lunedì 29 aprile 2013


Finalmente domenica!
Trentaquattresima giornata, 28 aprile 2013

Proprio ieri pomeriggio, mentre stendevo i calzini, mi interrogavo riguardo al dono della sintesi. Sto organizzando un ciclo di pubbliche letture di classici e avevo trascorso la mattinata a ridurre l’Ulisse di Joyce in un’ora di discorso, partendo dal problema che l’Ulisse consta di circa 700 pagine che coprono un lasso di tempo che va dalle 8 del mattino alle 3 di notte della stessa giornata, per complessive diciotto ore in diciotto capitoli. Ho scartato l’ipotesi di selezionare brani da un unico episodio perché, concentrando tutta la lettura in una determinata ora della giornata, pur godendo dell’effetto tempo reale avrei tradito la complessità dell’opera. Ho scartato anche l’ipotesi di selezionare un brano da ogni capitolo perché avrei avuto a disposizione tre minuti di lettura per capitolo; tre minuti ad alta voce sono una paginetta e la danza delle ore sarebbe diventata insensata oltreché convulsa. Ho scartato infine l’ipotesi di seguire la trama perché essa è talmente diluita che avrei dovuto optare per una lettura pressoché integrale trasformando il reading in sequestro di persona.

Alla fine ho risolto tagliando e incollando pezzi sparsi da alcuni capitoli cercando di inseguire un episodio che desse il senso della trama generale. Se nel corso della giornata descritta il protagonista viene tradito dalla moglie con un impresario musicale e la scena del tradimento non viene mostrata se non per allusioni e sospetti, quindi è  tecnicamente illeggibile; in compenso da vari passi emerge che il protagonista è consapevole della cronica infedeltà della moglie e suppone una più che verosimile lista di amanti dei quali fornisce nome e cognome in ordine di apparizione. Poiché incontra uno di costoro a un funerale, e lo affronta brevemente per avvisarlo che il suo cappello è ammaccato ricevendone un “Grazie” sgradevole, ho preferito selezionare questa scena decorandola con vari momenti nei quali viene incidentalmente adombrato il passato tradimento della moglie col tizio del funerale. Il senso della trama è salvo, spero, benché l’evento chiave non venga mostrato per nulla.

Vale anche per le sintesi delle partite: c’è una grande differenza fra l’usanza ormai invalsa di mostrare spezzoni giustapposti della cronaca originale e presentare un servizio compiuto in cui con le stesse immagini si spiega perché e percome è successo ciò che è successo. Questa contraddizione raggiunge apici inattingibili con le sintesi in cui la Rai, imitando Sky, presenta due minuti di colpi apoplettici del cronista di (poniamo) Atalanta-Bologna senza considerare che, mentre Sky si limita a ritagliare gli eventi chiave di una telecronaca già trasmessa in diretta il cui senso poteva giudicare l’emozione in differita, la Rai ritaglia i medesimi eventi da una telecronaca che sarà tutt’al più trasmessa integralmente tre giorni dopo alle dieci del mattino su oscuri canali a doppia cifra, giustificando molto meno l’urlo straziante per un fallo laterale.

Dice che lo spirito vivifica e la lettera uccide; è vero. In questi giorni sto anche traducendo un libro di Voltaire e per quanto cerchi di serbarmi il più fedele possibile al testo originale, altrimenti la filologia va a farsi benedire, devo altresì ricordarmi che duecentocinquant’anni fa era stato pubblicato con l’intento di divertire il lettore nel complesso, e non di fargli leggere le parole una a una. Quindi, se qualche battuta che nel Settecento funzionava venisse oggi tradotta letteralmente, finirebbe per non far ridere nemmeno Michelle Hunziker; bisogna riscriverle e renderle veloci perché in questi tempi forsennati causino la stessa reazione che nel più posato secolo diciottesimo. Nel caso delle traduzioni il dono della sintesi è fondamentale, è come il q.b. nelle ricette. Umberto Eco diceva che Dumas père aveva allungato a dismisura il Conte di Montecristo poiché veniva pagato un tanto a rigo; di conseguenza, oggi che si pagano i redattori perché un testo non superi la massima brevità possibile al risparmio, il Conte di Montecristo andrebbe tradotto senza superare le duecento paginette.

Anni e annorum or sono il Corriere della Sera lanciò un concorso per chi riuscisse a sintetizzare massimamente i classici dellaletteratura in un sms. Quasi tutti cercavano di ficcare in meno di 160 caratteri tutti gli avvenimenti narrati; esempio un po’ drastico, I promessi sposi, “Renzo e Lucia, dopo varie peripezie, si sposano”. Partecipai anch’io, perché non si vinceva niente. Anna Karenina: “Mi scusi, signora, sa a che ora parte il prossimo treno per Jasnaja Poljana?”. La coscienza di Zeno: “Smetto quando voglio”. Critica della ragion pura: “Facciamo un’ipotesi”. Horcynus Orca: “Giuro, una volta ne ho pescata una grande così!” (vale anche per Moby Dick). Lo stesso Ulisse: “Tesoro, esco a fare due passi”. Finnegans Wake: “Scusa per fvr m rimnd il msg? Nn s cpv veramente un kz”. Ritengo però insuperabile il genio che (in un’altra circostanza, credo sul Sole 24 Ore) così sintetizzò I miserabili di Victor Hugo: “Uscì di galera e sistemò una cosetta”.


[L'altra metà della rubrica, in cui Francesco Savio fa il veggente, si trova come ogni lunedì su Quasi Rete, blog letterario della Gazzetta dello Sport.]

sabato 27 aprile 2013


Noi siamo un popolo semplice, che si emoziona perché Eva Henger si risposa in bianco con rito civile in una chiesa sconsacrata; figuriamoci se non dobbiamo emozionarci per il porno femminista. Apriamo D di Repubblica e leggiamo un articolo che inizia: “Il porno rappresenta una parte importantissima della nostra cultura. Le donne non possono ignorarlo”. Apriamo l’Espresso e leggiamo un articolo che inizia: “Porno è donna, e la rivoluzione femminile è in atto”. Su D viene intervistata la regista Erika Lust, “femminista, sguardo intelligente”, la prima a “restituire dignità artistica a un genere come la pornografia, da sempre concepito ad uso e consumo degli uomini, e forse abbrutito proprio da questo”. Sull’Espresso si parla delle otto creatrici di “Dorcelle”, sito per lei creato sulla piattaforma del megaproduttore porno francese Marc Dorcel, la cui novità consiste nell’“offrire film hardcore che vadano incontro ai gusti femminili, rispettino le loro esigenze e stimolino i loro desideri, senza mai rinnegare l’essenza stessa del porno”.

E se la differenza non vi è chiara, su Tempi in edicola questa settimana spiego tutto quello che non avreste mai potuto sapere sul porno femminista (e sui thriller senza cadaveri). Ora anche sull'edizione online del combattivo settimanale.

domenica 21 aprile 2013


Finalmente domenica!
Trentatreesima giornata, 21 aprile 2013

Me ne frega assai di chi eleggono presidente della repubblica, visto che sono monarchico. Ieri ho fatto un test su un quotidiano per calcolare la mia età mentale in base ad alcune semplici domande. “Come trascorri la domenica?” Guardando il calcio in tv, che domande. “Qual è la cosa che ti fa più paura?” Gli extracomunitari. “A che ora vai a dormire di sera?” Verso le undici e mezza, altrimenti oggi non starei già scrivendo alle sette del mattino. A farla breve, per fortuna non venivano forniti numeri precisi ma è emerso che sono un uomo di mezz’età, con occasionali puntatine nella vecchiaia e dunque – spero – nella saggezza, anche se in Italia tutti sono convinti che la felicità consista nell’adolescenza eterna. Meno male che fra le domande non c’era un bel “Chi  vorresti al Quirinale?”, perché avrei risposto grossomodo: l’unico che abbia diritto ad abitare al Quirinale è il Papa e gli altri, chi più chi meno benevolo, sono tutti usurpatori che non pagano l’affitto. In tal caso sarebbe emerso che ho almeno 190 anni e il test sarebbe andato in tilt.

Però, com’era sexy Laura Boldrini ogni volta che diceva “Rodotà”, con quella puntina di superiorità mista a rassegnazione, come a dire: “Io vi capisco, ma che possiamo farci?”. È proprio bella, roba da mettersi a guardare lo spoglio per ore e ore senza più contare i voti, roba che al confronto le cravatte rosa di Gianfranco Fini diventano grigio pallido. Mi ha fatto venire in mente l’accorata protesta di un mio amico un po’ oltranzista: “Perché quando in tv mostrano le manifestazioni della sinistra antagonista è sempre pieno di [omissis] mentre alle manifestazioni a cui vado io ci sono solo pelosissimi obesi calvi di Casa Pound?”. Forse perché vai alle manifestazioni di Casa Pound, gli risposi; meno male che, dicevano Sylvia Plath e Gemma Gaetani, ogni donna ama un fascista. E viceversa, aggiungeva una mia fidanzatina: ogni fascista ama una donna, un fascista ama ogni donna, una donna ama ogni fascista e ogni donna fascista si ama.

A proposito, non vi dico quando è arrivata la Mussolini (che anni e annorum or sono Marcello Veneziani gratificò di un “Benita bonita”) e si sono messe a fare il confronto fra il tailleurino rosso della mora e la maglietta attillata della bionda. Era da certi film degli anni ’80 che non vedevo scene così. Mi sono domandato se, mentre diceva “Rodotà” con tono di vago rimprovero, alla Boldrini non venisse in mente la foto che per qualche tempo è circolata anche sui giornali in cui veniva ritratta una donna completamente nuda e depilata in certi punti nevralgici, della quale si diceva con grande insistenza che fosse Laura Boldrini nonostante che non somigliasse per niente a Laura Boldrini. La fonte della foto fasulla era internet, esattamente la stessa fonte della candidatura di Rodotà; ognuno tragga le conseguenze debite. Com’erano teneri i grillini che al momento della proclamazione dei risultati scandivano “Ro-do-tà! Ro-do-tà!” senza sapere bene chi fosse; mi ricordavano le studentesse Erasmus alle quali i più cattivi fra i pavesi suggerivano che il sandwich in italiano si chiamasse pompino, così quelle inconsapevoli lo ripetevano al barista con grande insistenza creando imbarazzo; viene quasi da ringraziare quelli che li hanno mandati in parlamento pensando: “Insomma, se tutti i politici sono uguali allora votiamo questi qui che quanto meno sono evidentemente peggio”. Nichi Vendola, che ha sempre saputo fiutare dove va il mondo, ha capito subito che le nuove tendenze della politica sono queste qua (“Ro-do-tà! Ro-do-tà!”) e s’è prontamente adeguato: il prossimo passo sarà la virtualizzazione della sanità pugliese. La flebo te la facciamo su twitter; il catetere te lo mettiamo su facebook; il medico curante sarà scelto con un sondaggio fra internauti e potrai sempre tenerti in contatto via skype coi nostri assessori, anche se dovessero arrestarli tutti.

Ma la Boldrini mi piace, con o senza Mussolini; pertanto mormoro un Atto di Dolore e passo a ripescare considerazioni serie che avevo scritto sul Foglio esattamente un anno fa, quando per la prima volta si era ventilata l’ipotesi di una rielezione di Giorgio Napolitano, ispirato dalla lettura di un bel saggio di Maurizio Ridolfi e Marina Tesoro che s’intitola appunto Monarchia e repubblica. “Il caustico Filippo Turati sosteneva che passare dalla monarchia alla repubblica consistesse alla fin fine nel cambiare lo stemma dei tabacchi; sotto qualsiasi forma di governo gli Italiani sarebbero rimasti gli stessi. L’hanno dimostrato le recenti reazioni al rifiuto opposto da Napolitano all’idea di una rielezione al Colle: i sentimenti più diffusi al riguardo erano tipicamente monarchici, ossia l’auspicio di un prolungamento indefinito (o vitalizio) dell’incarico e la speranza nell’indicazione più o meno esplicita di un successore. Abbiamo conservato un immaginario monarchico montato piuttosto goffamente su un apparato repubblicano”. A chi strepita vorrei far notare che, uno, la formula utilizzata ieri dalla classe politica per convincere Napolitano era la classica supplica al monarca e, due, che nelle votazioni preliminari qualcuno aveva votato il figlio ed erede Giulio Napolitano, che non ha i requisiti.

Lo so, ragionare è facoltativo, quindi continuiamo l’istruttiva rilettura. “L’ideale repubblicano in Italia risulta ondivago nell’adozione di simboli: i mazziniani battono ora bandiera rossa, ora nera, ora verde. Non riuscendo a produrne di propri, si ricorre a simboli altrui: durante la Settimana Rossa del 1914 si canta la Marsigliese, al congresso del Pri del ’22 si riesuma la torcia giacobina. Quando nel ’24 lo stesso partito prova a introdurre tre campane non ha particolare fortuna. Le sigle e gli stemmi che si alternano sui tricolori repubblicani tanto dei partigiani quanto della Rsi vengono dimenticati in men che non si dica. I repubblicani vittoriosi si sono affrettati a eliminare lo scudo monarchico dal centro del tricolore, ma al suo posto cos’hanno messo? Nulla”.

Mi piace pensare che il voto a Giulio Napolitano (che non ha i requisiti) sia dovuto a un qualche monarchico nascosto; è pertanto la terza scheda nella classifica delle mie preferite, dietro all’inarrivabile Conte Mascetti e al doroteo “Massimo Prodi” di venerdì  pomeriggio. Ora, non serve essere Matteo Renzi per notare la differenza fra Stato e Chiesa e capire che, se gli Italiani avessero avuto un’età mentale leggermente più avanzata, al Quirinale avrebbero lasciato il Papa. Sarà stato l’effetto del gabbiano sul comignolo che metteva fretta, ma penso di poter escludere che i conclavisti prima abbiano votato Valeria Marini e Michele Cucuzza (su Rocco Siffredi non me la sento di giurare), poi abbiano scelto un candidato condiviso senza assicurargli la maggioranza necessaria, poi i progressisti abbiano scelto un candidato da eleggere per conto proprio senza riuscire a farlo, poi siano andati in pullmino a Castel Gandolfo per convincere Ratzinger, riluttante, a un secondo mandato. 

[L'altra metà della rubrica, opera di Francesco Savio, si trova come sempre su Quasi Rete, blog letterario della Gazzetta dello Sport.]

venerdì 19 aprile 2013

Molto più sentita era parsa la lettera che Margaret Thatcher aveva inviato al Somerville College nel 1980, poco dopo l’ingresso a Downing Street, ricordando quanto si sentisse debitrice al college in termini di amicizia, creatività, speranza e libertà durante la guerra. “Ci sono stati anni di cinismo corrosivo”, concludeva: “passano, e il meglio sopravvive. Ho amato quegli anni, li ho amati davvero”. Oxford non l’ha ricambiata.

Centri conferenze, dottorati ad honorem e cacciabombardieri: sul Foglio in edicola oggi faccio una breve storia dei controversi rapporti fra la Thatcher e Oxford.

lunedì 15 aprile 2013


Finalmente domenica!
Trentaduesima giornata, 14 aprile 2013

Oggi sono stato a Bari, a Taranto, a Napoli, a Roma, a Bologna, a Torino e a Marsiglia ma, non avendo tempo di vedere tutte queste città in un giorno solo, mi sono limitato a fare un salto a Genova che le comprende tutte. Il vecchio Guido Piovene, che nel 1957 aveva intrapreso il suo Viaggio in Italia eternato in un volume monumentale che qualcuno dovrebbe decidersi a rifare (possibilmente non Concita De Gregorio né Beppe Severgnini; se mi pagate per un anno, mi offro volontario), scriveva che Genova e Bari erano due città simmetriche, l’una settentrionale e l’altra meridionale. La peculiarità era che quella settentrionale era Bari. Genova infatti all’istinto commerciale ancipite – che un po’ blandisce l’ospite, un po’ intende fregarlo ma senza antipatia – tipico anche di Bari aggiunge manie di grandezza che sono nettamente napoletane. È evidente il perché: Napoli come Genova è stata capitale, Bari no, e ad avere manie di grandezza sono buone tutte le città (anche Pavia, alle volte) ma non tutte riescono a potere permettersele. Inutile che stiamo qui a contarcela con ipocrisia quirinalizia: l’Italia è stata grande solo spezzettata mentre l’unificazione l’ha rimpicciolita, laicizzata, burocratizzata, rattrappita. A queste manie di grandezza, in realtà, Genova aggiunge anche un’imbarazzante strada sopraelevata ad alto scorrimento sul lungomare, intitolata ad Aldo Moro santo patrono del compromesso, su cui le automobili sfrecciano pensando di essere a Tokyo e invece dando l’identico effetto visivo di Taranto; da un momento all’altro, guardando la sopraelevata, ci si aspettava di volgere gli occhi a mare e vedere in lontananza, anziché la lanterna, un ponte girevole.

Il punto comune con Napoli resterebbe monco se mancasse il bathos, ovvero il precipizio nel quale sia Napoli sia Genova addiacciano le suddette magnificenze: i decumani. A Napoli sono in parallelo, San Biagio dei Librai, ovvero Spaccanapoli, e i Tribunali; a Genova sono in successione, via del Campo che diventa la Maddalena che diventa via di Prè. Sono i posti descritti da De André con perifrasi perfetta (“i quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, perché troppo stretti e poveri per poter essere illuminati più di mezz’ora al giorno) e che dagli adepti di De André sono forse stati rovinati a forza di migliorie: via del Campo ospita un centro per intellettuali di sinistra aromatizzati al caviale dedicato ai cantautori genovesi, imperniato su un mercatino di gadget inutili e costosi. Lì si trasmettono soffuse canzoni di Luigi Tenco e Ivano Fossati, di fianco i fruttivendoli vendono melette rigate che inoculano il marciume nell’anima solo a guardarle; sembra di passare istantaneamente dagli inserti patinati di Repubblica alla carta igienica con la reiterata scritta “Ferrovie dello Stato” in bluette.

La fauna presente attorno alla darsena dà l’idea di coincidere pienamente con Khartum, ma da fonti indirette ho appreso che in Sudan gli indigeni non cercano di venderti poltiglie gommose le quali, sbattute su un tavolino, dapprima si spalmano e poi si rapprendono tornando alla forma originaria. Purtroppo ai bambini piacciono i giocattoli schifosi; per fortuna non ho ancora figli quindi posso guardare e passare. Se fossi stato a Marsiglia, la parte marina di Genova le somiglierebbe; invece essendo stato a Bologna posso assicurare che via XX Settembre, lo stradone porticato che oltrepassa il ponte monumentale, è via dell’Indipendenza; coincide persino la lieve salita, percettibile ma non noiosa. All’inizio di via dell’Indipendenza c’è piazza Maggiore e all’inizio di via XX Settembre c’è piazza de Ferrari la quale, a parte il palazzo trompe l’oeil della Borsa che ha la forma di una barca emersa sfondando il cemento, è una zampata sabauda in cui Genova finge di essere Torino. Il problema è che alla fine di via dell’Indipendenza c’è la stazione di Bologna mentre alla fine di via XXV Aprile non si sa perché uno si accorge di star andando non solo in direzione opposta alla piazza ma anche in direzione opposta alla stazione, in direzione opposta al mare, in direzione opposta ai carruggi; pertanto si ferma, si chiede: “Dove cazzo sto andando?”, e torna indietro a precipizio, verso il bathos, verso il mare, verso la vita.

Per gli appassionati, la concentrazione variegata di prostitute ai crocicchi promette prezzi concorrenziali, sui quali non ho avuto tempo di documentarmi con precisione anche perché nella circostanza la mia assoluta priorità era di uscire dai carruggi senza riportare traccia di coltellate. È notevole che all’altitudine sul livello del mare, all’interno della stessa città, coincida chiaramente un diverso grado di ricchezza se non di civilizzazione; accade anche a Napoli, dove in alto ci sta il Vomero. A Bari, invece, non ci sono salite. L’unica cosa bella della casa di Cristoforo Colombo è la bigliettaia; i turisti che vi entrano sono tutti americani e sono la seconda cosa più interessante del monumento. Se si cala dall’adiacente Porta Soprana invece si arriva ai Liberi Giardini di Babilonia, di fronte alla chiesa di Sant’Agostino, dove un gruppo di rasta intrattiene i passanti con una musica esattamente uguale a quella della canzone di Elio che sta spopolando oggidì e che si chiama Complesso del Primo Maggio, in cui si asserisce che “la musica balcanica ci ha rotto i coglioni / è bella e tutto quanto ma alla lunga rompe i coglioni”. Agli amici babilonesi manca purtroppo questa serena consapevolezza.

Non a tutte le chiese capita lo stesso destino. Di fronte alla Cattedrale di San Lorenzo c’è un finto cappuccino che resta seduto a mezz’aria grazie a un trucchetto (sotto il saio nasconde uno sgabello, basta guardarne l’ombra per accorgersene); una pattuglia di carabinieri, anziché arrestarlo per stregoneria, lo guarda tutta divertita. È, incidentalmente, l’unica presenza di forze dell’ordine in tutta la città. La Chiesa del Gesù è grasso barocco che cola doratissimo; bisognerebbe organizzarci pellegrinaggi di cattolici confusi che credono che Papa Francesco sia povero perché gesuita. Spettacolare anche la basilica di Santa Maria delle Vigne, talmente bella che la tengono nascosta per non consumarla e anziché ai turisti la aprono alle prime comunioni; la si nota solo se, girando per l’apparato digerente di Genova, si alza lo sguardo e si vede un campanile atipico, puntuto. Allora si inizia a girare attorno a questo punto di riferimento aereo finché ci si imbatte nell’ingresso della chiesa quasi casualmente; in premio si riceve la visione di un cartello sul quale è segnato il cellulare del parroco, per ogni evenienza e soprattutto per le emergenze che in zona non devono mancare. Va specificato che questo girare attorno è figlio della peculiare idea che i genovesi hanno dell’andare dritto. Gli edicolanti – che incidentalmente sono tutti gentilissimi, paterni e logorroici – ci danno indicazioni dicendo “Andate dritto qui, andate dritto lì”; noi ci fidiamo e andiamo dritto e per prima cosa sbattiamo immancabilmente contro un muro. Andare dritto a Genova significa assecondare ciecamente serpentine ignote, dietro le quali potrebbe annidarsi ciò che hanno in effetti detto gli edicolanti.

Dalle tre alle cinque del pomeriggio in giro non c’è nessuno, se si escludono ovviamente i turisti che non si addentrano fin dove ardiamo noi e i magrebini integrati che presidiano determinate strade della Casbah. Dalle finestre aperte si sente il rumore di pugni battuti su tavoli imbanditi: chi non è allo stadio sta guardando Genoa-Sampdoria in tv con un certo nervosismo. Il nostro trattore ci assicura che quelli del Genoa non sono scudetti, sono diplomi vinti col Cepu di fine Ottocento; non abbiamo osato chiedere a dei genoani in cosa consistesse lo scudetto vinto dalla Samp una ventina d’anni fa. Abbiamo tutto l’agio di leggere le scritte sui muri, che incitano all’insurrezione armata – quelle più moderate – oppure elogiano l’operato di Don Gallo, dando l’impressione che se Bologna è una città rosso vermiglio allora Genova è una città rosso carminio. Don Gallo è una presenza incombente e fissa, che occhieggia da qualsiasi muro e che in un manifesto ciclostilato viene addirittura definito “angelo”, secondo una tendenza che accomuna la psicologia religiosa genovese al culto pagano del Cardinal Martini recentemente instaurato dal Corriere della Sera. A un certo punto un urlo trafigge l’aria limpida e callida, quasi estiva, con parole che non si possono ripetere: ha segnato la Sampdoria. Oggi sono andato a Genova a non vedere il derby.


[Il resto della rubrica, in cui Francesco Savio va in bici senza sellino, si trova come ogni lunedì su Quasi Rete.]

lunedì 8 aprile 2013

Finalmente domenica!
Trentunesima giornata, 7 aprile 2013


L’italiana tendenza a correre in soccorso del vincitore ha come correlativo istintuale la divisione del mondo percepito in contrari opposti, nominalmente “noi” e “gli altri”, dove “noi” ha contenuto e perimetro variabili che portano al frequente cambio di identità e caratteristiche de “gli altri”. Ogni volta che asseriamo che noi siamo così e così, sottintendiamo la distanza da altri che sono così e colà; quando invece accusiamo gli altri di fare questo e quest’altro, sottintendiamo che noi invece avremmo fatto quello e quell’altro ancora. L’unica cosa che resta costante nell’autodefinizione dell’Italia è il contrario, per questo ci riesce bene inventare contrasti dissacranti: così pensavo ieri sera leggendo T’odio empia vacca, aureo libretto ormai tristemente fuori commercio che Rizzoli aveva pubblicato nel 1994 e che raccoglieva puntate rimaneggiate della rubrica che Giampaolo Dossena teneva sul Tuttolibri de La Stampa. Dossena (che non ha mai giocato né nel Torino né nella Sampdoria) invitava i suoi lettori a esercitarsi nel capovolgere il senso delle poesie mandate a memoria, usando il contrario parola per parola e producendosi così in un atto d’insubordinazione contro la quinta elementare. “T’odio empia vacca” è l’immediato capovolgimento di “T’amo pio bove”, scelto da lettori a decine per quanto io preferisca la versione più surrealista di Toti Scialoja: “T’amo pio bue / anzi, ne amo due”.

Nel ’94 facevo appena il liceo e ricordavo che il riverbero del gioco arrivava fino ai nostri banchi: ultimamente mi sembrava di discernere nella memoria un capovolgimento del “Sempre caro mi fu quest’ermo colle” che era diventato “Non mi ha mai fatto schifo questa pianura piena di gente”, col beneficio del dubbio metrico che non mi tornava affatto; leggendo tuttavia il falso originale, scoprivo che la versione contraria esatta suonava più coerente: “Mai odioso sarà quell’imo piano / (…) e navigar m’è amaro in questo stagno”. 

“Pianto antico” di Giosue Carducci diventa “Riso novello”: non più “l’albero a cui tendevi / la pargoletta mano” ma “l’erba onde ritraevi / il grosso tuo piedone”. Il “Rio Bo” di Palazzeschi (oggi una discoteca di Gallipoli, fondata l’anno successivo al libro di Dossena) diventa il siberiano “Fiume Ob”. “La donzelletta vien dalla campagna” ma “la modellista è in metropolitana”, e capovolgendo il pessimismo leopardiano non è che si ottenga del grande ottimismo: “Questa di sette fu la peggior notte, / disperata e angosciosa”. “L’inno di Garibaldi” – “Si scopron le tombe, si levano i morti, / i martiri nostri son tutti risorti” – diventa “Il lamento di Franceschiello”: “Si velan le culle, si corcano i nati / i vostri aguzzini son tutti sdraiati”. D’Annunzio rettamente suona “Settembre, andiamo. È tempo di migrare” ma rovesciato diventa: “Marzo, venite. C’è spazio per restare”. Montale originale (“In questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”) è quasi peggio del suo ribaltamento: “In quell’allontanarsi da un fossato / che ha in fondo un piatto intero levigato”. Solo da Torino poteva arrivare il capovolgimento di “Oh! Valentino vestito di nuovo”, trasformato per solutori piemontesi più che esperti in “Parco Ruffini spogliato all’antica” mentre la chiosa della poesia è rivolta all’uomo universale tanto in Pascoli (“come l’uccello venuto dal mare / che tra il ciliegio salta, e non sa / ch’oltre il beccare, il cantare, l’amare, / ci sia qualche altra felicità”) quanto nella sua parodista Giovanna Landi: “siccome il pesce che va sulla terra, / striscia nell’erba, e ignorare non può / ch’oltre il lambire, il parlare, l’odiare / ci sono ben altre calamità”.

Risultato, stamane sotto la doccia anziché cantare mormoravo una mia estemporanea composizione antonimica: “Il mesto Renato / sarà sopra il grano / con calma mancato / da un truce varano, / e in parte depresso, / sciogliendolo estinto, / pensava di presso: / ‘L’ho spinto! L’ho spinto!’ / A lui comandando / gioioso tacè: / ‘Morendo, atterrando / che bene me n’è? / Tu mi dai diletto / lisciandomi il petto. / Dai, stringi: sei tu / zio di Belzebù.’ / Sfrontato, marrano / Renato sbiancò: / contrasse la mano / e quello schiattò”*.

Proprio in virtù dell’istinto italiano alla contrapposizione dei contrari, il gioco riesce interessante anche coi titoli dei quotidiani. Proviamo. “Bersani: no al governissimo” diventa “Berlusconi: sì a una piccola anarchia”, sempre ammesso che il contrario di Bersani non sia Renzi. “Maroni: case popolari ad affitto zero e aiuti regionali alle piccole imprese”; “Vendola: ville extralusso a costi esorbitanti o gabelli statali sui grandi fannulloni”. “Vucinic in mutande e Conte non gradisce”; “Quagliarella senza canottiera e a Stramaccioni piace”. “Giornalista muore di freddo mentre fa il reportage sui senzatetto”; “Scrittore vive accaldato dopo una vacanza su un superattico”. “Milano, sole sulla domenica senz’auto”; “Napoli, neve sotto il lunedì col triciclo”. “L’istante prima di cadere dalla seggiovia”; “L’ora dopo essere saliti sul trampolino”. “Topo Gigio va alla conquista di Hollywood”; “L’Uomo Ragno catturato a Campobasso”. “Le Olgettine: Ruby ci ha rovinato per diventare famosa”; “Femen: Concita De Gregorio ci ha arricchite per restare umile”. “Strega: Cuffaro in gara col libro scritto in carcere”; “Campiello: Crocetta escluso senza cd cancellato a piede libero”. “C’è un auto nel Po, i vigili la ripescano”; “Non c’è un cavallo sul Tavoliere, la mafia ce lo getta”. Alternando sagacemente sinonimi e contrari, si ottiene il precipitato del giornalismo dei vaticanisti: “Francesco, il pontefice umile venuto da lontano”; “Benedetto, il papa presuntuoso arrivato da vicino”.


*Nota. L’originale suona: “La vispa Teresa / avea fra l’erbetta / a volo sorpresa / gentil farfalletta, / e tutta giuliva, / stringendola viva, / gridava a distesa: / ‘L’ho presa! L’ho presa!’ / A lei supplicando / l’afflitta gridò: / ‘Vivendo, volando, / che male ti fo? / Tu sì mi fai male / stringendomi l’ale. / Deh, lasciami: anch’io / son figlia di Dio’. / Confusa, pentita / Teresa arrossì: / dischiuse le dita / e quella fuggì”.

mercoledì 3 aprile 2013

Il governo dei gesuiti: sul Foglio di oggi racconto il caso della repubblica cristiana del Paraguay, la grande teocrazia sudamericana istituita fra il 1580 e il 1766 in cui i reverendi padri erano monarchi assoluti, capi dei servizi segreti, commercianti di strane erbe e trafficanti d'armi.

Ora disponibile anche online sul Foglio.it.

martedì 2 aprile 2013


Finalmente domenica!
Trentesima giornata, 31 marzo 2013

Mentre stamane il Papa compiva il giro pasquale in piazza San Pietro ho notato la diffusa tendenza della folla a non chiamarlo, quando si avvicinava, né “Francesco” né “Bergoglio” ma direttamente e semplicemente “Papa”. Se fossi uno dei fessacchiotti convinti di poter cambiare col proprio blog le convinzioni dello Spirito Santo, qui piazzerei un’intemerata sul fatto che un tempo quando passava il Papa ci si inginocchiava segnandosi, anziché lanciargli magliette del San Lorenzo. Essendo invece un altro tipo di fessacchiotto, la scena mi ha ricordato un film di Marco Ferreri, L’udienza, in cui Enzo Jannacci cercava invano di essere ricevuto da Paolo VI inseguendolo e urlandogli: “Papa! Papa!”. Il film non l’ho mai visto e lo conosco solo per tradizione orale ma mi pare verosimile che fosse così.

Fossi stato in Lombardia, avrei visitato seduta stante la camera ardente di Jannacci; invece è capitato proprio nell’unica settimana che trascorro in Puglia nel giro di sei mesi. Qui posso tutt’al più attraversare la strada immaginando di essere lui nel Carosello di non ricordo cosa: pedone stritolato dal traffico sogna di possedere un auto, sulla quale angustiato dalle lamiere sogna di possedere uno yacht, a bordo del quale temendo di affondare sogna di pilotare un aereo, nella cabina del quale precipitando sogna di star pacificamente attraversando la strada da semplice pedone, e pazienza per il traffico. Sono passati anni e annorum da quando avevo visto questo spot ma mi pare verosimile che fosse lui.

Stamattina sul Corriere si sono dati appuntamento comici e artisti per comporre una processione alla pagina dei necrologi: Teo Teocoli, Renato Pozzetto, Gino e Michele, Roberto Vecchioni, Bebo Storti, Vasco (“Wiva Enzo Jannacci”), Ivana Monti, Massimo Boldi, Renzo Arbore, Aldo, i discografici Sugar, la fondazione Giorgio Gaber, Antonio Ricci e tutta Striscia la Notizia, il cabaret Zelig e la pasticceria Gattullo. Questa teoria di nomi di persone nate per intrattenere e divertire, affiancati a quelli dei propri familiari e a parole di dolore oneste, secche, prive della retorica dei coccodrillisti un tanto a riga, mi conferma quanto sia vero il luogo comune secondo il quale in Italia i comici siano persone serie perché, infatti, per riuscire a farci ridere devono prima avere fissato negli occhi ciò da cui vogliono farci distogliere lo sguardo: la morte, la malattia, la povertà, la depressione.

Il vero comico deve sapere che ogni vita è una scala reale che trema in mano perché sa di poter essere sconfitta da un’altra scala di valore maggiore o minore a seconda dei casi, come nella pubblicità del pedone che vorrebbe essere motorizzato ma che, se fosse motorizzato, per salvarsi dovrebbe essere pedone. Uno poi può decidere di fare il cabarettista o il cantante, l’attore o il pasticciere, il musicista o lo scrittore; può essere Jannacci o Tognazzi o Bianciardi o chi gli pare ma solo se coglie la tragedia di questo corto circuito è un comico che quando muore riesce a farci piangere, altrimenti appartiene alla numerosa schiera di tronfi buffoni che in Italia godono di ottima salute.


[Il resto della rubrica, questa settimana eccezionalmente di martedì, è scritto da Francesco Savio che trova il Papa nel montacarichi e può essere letto su Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport.]