lunedì 8 aprile 2013

Finalmente domenica!
Trentunesima giornata, 7 aprile 2013


L’italiana tendenza a correre in soccorso del vincitore ha come correlativo istintuale la divisione del mondo percepito in contrari opposti, nominalmente “noi” e “gli altri”, dove “noi” ha contenuto e perimetro variabili che portano al frequente cambio di identità e caratteristiche de “gli altri”. Ogni volta che asseriamo che noi siamo così e così, sottintendiamo la distanza da altri che sono così e colà; quando invece accusiamo gli altri di fare questo e quest’altro, sottintendiamo che noi invece avremmo fatto quello e quell’altro ancora. L’unica cosa che resta costante nell’autodefinizione dell’Italia è il contrario, per questo ci riesce bene inventare contrasti dissacranti: così pensavo ieri sera leggendo T’odio empia vacca, aureo libretto ormai tristemente fuori commercio che Rizzoli aveva pubblicato nel 1994 e che raccoglieva puntate rimaneggiate della rubrica che Giampaolo Dossena teneva sul Tuttolibri de La Stampa. Dossena (che non ha mai giocato né nel Torino né nella Sampdoria) invitava i suoi lettori a esercitarsi nel capovolgere il senso delle poesie mandate a memoria, usando il contrario parola per parola e producendosi così in un atto d’insubordinazione contro la quinta elementare. “T’odio empia vacca” è l’immediato capovolgimento di “T’amo pio bove”, scelto da lettori a decine per quanto io preferisca la versione più surrealista di Toti Scialoja: “T’amo pio bue / anzi, ne amo due”.

Nel ’94 facevo appena il liceo e ricordavo che il riverbero del gioco arrivava fino ai nostri banchi: ultimamente mi sembrava di discernere nella memoria un capovolgimento del “Sempre caro mi fu quest’ermo colle” che era diventato “Non mi ha mai fatto schifo questa pianura piena di gente”, col beneficio del dubbio metrico che non mi tornava affatto; leggendo tuttavia il falso originale, scoprivo che la versione contraria esatta suonava più coerente: “Mai odioso sarà quell’imo piano / (…) e navigar m’è amaro in questo stagno”. 

“Pianto antico” di Giosue Carducci diventa “Riso novello”: non più “l’albero a cui tendevi / la pargoletta mano” ma “l’erba onde ritraevi / il grosso tuo piedone”. Il “Rio Bo” di Palazzeschi (oggi una discoteca di Gallipoli, fondata l’anno successivo al libro di Dossena) diventa il siberiano “Fiume Ob”. “La donzelletta vien dalla campagna” ma “la modellista è in metropolitana”, e capovolgendo il pessimismo leopardiano non è che si ottenga del grande ottimismo: “Questa di sette fu la peggior notte, / disperata e angosciosa”. “L’inno di Garibaldi” – “Si scopron le tombe, si levano i morti, / i martiri nostri son tutti risorti” – diventa “Il lamento di Franceschiello”: “Si velan le culle, si corcano i nati / i vostri aguzzini son tutti sdraiati”. D’Annunzio rettamente suona “Settembre, andiamo. È tempo di migrare” ma rovesciato diventa: “Marzo, venite. C’è spazio per restare”. Montale originale (“In questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia”) è quasi peggio del suo ribaltamento: “In quell’allontanarsi da un fossato / che ha in fondo un piatto intero levigato”. Solo da Torino poteva arrivare il capovolgimento di “Oh! Valentino vestito di nuovo”, trasformato per solutori piemontesi più che esperti in “Parco Ruffini spogliato all’antica” mentre la chiosa della poesia è rivolta all’uomo universale tanto in Pascoli (“come l’uccello venuto dal mare / che tra il ciliegio salta, e non sa / ch’oltre il beccare, il cantare, l’amare, / ci sia qualche altra felicità”) quanto nella sua parodista Giovanna Landi: “siccome il pesce che va sulla terra, / striscia nell’erba, e ignorare non può / ch’oltre il lambire, il parlare, l’odiare / ci sono ben altre calamità”.

Risultato, stamane sotto la doccia anziché cantare mormoravo una mia estemporanea composizione antonimica: “Il mesto Renato / sarà sopra il grano / con calma mancato / da un truce varano, / e in parte depresso, / sciogliendolo estinto, / pensava di presso: / ‘L’ho spinto! L’ho spinto!’ / A lui comandando / gioioso tacè: / ‘Morendo, atterrando / che bene me n’è? / Tu mi dai diletto / lisciandomi il petto. / Dai, stringi: sei tu / zio di Belzebù.’ / Sfrontato, marrano / Renato sbiancò: / contrasse la mano / e quello schiattò”*.

Proprio in virtù dell’istinto italiano alla contrapposizione dei contrari, il gioco riesce interessante anche coi titoli dei quotidiani. Proviamo. “Bersani: no al governissimo” diventa “Berlusconi: sì a una piccola anarchia”, sempre ammesso che il contrario di Bersani non sia Renzi. “Maroni: case popolari ad affitto zero e aiuti regionali alle piccole imprese”; “Vendola: ville extralusso a costi esorbitanti o gabelli statali sui grandi fannulloni”. “Vucinic in mutande e Conte non gradisce”; “Quagliarella senza canottiera e a Stramaccioni piace”. “Giornalista muore di freddo mentre fa il reportage sui senzatetto”; “Scrittore vive accaldato dopo una vacanza su un superattico”. “Milano, sole sulla domenica senz’auto”; “Napoli, neve sotto il lunedì col triciclo”. “L’istante prima di cadere dalla seggiovia”; “L’ora dopo essere saliti sul trampolino”. “Topo Gigio va alla conquista di Hollywood”; “L’Uomo Ragno catturato a Campobasso”. “Le Olgettine: Ruby ci ha rovinato per diventare famosa”; “Femen: Concita De Gregorio ci ha arricchite per restare umile”. “Strega: Cuffaro in gara col libro scritto in carcere”; “Campiello: Crocetta escluso senza cd cancellato a piede libero”. “C’è un auto nel Po, i vigili la ripescano”; “Non c’è un cavallo sul Tavoliere, la mafia ce lo getta”. Alternando sagacemente sinonimi e contrari, si ottiene il precipitato del giornalismo dei vaticanisti: “Francesco, il pontefice umile venuto da lontano”; “Benedetto, il papa presuntuoso arrivato da vicino”.


*Nota. L’originale suona: “La vispa Teresa / avea fra l’erbetta / a volo sorpresa / gentil farfalletta, / e tutta giuliva, / stringendola viva, / gridava a distesa: / ‘L’ho presa! L’ho presa!’ / A lei supplicando / l’afflitta gridò: / ‘Vivendo, volando, / che male ti fo? / Tu sì mi fai male / stringendomi l’ale. / Deh, lasciami: anch’io / son figlia di Dio’. / Confusa, pentita / Teresa arrossì: / dischiuse le dita / e quella fuggì”.