuna delle reti Rai, e che di conseguenza è risultato meno pubblicamente visibile del surreale Mondiale per Club vinto dal Milan (è una precisazione inutile, ma fa sempre bene ricordarlo; quest’anno, dati alla mano, l’Inter ha vinto soltanto il trofeo Tim). Sarà che invecchiando divento più buono, ma non mi sembra che ci sia tanto da arrabbiarsi se la Rai trasmette La Prova del Cuoco o Melaverde invece del farfugliato annaspare del prossimo ex Presidente del Consiglio. Piuttosto, sarei stato contrariato se l’avessero trasmesso senza lo sguaiato sottofondo di risate registrate, come Striscia la Notizia o Casa Vianello.

Il Governo parla, il cittadino lo ascolta e gli sembra di star guardando uno spettacolo di varietà a mezza mattina. A proposito, avete visto la trasmissione bonsai di Fiorello subito dopo il Tg1? Io no, stavo cenando. Però fonti autorevoli mi hanno assicurato che il grande cronometro scenografico, deputato a scandire i centoventi secondi di trasmissione, veniva completamente interrotto con i pretesti più assurdi, rimandando di volta in volta una fine progressivamente inevitabile. Un po’ come se un Presidente del Consiglio, preso atto al lunedì del dissolvimento della maggioranza con cui ha vinto le elezioni, decidesse di tenere un discorso al martedì, di chiedere la fiducia al mercoledì e di richiederla al giovedì tanto per vedere se putacaso non viene fuori una maggioranza diversa, o se magari qualche senatore di Forza Italia ha un attacco di cagotto, o se addirittura risorge Rita Levi Montalcini. Se non che il microvarietà lunedì è durato ventitre minuti, ieri è durato quattordici, oggi chissà. Prodi dovrebbe intuire che il tempo è tiranno per tutti, anche per Fiorello, figuriamoci per lui.

martedì 22 gennaio 2008

Coriandoli

I più religiosi ricorderanno che il 21 febbraio 2007 era Mercoledì delle Ceneri: e mai come allora digiuno, astinenza, preghiera ed elemosina dettero il proprio frutto, stante che i dissidenti Rossi e Turigliatto votarono contro la politica estera di D’Alema e Prodi fu costretto a rassegnare le dimissioni. Indipendentemente dalla disciplina partitica di Napolitano (mica è un difetto, sia chiaro) e dal tradimento di Follini (che invece lo è), il dato di fatto risultò essere che il Mercoledì delle Ceneri apriva la Quaresima e segnava l’inizio di una Via Crucis, con Prodi che cade per la prima volta.

Karl Marx sosteneva che la storia è tragedia quando accade e farsa quando si ripete (ne fu conferma lui stesso, Marx tragico al quale succedettero dei Marx comici, Groucho e i suoi fratelli). Pertanto quando il card. Bagnasco, ieri pomeriggio, ha ritratto un’Italia sbrindellata, un Paese “ridotto in coriandoli”, probabilmente avanzava un implicito riferimento al parallelo sghembo fra l’anno scorso e questo: ossia che la caduta di Prodi nel 2007 segnava l’inizio di una lunghissima e travagliata Quaresima, mentre quella aperta ieri sera da Mastella è – calendario alla mano – la crisi di Carnevale.

lunedì 21 gennaio 2008

La fine dei tempi

L’altra mattina mi sono svegliato molto riposato, ma proprio estremamente riposato, tanto da stupirmi io medesimo per essermi svegliato così beatamente riposato prima ancora del trillo della sveglia, fissato per le sette e mezza; salvo poi accorgermi che erano le nove meno venti e che la sveglia in questione giaceva sul pavimento, squacquerata come un orologio di Dalì, dove l’avevo plausibilmente gettata dormendo ancora nell’impeto di un’inaudita violenza sonnambulistica.

Poi mi si è staccato il portachiavi dal resto delle chiavi che sarebbe stato suo etimologico dovere portare e supportare, quindi ho trascorso mezza mattinata a ripararlo; rimandando indefinitamente il momento del bucato, arrivato il quale la lavatrice, una Rex Avanti rimasta piuttosto indietro, mi ha rinfacciato l’indiscreta apertura del portellone pisciandomi acqua rancida sulle pantofole. Me la sarei tenuta, non fossi poi dovuto correre in bagno a far pipì a seguito delle forti emozioni provate, rilevando il mancato funzionamento dello sciacquone nonostante che io seguitassi forsennatamente a premere il pulsante dello scarico: ciò che mi costringe da un bel pezzo, nell’attesa del salutare manutentore, a curiose acrobazie idrauliche con secchi.

Di fronte a questa rivolta degli oggetti mi sono sentito impotente; di fronte all’ammutinamento congiunto e senza motivo apparente di tutto ciò che mi circonda e risulta destinato a servirmi, di tutte le cose inanimate che da me traggono vita, ragion d’essere e senso teleologico – mentre senza di me non sarebbero che nuda materia, e zitta, e ferma – per la prima volta nella mia vita ho capito come deve sentirsi di giorno in giorno Romano Prodi.

sabato 19 gennaio 2008

Lo Stato dei Licei: 7, il barlume di speranza

[Al ginnasio la mia professoressa di Greco vedeva i marziani; ed essi, cosa non meno notevole, vedevano la mia professoressa di Greco. Dubitavano tuttavia della sua reale esistenza, in considerazione dell’evenienza che costei oltre a insegnare Greco, come si conviene a ogni professoressa di Greco, insegnasse anche Latino e Italiano. I marziani, in particolare, esprimevano la propria meraviglia di fronte alla notizia che la professoressa di Greco assegnasse, per i compiti in classe di Italiano, un’unica traccia fra le quali – anzi, fra la quale – scegliere, solitamente così architettata: “Federico completivo: analisi di un imperatore versato nella subordinazione”; “Fior di mimosa / la donna, come una gatta, fa le fusa / fiera di bosco e regina della casa”; “Manzoni in tre periodi”; “A corto di argomenti”; “Catabasi e anabasi dell’uomo dalla tecnologizzazione degli interni alle vitamine dell’amore somo-psico-pneumatiche”; “Il mio compagno di banco”; etc. Né al liceo la situazione migliorò particolarmente. Per quanto la nuova professoressa di Greco non credesse ai marziani, non per questo i marziani cominciarono a credere in lei. A chiunque non si fidi posso offrire la visione del filmino del nostro ultimo compito in classe di Latino; che si conclude con l’intera classe che brinda a spumante, sparsa la versione interrotta sui banchi abbandonati, e la professoressa di Greco - nella circostanza di Latino – che esce teatralmente dall’aula, rifiutandosi di raccogliere i fogli, sbattendo dietro di sé la porta non prima di aver pronunziato l’oracolo: “Ma vaffangùl!”]


Gurrado, si sa che la speranza è l’ultima a spegnersi: per quanto uno studente possa essere impreparato, per quanto un compito in classe si riveli complicato, per quanto le interrogazioni incombano spietate e inesorabili ogni giorno, essa sopravvive nei cuori di tutti fino al momento estremo della valutazione. Tuttavia, come per Foscolo “anche la Speme, ultima dea, fugge i sepolcri”, per gli alunni della Terzaddì essa fugge i compiti di greco; ormai da anni e anni infatti, gli esiti complessivi delle traduzioni risultano inferiori alla media del 5, con due o tre sufficienze per verifica in tutta la classe, e dei picchi addirittura al di sotto del 4 [Nota di Gurrado: Silvia G, Silvia G, un giorno ti ordinerò di consegnarmi la tua pagella], che farebbero raggelare il sangue anche ai più spavaldi degli incolti. Un po’ per le esigenti pretese dell’insegnante, un po’ per la notevole ignoranza dei giovani alunni, quando si tratta di versioni di greco, la speranza si spegne assai precocemente.

Al fine di far risorgere questo ottimistico sentimento, l’alunno Ruggero F ebbe un giorno l’idea di portare in classe un piccolo cero rosso, graziosamente adorno di fregi dorati, e vi scrisse sopra col bianchetto “barlume di speranza”. Durante il compito di greco, lo accese e lo pose nascostamente sopra al suo banco, perché gli illuminasse il periglioso e intricato cammino della traduzione. Capitò che, proprio in occasione di quel compito, l’alunno Ruggero F riuscì a rimediare una strascicata sufficienza, evento che non mancò di festeggiare saltando allegramente di banco in banco, in preda al più esaltato entusiasmo. L’ingegno collettivo del resto della classe, stanco di collezionare nuovi 5 e nuovi 4, cedette alla forza della disperazione, divenne improvvisamente superstizioso e si convinse che il merito di quell’inaspettato successo andasse attribuito non a Ruggero F, bensì al “barlume di speranza” acceso sopra al suo banco.

Trascorse che furono alcune settimane, giunse nuovamente il fatidico giorno del compito in classe di greco [NdG: ma non avete niente di meglio da fare, al liceo Voltaire?]. Quest’occasione vide ben tredici alunni della Terzaddì varcare le porte del liceo Voltaire con altrettante candele decorate in mano, come una piccola processione religiosa, estremamente suggestiva. Onde evitare l’ira e il rimprovero dell’insegnante, che nulla sapeva di questo strano rito e che mai lo avrebbe approvato [NdG: figuriamoci; se dei professori universitari impediscono al Papa di parlare, dei professori di liceo impediranno ai propri alunni di accendere ceri votivi], la classe intera decise di collocare tutte e tredici le candele in un unico punto dell’aula, il più nascosto possibile. All’unanimità, fu deciso di sistemarle sopra l’armadio, dove tutti avrebbero potuto ammirare il rispettivo lume ardere, senza correre il rischio che l’insegnante se ne accorgesse, perché il mobile era posto proprio dietro la cattedra. Accesi che furono tutti i ceri, la professoressa Fiorello fece il suo ingresso in aula [NdG: ma, se l’armadio è posto dietro la cattedra (premessa maggiore), e se la professoressa Fiorello non vede l’armadio (premessa minore), dobbiamo dedurre che la professoressa Fiorello entra in aula e si dirige verso la cattedra rinculando come un gambero?], consegnò in fretta i fogli protocollo [NdG: se ne deduce che Silvia G abita in una città ricca, e che il liceo Voltaire grava non poco sull’alleggerimento delle tasche dei contribuenti ignari; ai miei tempi i professori distribuivano i fogli protocollo che gli alunni stessi avevano comperato] con le versioni, e andò a sedersi alla cattedra per finire di correggere i compiti di un’altra sezione, senza badare alle numerose candele che si consumavano alle sue spalle [NdG: non ha sentito caldo? non ha sentito odore di cera? non ha temuto che qualcuno, nell’armadio, stesse festeggiando un altro compleanno?]. Il tempo passava e l’ansia degli alunni cresceva; i barlumi di speranza non parevano sortire l’effetto voluto: il compito era forse più complesso del solito, e le loro conoscenze grammaticali risultavano di nuovo drammaticamente insufficienti [NdG: come sempre quando è richiesta più della prima declinazione].

Trascorsero trenta lunghissimi minuti. Non si udivano più crepitii di vocabolari sfogliati, né ticchettii nervosi di penne a biro, né fruscii di matite che scrivevano. Solo un profondo, sconfortante silenzio, che lasciava trapelare una gran delusione, e la più triste impotenza.

All’improvviso, qualcosa turbò la quiete: il suono di una campanella, che pure non poteva segnare la fine dell’ora, in quanto erano passati solo trenta minuti dall’inizio del compito, come testimoniava anche l’orologio appeso sopra la lavagna. Si trattava di un trillare insolito, quasi sconosciuto, molto diverso da quello che gli studenti erano abituati a udire quotidianamente: era infatti l’allarme antincendio.

Subito i corridoi si riempirono di giovani orde disordinate e urlanti, che certo non manifestavano alcun sentimento di paura, ma soltanto una gran soddisfazione per aver potuto interrompere le noiose lezioni così inaspettatamente, e per una causa tanto seria e importante. Inoltre, nessuno degli studenti del liceo Voltaire credeva veramente che la scuola avesse preso fuoco, perché due o tre volte all’anno si usa, negli istituti, compiere esercitazioni di questo tipo, per accertarsi che tutto avvenga secondo le regole in caso di vera emergenza [NdG: di modo tale che, in caso di vera emergenza, tutti credano che si tratti di un’esercitazione e restino seduti dove sono perché non hanno voglia di far fatica].

Come i più perspicaci tra i lettori [NdG: Silvia G, rassegnati; ci legge solo mia madre, sulla perspicacia della quale soprassiedo] avranno indovinato, l’allarme era stato fatto scattare dalla spia antincendio collocata nel controsoffitto della Terzaddì, poiché le tredici candele, poste troppo in alto, avevano sollecitato il sensore collegato con la campanella principale, che era quindi suonata. A edificio evacuato, arrivarono i pompieri, che pure non trovarono nulla da spegnere, in quanto i “barlumi di speranza” si erano ormai del tutto consumati, e di loro non rimanevano che alcune stalattiti di cera sciolta, che pendevano dall’armadio.

Si pensò a un guasto, e classi furono fatte rientrare; gli alunni della Terzaddì, intuendo che la vicenda delle candele e il misterioso incendio dovevano essere collegati tra loro, si premurarono di far sparire immediatamente ogni prova della loro colpevolezza, nascondendo ciò che rimaneva dei ceri negli zainetti prima che l’insegnante tornasse in aula. Fu in verità una mossa saggia, perché, se scoperta, l’intera classe sarebbe stata sospesa, e probabilmente processata, in quanto era riuscita a violare in una volta sola almeno metà del regolamento d’istituto e qualche articolo del codice penale.

Il resto della mattinata fu tutto un susseguirsi di tecnici e bidelli in Terzaddì, avendo qualcuno constatato che l’allarme era partito dalla sciagurata classe. “Un inspiegabile malfunzionamento del sistema di sicurezza”, avevano detto gli specialisti al sommo dirigente scolastico. Il controsoffitto venne smontato di piastrella in piastrella, i neon cambiati, gli alunni trasferiti in aula d’arte a tempo indeterminato; il guasto, tuttavia, non si trovò, e il mistero permase. Certo è che i desideri dei giovani membri della Terzaddì furono esauditi: il compito in classe di greco, per quella settimana, saltò.

Visto il grande successo, gli alunni della Terzaddì sono ora impegnati a decidere dove mai potranno essere poste le candele in occasione della seconda prova dell’Esame di Stato, che prevede appunto una versione di greco; meditano, per maggior sicurezza, di dare realmente fuoco all’edif [NdG: il resto del quaderno di Silvia G cenere era e cenere è tornato: per cui il manoscritto termina qui]

venerdì 18 gennaio 2008

Il discorso del Papa (con tagli)

Ieri pomeriggio ho erroneamente assistito alla conferenza di un illustrissimo professore emerito. Dapprima ho temuto che morisse di vecchiaia prima della fine del suo discorso; poi ho temuto che, prima della fine del suo discorso, potessi morire di vecchiaia io. Purtroppo nessuno ha avuto l’idea di impedirgli di presentarsi e prendere la parola. I collettivi studenteschi, quando servono, non ci sono mai.

Se Il Foglio, con la grazia ironica e autoironica che gli è propria, giovedì ha avviluppato sé stesso in una sovra-prima pagina che presentava esclusivamente (e integralmente) il testo mai letto dal Papa – intitolandolo Discorso sui massimi sistemi – nello stesso giorno la Repubblica, con la goffaggine spocchiosa che dal suo fondatore s’è diramata giù giù fino all’infimo dei proti, s’è vantata in prima pagina di racchiudere il pontificale testo proibito salvo poi nasconderlo a pagina 12 (e vabbe’, prima c’era Mastella: ognuno ha le priorità che crede), e soprattutto presentarlo martoriato di un’infinità di puntini sospensivi fra parentesi: (…).

Come purtroppo sa chiunque detenga un’istruzione appena appena superiore, i puntini sospensivi fra parentesi indicano la sospensione della citazione, il vuoto pneumatico appositamente creato, la sottostima delle parole omesse e il travisamento del senso generale di un testo. Qualche anno fa, una compagnia di commedianti inglesi presentava in teatro L’Opera Omnia di Shakespeare (con tagli) – tagli necessari, visto che non poteva tenere in ostaggio il pubblico per più di una serata. Allo stesso modo la Repubblica, non potendo sottrarre spazio alla posta di Corrado Augias né alle inchieste di Concita De Gregorio, si è vista costretta a pubblicare il testo del Papa (testo che, mi limito a dirlo fra parentesi perché tanto so che di me non vi fidate, fa tremare le vene dei polsi per lucidità, profondità e perspicacia) (a differenza di molte inchieste di Concita De Gregorio, tanto per dire) – dicevo, la Repubblica s’è vista costretta a pubblicare il testo del Papa con tagli corposi e significativi. I puntini di sospensione fra parentesi sono diabolici, perché permettono di decalibrare il delicato equilibrio di un ragionamento e stravolgere il senso di un discorso. Se non ci credete, fingo di essere un redattore de la Repubblica e ripropongo di seguito il testo (pressoché) integrale del discorso pontificio:

Magnifico Rettore, autorità politiche e civili, (…) Papa Bonifacio VIII, (…) la vostra comunità accademica (…) guarda con simpatia e ammirazione (…) l’invito che mi è stato rivolto (…) a Ratisbona. (…) Nell’università “La Sapienza”, (…) l’università del Papa, (…) l’apostolo Pietro (…) è colui che, da un punto di vista di osservazione sopraelevato, (…) vive nel mondo (…) il suo eventuale degrado. Vediamo oggi con molta chiarezza come (…) il Papa, di fatto, non parlerebbe veramente in base alla ragione etica, ma (…) John Rawls (…) è da valorizzare come realtà (…) che custodisce in sé un tesoro (…) in stile quasi telegrafico con qualche osservazione. (…) Egli vuol sapere che cosa sia (…) Socrate (…), una guerra vicendevole (…) che, però (…) il dissolvimento della nebbia (…) sulla vera natura (…) faceva (…) riconoscere come parte della propria identità (…). Poteva (…) nascere l’università (…) della montagna e (…) Isaia (…) finisce per diventare triste. (…) Qual è (…) l’università medievale (…) che, secondo la comprensione di allora, era la quarta (…) e (…) forma (…) il diritto (…) all’essere buono dell’uomo? Jurgen Habermas, (…) che (…) annota (…) wahrheitssensibles Argumentationsverfahren. È detto bene, ma (…) io trovo significativo (…) Pilato (…), come fa Rawls, (…) nella ricerca del diritto alla libertà (…) rispetto a partiti e gruppi di interesse (…) a cui era affidata la ricerca sull’essere uomo nella sua (…) Facoltà (…). Così, a questo punto, neppure io posso offrire (…) una peculiare coppia di gemelli, (…) merito storico di San Tommaso d’Aquino, (…) accessibili nella loro integralità; (…) così il Cristianesimo, (…) come cosiddetta Facoltà degli Artisti, (…) deve vedere i suoi limiti (…) dal punto zero del soggetto pensante in modo isolato, ma sta (…) all’interno della fede e quindi non può presentarsi come (…) senso di Rawls, ma (…) ho solo parlato dell’università medievale, cercando tuttavia di (…) comprendere meglio (…) il pericolo del mondo occidentale (…) e (…) della struttura dell’università: (…) la filosofia (…). Che cosa ha da fare o da dire il Papa (…)? Mantenere desta (…) la storia della fede cristiana e (…) percepire (…) la via verso il futuro (…) dal Vaticano, il 17 gennaio 2008.

Sono state giornate convulse, le ultimissime, per cui è bene raccogliere le idee e ricapitolare tutto quanto con precisione. In questa circostanza vorrei dunque esprimere ufficialmente il mio pieno sostegno al Papa, a Mastella, alla moratoria sull’aborto, a Huckabee (HB), alla mamma di Berlusconi, al referendum elettorale, a Pato, ai panini con la porchetta, a Pippo Baudo, a Napoli, alle palline colorate, a Trinità dei Monti, alla Coppa Italia, a me medesimo, al calendario delle hostess Ryanair, alla concussione, ai Simpson, a Carla Bruni, a Fabio Capello, all’aeroporto di Heathrow, ai dvd della Gazzetta dello Sport, ai pasti regolari tre volte al giorno e a un congruo numero di ore di sonno.

giovedì 17 gennaio 2008

Appunti sulla Sapienza

Lui sarà candido e magno, io sarò piccolo e nero, ma nella faccenda del Papa che prima viene invitato alla Sapienza e poi viene invitato a non andarci più ravviso delle congrue somiglianze con i privati fatti miei. (Lo so, sono megalomane). Un giorno, qualche mese fa, ero stato contattato dal nulla per prendere parte a un’antologia di racconti a tema, sul sonno. Lì per lì avevo tentennato, non avendo tempo di scrivere un racconto nuovo di zecca, ma i contattatori mi avevano assicurato che avrei potuto proporne uno già scritto, se non era già stato pubblicato altrove. Poiché non mi pubblica mai nessuno, ho acconsentito spedendo un lungo racconto che avevo composto tempo prima, e mi sono messo il cuore in pace. Passa del tempo e li dimentico del tutto. A un certo punto vengo ricontattato e mi viene detto che il mio racconto va bene, come no, ma preferirebbero che lo sostituissi con un altro. Ribadisco che non ho tempo di scriverne (bene) uno nuovo, tanto più con la rapidità su cui contano i contattatori, ma loro insistono che sicuramente ho già un racconto sul sonno, pronto da qualche altra parte. In effetti ce l’ho, e glielo spedisco. Passa del tempo e li dimentico più di prima. Ieri mattina vengo contattato, alfine, con la notizia che l’antologia è pronta, e che si può prendere visione del sommario. Scorro rapidamente la lista degli autori ma, più incuriosito dalla presenza altrui che dalla mia, non vi cerco la fatale G. Se non che, riflettendo, mi accorgo di non aver scorto le due paroline di sette lettere ciascuna, l’Antonio e il Gurrado ai quali sono talmente affezionato. Rileggo con calma un nome per volta. C’è Tizio, c’è Caio, soprattutto c’è Sempronio fa parte di tutte le antologie giovanili da una ventina d’anni abbondante. Gurrado non c’è. Rileggo una terza volta per maggior sicurezza, ripenso ai calorosi inviti dei contattatori ma non me ne dispiaccio più di tanto; più che altro mi irrito, e il mio primo istinto è quello di telefonare al Papa (ah! se solo sapessi il numero) per rassicurarlo: “Li lasci perdere, Santo Padre; è tutto tempo perso, tutta fatica sprecata”.

Proverbi 1, 20-32: La Sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la sua voce: dall’alto delle mura essa chiama, pronunzia i suoi detti alle porte della città: “Fino a quando, o inesperti, amerete l’inesperienza e i beffardi si compiaceranno delle loro beffe, e gli sciocchi avranno in odio la scienza? Volgetevi alle mie esortazioni: ecco, io effonderò il mio spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole. Poiché io vi ho chiamato e avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno ci ha fatto attenzione; avete trascurato ogni mio consiglio e la mia esortazione non avete accolto; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi piomberà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi colpirà l’angoscia e la tribolazione. Allora mi invocheranno, ma non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno. Poiché hanno odiato la Sapienza e non hanno amato il timore del Signore; non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato tutte le mie esortazioni; mangeranno il frutto della loro condotta e si sazieranno dei risultati delle loro decisioni . Sì, lo sbandamento degli inesperti li ucciderà e la spensieratezza degli sciocchi li farà perire.

Che poi, quello che non ho ben capito è perché il presidio antiteocratico allestito per una settimana intera da quattro sfaccendati fuori corso ha osteggiato la visita del Papa pasteggiando a vino e panini con la porchetta. Il pane è al centro di ogni celebrazione eucaristica (vulgo messa), e Gesù era talmente favorevole alla sua diffusione che, spezzandolo, lo moltiplicava invece di dividerlo. Il vino, frutto della vita e del lavoro dell’uomo, richiama in diretta correlazione il sangue versato da Cristo per gentaglia che fa di tutto per non meritarselo. Quanto alla porchetta, be’, dev’esser sfuggito loro che il Papa non è mussulmano.

Sapienza 1, 6-12: La Sapienza è uno spirito amico degli uomini; ma non lascerà impunito chi insulta con le labbra, perché Dio è testimone dei suoi sentimenti e osservatore verace del suo cuore e ascolta le parole della sua bocca. Difatti lo spirito del Signore riempie l’universo, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce. Per questo non gli sfuggirà chi proferisce cose ingiuste, e la giustizia vendicatrice non lo risparmierà. (…) Guardatevi pertanto da un vano mormorare, perseverate la lingua dalla maldicenza, perché neppure una parola segreta sarà senza effetto, una bocca menzognera uccide l’anima. Non provocate la morte con gli errori della vostra vita, non attiratevi la rovina con le opere delle vostre mani.

Papa o non Papa, un giorno dimenticherò di avere cose più importanti da fare e spiegherò nei dettagli perché l’università – quella pubblica in particolare – è la più inutile delle istituzioni italiane, e che più che a riformarla bisognerebbe pensare ad abolirla. A farlo oggi, rischio di suonare eccessivamente codino; se non che davvero, così com’è strutturata, costituisce la più colossale perdita di tempo che si possa concepire. Tuttavia da qualche giorno provo un insopprimibile bisogno di essere iscritto alla Sapienza, per aver accesso alla biblioteca universitaria, poter chiedere in prestito i libri scritti dai sessantasette professori più intelligenti del Papa e strapparne le pagine una a una. Non potendo ricuperare il tempo perso, almeno cerchiamo di guadagnare spazio.

Siracide 1, 1: Ogni Sapienza viene dal Signore, ed è sempre con Lui.

mercoledì 16 gennaio 2008

Parlare con una donna

Lei (medias in res): “Non parlarmi di Berlusconi!”
Lui (alzando lo sguardo): “Non te ne stavo parlando, infatti, e anzi stavo mangiando in silenzio concentrandomi sulle trenette al pesto; tuttavia sospettavo che tu non votassi per lui.”
Lei (con gesto evasivo): “Per carità, Berlusconi non lo voterebbe nessuno.”
Lui (sollevando il sopracciglio sinistro): “Preferisci Veltroni?”
Lei (mostrando la lingua): “Bleah.”
Lui (disorientato): “Fini?”
Lei (mostrando i denti): “Per carità.”
Lui (corrucciato): “La Cosa Rossa?”
Lei (sgomenta): “Che cos’è la cosa rossa? Il solito doppio senso?”
Lui (candido): “Io non faccio mai doppi sensi. Ma per chi voti allora?”
Lei (adamantina): “Il voto è segreto.”
Lui (anticostituzionale): “Lo so; ma, se non fosse segreto, per chi voteresti?”
Lei (sospensiva): “…”
Lui (interrogativo): “?”
Lei (sospirando): “Io voglio votare per Hillary.”
Lui (cogitabondo): “Il governatore del Friuli?”
Lei (puntigliosa): “No, quello è Illy. Io voglio votare per Hillary, Hillary Clinton.”
Lui (nazionalista): “Sei americana?”
Lei (femminista): “No, ma sogno una donna presidente.”
Lui (politico): “Be’, non so quanto ne valga la pena. Non sta andando mica tanto bene, che so io, in Germania o in Cile.”
Lei (transnazionalista): “Che c’entrano adesso il Cile e la Germania?”
Lui (storico): “C’entra che il presidente del Cile è Michelle Bachelet e il cancelliere della Germania è Angela Merkel.”
Lei (critica): “E con questo?”
Lui (ginecologico): “Sono due donne.”
Lei (risentita): “Lo sapevo. Qual è il problema?”
Lui (argomentativo): “Sono entrambe donne, sono presidenti ma non mi sembra che alla fine governino tanto meglio degli uomini.”
Lei (scandalizzata): “Stai dicendo che governano male solo perché sono donne? Sei davvero così maschilista?”
Lui (politico): “No, dico che è indifferente, insomma, che non basti essere donne; ritengo che sia importante intuire chi possa governare meglio in base al programma, e non in base al sesso.”
Lei (sdegnata): “Sì sì sì. Si sentono le unghie che scivolano sulla superficie dello specchio. Il problema è che tu sei il solito maschilista violento e omosessuale represso, e pensi che non si possa governare bene se non si ha un uccello fra le gambe.”
Lui (ingurgita una sovrabbondante forchettata di trenette, che lo scongiura provvidenzialmente dal rispondere: “Molte donne ne hanno uno, ma raramente è il proprio”).
Lei (assertiva): “E non guardarmi con quell’aria derisoria di chi ha capito tutto. Non puoi dire che gli uomini governano meglio delle donne, solo perché sono uomini.”
Lui (mastica).
Lei (trasognata): “Io voglio votare Hillary Una donna alla Casa Bianca, questo sì che sarebbe un sogno. Ve la faremo vedere noi come si governa il mondo!”
Lui (ruttando): “E Obama?”
Lei: (colta di sorpresa) “Obama? Obama… Certo, sarebbe bello che ci fosse finalmente un nero alla Casa Bianca.”
Lui (bianco): “Solo perché è nero?”
Lei (riscandalizzata): “Sì, perché? Stai dicendo che governerebbe male solo perché è nero? Sei davvero così razzista?”
Lui (non prende il secondo).


Lui sono io. Lei potrebbe essere chiunque. Mi sono limitato a stenografare.

martedì 15 gennaio 2008

La risurrezione di Milan-Napoli

(Gurrado per Quasi Rete / Em Bycicleta)

Va bene, il ragazzo si farà. Però chi, da Berlusconi in giù, ha aspettato per sei mesi l’esordio di Pato, il goal di Pato, le lacrime di Pato, l’ambiguo cuoricino di Pato (che a prima vista sembrava tutt’altra cosa, ma omnia munda mundis), domenica sera ha piuttosto dovuto fronteggiare l’emozione inattesa di un ritorno ben più magnifico e scintillante, atteso la bellezza – faccio un po’ di conti – la bellezza di quindici anni esatti. Domenica sera è tornata Milan-Napoli, e nello scoprirlo la mia gioia infantile era la stessa di Pato.

Gli storici e statistici del calcio obietteranno che a dire il vero Milan-Napoli non si giocava da sette anni, non già da quindici, e immagineranno che mi sono distratto e suggeriranno che al lunedì mattina dovrei fare in modo di essere più lucido. Controriferirò che il calcio non è semplice incrocio di magliette, non basta vestire ventidue figuranti di rossonero e di azzurro cielo per ottenere la riedizione di un classico; il calcio è emozione che si fa numero e restano a testimoniarlo la memoria e i risultati. Pertanto sostenere che l’ultimo Milan-Napoli risale al 2001 (al San Paolo, sbadigliante 0-0) è un’enormità pari a mettere sullo stesso livello Shakespeare e le infinite scimmie che, battendo casualmente a macchina per un infinito tempo, hanno una certa qual probabilità di scrivere l’Amleto. Per come la vedo io, l’ultimo Milan-Napoli ci ha allietata la primavera del 1993: a San Siro con un rocambolesco 2-2, guarda caso esattamente come alla fine del primo tempo di domenica.

Guarda caso ma non è un caso. Da che ho conseguito la ragion calcistica, Milan-Napoli nelle sue varie reincarnazioni è sempre stata una partita femmina: di tremebonde altalene fra il trionfo e la disfatta, di esaltazioni fenomenali e abissi inconsolabili a scadenza ravvicinata. I pareggini si contavano sulle dita di una mano monca, e pure quei pochi conservavano un sapore speciale (al San Paolo, 10 maggio 1992: segna Rijlkaard, pareggia Blanc e il Milan rivince lo scudetto). Negli anni felici che congiunsero il 1988 al 1993, a ogni Milan-Napoli l’eccezione era la regola: basta dare un’occhiata alla nuda lista di risultati. Il risultato più normale era 3-0, indifferentemente per l’una o per l’altra. Il più frequente estratto sulle ruote di San Siro e San Paolo è stato nientemeno il 4-1. Se la partita era squilibrata, 5-0 o 5-1 era un risultato accettabile; se era equilibrata, come minimo finiva 2-2 o 3-2. Alla fine chi vinceva era felice e chi perdeva era soddisfatto. I neutrali gongolavano. Gli statistici impazzivano, venivano colti da crisi isteriche, cambiavano mestiere.

Il Milan sacchiano che tremare il mondo fa(ceva) nasce a San Siro il 3 gennaio 1988, per rabbiosa reazione al goal a semi-freddo di Careca: Colombo, Virdis, Gullit, Donadoni e passa la paura. Quattro mesi dopo, al San Paolo, ottantamila tifosi del Napoli traggono funesti auspici dall’ostinata solidità del sangue di San Gennaro, e fanno bene a preoccuparsi: il Milan vince 3-2 e lo scudetto già vinto fa un’inversione a U sull’Autostrada del Sole. A novembre dello stesso anno (ma di un altro campionato), le urla di Maradona, Careca, Francini e Careca bis ricambiano il 4-1 di cui sopra e fanno arrossire di vergogna il gollettino su rigore di Virdis. Darsi e restituirsi gran ceffoni è stata un’educata abitudine contratta da diavoli e ciucci per la gran gioia (o disperazione) di chi osservava attraversando i differenti stadi dell’ entusiasmo o dello sgomento. Al San Paolo, primo ottobre 1989, il Napoli taglia fuori il Milan dalla rincorsa allo scudetto sotterrandolo 3-0 (doppietta di Carnevale, poi Maradona santifica la festa). A San Siro, l’11 febbraio 1990, il Milan gioca la più bella partita della sua storia, riacchiappa in classifica il Napoli fuggito, per la legge dei grandi numeri gli rifila tre goal a caso (testate di Massaro, Maldini e Van Basten) e Maradona – che avrà mille dei difetti che gli si rimproverano, ma è pur sempre Maradona – a fine partita ammette che 7-0 sarebbe stato un risultato più onesto. Sempre a San Siro, un anno e un mese dopo, il Napoli porge l’altra guancia e inalbera la rete in extremis di Incocciati quando già Gullit, Rijkaard e Donadoni hanno caricato il peso specifico dell’iniziale autorete di Ferrara. Le guance del Napoli sono finite ma le mani del Milan no: a gennaio del 1992, sempre a San Siro, Maldini segna dopo mezzo minuto e gli altri goal di Rijkaard, Massaro, Donadoni e Van Basten sono mera accademia. L’8 novembre 1992, Van Basten va in tournée e squassa il San Paolo segnando quattro volte (con Zola ed Eranio comprimari per l’1-5). Il Napoli da tempo non pensa più allo scudetto, Maradona fa altro altrove, ma sempre del Napoli si tratta: a San Siro, in aprile, Careca e Policano chiudono il primo tempo sullo 0-2 e c’è bisogno di un doppio Lentini perché in affanno il Milan abbia salva la faccia. Poi basta.

Poi basta, fino a domenica 13 gennaio 2008. Per come la vedo io, Milan e Napoli sono i due estremi inconciliabili del calcio italiano, sembrano i due tradizionali dragoni cinesi che si oppongono attorcigliandosi e danno vita a forme sempre nuove e meravigliose. Hanno avuto la forma di Virdis che volava a braccia aperte verso i fotografi e di Careca che sibilava ai confini dell’area di rigore, di Maradona accasciato sulle zolle madide di San Siro e di Giovanni Galli che si allunga ma non ci arriva. Ora hanno la forma di Lavezzi che uccella Kaladze e di Ronaldo che vola terra-aria. Domani chissà.

Il calcio non ha bisogno di statistici né di micragnosi scienziati del dettaglio trascurabile; il calcio ha bisogno di esegeti, apologeti, cabalisti: che di fronte all’impenetrabile bellezza del Testo Sacro sviscerano i versetti e le singole parole per dare un senso al Libro e al mondo, tale da fornire un’interpretazione plausibile per la limitata ragione umana e al contempo rendere conto dell’inafferrabilità dell’inconoscibile, causando stupore e speranza. Non lo dico da tifoso, lo dico da spettatore di uno spettacolo infinito: felice di rivederti, ciuccio, ne riparliamo l’11 maggio.

Il dettaglio dei precedenti
1987-88: Milan-Napoli 4-1, Napoli-Milan 2-3
1988-89: Napoli-Milan 4-1, Milan-Napoli 0-0
1989-90: Napoli-Milan 3-0, Milan-Napoli 3-0
1990-91: Napoli-Milan 1-1, Milan-Napoli 4-1
1991-92: Milan-Napoli 5-0, Napoli-Milan 1-1
1992-93: Napoli-Milan 1-5, Milan-Napoli 2-2

lunedì 14 gennaio 2008

Moratori te salutant

(da Il Foglio quotidiano, anno XII n. 10, sabato 12 gennaio 2008, prima facciata del paginone centrale).


"Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto" (Giovanni 1, 11).
Aderisco alla moratoria sull'aborto.

Antonio Gurrado, Pavia

sabato 12 gennaio 2008

Lo Stato dei Licei, 6: la guerra dei gessetti

[Pensate, facevo la quarta ginnasio e, proprio per questo motivo, io e i miei compagni di liceo eravamo troppo giovani per essere incolpati delle reiterate gravidanze che colpivano in serie le varie supplenti di geografia che si succedevano nella nostra aula. Tuttavia, mistero tuttora insoluto, bastava che una neolaureata prendesse possesso della nostra cattedra vacante di geografia che – pàm – restava incinta con un’infallibilità sconosciuta alla denatalità patria. Forse per questo motivo, ogni supplente gravida veniva sostituita da una più giovane, evidentemente nella speranza provveditoriale di trovarne una che non avesse ancora patito il ciclo. Pertanto l’ultima, se devo riconsiderarla adesso, doveva essersi laureata la settimana prima e non aveva nulla che la distinguesse da un’adolescente. Una volta le capitò di venire sottoposta alla cosiddetta cappotta – ossia il tradizionale colpire alla cieca un corpo inerme dopo averlo immobilizzato sotto un soprabito a caso – ma lei non ci fece caso ritenendolo forse un complimento al suo sembiante giovanilissimo, tanto più che dopo averla immobilizzata c’eravamo rapidamente contati, avevamo visto che non mancava nessuno, avevamo dedotto che la persona nascosta doveva appartenere al personale docente stipendiato e, molto educatamente, ci eravamo scusati con la professoressa.
Ho dimenticato il suo nome ma costei, un giorno, cercava di spiegarci non so più se l’Emilia Romagna o il Maghreb. Fatto sta che si rese conto di essere circondata da un silenzio irreale, che non prometteva niente di buono. Andava alla lavagna, ci parlava e noi eravamo imbalsamati; appena ci dava le spalle per scrivere capiva che succedeva qualcosa ma, non appena rivoltatasi, tornava a non vedere altro che ventisette mummie sorridenti. Questo per quattro o cinque volte; finché, nell’attimo preciso in cui stava spiegando dov’era Forlimpopoli o che il nome Egitto deriva da Hat-Ka-Ptah, s’è taciuta e voltata di scatto, in tempo sufficiente per vedere l’ultima pallina di carta che mogia mogia planava quasi dentro la scollatura di ricordo benissimo chi. Silenzio. Terrore. Obnubilamento. Finché la supplente di geografia, che avrà avuto meno anni di quanti ne abbia io adesso, sorride e dice che fino a pochi anni fa anche a lei tiravano le palline di carta – senza specificare se l’intenzione fosse di centrarle la scollatura. L’abbiamo onorata con una gioiosa salva di palline insalivate.]


Gurrado, il liceo Voltaire gode di un’ottima posizione al centro di ***. Esso confina a sud con l’Arcivescovado (una villa molto imponente, con un ampio giardino interno), a ovest con la trattoria “La via dell’ovile” (nome che intende forse condurre a sé tutte le “pecorelle smarrite” della zona, non ultimi gli stessi studenti del liceo Voltaire), a est con la chiesetta della SS. Trinità, e a nord con la sede di una nota compagnia di assicurazioni. Particolarità degli impiegati che lavorano in quest’ultimo edificio è, paradossalmente, quella di non lavorare affatto: essi trascorrono la maggior parte delle loro ore davanti alla macchinetta del caffè, mentre i computer scaricano senza sosta strani programmi da internet; oppure, nella bella stagione, li si trova a fumare su di un piccolo terrazzo all’aperto. Questi impiegati sono per lo più distinti signori sulla quarantina, tutti molto eleganti e dall’aspetto rassicurante, che tornano diligentemente a ricoprire le loro posizioni ogni qual volta nell’ufficio si propaghi la voce dell’arrivo imminente di un superiore.

Capitò un giorno che alla Terzaddì venisse assegnata un’aula posta proprio sulla facciata nord dell’edificio scolastico, ragion per cui i diciotto membri della classe potevano ammirare dalla finestra il fastidioso spettacolo degli impiegati dediti al dolce far nulla nei loro uffici, dall’altra parte della strada. Man mano che i mesi passavano, l’astio degli alunni cresceva: perché mai, si chiedevano irati, dei giovanotti e delle signorine ancora vispi e prestanti devono sentirsi costretti a trascorrere la loro mattinata annaspando dietro a formule matematiche e paradigmi greci [Nota di Gurrado: dìdomai, dòso, édoka, dédoka, edothen: è l’unico che io sappia - non l'unico che ricordi; l'unico che io abbia mai conosciuto], mentre degli adulti sfaccendati vengono pagati per girarsi beatamente i pollici tutto il tempo?

Non riuscendo a trovare risposta a questo quesito [NdG: forse perché in gioventù i medesimi adulti hanno annaspato dietro a formule matematiche e a paradigmi greci; ragion per cui ora sono stanchi e si riposano], i diciotto membri decisero dunque di passare direttamente alla vendetta, provvedendo a trovare un’occupazione adeguata a quegli oziosi impiegatucoli.

Le ostilità si aprirono in una serena giornata di fine inverno, quando Alberto I [NdG: presumibilmente, come avviene per Silvia G, si tratta di un alunno col nome di battesimo seguito dall’iniziale di un cognome, se non che in quanto filologo opto sempre per la lectio difficilior e pertanto avanzo l’ipotesi che Alberto I sia in realtà il capostipite della dinastia regnante su ***], esasperato a causa di un’imprevista interrogazione di latino, approfittò della ricreazione per scagliare quattro o cinque gessetti fuori dalla finestra, in direzione degli uffici della compagnia di assicurazioni. I gessetti in questione giunsero tutti quanti a destinazione, andando a frantumarsi contro i vetri dell’edificio e facendo saltare gli impiegati dalla sedia. Fu questo l’inizio di una lunga serie di lanci vendicativi da parte di tutti (o quasi tutti) i membri della Terzaddì [NdG: ne approfitto per ribadire che questi sono i primi risultati della moratoria sulla pena di morte: un rigurgito di adolescenziale trasporto per la lapidazione]. Le scorte di gesso sulla lavagna cominciarono improvvisamente a languire, e in più di un’occasione qualche insegnante spazientito non mancò di rimproverare l’innocente bidella di turno per non averle rimpinguate a dovere [NdG: fonti certe testimoniano che la medesima bidella sia stata dapprima licenziata e quindi messa al rogo in effigie]. Si sparse la voce tra i corridoi del liceo Voltaire che in Terzaddì i professori consumassero chili di gesso alla settimana, che l’impiego avesse dell’incredibile, che qualcuno addirittura se ne cibasse [NdG: ulteriori e più approfondite indagini hanno scartato l’ipotesi, avanzata dagli autorevoli inquirenti di Garlasco, che i gessetti siano stati rivenduti quale tachipirina in supposte]. Si arrivò a paventare lo spaccio clandestino di polvere di gesso per usi illegittimi. E intanto, gli alunni della Terzaddì seguitavano a lanciare impuniti. Alcuni gessetti, scagliati con scarso vigore, mancavano le finestre e piovevano copiosi sopra le automobili degli impiegati parcheggiate subito sotto, che ben presto furono ricoperte di polverina bianca, e talune addirittura di piccole ammaccature. Gli impiegatucoli, per quanto nullafacenti, non si resero immediatamente conto di quel che stava succedendo, poiché la scaltrezza degli studenti era tale che nessuno di loro si fece mai cogliere sul fatto. Davanti ai graffietti delle autovetture, tuttavia, qualcuno divenne improvvisamente più accorto, e la voce di quegli attacchi mattutini si sparse per gli uffici della compagnia, costringendo gli impiegatucoli a prendere i dovuti provvedimenti. Mancando essi di gessetti, si arrangiarono con degli elastici di gomma colorati: li tendevano fin quasi a spezzarli, e poi li lasciavano andare in direzione delle finestre della Terzaddì, rispondendo così al fuoco [NdG: a seguito dell’impegno profuso dai suoi dipendenti, la nota compagnia di assicurazioni è fallita]. Gli elastici tuttavia non erano sufficientemente aerodinamici, e il loro volo si concludeva ben prima di giungere a destinazione, con gran sollazzo degli alunni tutti, i quali seguitavano a bombardare di gesso le terrazze dell’edificio avversario. Colmi di dispetto e di ignominia, i pigri impiegati decisero dunque di contrattaccare in diversa maniera: chiamarono l’ufficio del preside per telefono, comunicando che da una finestra di qualche sezione del liceo Voltaire si faceva uso illegittimo del gesso da lavagna, che finiva tutto quanto sulle loro automobili e sul loro poggiolo. Il sommo dirigente scolastico, scandalizzato e furibondo, si precipitò dunque a interrogare le classi che davano sulla facciata nord dell’edificio, e tutte si professarono innocenti. Accidentalmente, passando un giorno davanti alla porta della Terzaddì, che era rimasta aperta dopo il suono della campanella della ricreazione, egli scorse l’alunno Alberto I e alcuni suoi compagni intenti a lanciare gessetti e insulti in direzione della compagnia di assicurazioni dall’altra parte della strada: ritenne quindi di aver trovato i colpevoli [NdG: senza nemmeno un incidente probatorio? né un rilevamento di campione di dna? né una puntata di Porta a Porta?].

Cosicché, dopo una severa ramanzina e molte minacce di punizioni, la Terzaddì è stata ora spostata dal versante opposto dell’edificio scolastico, e confina quindi con l’Arcivescovado. C’è speranza che il pensiero della scomunica, sommato a quello della sospensione, contribuisca a placare i bollenti spiriti dei garzoncelli scherz [NdG: il quaderno di Silvia G presenta a questo punto un vuoto incolmabile, un buco metafisico, una pagina corrosa dall’acqua santa: pertanto il manoscritto termina qui]