domenica 29 aprile 2007

Una Taranto brianzola

(copyright l'immaginazione :bimestrale di letteratura, Manni editore, Anno XXII, numero 228)



Dal 1990 Cosimo Argentina vive e lavora nella grigiastra Brianza; ma, se interrogato al proposito, indefettibilmente risponde di abitare a quindici anni e mille chilometri di distanza da Taranto. Lo scrive anche nel suo ultimo libro, questo Nud’e Cruda (Effigie, 2006) che non è un romanzo perché nulla è inventato, non è autobiografia perché parla soprattutto d’altri, non è un reportage perché c’è troppo sentimento. È uno strano, piacevole miscuglio di memorie, alcune indotte (dalla prima pagina dichiara che si tratta di un testo d’occasione), altre incancellabili nella memoria del migrante postmoderno, altre ancora che sulla scia sorgono indotte e inattese - Argentina le paragonerebbe a un bel po’ di belle ragazze irraggungibili che il caso fa apparire alla tua festa di compleanno perché hanno sbagliato strada.



Tutto è narrato in prima persona. Non occorre conoscere Argentina di persona per sentirne la voce, la cadenza quasi, nel progressivo tarentinizzarsi (si dirà così?) del campo semantico; fino a un punto in cui il dialetto irrompe definitivamente nei dialoghi e, sebbene non tradotto, pare suonare familiare anche alle orecchie non abituate alle sue gutturalità, pare quasi creare una zona franca dove l’Italiano non è più Italiano ma non è ancora Tarantino.



Lingua peculiare per un contenuto peculiare: se nuovamente interrogato al proposito, Argentina vi dirà con mirabile tautologia che Taranto non è in Puglia, ma a Taranto. La sua città, vista coi suoi occhi, non crea una ragnatela di interrelazioni contaminanti col territorio circostante, con le Murge così vicine, col Salento nel quale sarcasticamente l’ultima pagina suggerisce di andare a villeggiare una volta di più; per Argentina, Taranto è un’isola, o meglio è l’Isola e i ponti e i due mari. La tarantinità, il demone meridiano che Argentina si porta dentro e al quale ha dedicato un capitolo specifico, è precisamente localizzabile in una ristretta porzione della città; il resto, l’ottanta per cento se lo può portar via Satana in persona, ciò nondimeno Taranto resterebbe Taranto.



Dalle brevi e dense pagine del testo emerge dunque una Taranto che è città e paese al tempo stesso. I capitoli affastellano luoghi ed eventi, persone e circostanze con rapidità caleidoscopica: si finisce per non sapere più, una volta richiuso il libro, se la tarantinità risieda nella muta pietra toponomastica (via Dante, via Tommaso d’Aquino, piazza Marconi…) oppure nei singolari personaggi che Argentina incontra più o meno di proposito (Luigi, abbandonato dalla donna e rimasto solo con la sua affettatrice; oppure Marc’Polle, descritto in due paginette che avrebbero meritato intorno tutto un romanzo). A me, che ho il cuore sensibile, la Taranto più vera sembra la tredicenne che cerca di zittire il suo bebè, scura madre inadeguata e affettuosa.

Si finisce per voler chiedere all’immagine di quarta di copertina, che ritrae uno sportivo Argentina con la fede in bell’evidenza mentre si versa (malaccio, troppa schiuma) una birra dietro il bancone di un bar di Cesano Maderno, di non fermarsi a pagina novantatre e di raccontare altre storie, altre strade, altre persone: esattamente come aveva fatto nel suo romanzo più bello e (ahimè, ahilui, ahinoi) sottovalutato, quel Bar Blu Seves (Marsilio, 2002) che racconta un anno e un secolo intero con una semplicità di penna davvero sbalorditiva.



Gli occhi della memoria di Argentina sono sempre attenti e mai muti. Taranto era già stata parte integrante del suo esordio con Il Cadetto (Marsilio, 1999) ed era l’unica possibile ambientazione della favola calcistica Cuore di Cuoio (Sironi, 2004). Nud’e Cruda aggiunge un capitolo all’infinito romanzo tarantino che Argentina sta scrivendo da anni; un romanzo che porta con se i detriti del passato, delle frasi dette ed ascoltate, dei volti e dei corpi. Così Argentina insiste nel calibrare la propria vita sulla distanza spaziotemporale che lo separa dalla sua origine. Di volta in volta gli anni aumentano ma i chilometri restano sempre gli stessi, come lui che cresce e resta - per fortuna - sempre uguale.

venerdì 27 aprile 2007

Quiz: cos'ha visto Fini?

(nota per i biografi: questo post era stato progettato per lunedì, ma più della volontà poté il raffreddore)



a) Ha visto Rutelli e Fassino confluire nello stesso partito. Giova ricordare al proposito che Fassino s’è iscritto al Partito Comunista, per sua stessa testuale e sorprendente ammissione, per dare un segnale contro il comunismo; Rutelli invece era un giovane radicale (i radicali, per chi non se li ricordasse più, erano quelli di Pannella) che ora guida il partito dei teo-dem, e che quando all’uscita dal colloquio col cardinal Bagnasco s’è trovato di fronte un manipolo di protestatari della Rosa nel Pugno ha voltato la faccia dall’altra parte. Anzi, riformulazione postuma: ha visto Rutelli e Fassino aderire al nuovo partito di Follini.


b) Macché, ha visto l’Inter vincere lo scudetto. O meglio, ha visto l’ambrosiana credere di aver vinto lo scudetto (supportata in questo dall’abile campagna mediatica della rosea Gazzetta dello Sport, rosa sempre più smunto a dire il vero, la quale ha cercato di convincere la popolazione che quest’anno ci sia stato un campionato di serie A) e spacciarlo in giro senza ritegno. L’ambrosiana, come sa chiunque non sia interista dalla nascita, ha in realtà vinto il trofeo Telecom-Pirelli intitolato alla memoria di Guido Rossi, già presidente di un po’ di tutto. Va tuttavia riconosciuto che la vittoria in questo lungo torneo estivo (protrattosi fino all’aprile successivo) ha comunque garantito all’ambrosiana un posto nella prossima stagione, quando Milan, Roma, Lazio, Fiorentina e Juventus (e forse Napoli o Genoa o Bologna) daranno nuovamente vita al campionato di serie A temporaneamente sospeso. Con l’ambrosiana, come no.


c) Macché, ha visto la debacle di Le Pen, peggio ancora, ha visto i socialisti francesi andare al ballottaggio, peraltro vestiti da donna. In fin dei conti da quanti anni non andavano al ballottaggio? Dodici? Fate conto che all’epoca io avevo appena iniziato il liceo mentre ora sono, ehm, che sono adesso?


d) Macché, ha visto il Partito delle Libertà. Sì, domani.

sabato 21 aprile 2007

Quasi quasi mi iscrivo anch'io

Oggi il Papa va a Pavia e io sto a Oxford: immaginate quanto mi girano i coglioni.


Di potenzialmente infiniti, l’unico momento realmente preoccupante del discorsone di Fassino è stato quando ha dichiarato che il nascituro Partito Democratico guarda a chi avrà vent’anni nel 2010. Con un rapido calcolo, ho realizzato che chi avrà vent’anni nel 2010 oggi ha sicuramente diciassette anni e ha appena terminato di trascorrere il sabato mattina al liceo (possibilmente classico) filmando col cellulare di ultima generazione il suo compagno di banco ubriaco che infila un braccio intero nel retro dei pantaloni della professoressa di inglese che non se ne accorge in quanto è intenta a comprare una dose da un bidello falso invalido mentre gli altri ragazzi menano il più ritardato fra loro al quale è stata previamente iniettata una pera dal preside vincitore di concorso truccato – il tutto durante il compito in classe di latino, magari. Insomma, se è così il futuro del PD non promette molto di buono, ma è probabile che Fassino non ci abbia pensato. Lancio un’idea innovativa: se si smettesse di rincorrere i giovani, che in buona parte sono cretini, la politica diventerebbe più seria.


Per il resto, tutto promuovibile. Mentre Rutelli rispolverava in faccia a Prodi l’abolizione dell’ICI sulla prima casa (idea già sentita, se non erro), il discorso di Fassino è stato non solo lungo (come Fassino stesso, d’altronde) ma anche piuttosto ampio. Di più, onnicomprensivo. Il sentimento più ragionevole e ammirevole di partenza del PD bifronte è che deve guardare indietro e avanti, a sinistra e a destra, alla politica e alla società civile (usiamo i termini marxisti, dei quali come del maiale non si spreca nulla), sostanzialmente includendo nel proprio grembo materno chiunque non sia Fabio Mussi. Pure Berlusconi, di là dalla battutina che riporto nel titolo, un pensierino l’ha fatto, poiché appare che dalla settimana prossima il PD sarà un interlocutore che potrebbe davvero riuscire a riunire i pregi di DS e Margherita in attesa di mostrarne, inevitabilmente col tempo, i difetti. Di questo va reso atto.


L’altra sera ho visto (in differita su RaiClick) la Dandini che con Vergassola sbeffeggiava questa faccenda del pantheon del Partito Democratico, includendovi Frieda Kahlo e Topolino – ma che ve lo racconto a fare, voi state in Italia e lo sapete meglio di me, oltre ad averlo visto prima. La vera satira del Partito Democratico a tutti i costi, del Partito della ggggente vera, del Partito del pensiero giusto, l’ha fatta l’agguerritissima Concita De Gregorio (stavo per scrivere concitatissima, ma tento sempre di limitare i miei umorismi) la quale, con la fattiva e ghignante collaborazione dandinesca, ha postulato una società ideale in cui nessuno sia sposato con nessuno ma tutti abbiano fatto figli con tutti – almeno così m’è parso di capire. È probabile che mi sbagli, ma distintamente alla fine ho sentito la Dandini proporre il modello Zapatero, che non consiste nella fucilazione di tutti i cardinali ma nell’incentivo all’acquisto di una lavatrice automatica che avvia il lavaggio se e solo se riconosce l’impronta digitale di un coniuge diverso rispetto al precedente – ossia il primo lavaggio lo programma la moglie (è sempre così), il secondo deve programmarlo il marito, il terzo di nuovo la moglie e così via. Bella stronzata, benché democraticissima: e se uno dei due coniugi deve assentarsi per un convegno all’estero o, più radicalmente, decide di morire, il lavaggio chi lo avvia? Zapatero? La Dandini?


Il retropensiero è dunque: come un tempo Guareschi scriveva Compagni, votate per il Fronte: verranno i russi e vi fregheranno le biciclette, non vorrei dover trovarmi io a scrivere Compagni, votate per il PD: verrà Zapatero e vi cambierà la lavatrice. Il tono lucidamente conciliante del discorsone di Fassino, tuttavia, mi fa ragionevolmente credere che se andassi a prospettargli il pericolo, dicendogli che mi iscriverei al Partito Democratico se soltanto non ci fosse questa faccenda della lavatrice spagnola, si darebbe da fare per ovviare alla difficoltà. Oddio, da quel che ho capito dai vari discorsi – soprattutto quello di Veltroni, mister “era-democratico-Ghandi-era-democratico-Martin-Luther-King” – Fassino sarebbe pronto ad accogliermi anche se gli pongo come condizione, che so io, che il Partito non si chiami soltanto Democratico ma anche Monarchico, Teocratico, Milanista ed Erotomane.


Sia chiaro, non penso che ora come ora il PD sia un contenitore vuoto; tutto il contrario, anzi. Se vuole avere la credibilità che merita dovrebbe iniziare a svuotarsi del tutto, eliminando in prima istanza l’attuale governo e soprattutto l’alleanza con la sinistra estrema. A leggere le dichiarazioni di stamattina, un marziano (o semplicemente un italiano in Inghilterra quale sono io) crederebbe che si sia creato un governissimo fondato sull’amore (radicato negli anni) fra D’Alema e Berlusconi con Mussi, Giordano, Mastella e Maroni all’opposizione. E, per carità, c’è pure a chi piacerebbe.


Fidarsi è bene? Non fidarsi è meglio? In generale, la linea di condotta più saggia è l’attendismo (o, come una mia altissima amica conviene, la pigrizia). E nel frattempo ricordiamoci che comunque sia non prevalebunt, come direbbe il Papa che va a Pavia, mentre io sto a Oxford. Almeno fossi in Francia, potrei godermi un po’ di campagna elettorale vera e magari aiutare Sarkozy a vincere, votando per Le Pen.


Da Roma mi scrive un mio amico, giovane iscritto nei DS: “Ve stamo a fregà sur tempo. Stamo a ffà er Partito Unico der Centrodestra”.

giovedì 19 aprile 2007

Tragicommedia in una ferita

Con la sua ferita alla gamba, a seguito dell’incidente stradale sul quale si apre il romanzo, il protagonista di Niente da Ridere sembra subito una riedizione postmoderna della figura tragica di Filottete. L’eroe classico, per via di una piaga purulenta, veniva abbandonato dai suoi amici sull’isola di Lemno, dalla quale cercavano poi di riscattarlo blandendolo per farsi perdonare coi più vari sotterfugi. Gregorio Parigino, l’io-narrante cui Livio Romano dà voce, a prima vista non sembrerebbe essere abbandonato, vista la pletora di persone che gli si affanna attorno dalla convalescenza in poi; la sua vita anzi si direbbe sovraffollata, fra una moglie, due figlie, un labrador obeso, una mamma scimunita, una nonna combattiva, un’amica invadente, uno zio scialacquatore e, per non farsi mancar niente, anche un’amante imprevista.

Eppure Gregorio Parigino, insegnante salentino e corsivista saltuario, vede progressivamente frapporsi una distanza incolmabile fra sé e tutte le persone che lo pressano d’intorno. Il suo abbandono, psicologicamente più sottile rispetto a quello fisico di Filottete, consiste nel non riuscire a sentirsi adeguato a un mondo che va troppo in fretta e che gli richiede un’attenzione spropositata, salvo poi non ricambiarlo e accusarlo reiteratamente di egocentrismo e immaturità. Si trova preso in un gorgo di speranze deluse perfettamente incarnato dalla vita politica locale: individuato in lui il candidato ideale, il partito dei Verdi dapprima lo seduce e quasi lo forza ad impegnarsi in prima persona; salvo poi, passate le elezioni, lasciarlo andare alla deriva e voltargli le spalle tradendone la fiducia.

Di fronte al progressivo abbandono, o meglio di fronte al progredire della distanza fra sé e chi lo circonda, più di una volta a Gregorio Parigino pare di non essere più lo stesso. Esistono, infatti, due protagonisti: il Gregorio Parigino reale, per così dire, e il Gregorio Parigino percepito. Per fare un esempio pratico, al momento di farsi fotografare per la campagna elettorale, il Parigino pubblico si sente dire che è affascinante come pochi; al momento dello sviluppo delle foto, ingrandendone i dettagli digitali, al contrario il Parigino privato si vede triste, ripugnante, improponibile: e questo è, ai suoi stessi occhi, il Gregorio Parigino reale. Se la sua amante lo ritiene somigliante a Nicholas Cage, sua moglie non fa altro che rimproverargli il progressivo decadimento psicofisico; se dopo l’incidente sente bisogno di una lunga convalescenza, parenti e amici fanno a gara a sovrapporre le proprie esigenze alle sue. Di fronte a uno specchio, prima ancora della propria immagine riflessa Parigino vedrebbe la crepatura sulla superficie.

Livio Romano si è abilmente infilato in questa crepatura, in questa distanza che per tutti i personaggi è impercettibile ma che al protagonista appare insormontabile. Chi ha letto le sue opere precedenti si renderà facilmente conto che Niente da Ridere riesce a miscelare brillantemente gli spericolati esperimenti linguistici di Mistandivò (Einaudi 2001) con la satira e l’impegno sociale di Porto di Mare (Sironi, 2002). Questi ultimi cinque anni non sono passati invano: oltre a dare notevole spessore – anche quantitativo – alla trama di Niente da Ridere, Livio Romano ha così potuto riconsiderare alcune convinzioni, tanto formali quanto contenutistiche, che nelle sue due opere precedenti talvolta apparivano tagliate troppo di netto.

Da un lato infatti Romano viene incontro al lettore moderando i suoi primi ardimenti semantici che non di rado rendevano necessaria una rilettura più concentrata. Dall’altro canto, la tragica distanza che Parigino interpone fra sé e un mondo che sembra crollargli addosso consente a Romano di temperare le (per quanto giustificate) arrabbiature impegnate che avrebbero altrimenti rischiato di mettere in ombra la trama. Il raggiungimento di questo saggio equilibrio permette a noi lettori di avere per le mani un romanzo ben costruito, che si legge piacevolmente e che fa pensare senza essere mai stucchevole; mentre all’autore permette di riverberare la propria indubbia crescita sulla precipitosa maturazione alla quale Parigino è costretto dagli eventi.

Il ritmo forsennato di Niente da Ridere, che si sviluppa in lunghi capoversi paratattici, di tanto in tanto si interrompe e si distende: accade quando, travolto dalla propria stessa vita, Parigino si affida all’Alprazolam, un ansiolitico fenomenale nel tamponare immediatamente gli attacchi di panico ma che a lungo andare crea dipendenza e inevitabili sbalzi d’umore. Il maggior pregio tecnico di Niente da Ridere consiste proprio nella prosa di Romano, che riesce a rendere perfettamente l’idea di quest’alternanza fra consolazione e angoscia, finché non arriva il momento in cui (poco dopo la metà del romanzo) Parigino deve riuscire a sbrigarsela da solo.In quel momento, recluso nella casetta di campagna come Filottete sull’isola, capisce che la pasticchetta quotidiana è un supporto inutile se non viene accompagnato da uno sforzo interiore, e che la propria vita consiste, come quella di ogni uomo, nella continua ricerca di un Senso, con tanto di esse maiuscola. Per fortuna, tuttavia, Livio Romano è un narratore troppo furbo, e troppo divertente, da poter concludere la propria tragedia postmoderna su una morale precostituita: allora Parigino prende un’altra pillola e per la nostra gioia il romanzo continua.

mercoledì 18 aprile 2007

Nobiltà di sangue e nobiltà acquistata

(copyright Il Resto del Pallone)

Il coraggio, se uno non ce l’ha, non se lo può dare. Basterebbe essere stati un poco poco attenti al liceo, durante le ore di Italiano, per capire che Alessandro Manzoni stava preconizzando l’ambrosiana Inter, abilmente camuffata da don Abbondio; non per niente tutti e due, a ben guardare, indossano un colletto bianco. Non solo il coraggio, significava Manzoni; ma l’autoconsapevolezza, la capacità di emergere nella difficoltà, la disinvoltura nella conquista e, perché no, anche un po’ di understatement. Tutte cose che l’ambrosiana Inter, con tutta la buona volontà, non ha più da tre lustri, e soprattutto non ha mai avuto quest’anno.

Avesse vinto la partita di oggi pomeriggio, abilmente mimetizzata in un orario tale che nessuno, tranne gli stessi sostenitori dell’ambrosiana Inter, se ne ricordasse, l’ambrosiana Inter avrebbe matematicamente vinto il torneo aziendale Telecom Pirelli, intitolato alla memoria di Guido Rossi. Avrebbe potuto sostituire all’indegna patacca che vanta al centro del petto un tricolore piccino piccino picciò da nascondere lì dove la maglietta si piega per entrare nel calzoncini. Avrebbe fatto rimpiangere ai più ragionevoli dei suoi tifosi le vittorie degli anni in cui la concorrenza su vasta scala non era limitata all’Empoli e al Palermo.

Passa lu tiempo e lu munno s’avota, scriveva Salvatore Di Giacomo, ma l’ambrosiana Inter non cessa di dare soddisfazioni ai tifosi delle squadre avversarie. I miei amici ambrosianainteristi, tanto prodighi di condoglianze a seguito dei due derby, si sono eclissati dopo Bayern – Milan 0-2 (le ultime notizie che ho di loro sono: “Tanto mercoledì perdete”; aiutateci a ritrovarli), hanno conservato un preoccupante silenzio e benché sollecitati non hanno proferito risposta alcuna. Un mese fa volevano spaccare il mondo; e ora che il mondo sta spaccando loro?

La Roma non è nuova a queste imprese. Nell’aprile del 1999 mi ero preso alcuni giorni di vacanza all’interno dei quali avevo inserito gli ultimi cinque minuti di derby all’Olimpico, ai tempi in cui aprivano i cancelli e facevano entrare gratis in extremis. La Lazio più forte della storia (almeno così sostenevano) mangiava lo scudetto a grandi morsi; se non che nel derby crollano (casualmente anche in questa circostanza la Roma aveva vinto 3-1) e piano piano lo scudetto se ne va. Totti si alzò la maglietta e c’era scritto: Vi ho purgato ancora. Io cantavo Grazie Roma abbracciato a degli sconosciuti sudatissimi nei distinti giallorossi e oggi – senza distinti sudaticci e senza Olimpico attorno – ho canticchiato nuovamente solo solo come un pazzo zompettando per i giardini del college.

Perché i tifosi dell’ambrosiana Inter, se non sono tutti morti di crepacuore come invece parrebbe stando al mio telefonino, diranno magari: “Vabbe’, vinciamo lo scudetto domenica a Siena”. Se anche fosse (e ho i miei dubbi) non sarebbe la stessa cosa, non ci sarebbe lo stadio tutto esaurito, non ci sarebbero tutte quelle bandiere già pronte con la scritta 15 sul tricolore (che mi hanno tanto, tanto ricordato le bandiere con la scritta Inter Campione d’Italia 2002). Ma come sempre il capolavoro è nel dettaglio: per dare uno spessore decente alla vittoria nel torneo Telecom Pirelli, la stessa ambrosiana Inter si era proposta due traguardi storici: non perdere nessuna partita e mettere insieme 100 punti. Oggi hanno perduto, e pazienza: la Storia ha voluto che il record dello scudetto senza sconfitta restasse al Milan del 1992, quando gli avversari erano, tanto per dire, la Juventus di Trapattoni e Baggio e la Sampdoria finalista in Champions League. Hanno ottantuno punti e mancano sei partite: le vincessero tutte, arriverebbero a 99. Pazienza.

Il fatto è che appunto, come scriveva Manzoni, il coraggio se uno non ce l’ha non se lo può dare. Un giornalista spagnolo di cui dimentico il nome con preoccupante puntualità disse un giorno che il Real Madrid, o il Milan o la Juventus, è come il cavaliere nero del film I Monty Python e il Sacro Graal: prostrato quantunque, fatto a fette e ridotto a un tronco senza più né braccia né gambe, vuole ancora combattere e vincere perché è consapevole, di là dal rovescio contingente, della superiorità che gli deriva dal proprio blasone. Oggi l’ambrosiana Inter ha dimostrato di saper perdere anche senza intercettazioni: perché quand’anche il caso o gli oscuri maneggi la facciano precipitare davanti a Juventus e Milan, nella sua anima alberga la certezza - inconscia e inamovibile - che se vuole salire sul loro stesso cavallo ha da star dietro.

martedì 17 aprile 2007

Tormento e consolazione


(copyright Stilos: il quindicinale dei libri)


La frase più rivelatrice dell’esordio di Rosella Postorino non è contenuta nel romanzo ma nei ringraziamenti finali: “Se non riuscirò a scrivere, sarò sempre infelice”. Banalizzando per certi versi la polarizzazione, potremmo dire che esistono due tipi di scrittori, quelli per i quali la scrittura è tormento e quelli per i quali la scrittura è consolazione. Rosella Postorino dichiara apertamente di appartenere a questa seconda categoria, e che dunque per lei la scrittura è estromissione di sentimenti a lungo interiorizzati, covati, masticati quasi e poi – immagine cruda ma che rende l’idea – sputati sulla carta.
La Stanza di Sopra è il lento sfogo di Ester, adolescente il cui padre ammalato giace immobile e muto da un tempo che sembra eterno, così che la sua presenza in casa sia quella di un morto ancora vivo. Intorno a Ester ruotano sua madre, che non si rassegna alla propria sconfitta, un’amica che è il suo esatto opposto e un discreto numero di ragazzi che la protagonista ha l’abitudine di provocare senza mai appagarli del tutto. Tuttavia, la storia di Ester è interamente incentrata su Ester stessa, sui suoi sentimenti appena abbozzati, sulle sue reazioni sconsiderate; non a caso, a ben guardare, Ester è l’unico personaggio del romanzo che abbia un nome proprio, mentre gli altri vengono tutti definiti in relazione a lei, in quanto suoi parenti, suoi amici, suoi amanti.
Ester è il centro di sé stessa e la sua vita, pagina dopo pagina, consiste nella ricerca di un “amore ordinato”, così come la protagonista stessa lo definisce, o in altri termini di qualcuno che si prenda cura di lei, che non l’abbandoni a sé stessa. Inscindibilmente, la sua ricerca diventa quella di un’altra figura paterna, che Ester troverà nel padre della sua amica, e soprattutto il disperato tentativo di rimuovere un senso di colpa riguardo alla malattia del padre che Ester sente connaturato a sé stessa, così come viene rivelato dai frequenti flashback sull’infanzia nel corso dei quali la protagonista narratrice parla di sé stessa come “la bambina”.
La terza di copertina non ne rivela l’età precisa, ma la gioventù di Rosella Postorino fa presagire ampi margini di crescita. Lo si evince dal suo stile fatto di brevi paragrafi e di frasi spezzate, che alle volte funziona bene (soprattutto nei flashback, quando Ester pare considerarsi dall’esterno, frapponendo la distanza della crescita) alle volte funziona meno (ad esempio quando ha la visione di “papaveri come grida bocche spalancate lingue che hanno leccato il gelato alla fragola capezzoli turgidi nasi sanguinanti gole”). Altrettanto la scelta di una trama molto difficile a svilupparsi, dato che vive della completa immobilità del padre configurando di conseguenza un tempo sospeso, in cui parole e azioni sembrano galleggiare nel vuoto, e tanto più la lunghezza del romanzo, da un lato breve abbastanza da non consentire all’autrice cali di tensione narrativa, dall’altro sufficientemente lungo da far correre il rischio di qualche pleonasmo.
Trattandosi in generale di un esordio ben scritto, purtroppo risaltano maggiormente due tendenze dalle quali penso che la Postorino non farà fatica a liberarsi presto. Innanzitutto qualche ricaduta in una banalità cronachistica, aggiunta a bella posta per dar maggior spessore al personaggio di Ester e che invece per certi versi lo appiattisce: accade ad esempio dove indugia sui suoi disturbi alimentari e sulle sue “ossa sporgenti”, argomento che avrebbe meritato o un’attenzione maggiormente circostanziata oppure una completa ellissi narrativa che lasciasse intuire ciò che invece viene detto esplicitamente e sinteticamente. In secondo luogo, un certo maledettismo che qua e là traspare dal personaggio di Ester e che non sembra differenziarlo da una diffusa tendenza della narrativa giovane italiana, quasi anzi che la Postorino temesse in qualche modo di discostarsi da essa. Al contrario, calcare la mano su questa distinzione sarebbe stato un pregio ulteriore de La Stanza di Sopra.
In definitiva l’esordio di Rosella Postorino è più interessante proprio dove l’autrice non si concede al dejà vu del disagio giovanile, della vacuità del sesso, delle giornate tutte uguali. Come conferma la frase contenuta nei ringraziamenti, il meglio della Postorino consiste nel consolatorio e disperato rimuginare sui sentimenti, nella continua e tacita contemplazione del padre immobile, nella riproposizione del passato in un ardito collage narrativo. Quando non scrive degli avvenimenti ma descrive il riflesso degli avvenimenti stessi, le ferite che lasciano sul cuore.

L'Italia percepita



Breve ma necessaria premessa autobiografica: l’altro giorno m’è venuta fame e sono andato a mangiare in un locale di Oxford che si chiama Saveur de France, il cui proprietario è un inglese sposato con una brasiliana, al quale ho ordinato un – testualmente – “italiano panini”, ossia una ciabatta con dentro pomodori sott’olio, pesto, un’oliva e qualcos’altro su cui tuttora accetto scommesse. Complessivamente era buono, per carità, e ho particolarmente ammirato la dedizione e la passione con la quale l’italiano panini era stato preparato; se non che, come il suo nome doveva farmi intuire, non aveva nulla a che vedere con l’Italia.
Alla stessa maniera, qualche anno fa, la prima volta che a queste latitudini ho cercato un giornale di calcio per rilassarmi non ho potuto fare a meno di notarne uno che allora si chiamava Football Italia e oggi, più caratteristicamente, Calcio Italia. Innanzitutto, bisogna sottolineare come sia un caso unico; nel senso che non ci sono giornali paralleli, che so io, per il calcio tedesco o francese o brasiliano. Questo significa che, anche a quattromila km di distanza, l’Italia pallonara continua a esercitare un certo fascino. La seconda cosa da notare è che la prima uscita risale al 1992; il che significa che questo fascino è radicato nel tempo e non accenna a smettere.
Ciò che mi pare più importante, e per certi versi più sorprendente, è che Calcio Italia non è diretto a un pubblico di italiani lontani e più o meno nostalgici come me; ma è un esplicito tentativo di calare la realtà italiana in una griglia percettiva – se vogliamo usare un termine altisonante – che è tipica del calciofilo inglese. In questo Calcio Italia sposa talmente la tradizionale passione degli inglesi per le statistiche e la precisione minuziosa che leggendo qua e là ho appreso dei dettagli sul calcio italiano che in Italia, dove siamo più affezionati al commento strillato, mi erano del tutto ignoti. D’altra parte va considerato che la nostra stampa parte dal presupposto che noi già conosciamo tutto sul nostro calcio, mentre in Inghilterra il presupposto contrario è che chi legge non conosca niente o quasi, e che bisogna spiegargli ogni cosa per filo e per segno.
Questo porta ogni tanto a dei risultati che, a un lettore italiano, possono apparire divertenti. Sostanzialmente, da così lontano l’Italia sembra un po’ appiattita, non solo geograficamente (penate che qui una famosa ditta di caffè si vanta di farlo buono quasi quanto quello di Milano, tanto per dire) ma soprattutto nella distinzione – fondamentale per noi italiani scettici garruli e lamentosi – fra alto e basso, fra realtà più o meno desiderabili o affascinanti. Faccio un esempio: dandosi una certa magniloquenza, qui definiscono Toni “the Pavullo Nel Frignano striker”, perifrasi che nessun giornalista italiano azzarderebbe. Alla stessa maniera, ci si può imbattere in un anonimo “AC” che, estrapolato da ogni contesto, ti rende pensieroso per una mezz’ora prima di capire che non si tratta di Avanti Cristo ma del Milan, AC Milan appunto, da contrapporsi all’ambrosiana, che qui si chiama Inter Milan.
La cosa alla quale non mi rassegnerò mai, e tuttavia comune a gran parte della stampa calcistica inglese, è l’abbreviazione dei nomi. Già detesto l’idea che dalle nostre parti si parli di Sheva, Ibra e Matrix, come se il Signore non ci avesse dato una lingua per articolare suoni più sofisticati; ma su Calcio Italia, nel giro di due pagine, si trovano riferimenti a Spal (che non è una squadra di calcio ma Luciano Spalletti), Slav (che è Goran Slavkovski, il settecentesimo straniero nella rosa dell’Inter) e addirittura di Don (al quale basterebbe aggiungere una vocale per ottenere l’originale Doni). Alla stessa maniera, presumo che gli inglesi abbiano delle difficoltà a capire l’essenza stessa del calcio italiano, in particolar modo in quest’anno particolarmente surreale; in questo però Calcio Italia è veramente ammirevole, non solo per la dovizia di informazioni (o per i suggerimenti turistici dati a chi viene colto dall’insano desiderio di andare a vedere Livorno-Chievo supponendo che sia veramente una partita di serie A) ma per il tentativo di illustrare le linee generali della cultura calcistica italiana e i procedimenti psichici tipicamente sottostanti al nostro calcio, oggettivamente oscuri per chi non abbia mai visto una puntata del Processo di Biscardi.
A questo servono le rubriche fisse di Calcio Italia: l’ultima pagina di Susy Campanale, le commoventi memorie di un calcio migliore (quello con Van Basten e senza Borrelli) di Giancarlo Rinaldi e soprattutto la sociologica cartolina da Firenze di John Pitonzo (giuro che non è un personaggio di fantasia, giuro che non me lo sono inventato sull’istante), forse inconsapevole novello Andrea Barbato che conclude tutti i suoi interventi con l’esortazione: “Forza”. Probabilmente un incoraggiamento al lettore inglese che si sforza di capire come mai con la stessa palla in Italia si giochi uno sport diverso.

lunedì 16 aprile 2007

Il vestito nuovo dell'ambasciatore

(copyright Ore Piccole)
Devo recensirlo in fretta perché fra un paio d’ore incontro un’amica e glielo presto senza indugio, diffondo il verbo, a stento ho potuto aspettare di finire di leggerlo. Io raramente presto un libro, poiché il più delle volte non mi sembra il caso di ammorbare la vita altrui con le cose che piacciono a me e magari non a loro; anzi il più delle volte se un libro mi piace evito a bella posta di prestarlo in giro basandomi sul presupposto che sicuramente la gente, di qualsiasi risma o provenienza, non capirebbe, non apprezzerebbe, deluderebbe me e pure il libro se esso avesse (come io talvolta sospetto) capacità di sentimento. Ma Shalimar the Clown, come buona parte dei libri di Salman Rushdie (in Italia è stato più che ragionevolmente tradotto Shalimar il Clown da Mondadori), ha un carattere di universalità che rende possibile, praticabile, auspicabile perfino il prestito. Perciò ho fretta, prima di cambiare idea.

Non solo non presto libri quasi mai, ma ho in odio la sottolineatura. Mi ricorda la gente che studia sul serio, e la vita è tropo corta su questa misera terra per studiare sul serio; studieremo in Paradiso, se la gloria del Signore ci annoierà, oppure all’Inferno, se scopriremo come sospetto che le donne bellissime in una maniera o nell’altra si salvano. Studieremo in Purgatorio, eventualmente, qualora venissimo informati che verremo sottoposti a un esame di abilitazione celeste (Dante, Paradiso XXIV, 52-53: “Di’, buon Cristiano, fatti manifesto: / fede che è?”); fin quando siamo su quello che Beckett chiamava l’escremento sublunare limitiamoci a leggiucchiare, e non sottolineiamo affatto. Proprio proprio, quando troviamo la parola tramortente, il pensiero sconvolgente, il climax travolgente possiamo – come faccio io con estremo pudore – azzardare un’orecchia al bordo della pagina corrispettiva. Si tratta di una soluzione estrema che va presa solo in caso di estrema necessità, ossia quando si sa che lasciar scorrere un discorso, una frase o una parola sarebbe una perdita irrimediabile. Leggendo Shalimar the Clown ho fatto sei orecchie, il triplo di quante io stesso non ne abbia, già soltanto nella prima parte, che dura quarantuno pagine dell’edizione inglese. Poi molte altre, fino a pagina trecentonovantotto.
L’amica anglocanadese che fra un ora e tre quarti mi aspetta per il caffè spera di parlarmi della sua recente gita a Firenze ma non sa che verrà sommersa da mie reiterate esclamazioni per ogni orecchia del libro che le sto a sua insaputa (e probabilmente contro il suo volere) prestando. Per evitare di perdere l’unica amica che ho a Oxford (sono quello che gli inglesi definirebbero subtle tactician) sarà bene che mi organizzi cercando, se non di selezionare, quanto meno di sistematizzare le orecchie, e di lì organizzare il discorso.
Prima di ogni altra cosa, però, dovrei portarla da Caffè Nero che è il posto più buio del mondo, con delle comodissime ed enormi poltrone che ti lasciano sprofondare nell’oblio di ogni ubbia e con il sottofondo incrociato di musica a un volume leggermente più alto di quello che servirebbe a un sottofondo e il vociare indistinto dei clienti frammezzo al quale si distingue il vociare specifico degli italiani, il cui riconoscimento linguistico viene preceduto dalla consapevolezza che quando chiacchierano gridano come ossessi. A quel punto, dovrei chiederle se ritiene possibile leggere in tale barocco puttanaio qualcosa di più sofisticato della terza pagina del Sun, generalmente composta da una donna nuda e il suo nome (il nome della donna nuda, non della mia amica). Risponderebbe con ogni verosimiglianza di no; ma è un errore, poiché soltanto dopo aver finito di leggere d’un fiato le quarantuno prime pagine (con annesse sei procurate orecchie) di Shalimar the Clown mi sono accorto di star leggendo in pieno Caffè Nero. La musica c’era. Gli italiani c’erano. Però la prosa di Salman Rushdie, la prosa originale intendo (ma scrive talmente bene che anche i suoi traduttori, volessero pure, non riuscirebbero a rovinarla) ha il timbro ipnotico di un girotondo che ti incolla nel suo bel mezzo, così che tu giri e guardi e non vedi altro che il girotondo stesso - e quando smetti ti gira la testa e vomiti sulle tazzine degli italiani seduti al tavolo di fianco.
Manca un’ora e mezza, devo affrettarmi. Potrei sussumere le orecchie sotto varie etichette significative, ad esempio: le citazioni. Se Salman Rushdie fosse un bravo scrittore infilerebbe le citazioni fra virgolette, o in corsivo, o nel discorso di un personaggio particolarmente colto, o all’esergo di ogni capitolo; ma Salman Rushdie sta a un bravo scrittore come Nicole Kidman sta a una bella ragazza e le citazioni compaiono quando e dove meno ce le si aspetta, camuffate, mimetizzate nel ritmo del testo e silenziosamente speranzose di farsi riconoscere. Shakespeariane a pagina 15 (traduco pro domo mea: “era il fantasma di suo padre”); joyciane a pagina 238 (“La neve continuava a cadere, a cadere pesante, su tutti i vivi e i morti”); bibliche a pagina 380 (“ti schiaccerò col calcagno”). A che servono queste citazioni?, mi chiederà la mia amica per fare conversazione. Non a far mostra della cultura dell’autore, non a far sentire ignorante il lettore, ma a rendere la storia specifica - un ex ambasciatore americano in India viene assassinato dal suo autista – una parte del tutto, di più, una serratura sbirciando nella quale è possibile vedere il taglio universale del mondo intero, della storia, della letteratura.

A quest’uopo cade perfetta l’orecchia di pagina 24: “Gorbaciov sembrava Mosè, pensò, il profeta incapace di entrare nella terra promessa”. In una riga c’è tutto: la tragedia del singolo; il parallelo asimmetrico con la Bibbia; un giudizio politico implicito (Gorbaciov stava cercando di rendere terra promessa la terra dove già viveva) con annesso slittamento spaziotemporale (non più di geografia si tratta, ma di storia); l’ironia di Salman Rushdie nel mischiare l’alto e il basso, il consueto e il difforme (come quando ne I Versi Satanici genialmente s’inventò la dea del cinema indiano, Grace Khali). Poi c’è l’inciso pensò che attacca la retta Gorbaciov, che procede per fatti suoi, alla circonferenza chiusa in sé stessa della storia privata della figlia dell’ambasciatore, la quale lo vede in tv e pensa.
Un’ora e un quarto: ce la farò? La trama di Shalimar the Clown, in disgraziata mano altrui, avrebbe potuto diventare romanzo d’azione, romanzo rosa, romanzo storico, romanzo di maniera. Rushdie mette tutto insieme; e soprattutto crea un caledioscopio di situazioni tale che il lettore venga portato per mano in mondi paralleli e diversissimi che, a ben guardare, nascondono un fondo comune. C’è l’India, ovviamente, ma c’è l’America dove vive la figlia dell’ambasciatore, c’è l’Europa in fiamme dell’infanzia di quest’ultimo. Il suo discorso anzi sulla storia dell’originaria Alsazia (orecchia gigantesca a pagina 138) è un capolavoro di prosa ritmata, è un florilegio di storia reinterpretata, è un occhiello di retorica su una giacca elegantissima. E non solo è istruttiva, ma vive anche del parallelismo col destino dell’India (“...proprio perché veniva dall’Alsazia sperava di essere capace di capire l’India almeno un poco, stante che la parte del mondo dove era cresciuto era parimenti stata definita e ridefinita nei secoli da frontiere cangianti, subbugli e slogature, decolli e ritorni, conquiste e riconquiste...”) che a sua volta assume un senso quando si fronteggiano i destini inconciliabili dell’ambasciatore e del suo autista, Shalimar il clown, che affondano il proprio passato nella lotta per la resistenza, e che come per gli animali (stavo per dire, come nei combattimenti di cervi che la tv inglese ieri ha trasmesso in prima serata, facendomi quasi rimpiangere Panariello) prevedono un solo sopravvissuto ma in cui, a differenza degli animali, non sempre il sopravvissuto coincide col vincitore. Persone e luoghi, piuttosto, sembrano coincidere ed essere le une lo specchio degli altri. Quando l’ambasciatore parla con la sua amante, lei gli racconta di suo marito chiamandolo Kashmir, e ne loda (orecchia a pagina 197) “le montagne, le valli, i giardini, lo scorrere dei ruscelli, i fiori, i cervi, i pesci” – tutta roba di cui con un po’ di esercizio si può trovare rispondenza nel corpo di uno sposo giovane e ben messo.
Salman Rushdie è uno scrittore talmente autoconsapevole non solo da essere in grado di partecipare alle riprese di Bridget Jones senza sentirsi né onorato né sminuito (a dire il vero nella stessa scena compare anche lord Archer, che in seguito venne incarcerato, ma non per la sua recitazione; ecco, diciamo che lord Archer sta a un bravo scrittore come Renée Zellweger sta a una bella ragazza) – dicevo prima di distrarmi (e sono già le quattro), è uno scrittore talmente autoconsapevole da sapere con estrema padronanza che un romanzo è un libro che è composto di parole che si servono di una lingua. La lingua che Rushdie usa, l’inglese, è la lingua del colonizzatore. La maniera in cui la usa non è la maniera del colonizzato; piuttosto quella del geografo, dell’uomo capace con un solo sguardo di racchiudere un’intera nazione entro i suoi confini politici ed entro i propri confini percettivi. Quando Shalimar il Clown arriva in America, l’orecchia a pagina 11 ci informa che “il suo inglese era meramente funzionale. Probabilmente non avrebbe capito queste stesse parole, meramente funzionale”. Mirabile esempio di scrittura che racconta e che guarda sé stessa al contempo, il vagabondo testo di Rushdie si rivela già a pagina 9 (orecchia nell’angolo basso), quando la vicina russa della figlia dell’ambasciatore dichiara nel suo inglese stentato che rendo piano: “Non vivo oggi né in questo mondo né nello scorso, né nell’America né in Astrakan. (...) Una donna come me vive in qualche posto nel mezzo. Fra i ricordi e le faccende quotidiane.” In due righe Rushdie traccia il diagramma cartesiano storico e geografico, il principium individuationis spaziotemporale, e al contempo lo rigetta, lo supera e rifiuta – visto che stiamo già usando il latino – di trovarvi un ubi consistam.
Dov’è Rushdie, dove si colloca il suo romanzo, qual è la lingua di Shalimar the Clown? È la stessa, potenzialmente incomprensibile e anonima, adombrata nella lite a pagina 205 fra l’ambasciatore e la sua amante indiana, quando “l’inglese di lei era migliorato e lui aveva imparato anche la sua lingua. Nei momenti di maggior vicinanza, talvolta, avevano dimenticato in che lingua parlassero; le loro due lingue fuse in una sola”. L’ambivalenza fra language e tongue, la mistura delle parole e la fusione del bacio, danno la dimensione amorosa della leggera ma continua, piacevole violenza che Rushdie esercita sull’inglese, invadendolo e colonizzandolo, piegandolo ai propri bisogni, sottoponendolo ai propri desideri, cavalcandolo come sa fare solo un vero scrittore – senza lasciare mai che si ribelli, che si spezzi, che lo disarcioni. Scrivendo rende il linguaggio un abito su misura; altrimenti si sarebbe limitato a battere sulla tastiera.
Che ora è? Mancano quarantacinque minuti. Quasi quasi tolgo le orecchie, raddrizzo le pagine, rivergino il libro.

domenica 15 aprile 2007

Diciamoci la verità

Oxford è talmente noiosa che ieri mattina, per la prima volta nella mia vita, ho assecondato l’impulso assassino di entrare in un grande magazzino e di acquistare qualsiasi abito ritenessi anche lontanamente indossabile – per una complessiva spesa di trentadue sterline e mezza, circa quarantotto euri, che acquista una certa notevolezza se si pensa che da Primark, dove mi sono servito, un pantalone di discreta fattura costa quattro sterline, e una polo due e cinquanta. Tuttavia le trentadue sterline e cinquanta erano il prezzo necessario da pagare non solo per sottrarsi al gorgo della noia del weekend, quando si è troppo stanchi per lavorare e troppo stronzi per fare qualsiasi altra cosa, ma soprattutto per provare l’ebbrezza dell’ingresso in un mondo parallelo, quasi mai raggiunto da quelli che come me affogano da anni negli studi umanistici, fatto di persone normali che al sabato mattina non hanno che fare ma non lo sanno, perché sono felici e consumisti e cercano di acquistare tutto quello che possono spendendo il meno possibile al dettaglio e il più possibile all’ingrosso, sapendo magari che in prospettiva ci sono alcune cose che non utilizzeranno già mai (nel mio caso, la camicia violetta che ho scoperto nascosta in una delle due enormi buste ondeggiando in mezzo alle quali sono tornato, mogio mogio, al college.

“So you read the Guardian, then?”. Oxford è talmente noiosa che, a meno di voler spendere ogni giorno trentadue sterline e cinquanta in vestiti inutili, la cosa più divertente che si possa fare è leggere il giornale. Nella fattispecie, la mia ex collega anglocanadese è notevolmente sorpresa del fatto che un conservatore-monarchico-teocratico della mia risma non legga il Daily Telegraph bensì il Guardian (di domenica l’Observer) che è di orientamento progressista-snob. Ci sono due ragionevoli spiegazioni a questo evento meraviglioso. La prima è che, pur non essendo progressista per un cazzo, sono oltremodo snob. La seconda è che in Inghilterra leggo il Guardian (o meglio: the Guardian) per la stessa ragione per cui in Italia leggo il Foglio (o meglio: the Foglio), ossia perché è il giornale meglio scritto che ci sia sul mercato, anche se devo ammettere che le poppute signorine sulla terza pagina del Sun (o meglio del the Sun) costituiscono una quotidiana tentazione.

Ciò di cui si vanta particolarmente il Guardian, che non a caso è progressista e snob, è la netta distinzione fra la notizia e le opinioni al proposito. Se pure non ci hanno mai pensato, un ottimo slogan per lanciare il Guardian sarebbe che ci trovi le notizie di tutti gli altri quotidiani, e i commenti che non trovi in nessun altro quotidiano. Ieri, ad esempio, la notiziona da prima pagina era un’intervista a Gordon Brown. Com’è noto, Gordon Brown sta per abbattersi sulla Gran Bretagna non appena, fra un mesetto circa, Tony Blair gli lascerà la poltrona da primo ministro, e intorno alla poltrona tutta la casa di 10 Downing Street. Per chi non lo sapesse, Gordon Brown è una delle tre persone che riuscirebbero a governare peggio di Prodi (le altre due sono Ahmadinejad, che non è cattivo ma lo disegnano così, e il conte Attilio, cugino di Don Rodrigo). Per di più, Brown è pure scozzese: ragion per cui in Inghilterra lo ritengono una disgrazia più o meno inevitabile, soprattutto i laburisti. Se non che gli inglesi non lo sanno, ma anche loro hanno un Walter Veltroni (o meglio: Valter Weltroni): si chiama David Miliband, è giovane, dicono che sia carino e ha l’enorme merito politico di avere un blog. Inoltre ha il pregio non trascurabile di chiamarsi David come Cameron, e di poter così sperare in qualche confusione nelle sacche più rincoglionite del sempre più preponderante elettorato conservatore. Altri suoi pregi non mi vengono in mente. Ah, è meglio di Gordon Brown.

Non che ci voglia molto, a dire il vero. L’intervista di Brown sul Guardian (o meglio: the intervista di Brown), rivelava ieri già nel solo titolo che “la Gran Bretagna s’è disamorata della celebrità”, o meglio – spiega il povero Brown, ritratto di profilo con un’espressione sconsolata e la didascalia, giuro, “guardando il futuro” – la Gran Bretagna s’è disamorata delle persone che sono famose per la loro stessa celebrità, per essere passate in tv senza meriti particolari; la Gran Bretagna ha imparato ad apprezzare il lavoro sotterraneo e a valorizzare la serietà dei civil servants. Gli inglesi non lo sanno, ma qualche spin doctor di Gordon Brown dev’essersi accorto che questi è perfino peggio di Prodi e ha deciso di superare il maestro, riproducendone pari pari l’ultima (apparentemente vittoriosa) campagna elettorale. Ripensate al marzo 2006: lo slogan di Prodi era “La serietà al governo” (perché poi andasse in giro strombazzando su un tir giallo canarino non è dato saperlo); la contrapposizione che l’Unione rivendicava nei confronti della Casa delle Libertà era sostanzialmente: “noi siamo persone serie, voi venite votati dai teledipendenti”. Insomma, ieri the Guardian sembrava the Repubblica.

“Così tu leggi il Guardian, eh?”. Tant’è vero che gli editoriali, che si conclamano separati dalle notizie, a pagina 30 (titolo: “Getting serious”) individuavano più che un parallelismo l’incarnazione dell’amore per la celebrità a buon mercato. E qual era? Andare a comprare i vestiti da Primark. Giuro, l’ho letto cinque volte prima di rendermi conto che non si trattava di un’allucinazione (come invece quella di aver preso stanotte il caffè col Papa). Stando a the Guardian e stando a Gordon the Brown, l’Inghilterra si sta disamorando della celebrità facile e della televisione vacua e degli sconti di Primark (cinque mutande a due sterline e cinquanta, mica pizza e fichi), e se ce l’avesse si disamorerebbe anche di Berlusconi. L’Inghilterra, questa landa di mattacchioni, sta diventando seria, come Gordon Brown vorrebbe apparire nella foto in prima pagina nella quale guarda il futuro con l’intensità del plurisuicida.

Oxford è un posto talmente noioso che non c’è nemmeno una diciassettenne che, come invece avvenuto a Durham, abbia pensato bene di approfittare dell’assenza dei suoi genitori per dare un enorme party nell’enorme tenuta in cui abita, dandone notizia su MySpace. Se non che qualcuno è intervenuto cambiando il senso dell’annuncio, che alla fine suonava grossomodo: vediamoci a Durham per devastare la tipica casa posh e altoborghese. Risultato: i genitori tornano e trovano la figlioletta (e soprattutto la casa) immersa in vomito, etc., etc.; e tutto ciò che il giorno prima era sano improvvisamente era rotto, per danni complessivi che ammontano a ventimila sterline, molto più delle trentadue e cinquanta che ho colpevolmente speso ieri. Domanda legittima: anche questa diciassettenne, a detta di Gordon Brown, si è finalmente disamorata della facile celebrità? A vedere la foto sembrerebbe di no, anche se il the Guardian non specifica se i suoi vestiti (e soprattutto i suoi occhialoni da sole, che la rassomigliano a Jeff Goldblum ne La Mosca, o meglio: The Mosca) siano stati comprati da Primark. In tal caso, anche se dovrei sentirmi in concorso di colpa, i miei acquisti non mi impedirebbero di pensare che avere figli cretini alle volte è il prezzo della democrazia. Della benevolenza, della tolleranza, dell’openmindness; della serietà, per certi versi. Chi sfascerà the Inghilterra, Primark o Gordon Brown?

venerdì 13 aprile 2007

Esuli

Trasimaco è stato un mio collega di ricerca a Napoli, qualche anno fa. Gioca a rugby, studia Eudosso di Cnido e cucina fenomenalmente. L’amica anglocanadese, che a Napoli viveva nel nostro stesso appartamento, era particolarmente sorpresa che Trasimaco svolgesse qualsiasi azione cantando. Non ho mai indagato tuttavia se cantasse anche mentre giocava a rugby; mentre cucinava sì; mentre studiava Eudosso di Cnido pure. Annoiato della vita in Italia, Trasimaco vorrebbe trasferirsi pure lui in Inghilterra, o in Scozia o in Galles, o dovunque si giochi decentemente a rugby e ci sia una minima possibilità di far carriera accademica. Pertanto mi ha chiesto di informarmi: “Gurra’, cosa devo fare per venire accettato in Inghilterra, a parte nascondere che tifo smodatamente per l’AS Roma?”

Una signorina di Gravina che invece studia a Pavia da tre anni (o meglio: una signorina di Gravina che tre anni fa io ho portato di peso a studiare a Pavia) dopo Pasqua è rientrata nell’appartamento che condivide con altre tre studentesse e una di loro le ha detto: “Guarda, guarda le risaie: sembra il mare”. E la signorina gravinese: “Un ritaglio, Ele, un ritaglio di mare.”

Dalla Francia, risponde ai miei auguri – o meglio a un mio predicozzo in difesa del cattolicesimo spinto – un’amica di qualche anno fa che è di Parigi ma vive a Clichy, una delle ultime persone delle quali sia valso la pena insistere per avere un numero di telefono, una mail, qualcosa insomma che salvi dall’oblio perenne. E scrive: “Tanti auguri a te!” (confondendo, forse deliberatamente, la Pasqua di Risurrezione col mio compleanno). “Spero che tutto vada bene malgrado il tuo esilio a Oxford. Da noi, tranne il nostro ateismo, c’è stata una Pasqua deliziosa, tra giochi di badminton e lunghissime passeggiate in campagna”. The mockery of it, Joyce avrebbe scritto, cioè che canzonatura: è atea nonostante che sia una prova dell’esistenza di Dio.

Vicky è lettone (basta con la solita battuta sessuo-maschilista; è lettone con l’accento sulla e) ma si sente più Italiana di me, alle volte e soprattutto quando la Pasqua ortodossa e quella cattolica cadono insieme come quest’anno. Prende il caffè, prende l’aperitivo, al sabato va al centro commerciale e ogni giorno – che io sappia è il suo unico difetto imperdonabile – legge la Repubblica. Saranno dieci anni che sta in Italia, e le calza come un guanto; sarà un anno che mi conosce e che mi ripete: “Insomma, vorrei che ti divertissi di più”. Tradotto, mi augura di diventare più italiano, più facilone, più rilassato; in tal caso non mi sorprende di essere finito in Inghilterra, sperduto come la Roma a Manchester, e il cerchio si chiude.

mercoledì 11 aprile 2007

Dormire, morire?

(copyright Ore Piccole)

Da tempo vado sostenendo che il peggior difetto possibile per un autore sia di essere ancora vivo; e non perché, dati i miei fallimentari conseguimenti editoriali, intenda sopravvivere io solo sbarazzandomi di ogni possibile concorrenza da Dan Brown in giù, un po’ come in James Bond 007 Casino Royale Woody Allen progettava di sterminare ogni uomo alto più di un metro e sessanta per poter così godere indisturbato delle grazie di Ursula Andress. Ritengo piuttosto che ci sia una contraddizione tormentosa fra avere la parola scritta, pubblicata, fissata sul libro come – appunto – lettera morta e la contemporanea consapevolezza che l’uomo dalla cui mano sono state fissate tali parole abbia ancora una vita fluida, mangi passeggi e vada al bagno, e soprattutto possa decidere impunemente se – dico a caso – andare al cinema o allo stadio, sposare la sua migliore amica o darsi alla bestialità, convertirsi alla vera fede o diventare corsivista di Repubblica, e così via precipitando il lettore nevrotico nell’impossibilità di cristallizzarlo, dargli una buona volta una forma definitiva, sottrarlo alla vita per farlo entrare, più o meno trionfante, nella letteratura.




Nonostante il mio auspicio, tuttavia, gran parte degli autori viventi continua a sopravvivere senza vergogna né rimorso alcuno, ponendomi di fronte a serie ambasce nel momento in cui si tratta di decidere se acquistare o meno un loro nuovo libro. Oltre che nevrotico, infatti, io sono un lettore universale e tendo, negli anni o nei mesi, a leggere tutta la produzione di un autore in gran successione; cosa consolante se accade, che so io, per Dickens o per Flaubert, i quali riposano in pace da un bel po’; cosa invece assolutamente sconfortante se si tratta di Ian McEwan o di Michele Mari e così via; di modo tale che passo buona parte della mia vita nel terrore che prima o poi uno qualsiasi dei miei autori preferiti pubblichi un altro romanzo, come poi regolarmente accade.




Basicamente, ci sono tre motivi per comprare tutti i romanzi di uno stesso autore. Il primo motivo è che l’autore rientra nel ristretto empireo di persone delle quali si riconosce sia l’indiscusso talento letterario generale sia la capacità di raccontare storie che risultano sempre vicine a chi, nel particolare, le legge. Il secondo motivo è che, indipendentemente dal talento e dalla vicinanza, si è sentito parlare talmente tanto del tale autore da finire per accumulare tutta la sua produzione in serie nell’attesa di leggerla un dì, con il duplice vantaggio estemporaneo di potere: a) fingere di averla già letta dopo uno sguardo alla quarta di copertina, b) di farne bella mostra in salotto quando vengono gli amici intellettuali e darsi un tono di superiorità dicendo: “Se vuoi te li presto”.




Il terzo motivo è quello per cui sto scrivendo in quest’istante. Esistono degli autori per i quali ci si rende conto subito che non hanno alcuna pretesa letteraria (non perché non abbiano talento; ma perchè proprio non pensano all’alta letteratura quando scrivono, e grazie a Dio visti i risultati di alcuni pretenziosi magniloquenti) e che la storia che narrano – lungi dall’essere tanto profonda da sentirla universale e tangibile – è amabilmente superficiale e come tale si può attagliare a qualsiasi genere di lettore, tranne ovviamente i rabdomanti che cercano, peggio per loro, l’alta letteratura comunque e dovunque. Per mia (e vostra) fortuna non sono fra questi, e ho alcuni autori di cui non posso fare a meno di leggere qualsiasi cosa, senza che da parte né mia né loro ci sia la pretesa (né l’attesa) di avere per le mani il finalmente-grande-romanzo-che-muterà-le-sorti-della-letteratura-italiana-europea-e-interplanetaria. Un esempio è Luciano De Crescenzo. Un altro esempio è Hellen Fielding, che un paio d’anni fa mi costrinse addirittura a cercare la sua rubrica ogni giovedì su The Independent, che è la Bibbia dell’infedele britannico. Un terzo esempio è David Nicholls.




David Nicholls nasce come autore televisivo e cinematografico, ma nel 2003 ha voluto provare la strada del romanzo con Starter for 10, un divertimento che l’anno dopo è stato tradotto da Sonzogno come Le Domande di Brian. Leggero, innocuo, tenero, ricordo di averlo preso in mano un pomeriggio estivo con un certo scetticismo e di essermi ripetuto: “Un altro capitolo e poi smetto”, finché non l’ho finito tutto. E alla fine mi sono posto la domanda: perché mi è piaciuto più di altri romanzi – tecnicamente parlando – scritti meglio? Forse perché era estate? Forse, più probabilmente, perché era abbondantemente divertente? Forse perché appariva lampante che l’obiettivo di Nicholls non fosse di dimostrare quant’è bravo a scrivere (o, reazione uguale e contraria, dimostrare quant’è bravo il lettore a star leggendo) ma soltanto intrattenere, far passare il tempo?




Ci sono dei romanzi che, richiusili, fanno venir voglia di chiedere indietro i soldi; ma, paradossalmente, se pure l’editore (o, come io preferirei, l’autore) ripagasse di tasca propria il disturbo, resterebbe sempre l’insoddisfazione per aver perduto delle ore, dei giorni magari, a tentare di venire a capo di qualcosa che non meritava più che uno sguardo alla copertina. Ci sono invece dei romanzi che, quando li chiudiamo, fanno venire voglia di permuta; tradotto, di andare dall’editore (o, come io preferirei, dall’autore) per dargli indietro la copia e chiedergli in cambio un romanzo nuovo, e poi un altro, e poi un altro, e così via fino alla fine dei tempi. È il segreto dell’intrattenimento. Fosse stato per me, avrei costretto David Nicholls a continuare a scrivere un romanzo dietro l’altro, fino alla (sua) morte per consunzione. Tuttavia sono segretamente altruista, e mi sono limitato a cercare altri titoli su ogni possibile catalogo; non ce n’erano, e così ho dovuto soltanto attendere fino a che...




Fino a che, diranno i miei istruiti lettori, qualche giorno fa la Sonzogno ha messo in vendita Una Botta di Fortuna, ossia il secondo romanzo di Nicholls. No: ho dovuto attendere fino a che non sono arrivato a Oxford, un paio di settimane fa, e la prima cosa che ho fatto (a parte la doccia) è stata andare da Blackwell’s e comprare The Understudy, ovvero la versione originale dello stesso romanzo, tentazione troppo forte per riuscire a resistere quei pochi giorni che mi separavano ancora dall’edizione italiana. Basti sapere che è la storia di Steve McQueen – “bum!”, diranno i miei istruiti lettori. Macché, è proprio la storia di Stephen C. McQueen, uomo dal nome sfortunato, che per giunta vuol fare l’attore e, poiché non ci riesce, si limita a fare l’understudy, ossia quello che in Italiano si chiamerebbe il generico, colui che viene buono per qualsiasi ruolo muto (il cadavere o il fantasma mascherato, nella fattispecie) e che dev’essere pronto a sostituire il protagonista sapendo a memoria tutte le sue battute. Ovviamente il protagonista non si assenta mai.




Nel romanzo di Nicholls, il protagonista non si assenta mai perché è una specie di superuomo metrosexual; è il celebratissimo Josh Harper, giovane, bello, ricco, felice e sposato con una donna meravigliosa, della quale lo pseudo Steve McQueen s’innamora già dalla quarta di copertina dell’edizione inglese (e immagino anche di quella italiana). Stare a specificare che questa situazione dà vita a tutta una serie di episodi surreali e ridicolissimi mi sembra ridondante. Invece mi sembra più utile, per me e per voi, rimarcare che David Nicholls ha una capacità davvero notevole nella scrittura dei dialoghi, un po’ perché nasce come sceneggiatore (e sceneggiatore seriale, per la tv, così da non avere tempo abbastanza da farsi venire le crisi da pagina bianca) un po’ perché i fin dei conti l’Inghilterra è la patria del conversation novel.
Ciò che mi ha più piacevolmente sorpreso è che Nicholls abbia riproposto in Una Botta di Fortuna lo stesso schema sotteso alla trama de Le Domande di Brian. Carenza di idee? Non credo – proprio per quel che riguarda il suo nascere come autore televisivo. Sono sicuro invece che abbia voluto prodursi in una specie di variazione sul tema; come alcuni di voi ricorderanno (e chi non l’ha letto vada a comprarselo adesso, invece di perdere tempo su internet) il protagonista de Le Domande di Brian era un ragazzino che perdeva via via le proprie certezze posto di fronte alla realtà (tristanzuola) della vita universitaria; soprattutto, la comicità del romanzo stava nel tentativo di commisurare il mondo alle proprie (ingenue) aspettative e parallelamente di attendere il momento in cui egli stesso avrebbe soddisfatto le (molteplici) aspettative del mondo, superando gli esami, rendendo felice la mamma, fidanzandosi, etc.




Steve (C.) McQueen vive la stessa tragedia; le proporzioni sono anzi maggiori, poiché l’attesa del suo grande momento è diventata non solo sfibrante e frustrante, ma per certi versi ormai inutile e superata. È come un calciatore che ha trascorso la sua carriera in panchina ad aspettare che il titolare si infortunasse; è un Amleto che tenta di ricordare il monologo a memoria. Il talento di David Nicholls sta secondo me nel riuscire a voltare la tragedia (per quanto piccola e domestica) in commedia; lasciare che il lettore giri le pagine per sapere, ad esempio, perché nell’armadio di Steve McQueen II sono nascosti un dvd per bambini, un premio per il miglior attore dell’anno e la figurina più rara di una collezione che non ha mai fatto - e che al contempo, sottotraccia, faccia un po’ sua la storia umana del protagonista, si immedesimi e la contempli dal di dentro. La continua alternanza fra l’umorismo (che necessita di uno sguardo esterno, critico, eventualmente iper-razionale) e il sentimentalismo fa in modo che né Una Botta di Fortuna né, a suo tempo, Le Domande di Brian né, con ogni probabilità, i prossimi romanzi di David Nicholls risultino monocordi come molti romanzi umoristici, come molti romanzi sentimentali. Per questo continuerò a comprarli, in svariate lingue.

domenica 8 aprile 2007

In partibus infidelium

Oggi, Pasqua di Risurrezione per chi non se ne fosse accorto, io che nutro un’atavica idiosincrasia nei confronti del telefono sono stato costretto a fare una chiamata internazionale. Perché?, si chiederanno le mie ammiratrici. La risposta, piuttosto complessa, riguarda il Concilio di Trento, i coniglietti e Ahmadinejad.

Si tratta innanzitutto, di una Pasqua atipica, che sto trascorrendo non tanto forzatamente lontano da casa (non sarebbe stata né la prima né l’ultima volta, e forse è pure meglio) ma soprattutto lontano da una temperie socioculturale che, per quanto traballante, resta comunque decisiva. Tradotto: in Inghilterra sono quasi tutti protestanti. La perplessità dei miei genitori riguardo al fatto che a Oxford ci sia una sola chiesa cattolica (magari non è così, ma è come se lo fosse) coincidono con la loro perplessità riguardo al fatto che a Oxford non ci siano trattorie (e a dire il vero ce n’è qualcuna, con la dicitura Italiano Tratoria sull’insegna e la lavagnetta che esclama: Steak alla griglia!). Ci sono delle cose talmente universali, alle nostre latitudini, da sembrarci assolutamente necessarie e come tali immediatamente esportabili.

Non è così. Il cattolicesimo in Inghilterra c’è, tant’è vero che ogni domenica mi servo (avrei potuto trovare un verbo più decente, me ne rendo conto, ma fra poco ho un appuntamento e quindi vado di fretta) dagli Oratoriani della chiesa di St Aloysius. Gli oratoriani, specifico, sono l’ordine fondato da San Filippo Neri non so quando nel XVI secolo, e se non erro sono l’unico ordine secolare i cui membri hanno l’obbligo di vivere in comunità, come in un convento di frati. Basta andare a messa alla domenica (alle 11, preferibilmente) per rendersi conto che in Inghilterra i cattolici sono pochi, ma incazzatisimi: messa in Latino, canto gregoriano, comunione in ginocchio. Noialtri Italiani che siamo allergici agli inginocchiatoi (basta fare un giro durante una qualsiasi messa in una qualsiasi chiesa dell’eucaristia) dovrebbe imparare da come i cattolici inglesi si inginocchino ogni volta che entrano nel banco, ogni volta che ne escono, immediatamente prima e immediatamente dopo la comunione, in attesa della messa e dopo la fine della messa, indipendentemente che sull’inginocchiatoio vi sia un cuscino o solo il legno, tanto che in mancanza di meglio stanno giù per interi quarti d’ora sul nudo marmo del pavimento; quando c’è l’elevazione dell’ostia consacrata, non contenti di stare in ginocchio, si può leggere nei loro occhi il desiderio di sotterrarsi.

(Dettaglio inquietante #1: ieri sera, verso la conclusione del triduo pasquale, il decano degli Oratoriani ha invitato a pregare per i nuovi battezzati, e va bene, per il Papa, e va benissimo, e per Sua Maestà la Regina Elisabetta, che è fra una cosa e l’altra il capo degli anglicani.)

Il contrasto è manifesto: da un lato, dentro la chiesa di St Aloysius, ci si è fermati al Concilio di Trento e il triduo pasquale è una delle esperienze che forse segnano maggiormente la coscienza del fedele, messe di due o tre ore al Giovedì Santo (il cosiddetto Maundy Thursday, ovvero il giovedì del mandato eucaristico), al Venerdì Santo (ovvero Good Friday) e alla veglia pasquale alla sera del Sabato Santo. Tre gradini dopo ciascuno dei quali non solo i celebranti sono sfiniti e i fedeli visibilmente rinnovati, e zoppicando (soprattutto quelli che come me hanno dovuto accontentarsi di inginocchiarsi sul nudo marmo mentre veniva cantato il Tantum Ergo, che è lunghetto) si avviano verso casa. Dall’altro lato, fuori dalla chiesa di St Aloysius, in tutto il resto di Oxford e presumibilmente dell’Inghilterra intera, Pasqua non esiste più. Sembrerebbe che ne sia rimasto solo il nome, ficcato nelle grida di Easter Grill, grigliate pasquali e sui bigliettini di auguri.

(Dettaglio inquietante #2: all’uscita dalla veglia pasquale, una signora ha dichiarato che secondo lei a un certo punto della messa, comunque dopo le prime due ore, Father Tal dei Tali era sul punto di chiedere una bottiglia d’acqua e un bicchiere di gin, per poter andare avanti.)

Sembrerebbe. I bigliettini in particolare sono deprimenti, lo so bene io che preferisco mandarli a Pasqua, piuttosto che a Natale. L’abominevole chiamata internazionale, oggi, era diretta a una mia amica che da un paio d’anni è entrata in un monastero di clausura (e perciò la chiameremo, tautologicamente, Clarissa, che fa anche un po’ Samuel Richardson) e che fra poco tempo diventerà novizia. Di solito, per Pasqua, a lei come ad altri amici e benefattori spedisco un bigliettino a soggetto religioso; in Italia, con qualche fatica e benché impolveratissimi, nei recessi delle cartolerie si riesce a trovarli. In Inghilterra, dove c’è il culto del bigliettino grazioso (diciamo cozy, così rendiamo l’idea) per qualsiasi possibile occasione (dal concepimento indesiderato alla morte violenta), nei negozi specializzati i bigliettini di Pasqua contemplano: uova; fiori; altre uova; signorine ammiccanti. E coniglietti, squadroni di coniglietti, infinità di coniglietti. Io però di mandare a Clarissa, nell’anno del suo noviziato, coniglietti uova e fiori non ci penso affatto (sulle signorine ammiccanti sono invece possibilista): pertanto ho rinunziato all’idea del bigliettino, che pure mi sarebbe costato modiche quattro sterline e cinquanta spese di spedizione escluse, in favore della rischiosa telefonata domenicale.

(Dettaglio inquietante #3: nella sezione Religious matter del negozio specializzato in cartoncini, l’immagine più frequente è un coniglietto che fra i fiori trova delle uova.)

A questo punto è facile intuire che l’assoluta assenza di Crocifissi e di Risorti dall’iconografia pasquale abbia a che fare con l’anglicanismo e più in generale il protestantesimo. Come tutte le cose facili, è sbagliata. Ha a che fare con il politically correct: in Inghilterra le minoranze sono diventate maggioranza, e questo non è criticabile in alcun modo, è materia meramente demografica; in Inghilterra per rispetto alle minoranze preponderanti le tradizionali feste religiose stanno venendo svuotate di senso, stanno diventando talmente pallide da scomparire. Buona parte dei negozi di cui sopra, nelle vetrine espone non già gli auguri di buona Pasqua, Happy Easter, ma per il Bank Holiday Weekend, sarebbe a dire per il weekend col lunedì libero. Chi, come me nel 2005, ha avuto la disgrazia di essere da queste parti sotto Natale, ha avuto più e più volte il desiderio di sbattere la testa contro il muro sentendo per le strade (e vedendo sui manifesti, sulle pubblicità, sugli avvisi dei college) il saluto Merry Christimas, buon Natale venire sostituito da Merry Festivities, buone festività.

(Dettaglio inquietante #4: dopo aver rinunziato all’alcol e soprattutto ai dolci per tutta la Settimana Santa – per tutta la quaresima no, purtroppo non riuscirei a sopravvivere – oggi tutto contento entro in una patisserie e ordino un chocolate brownie, cioè un mattoncino di cioccolato grande quanto la mia mano ma pesante quanto la mia figura intera. Il tizio alla cassa si fa pagare, sorride, piglia il dolce, lo incarta e me lo dà. Mi apparto per mangiarlo in santa pace e scopro che di tutto si tratta meno di un chocolate brownie: è probabile che il tizio alla cassa, quasi sicuramente straniero e molto probabilmente italiano, non abbia capito una cippa di quello che gli ho chiesto e abbia scelto un dolce a caso. Nel momento in cui sto per tornare a porgere le mie rimostranze, una signorina si accomoda al tavolino di fronte, scarta il suo dolce e lo considera con un misto di sorpresa e incredulità. Ho rinunziato.)

Il più grande ceffone alla Gran Bretagna che il nuovo secolo possa ricordare, finora, è stato dato dall’Iran qualche giorno fa: non so quanto se ne sappia in Italia, ma prima sono stati rapiti dei marinai col pretesto che si trattasse di un arresto nell’ambito di un’operazione di controspionaggio; dopo di che, trascorse un paio di settimane, il satrapo Ahmadinejad (fidarsi del quale è come lasciarmi guidare un’automobile) ha promesso la loro liberazione come gesto distensivo ed ecumenico in occasione della nascita di Maometto (il 30 marzo) e della Pasqua cristiana. Fossero stati coerenti, gli Inglesi avrebbero dovuto rispondere che la Pasqua loro non la festeggiano, e che si accontentano del compleanno del Profeta.

(Dettaglio inquietante #5: quando ho chiamato la mia amica in monastero, la suora portinaia le ha passato il telefono dicendo: “Clarissa, c’è tuo marito.” Ma ormai dal cattolicesimo mi aspetto di tutto.)

martedì 3 aprile 2007

Andorra

(copyright Il Resto del Pallone)

Breve ma necessaria premessa autobiografica: al momento sono ospite di un college di Oxford (semivuoto per via delle smisurate vacanze pasquali di cui godono gli studenti locali) e mercoledì sera ero tutto contento perché in serata la BBC2 avrebbe trasmesso Italia-Scozia. Alle otto meno un quarto (per via del fuso orario) ho acceso la tv e mi sono piazzato sul divano del college bar; se non che alle otto meno cinque sono apparsi tre studenti inglesi (cioè un giapponese, un indiano e un giamaicano) il cui interesse per Italia-Scozia era pari al mio interesse per gli schemi del punto croce. Dopo una rapida consultazione, e tenendo presente che tre inglesi di varia nazionalità ci mettono nulla a picchiare a sangue un italiano, abbiamo deciso di cambiare canale e così Italia-Scozia si è trasformata in Andorra-Inghilterra.

Per anni ho sognato, quand’ero ragazzino, che l’Italia venisse sorteggiata nel più scabercio girone di qualificazione, con dentro almeno una fra San Marino, Liechtenstein o appunto Andorra (Lussemburgo era già troppo forte); e per questo sto aspettando con trepidazione il momento in cui incroceremo le Isole Far Oer, sempre ammesso che esistano veramente e non siano invece una rappresentativa di scapoli e ammogliati amici di Joseph Blatter. Non solo dunque ero contrariato dal repentino cambiamento di canale, ma ero soprattutto invidioso dell’evenienza che i tre inglesi multiculturali potessero fingere interesse e sofferenza per una partita il cui risultato (dieci, cento, mille a zero) era scritto prima ancora del fischio d’inizio. Mentre la ruvida Scozia, quella sì che era sofferenza.

Peraltro in Inghilterra, quando non si lavora, la cosa più interessante da fare è leggere il giornale; tale lettura mi aveva insegnato che per gli inglesi la partita contro Andorra era veramente motivo sia di interesse (perché la classifica del loro girone di qualificazione non è particolarmente sorridente) sia di sofferenza (perché tanto per dire tre giorni prima avevano pareggiato 0-0 con Israele, che non è propriamente l’invincibile armata). Vabbe’, mi son detto io e si son detti i tre inglesi multicolori (ognuno nella propria versione di lingua inglese), adesso si gioca contro Andorra, la si massacra vincendo dieci, cento, mille a zero, e passa la paura.

L’invidia è andata progressivamente aumentando, poiché il problema dell’Inghilterra si chiama Steve McClaren ed è il signore biondino seduto in panchina. Era l’assistente di Eriksson ma da quando lo ha sostituito è diventato un personaggio storico, in quanto ha privato il calcio inglese della sua caratteristica peculiare, ossia la capacità di assaltare il nemico – pardon, l’avversario – sempre e comunque, anche nella più nera situazione. Man mano che il tempo passava e Andorra non si scopriva e perfino l’Italia andava in vantaggio con maggiore autorevolezza, l’Inghilterra (intesa come squadra) veniva percorsa dall’autentico terrore di giocare, ossessionata dall’idea di star pareggiando contro Andorra, e presumibilmente più impegnata a pensare a chi avrebbe sostituito Steve McClaren entro il fine settimana. Nel frattempo l’Inghilterra (intesa come nazione intera rappresentata sia dai sovrabbondanti tifosi in trasferta sia dai tre cosmopoliti sul divano), una volta finito il primo tempo sullo 0-0, provvedeva a salutare il risultato storico con perifrasi che, poiché temo di essere letto anche da delle signorine, preferisco non trascrivere.

L’intervallo è stato irreale. L’Italia vinceva 1-0 sulla Scozia e, stando al quarto d’ora che abbiamo guardato sulla BBC2, giocava anche benino. Io non sapevo che dire, e non perché non conosco la lingua. I tre pseudo-inglesi, alle nove esatte, hanno nuovamente cambiato canale scusandosi reiteratamente e per poco non mi sfuggiva che capivo le loro ambasce, che effettivamente contro Andorra era più difficile che con la Scozia. Fortunatamente ho taciuto.

Nel secondo tempo san Steven Gerrard s’è caricato la croce e con due goal uno più bello dell’altro ha raddrizzato la storia riconducendola sui binari della retta ragione. Gli stessi inglesi di cui sopra hanno avuto il coraggio di esultare smodatamente quando Nugent, alla sua prima partita con la maglia bianca, ha segnato il 3-0 calciando un pallone che vagava solingo sulla linea di porta, a testimonianza delle sofisticate tattiche difensive degli andorrani, sempre ammesso che si chiamino così. Di modo tale che, nonostante il suo ardimentoso tentativo di pareggiare, Steve McClaren s’è salvato e probabilmente non verrà licenziato prima di giugno; ma la cosa più buona e giusta l’ha detta David Platt, indimenticabile campione di un Bari miseramente retrocesso nel 1992 e attualmente commentatore tecnico su Sky versione inglese: “Non importa che sia contro Andorra, quello di Gerrard è grande calcio giocato da un grande calciatore”.