martedì 30 settembre 2008

Il giorno dei giorni

(Gurrado per Quasi Rete)


U’ ben s’impingua se non si vaneggia.

(Dante, Paradiso X, 96)

A veder tanto non surse il secondo.
(Dante, Paradiso X, 114)

È, banalmente, questione di gusti. C’è chi si alza a un orario estremamente antimeridiano per guardare quattro fessacchiotti che s’inseguono in moto, e tifare perché vinca il più fessacchiotto di tutti. Chi invece pranza in fretta e furia al solo scopo di trascorrere mezzo pomeriggio a bocca aperta di fronte a un Gran Premio fuori orario, in cui un brasiliano di Cerignola sradica pompe di benzina e un afflitto finlandese vede una curva a gomito ma pensa bene di tirare dritto. C’è infine chi sacrifica la domenica sera all’altare di San Siro, traendo da un’ora e mezza di pedate materiale sufficiente a sfottere amici e sconosciuti fino al prossimo 15 febbraio, poi Dio provvede.

Ma tutte queste faccende, notabili quantunque, assommate l’una all’altra per me non hanno avuto più appeal di una gara di salto del ranocchio, al cospetto del Mondiale di Ciclismo – la corsa di un sol giorno e di un giorno intero che ha congiunto in una domenica straordinaria l’alba del MotoGP col meriggio di Singapore e la notte di Milan-Inter.

Il Mondiale è una corsa dantesca, in cui Inferno e Paradiso sono due estremi talmente vicini da toccarsi quasi, a portata di pedivella in ogni istante delle sue sette ore. È una corsa mastodontica, l’unica in cui i partecipanti superino le duecento unità (domenica 205, con l’aggiunta di Leipheimer che non è partito); è irripetibile, perché il percorso cambia ogni anno; è ossessionante, perché costringe a ripetere per dieci, dodici, quindici volte esattamente la stessa salita, le stesse curve, lo stesso mal di gambe; è atipica, perché viene suddivisa per squadre nazionali invece che per sponsor, e questo cambia tutte le carte in tavola; è infingarda, perché sui pantaloncini resta comunque ben visibile lo sponsor e questo cambia ancora di più tutte le carte in tavola; è massacrante, perché fa pedalare per più di 250 chilometri; è capricciosa, perché la vittoria potrebbe concedersi a chiunque; è ingestibile, perché tutti aspettano di fare la seconda mossa; è imprevedibile, perché non si adegua a gerarchie prestabilite; è ingiusta, perché regala al più forte di un sol giorno il diritto di indossare la maglia iridata per tutto l’anno, fino al Mondiale successivo; è crudele, perché arrivare secondo o duecentesimosesto in fin dei conti è la stessa cosa.

Il Mondiale è una corsa bella e terribile come un esercito schierato a battaglia (tranquilli, non è mia). Da una ventina d’anni lo guardo fedelmente in versione-fiume e ho visto vincere geni del pedale (Freire) e onesti comprimari (Brochard), carneadi imbarazzanti (Vainsteins) e campioni ai quali non mancava altro (Musseuw). L’hanno vinto favoriti su cui non si accettavano scommesse (Cipollini), seconde punte (Olano), grandi incompiuti (Leblanc), guardie svizzere (Camenzind), tizi che potrebbero fare di più se si impegnassero (Boonen). È stata l’unica corsa vera vinta da Lance Armstrong, nel lontano 1993. Vincerlo due volte di fila è praticamente impossibile, tant’è vero che l’ho visto fare solo a degli italiani (Bugno prima, Bettini poi). È come una scienza incontrollabile che più esperienza si accumula più risulta sfuggente e incomprensibile.

Domenica il Mondiale non ha voluto smentirsi, nel giorno del sovvertimento di ogni ordine stabilito (Valentino Rossi che vince, pompe di benzina che volano, Ronaldinho che segna di testa): perché, veniva da domandarsi, lasciano guadagnare venti minuti a tre signori che di mestiere forse non fanno nemmeno i ciclisti? Come mai Bettini scatta a cinque giri dalla fine? Che ci fa mezza Italia in fuga? Quand’è che la Spagna organizza una controtattica, dopodomani? Perché gli inseguitori, invece di recuperare i trenta secondi dai fuggitivi, a mezzo giro dalla fine iniziano a scambiarsi strette di mano e pacche sulle spalle, e a organizzare la festa d’addio per Bettini che intanto se li bacia tutti come l’ultimo degli assessori democristiani?

Ma soprattutto ero attanagliato da una ridda di interrogativi riguardo a Damiano Cunego – che si ritrovava nel gruppo di testa a pochi chilometri dal traguardo, con due compagni di squadra a supportarlo, con avversari in fin dei conti mediocri a riprova della totale illogicità e follia del Mondiale d’un giorno solo. Stai a vedere, mi dicevo, che dopo un intero anno gettato al vento va a vincere proprio oggi e può pavoneggiarsi nell’iride per trecentosessantaquatro giorni uno dietro l’altro. Cunego sembrava Bugno, il quale nel 1992 preferì saltare il Giro d’Italia per concentrarsi sul tentativo di vincere il Tour de France, gli andò peggio del previsto, sbagliò del tutto la preparazione che gli mandò a carte quarantotto il resto della stagione e arrivò all’ultimo atto, il Mondiale appunto, con l’alternativa di vincerlo o dichiarare fallimento. Era fuori forma, era sfiduciato, era perfino il campione in carica e di conseguenza il meno indiziato a vincere. Vinse e salvò l’anno.

Tre secondi, su duecentosessanta chilometri percorsi in più di sei ore e mezza, a una velocità di circa trentanove chilometri orari fanno grossomodo la bellezza di trentadue metri e settantatre centimetri scarsi. Tradotto, nel momento in cui Alessandro Ballan tagliava il traguardo, Damiano Cunego era una trentina di metri dietro; o, tradotto meglio, se Damiano Cunego fosse capitato una trentina di metri più avanti (e non sono affatto tanti, trenta metri) avrebbe salvato la stagione e oggi Alessandro Ballan non sapremmo neanche chi sia.

Invece, il ciclismo ha una sua grandezza tragica che raggiunge lo zenit nel giorno del Mondiale; quando, dopo una corsa perfetta, un corridore resta a dieci pedalate dal traguardo che gli cambierebbe la vita e non può muoversi perché la macchia azzurra che lo sorpassa e si allontana sempre più è un compagno di nazionale. Ironia della sorte, anche i pantaloncini sono uguali, con la scritta “Lampre” ben in vista; ma, se nella Lampre Cunego è il capitano e Ballan il gregario extralusso, in nazionale Ballan scatta e Cunego deve guardare, spezzare i cambi, coprirgli le spalle.

Io tifo Milan, e ha vinto, io tifo Alonso, e ha vinto, io mi disinteresso completamente dell’evenienza che Valentino Rossi vinca o si schianti; però avrei dato volentieri in cambio tutto il resto dell’intensa domenica perché Damiano Cunego, dopo aver fatto il diavolo a quattro per sei ore e tre quarti, si ritrovasse con tre secondi in meno o trenta metri in più. Fosse accaduto, con ogni probabilità avrei finito per volteggiare esultando giù dal balcone o per correre nudo attraverso le strade più trafficate del paese che si onora di ospitarmi ogni tanto – sarebbero state entrambe reazioni più che giustificabili considerato l’antefatto. Invece il Mondiale è inesorabile, e trenta metri ovvero tre secondi pesano come trecento macigni, e separano senza rimedio il vincitore da duecentocinque sconfitti. Cosa potevo fare allora, cosa poteva fare Damiano Cunego? Guardare l’iride che piomba su spalle non sue, inghiottire, tirare avanti, aspettare Mendrisio 2009. Un altro anno è meno lungo di un Mondiale.

lunedì 29 settembre 2008

Il giorno del Santo

Alla cortese attenzione di
Dio Padre Onnipotente
e, per conoscenza,
al Figlio Unigenito
e allo Spirito Santo

Gravina in Puglia, lunedì 29 settembre 2008

Signore, Signore,
scrivo in menzione della festa patronale della città (paese) di Gravina in Puglia (diocesi di Altamura), che in onore di San Michele Arcangelo vive oggi il suo culmine e il suo fulcro; in menzione della pluriennale tradizione locale di corredare i festeggiamenti di una vigilia, espletata ieri 28 settembre, e di una coda, prevista per domani 30 settembre; in menzione dell’eccezionale decisione per l’anno corrente di anticipare ulteriormente l’apertura della festa in onore del Santo fino a includervi parte della giornata di sabato 27 settembre, da mezzogiorno in poi; in menzione dell’inattesa accensione in detta data delle luminarie lungo le strade principali del centro cittadino (paesano) di Gravina in Puglia (dove mi onoro di essere temporaneamente domiciliato al momento e di risiedere dal dicembre 1980 d.C.), e della contestuale apertura dei festeggiamenti con balli folcloristici, presentazione della locale squadra di calcio nonché varie ed eventuali. Ecco.

Sono pienamente consapevole che non è necessario essere onnipresenti, onniscienti e onnipotenti per rendersi conto di come tale anticipazione delle celebrazioni sia stata spacciata da un (fantomatico) ente culturale e conseguentemente dal (fantomatico) governo locale sotto la dicitura “Festa Dei Nonni”, con tutte le maiuscole al posto in cui le ho riprodotte, commettendo così in un sol colpo le seguenti gravi mancanze:
- indebito utilizzo a scopo nonnesco delle luminarie destinate a San Michele;
- provocatoria istituzione di una surreale festa civile in sostanziale concomitanza con una festa religiosa;
- occulto suggerimento che esaltando per un sol giorno la sopravvivenza degli anziani ci si possa sentire invitati a prenderli a calci nelle gengive per i restanti trecentosessantaquattro (trecentosessantacinque in caso di anno bisesto);
- volgare spreco di tempo e soldi;
- immane casino sotto casa mia.

A seguito di tali considerazioni mi è parso più che ragionevole che ieri, giorno dell’effettiva inaugurazione della vera festa di detto San Michele Arcangelo, abbia piovuto per ore e ore prima di consentire l’accensione delle luminarie nonché un minimo passeggio dinanzi alle bancarelle, incidentalmente gestite quasi esclusivamente da maomettani e scintoisti. Ho altresì notato con ammirazione che la pioggia battente è stata fatta cessare poco prima dell’inizio dei Primi Vespri celebrati dal Vescovo nella locale Basilica Concattedrale (dove per tutto l’anno è custodita la pregevole statua in pietra del 1538 raffigurante il Santo), senza che questo comportasse tuttavia un effettivo miglioramento della gradevolezza delle condizioni atmosferiche.

Ora, sono perfettamente consapevole di come nella città (paese) di Gravina, come in ogni altro posto al mondo, su numero 46.000 (quarantaseimila) abitanti indubbiamente abbondino gli ipocriti, gli ignoranti, i ladri, i violenti, i delinquenti, i pressappochisti, gli sfaticati, i prevaricatori, gli incoscienti, gli scalmanati, i profittatori, i maldicenti, i disfattisti, i pluriomicidi, i superbi, gli avari, i lussuriosi, gli iracondi, i golosi, gli invidiosi, gli accidiosi e soprattutto i ballerini di gruppi folcloristici. Devo ciò nondimeno fare appello alla conclamata misericordia nell’avanzare istanza che, fra tutti questi quarantaseimila mascalzoni, sarà tuttavia possibile trovare diecimila buoni padri di famiglia? mille lavoratori indefessi? cento amministratori onesti? dieci esemplari sacerdoti? un tizio che muore e va in Paradiso?

Io che non sono padre di famiglia né lavoratore indefesso né amministratore onesto né tampoco esemplare sacerdote (e, dovessi morire fra mezz’ora, non accetto scommesse su dove andrei), ho se non altro ricevuto il talento della parola e mi faccio pertanto carico formale dell’auspicio di questi diecimila, mille, cento, dieci e uno nell’atto di

CHIEDERE

che quest’oggi i regolari festeggiamenti previsti in onore di detto San Michele Arcangelo non siano funestati da pioggia, vento o alcun fenomeno meteorologico avverso. Colgo l’occasione per far presente come lo scatenarsi degli elementi sui più, per colpa di pochi ideatori della Festa Dei Nonni, avrebbe effetti deleteri non solo per la comunità locale ma anche per la Chiesa universale, facendo sì che:
- la processione col Santo venga decurtata ovvero addirittura cancellata;
- i fuochi d’artificio in onore del Santo vengano sì pagati dal comitato per le feste patronali ma risparmiati e utilizzati in occasione di qualche festa privata di qui a qualche tempo;
- un’intera generazione di bambini si abitui a collegare pavlovianamente la festa patronale non già all’invocazione della protezione del Santo sulla presente città (paese) che ne avrebbe particolare bisogno bensì all’indizione di due o tre giorni di vacanza da scuola;
- un qualche sindaco Robespierre, dopo che si è avuta la brillante idea di trasformare la settecentocinquantesima Fiera di San Giorgio in prima Fiera di Gravina, possa avere l’ancor più brillante idea di trasformare le sentite celebrazioni liturgiche e civili per San Michele in Festa Dei Cugini o in Adorazione Dell’Equinozio D’Autunno o in Sagra Dello Gnomerello A Gratis.

L’unico vantaggio che conseguirebbe alla pioggia torrenziale nel corso del pomeriggio e della serata sarebbe la dispersione e, auspicabilmente, la morte per annegamento di tutti i componenti dei vari gruppi di ballo folcloristico. Per quanto doloroso, sono personalmente disposto a rinunciare a tanto per il bene di molti.

In chiusura non posso mancare di notare come già questa mattina sia sorto sulla città (paese) di Gravina un bel sole che, scintillando senza essere sporcato da mezza nuvola e rendendo oltremodo mite il clima circostante, ha invogliato la locale popolazione (me compreso) a recarsi anzitempo nella Basilica Concattedrale per rendere omaggio a detto San Michele; poteva altresì essere intuito senza forzatura alcuna che dalla sua teca addobbata il Santo di stanza in questa città (paese) abbia posato il proprio benevolo sguardo in pietra sul paesaggio rupestre antistante la facciata della Basilica Concattedrale e abbia concluso che in fin dei conti non tutto è male come sembra.

Certo della consueta disponibilità, porgo i miei più sentiti ringraziamenti,
G.

domenica 28 settembre 2008

Trent'anni, trentatré giorni

Domandiamo al Signore la grazia
che una nuova ondata di amore verso il prossimo
pervada questo povero mondo.
(Papa Giovanni Paolo I, 26 agosto - 28 settembre 1978)

venerdì 26 settembre 2008

Letterine letterarie (3)

G.,
può essere che cenando ti abbia visto comparire al Tg3?
Valentina S.

S.,
può essere, soprattutto se conservi la barbarica abitudine di cenare alle sette, nel bel mezzo del pomeriggio. D’altra parte il Tg3 è notoriamente un covo di comunisti che, per convincere i suoi spettatori di essere intelligenti, si riempie di servizi su note iniziative culturali, finendo per mandare in onda gente colta ma leggermente conservatrice tipo me.


G.-bis,

comunque non illuderti: se eri tu, comparivi di spalle.
Valentina S.

S.-bis,
ci mancherebbe: non onorerei mai il Tg3 del mio pregevole facciume.


Illustre Gurrado,

i sogni son desideri?
Sigmund Freud & Cenerentola Disney

Come no, anzi ne approfitto per scusarmi con entrambi poiché nell’ambito del Festival Filosofia di Modena Carpi Sassuolo, oltre ad apparire di culo sul Tg3 (mostrando pertanto la mia parte migliore, me lo dico da solo), ero stato invitato a selezionare alcuni aforismi che poi sarebbero stati trasformati in manifesti e magliette rossi come l’industria culturale italiana. Nella fattispecie, ho fatto un torto a Sigmund Freud estrapolando una sua frase da qualsiasi ragionevole contesto e pittandola sui muri della stazione di Modena, sulle pagine del Resto del Carlino, in ogni luogo insomma che garantisse spazio sufficiente alle parole: Son desideri insoddisfatti le forze della fantasia (con l’aggravante che manco ricordo da quale volume dell’Opera Omnia Bollati Boringhieri io stesso l’abbia tratta); e parimenti ho fatto un torto a Cenerentola la quale, come dimostra una lettura foss’anche superficiale dello script dell’omonimo film disneyano, una lettura foss’anche limitata ai testi tradotti delle canzoncine, la quale Cenerentola dicevo è indubbiamente la miglior trasposizione cinematografica che mai sia stata prodotta delle teorie freudiane, tutte per una e una per tutte. Quanto ai sogni, nello specifico mi interrogo da giorni su quanto potrebbe aver influito sulla mia attività onirica la costrizione a cambiare ben tre letti nel corso degli ultimi dieci giorni (senza mai peraltro cambiare la persona che c’era dentro, ossia sempre e solo me medesimo); fatto sta che una notte ho sognato che Bianciardi era me e io ero Bianciardi, un’altra notte ho sognato Mariastella Gelmini non già nel suo pur pregevole sembiante muliebre ma più istituzionalmente nell’esercizio delle sue funzioni di Ministro dell'Istruzione Pubblica. Ora, caro Freud, cara Cenerentola, cari Bollati, Boringhieri e Disney, vorrei capire che (minchia) di desideri coltivo nel momento in cui sogno Bianciardi, che sarà stato una personcina adorabile ma tuttora gli preferisco sognare Nicole Kidman (di ieri oggi e sempre) o il Milan (del 1992 particolarmente), e tanto più nel momento in cui non avendo più a che fare con l’Istruzione Pubblica né come alunno né come studente universitario né come dottorando, né tampoco come implausibile professore in fieri di storia e filosofia nei trienni dei licei, mi sono messo a sognare l’ammirevole ministra Mariastella Gelmini – fermo restando che sempre meglio sognare lei che le sue predecess- (precedessrici? precedessoresse?) – fermo restando che sempre meglio sognare lei che le sue antenate Rosa Russo Iervolino (DC) e Franca Falcucci (DC pure lei), quella dell’immortale coro “Craxi boia, Falcucci la sua troia”, di quando avevo anni due e tre quarti ma già m’intendevo di politica più di buona parte dei quarantenni d’oggidì.


Illustre Gurrado-bis,

la scrittura è in origine la sostituzione della voce dell’assente.
Sigmund Freud (senza Cenerentola Disney)

Come no-bis. Anzi, questa la so, questa la so, questa la so: è tratta se non erro da Totem e Tabù, anzi forse da Il Disagio della Civiltà, o forse da Psicologia delle Masse e Analisi dell’Io – insomma nel breve periodo che volge dal 1912 al 1929 (accontentatevi, fate voi) e comunque di sicuro non da CenerentolaBiancaneveLa Bella e la Bestia. Fatto sta che mai sentenza fu più veritiera, benché contenuta in un inciso all’interno di un’opera che oltre a me forse ha veramente letto soltanto Freud stesso a quanto temo, poiché ne ho avuto la controprova nell’istante in cui, domenica pomeriggio (più o meno contemporaneamente a Tutto il Calcio Minuto per Minuto), sono stato invitato a leggere pubblicamente la mia traduzione della conferenza di Stanley Cavell che non aveva potuto essere presente al Festival Filosofia ma che aveva mandato in propria sostituzione un dvd nel quale esponeva la propria conferenza in una misteriosa lingua tuttora ignota ai più, l’Inglese. In questo caso veramente, in senso letterale, la scrittura (della mia traduzione) è stata la sostituzione (contenutistica e fonica) della voce (incisa sul dvd) dell’assente (ovvero Cavell). Ottenendo così, mentre la mia voce presente e un po’ terrona veniva amplificata a iosa per risultare ricevibile tanto in Chiesa San Carlo quanto nientemeno in Piazza Grande, un curioso effetto storiografico: nel momento (ciclicamente affiorante) in cui tutti sono lì a discutere su chi è più antifascista degli altri, per un’ora e mezzo io ho scavallato Fini e Alemanno potendomi sentire Mussolini in persona.

mercoledì 24 settembre 2008

Intervista a Riccardo Reim

(Gurrado per Il Sottoscritto)

È difficile trovare una persona più versatile di Riccardo Reim nel panorama letterario italiano: attore, regista, sceneggiatore, saggista, traduttore, curatore dei testi più disparati, selezionatore di antologie erudite, collettore di aforismi e autore d’inchieste. Soprattutto, ora, romanziere, grazie all’attenzione dedicatagli dalla casa editrice Hacca che nel 2007 aveva ripubblicato le sue Lettere Libertine (già edite nel 1982 a opera di Dario Bellezza, e successivamente rimaneggiate) seguite quest’anno dall’inedito Il Tango delle Fate.


Dai romanzi di Reim traspare evidente una cultura pressoché sconfinata, che lega in sé la conoscenza dei generi e periodi letterari più diversi. La sua predilezione per l’erotismo, invece di rinchiuderlo in pastoie narrative e lessicali che la letteratura di genere troppo spesso richiede in sacrificio, esalta al contrario il talento di Reim nell’aderire alle sfide insite nella progettazione e nello sviluppo della pagina letteraria. Quest’adesione ha un indubbio sapore dionisiaco, che ne Il tango delle fate diventa lampante grazie alla lingua utilizzata: una continua commistione di lessico alto e basso, che alterna felicemente Francese, Latino, Spagnolo e dialetto Napoletano. Né questa scelta appare in qualche modo forzata, poiché risponde esattamente alle esigenze della storia che Reim racconta: quella di Gennaro N., meglio noto come Caminito, che nel suo travestitismo si innalza progressivamente al di sopra dell’ambiente squallido in cui opera, dei maschi ai quali si prostituisce, delle esigenze che il suo stesso corpo gli (o le) impone - fin quasi a diventare un angelo, o meglio un essere di tutti i sessi e di nessun sesso che vive tramite la propria corporeità una continua, spontanea e tragicamente contraddittoria tensione verso l’alto, verso Dio.
Il Sottoscritto ha intervistato Riccardo Reim.

Mi sembra che Il tango delle fate possa essere letto come una continuazione di Lettere libertine; non riguardo alla trama, ma per quel che concerne i temi. Infatti Digo, il protagonista delle Lettere, ha in comune con Gennaro N. l’esistenza di un doppio, e in entrambi i casi questo doppio è un essere angelicato e dal sesso ambiguo: eppure la composizione delle due opere è estremamente distante. Com’è arrivato dunque alla composizione de Il tango delle fate? Ha in qualche modo creduto di dover collegare, tematicamente o stilisticamente, i due romanzi?
No, direi che non c’è stata alcuna esigenza – almeno a livello razionale – di dover “collegare” i due romanzi, nati peraltro da situazioni e ispirazioni assai differenti; ma è anche vero che la scrittura (come il teatro e qualsiasi forma d’arte, credo) agisce per vie insondabili e procede per lapsus. È stato scritto che in ambedue i casi l’ermafroditismo rimane la cifra stilistica della mia narrativa e dell’essenza dei personaggi… Sono abbastanza d’accordo su quest’osservazione, in quanto si riallaccia al tema della non-unità dell’Io che in Lettere libertine si sdoppiava in una sorta di delirante rêverie nutrita di letture bene o mal “digerite” dal protagonista; mentre ne Il tango delle fate l’Io si fa polimorfo, diventa una sorta di mistero trinitario nutrito di trash e di sublime, costantemente in bilico fra blasfemia e crisi mistica, farneticamento erotico e purezza, in quanto il/la protagonista, come tutti gli ispirati (e come Bernadette, santa popolare elargitrice di grazia e guarigione) appartiene ai semplici e dunque procede per eccessi, senza preoccuparsi di distinguere.


Il tango delle fate mi sembra tuttavia debitore di qualcosa a una sua recente pièce teatrale, intitolata appunto Caminito.
Una cosa che mi preme precisare è che il romanzo non è un ampliamento del monologo, che avevo scritto due anni fa. Ambedue i testi prendono vita da un personaggio autentico che Antonio Veneziani e io intervistammo per il volume d’inchieste Pornocuore (Coniglio, 2005): era una buffa, straziante, buona e inquietante creatura che viveva in un basso dei Quartieri Spagnoli. Mi venne quasi subito il desiderio di costruire una storia su quegli straordinari brandelli di vita che eravamo riusciti a farci raccontare; ma quella storia, nella mia testa, non apparteneva tanto al teatro quanto, per qualche strano motivo, alla pagina scritta. Per questo, forse – ma anche per una specie di pigrizia, o magari di timidezza verso un mezzo con il quale ho meno confidenza – il progetto è rimasto per anni in un angolo, fermo, anche se mai dimenticato. Poi, in occasione di una mia collaborazione col Teatro Stabile dell’Aquila (la versione dell’Anphitryon di Kleist), conobbi Manuele Morgese e scrissi per questo talentuoso giovane attore un monologo, qualcosa di “tascabile” e a budget estremamente ridotto: Caminito, appunto, spettacolo fortunatissimo sia di critica che di pubblico, che potrebbe essere definito la “voce-confessione” (non a caso in Napoletano) del protagonista, ma che non coincide con la vicenda che avevo immaginato su di lui. Infatti, come voce in prima persona, alcuni brani del monologo sono presenti nel romanzo – ma non perché io abbia voluto in qualche modo riutilizzare del materiale preesistente bensì perché, per così dire, già ne facevano parte.


Il tango delle fate si apre con la scena di un’ascesa (letteralmente verso il Duomo, metaforicamente verso il Divino) che è strumento di redenzione, poiché Caminito si pente, e al tempo stesso di perdizione, poiché Caminito si masturba. Anche in Lettere libertine ho colto una similare tensione verso l’alto, con conseguenti e contemporanee ricadute verso abissi di sensualità sempre più profondi. Questa compresenza è una scelta istintiva, una profonda convinzione, un artificio narrativo? È una risposta al libertinismo materialista del XVII e XVIII secolo, che faceva derivare l’eccesso erotico dalla totale eliminazione di Dio?
Direi piuttosto che si tratta di una convinzione generata dall’istinto; e non utilizzerei il termine “ricadute”, che si potrebbe equivocare negativamente. Credo che erotismo e misticismo siano figli della stessa cova: del resto, un abisso è un cielo capovolto…
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In Lettere Libertine le citazioni dai classici dell'erotismo sono parte integrante del testo, mentre ne Il tango delle fate questo coltissimo sostrato resta per lo più sullo sfondo. D'altra parte lei è noto per aver tradotto numerosissimi classici di vario genere, e per essere stato il collettore degli Aforismi proibiti e libertini (Newton Compton, 2008). Che peso ha avuto la letteratura erotica nella sua formazione d'autore? Nei confronti di quali pagine si sente più debitore?
Ho tradotto e curato anche, in specifico, parecchi classici dell’erotismo, non solo per la Newton Compton (con cui, tra l’altro, da un paio di mesi è uscito a mia cura I gioielli indiscreti di Diderot) ma anche, a suo tempo, per la Lucarini; mentre attualmente curo per Coniglio Editore la collana “La manutenzione della carne”, dove, tra l’altro, si confrontano le incisioni originali dei libri proposti con delle tavole eseguite appositamente da disegnatori di grande prestigio, che rappresentano l’imagérie populaire dei nostri giorni: un progetto insolito e coraggioso, che ho elaborato con Francesco Coniglio e che è stato premiato piuttosto bene sia dalla critica che dalle vendite. Abbiamo esordito una decina di mesi fa con Thérése Philosophe, attribuito a Diderot, e Il portinaio dei certosini di Gervaise de Latouche; ora proseguiamo con L’odalisca, attribuito a Voltaire, e il celeberrimo Gamiani di Musset.
Perché la letteratura erotica mi ha sempre ineteressato? Forse perché ho un cocciuto amore – o meglio, una cocciuta curiosità – per tutto ciò che è marginale o rimosso, come anche il nero, o il roman feuilleton; anche per quanto riguarda la mia attività teatrale, ho quasi sempre scelto temi, autori o testi insoliti… Tornando alla letteratura erotica, direi che forse mi ha insegnato il coraggio e l’uso di certe parole, in cui soprattutto i francesi sono maestri. E poi della letteratura erotica mi affascinano e m’intrigano, come in tutti i “generi”, le convenzioni, le ipocrisie, le ironie, le strizzate d’occhio che s’incontrano a ogni riga. Lettere libertine nacque da questo divertimento, e direi che tutta la parte dell’apocrifo settecentesco – e non soltanto i brani che introducono i vari capitoli – è un continuo incastro di citazioni più o meno palesi.

Credo che la letteratura erotica sia senza dubbio la più difficile a scriversi, perché c’è il continuo e concreto rischio di cadere in noiose ripetizioni o esagerazioni ridicole, senza contare che – più di ogni altro genere – l’erotismo pretende un talento innato nella scelta delle parole da usare a seconda delle esigenze della pagina. In Lettere libertine come ne Il tango delle fate lei ricorre ottimamente a dei virtuosismi che la portano ora a un pastiche settecentesco (che mi ricorda un po’ Sade, un po’ Restif de la Bretonne), ora a una sorta di sopra-linguaggio barocco che mischia in sé lingue estranee all’italiano corrente. Com’è arrivato alla codificazione di questi stili opposti? Crede che siano riconducibili alle medesime esigenze?
Gran parte del divertimento che nasce dalla lettura di opere erotiche – intendo la lettura distaccata e anche ironica di un lettore smaliziato, certo – sta proprio nell’imprevedibile incastro di situazioni prevedibilissime, spesso ripetute a sazietà: la vergine tratta in inganno, il prete corrotto, il nobile vizioso, etc. In Lettere libertine l’idea è di far ripercorrere a un ragazzo (che poi si scopre androgino) le tappe canoniche di tutte le Justine, con le conseguenti “sventure della virtù”.
Mi stupisce che lei citi Restif de la Bretonne, scrittore noioso e insulso come pochi, specie nella sua Anti-Justine – libro pretenzioso, ripetitivo, sciatto e privo di qualsiasi mordente. Per fortuna ce n’è giunta solo una minima parte. Non credo che Restif possa avermi influenzato in alcun modo, perché l’ironia si può applicare soltanto a chi possiede qualità e soprattutto a chi si ama: ripensando all’Anti-Justine ricordo soltanto un diffuso fastidio e una noia sconfinata… I debiti “virtuosistici” nella mia scrittura ci sono, eccome, ma portano i nomi di Diderot, Crébillon, Voltaire, Latouche, e naturalmente Sade; Restif lasciamolo dov’è, che davvero se ne ricava poco e niente.
Quanto al linguaggio dei miei romanzi – ovvero quello dei loro protagonisti, anche quando sono in terza persona – direi che la spiegazione sia nel metodo che seguo scrivendo, e che per me è l’unico possibile, tanto che non riesco neppure a immaginarne un altro: la scrittura è la mia voce che interpreta il personaggio, esattamente come in una performance (c’è infatti chi ha definito Il tango delle fate un libro-performance): quando la scrittura ha esattamente l’andamento e il ritmo della mia voce, la pagina può essere licenziata. È qualcosa che deriva, ovviamente, dal teatro, che è la parte più antica del mio mestiere (“mestiere” in senso goldoniano), quella più incancellabile, che ti porti dietro e ti appartiene come una seconda pelle, che ritorna sempre e comunque.

martedì 23 settembre 2008

Poco ma sicuro


La prima notizia è che io medesimo, Gurrado, sono uscito vivo dalla dieci giorni culminata nell'intensissimo weekend del Festival Filosofia di Modena.


La seconda notizia è che il Festival Filosofia quest'anno ha visto qualcosa come 130.000 presenze. Cifre simili a quelle contemplate qualche settimana fa dal Festival dei Saperi di Pavia, che parrebbe essersi attestato sulle 13 presenze. Com'è noto, gli zero non contano.



La terza notizia è che stasera aspettiamo 130 persone, ma anche qualcuna in più, per la presentazione de Gli effetti secondari dei sogni di Delphine de Vigan (Mondadori) alle 21 nel Salone San Pio del Collegio Ghislieri, Pavia. Io sto ponderando se indossare la cravatta.



sabato 13 settembre 2008

Comunicazione di servizio

Uscì di galera e sistemò una cosetta.
(Riassunto de I Miserabili di Victor Hugo)


Da questo momento in poi sono impegnato in un personale giro d'Italia allo scopo di risolvere vari problemi, alcuni dei quali miei. Per questo motivo è molto verosimile che io non abbia accesso a internèt e che quindi non riesca ad aggiornare il blog prima di, che ne so, una settimana, anzi facciamo dieci giorni per maggior sicurezza. Voi nel frattempo controllate comunque, io faccio quel che posso. Sicuramente è più facile venire a trovarmi di persona al Festival Filosofia di Modena (dal 19 al 21 settembre).


venerdì 12 settembre 2008

Letterine letterarie (2)

Egregio Gurrado,
hai mai pensato di fare un riassunto della situazione politica in Scozia?
Giancarlo

No. (Scherzo, mi sto ancora documentando, a quanto pare è una cosa maledettamente complicata e a quanto pare non c’entrano nulla né le zampogne né il mostro di Lochness. Chiedo una settimana di proroga, sperando che Gordon Brown non finisca prima). (Peraltro qualche giorno fa ho visto The Queen, un meraviglioso film sulla meravigliosa regina di una nazione abbastanza meravigliosa e mi son reso conto che vi appaiono tutti i personaggi più importanti dell’alta storia d’Inghilterra nei tardi anni ’90: c’è la Regina Elisabetta, la Regina Madre, il Principe Consorte, il Principe di Galles, Tony Blair, Cherie Blair, perfino Alastair Campbell. Solo Gordon Brown si limita a fare una telefonata ma non lo inquadrano mai – chissà perché).

Caro Gurrado,
mi chiedevo: leggendo tutto quanto reperisco sul tuo blog più i libri editi, quanto leggerei di ciò che hai scritto percentualmente?
A.M.

Misteriosa A.M.,
se tu trascorressi i prossimi tre-quattro mesi esclusivamente a leggere: le infinite pagine di questo blog; più quelle (meno infinite ma comunque dense) del blog che avevo su Splinder fino a febbraio 2007; più i vari articoli per Quasi Rete; più le recensioni per Books Brothers, Stilos, Il Sottoscritto e Ore Piccole; più un romanzo pieno di errori di stampa pubblicato nel 2001; più un paio di racconti pubblicati in antologie non passate alla storia; più un romanzo senza alcun errore di stampa (le bozze le ho corrette io) pubblicato nel 2005, avresti letto tutto quello che ho scritto – a eccezione di: una raccolta di racconti composta in seconda liceo e che avevo dimenticato di aver scritto; un romanzo composto a penna su quaderno a quadretti nel 1998, formato da cinque o sei periodi nell’ampio raggio di un centinaio di pagine; le lettere e mail private che non credo t’interessino; una raccolta di racconti che dal 2004 aspetta che qualcuno si accorga di lei; un romanzo enorme che spero di vivere abbastanza a lungo da poter vedere pubblicato. Ma io sono come Benedetto Croce, ritengo che un testo esista solo se reso pubblico e nella versione definitiva.

Caro Gurrado,
[omissis] ma soprattutto mi chiedo: cosa è una famiglia “presumibilmente felice, se non altro regolare”? A me sembra il ritratto di un mondo grigio e triste.
Apple

Altrettanto misteriosa Apple,
che nome curioso e pertondo; sicura di non essere figlia di Gwyneth Paltrow? Controlla, non si sa mai. Se non erro si stava parlando di Bristol, figlia di Sarah Palin, del bambino che aspetta e del suo impegno a sposare il fidanzatino del liceo che l’ha messa incinta. Una famiglia regolare, come saprai senz’altro, è quella in cui i genitori sono sposati fra loro e appartengono a sessi differenti (faccio presente che sono due). Mi sembra inoltre una famiglia presumibilmente felice quella in cui i genitori sono giovani, in salute e innamorati; se poi il nascituro si ritrova con la nonna (se va bene, come andrà bene) vicepresidente degli Stati Uniti d’America e (se gli elettori impazziscono e va male) governatore dell’Alaska, penso che sia un motivo di felicità in più. Se per te una famiglia regolare e presumibilmente felice è quella di Obama, col padre che insegue le figlie con gruccia e tazza del cesso appena scopre che aspettano un bambino, fai pure ma non te lo auguro.

Onorevole Gurrado,
[omissis] Berlusconi finge di governare [omissis].
Massimo D’Alema

Veltroni invece, lui, col suo governo ombra…

giovedì 11 settembre 2008

Country first


Se trovate dei difetti nel vostro paese, rendetelo migliore. Se siete delusi dagli errori del governo, entrate nei suoi ranghi e lavorate per correggerli. Arruolatevi nelle nostre forze armate. Diventate insegnanti. Abbracciate il sacerdozio. Candidatevi per posti statali. Date da mangiare a un bambino affamato. Insegnate a un adulto analfabeta a leggere. Difendete i diritti degli oppressi. Il nostro paese sarà migliore, e voi sarete più felici. Perché nulla porta maggiore felicità nella vita che servire una causa più grande di noi stessi.
Combatterò per la mia causa ogni giorno come vostro presidente. Combatterò per essere sicuro che ogni americano abbia ogni ragione per ringraziare Dio, come io Lo ringrazio: perché sono americano, un cittadino orgoglioso del più grande paese della terra, e con un duro lavoro, una fede forte e un po’ di coraggio le cose grandi sono sempre alla nostra portata. Combattete con me. Combattete per quello che è giusto per il nostro paese. Combattete per gli ideali e il carattere delle persone libere. Combattete per il futuro dei nostri figli. Combattete per la giustizia e le opportunità di tutti. Alzatevi in piedi per difendere il nostro paese dai suoi nemici. Alzatevi in piedi gli uni per gli altri, per la bella, benedetta, generosa America. Alzatevi, alzatevi, alzatevi e combattete. Nulla è inevitabile qui. Siamo americani e non ci arrendiamo mai. Non molliamo mai. Non ci nascondiamo mai dalla storia.
Noi facciamo la storia.
(John McCain)



... la mia fede mussulmana.
(Barack Hussein Obama)

mercoledì 10 settembre 2008

Scarti e rimanenze: Il calcio in sé

Domandina facile facile: cosa stiamo vedendo quando guardiamo una partita di calcio? “Una partita di calcio”, risponderanno tautologicamente i miei piccoli lettori (beata innocenza). “Un rapporto di forza”, potrebbero rispondere i lettori più adulti, o più istruiti, o più sospettosi, o che hanno addirittura letto Carlo Ginzburg.

Oltre a Ginzburg (il cui Rapporti di Forza segnò una svolta nell’interpretazione della storia, della storiografia e di una notevole quantità di altri argomenti che non hanno alcun rapporto con il regno della pedata; e che io mi sono ben guardato dal leggere), chi sostiene che una partita di calcio costituisca la messa in atto di un rapporto di forza può trovare un nuovo e più specifico alleato in Calcio e Potere di Simon Kuper, tradotto quest'anno da ISBN. Chi ama libri e calcio al contempo sa già che Kuper è uno degli esponenti (e forse il migliore) del cosiddetto new football writing, ossia un convinto propugnatore di un rinnovamento della dimensione testuale nella visione e soprattutto nell’interpretazione del calcio. Un teorico dunque, innanzitutto; ma anche per certi versi uno storico, come ricorderà chi ha presente Ajax: la squadra del ghetto, il vibrante saggio dello stesso Kuper che la stessa ISBN aveva pubblicato nel 2005.

A onor del vero, va specificato che la versione originale di Calcio e potere, intitolata Football against the Enemy, era stata pubblicata da Orion già nel 1996, e questo spiega al lettore curioso e inizialmente stranito perché sembra che per Kuper il calcio si fermi a USA’94. La revisione del 2006, che ha portato a una nuova edizione inglese con annessa prima traduzione italiana, si è limitata davvero a poca roba, così che il volume appaia tutto incentrato – anzi, tutto decentrato, rispetto al nostro punto di vista – sulla metà un po’ kitsch degli anni Novanta. Meglio così, per certi versi: a leggerlo ora il libro sembra più romantico.

Se non che Kuper non aveva la minima intenzione di comporre un libro romantico. Nei progetti dell’autore si tratta di un giro del mondo in ottanta palloni – dai resti dell’Unione Sovietica all’Inghilterra, da casa Herrera all’Argentina, da Barcellona al Camerun, da Glasgow a Berlusconi – che però nulla deve conservare del romanticismo salgariano insito nell’idea del viaggio esplorativo. Lo scopo di Kuper non è inseguire una palla che rimbalza in ogni angolo del globo; il suo scopo è quello di dimostrare a chiare lettere (lo dichiara lui stesso a pagina 294) “che il calcio influenza la politica”.

Un libro a tesi, dunque, coi vantaggi e gli svantaggi che comporta. I vantaggi arrivano quando la tesi appare plausibile (nell’Africa dittatoriale, ad esempio, o nelle rimembranze dell’impero sovietico) e la brillante prosa di Kuper, alternando l’aneddotica al teorema, risulta quanto più ficcante. Gli svantaggi arrivano quando la tesi appare forzata (la visita a casa Herrera, Tudjiman, il Barcellona) e quindi la prosa di Kuper finisca per risultare un po’ troppo brillante – un po’ come la loquela di un liceale che, interrogato su un argomento di cui serba un vago ricordo e nulla più, tenti di cavarsela facendo il simpaticone.

Un’altra ragione di discontinuità è l’estrema varietà geografica (e quindi politico-culturale) dei luoghi visitati da Kuper: in maniera tale che alcuni capitoli sono gradevolissimi, altri alla lunga possono stancare. Le dieci pagine dedicate al Barcellona sembrano un cortese omaggio alla gentilezza dell’ufficio stampa blaugrana (anche se, probabilmente, insinuo tutto ciò accecato dalle mie preponderanti simpatie per la Real casa). Al contrario, la storia della Dinamo Berlino, la squadra con più titoli che tifosi, e dei suoi antipatizzanti che dalla Germania Est la seguivano nelle trasferte occidentali per aver agio di urlarle contro, è assolutamente toccante: talvolta buca addirittura lo schema del saggio per raggiungere un’intensa umanità da romanzo. La tesi che l’exploit camerunese a Italia’90 abbia funto da volano (non sfruttato) per l’intero continente è accompagnata da una quantità infinita di informazioni sull’Africa, talmente dettagliate e surreali che nessuna di esse risulta noiosa. La partecipata cronaca del ritorno in blanquiceleste di Maradona degenera poi in alcune considerazioni ritrite sulle pressioni governative intorno alla vittoria del mondiale casalingo del 1978, col troppo cauto avanzamento del sospetto che il decisivo 6-0 sul Perù fosse frutto di mercimonio, perbacco. Però la contrapposizione para-religiosa fra Celtic e Rangers e soprattutto gli strafalcioni di un Mandela prestato alla propaganda calcistica sono descritti in maniera tanto vivida da far perdonare addirittura le tre paginette seccamente intitolate “Berlusconi”, che parlano di Berlusconi per quattro capoversi e che sembrano scritte apposta per quest’edizione che ho fra le mani (ma spero di no).

Scrivere di calcio è estremamente difficile: ci vogliono una forte competenza specifica (proprio in quanto si tratta di un argomento del quale quasi tutti sanno quasi tutto), una proprietà terminologica chirurgica, una necessaria fantasia per non risultare l’ennesimo clone del cronista annoiato o del tifoso esaltato e, infine, la gloriosa presunzione di non tener presente che, nella migliore delle ipotesi, il libro sul calcio che si sta scrivendo sarà l’ultimo di un’infinita serie precedente e il primo di una preoccupante serie successiva. Simon Kuper ha bene o male tutte queste caratteristiche e soprattutto la quarta, che è psicologicamente la più ardimentosa. Rincresce tuttavia dover notare che qua e là la scorrevolezza della sua teoria viene inficiata da confusioni (terminologiche o culturali) del traduttore, grazie al quale risulta: che nel 1979 il Barcellona vinse la Coppa dei Campioni (p. 132: i tifosi del Nottingham Forest ringraziano sentitamente); che abitualmente il Perù si veste con una maglia a strisce (p.235: il testo originale, così come una superficiale osservazione degli album Panini, riferisce che il Perù suole indossare una maglia bianca con una banda rossa diagonale); che durante Brasile-Inghilterra Gordon Banks rischiò la vita (p.260: a meno che “il salvataggio di Gordon Banks” non significhi che il portiere inglese stesse annegando nelle sabbie mobili, ma che si limitò a fare una parata, formidabile quantunque, su un colpo di testa di Pelè); che durante i Mondiali del 1994 Maradona fu vittima di una storica espulsione (p.291: Maradona giocò benone, segnò contro la Grecia ma fu squalificato per assunzione di efedrina, poco dopo aver abbandonato il campo sorridente tenendo per mano una pingue infermiera bionda).

È un peccato che ci siano queste imprecisioni, emendabili al costo di un po’ di editing, in quanto a lungo andare sottraggono credibilità scientifica alla tesi di Kuper, secondo la quale“il calcio è politica fatta con altri mezzi” (p.177). Cosa sulla quale si può essere d’accordo, se si pensa a tutto ciò che gravita intorno ai ventidue giovanotti che corrono per un’ora e mezza riposandosi per quindici minuti, ma che non può essere catalogata secondo un necessario principio di causa-effetto così come invece Kuper, stanti la giovane età e l’entusiasmo, spesso si limita a fare. Se non ci credete, sappiate che a p.296 è scritto che, avendo Berlusconi conquistato il potere politico da presidente del Milan, è altamente plausibile che i tifosi del Milan votino in massa per lui – chi ad esempio ha sentito parlare di Bertinotti sa quanto quest’assioma non sia vero. Per quanto Calcio e potere sia lettura più che gradevole (e talvolta istruttiva), non mi abbandona il sospetto che Kuper possa essersi lasciato andare a conclusioni superficiali del genere anche riguardo a realtà geograficamente lontane delle quali siamo giocoforza meno esperti. Per scoprirlo, ci sarebbe da andare in Camerun, in Ucraina, a Berlino e a Los Angeles per ripercorrere il folle volo di Kuper e controllare i dettagli da vicino. Non ci tengo: mi limiterò alla generale considerazione che, se il new football writing implica codeste conseguenze, mi sta bene rinserrarmi entro i confini della vecchia prosa calcistica italiana, che non riesce a smettere di guardare con affetto una palla che rimbalza.

martedì 9 settembre 2008

Dal nostro inviato al Lido


Io di cinema capisco lo stretto necessario, quanto basta a distinguere Ceccherini da Ingmar Bergman. Ciò nondimeno ritengo che la Coppa Volpi come miglior attore a Silvio Orlando sia un riconoscimento importante e forse tardivo: ora come ora non mi viene in mente un altro attore italiano (vivente) più bravo di lui, forse Castellitto, sicuramente non Stefano Accorsi che ha vinto lo stesso premio qualche anno fa. Detto questo, detto tutto – almeno per quel che mi riguarda. Ma i miei potenti mezzi mi consentono perfino di avere un inviato alla 65° Mostra del Cinema di Venezia: Alessandro Poli, di Perugia, è guardia forestale e dottore di ricerca in storia della filosofia, con tesi su Leibniz; collabora con diverse riviste di filosofia, religione e cultura ambientale; ha scritto diversi articoli sul cinema (su Eastwood, Gilliam e Mallick in particolare) apparsi su riviste nazionali e internazionali; è altresì autore di cortometraggi e documentari presentati in rassegne locali e convegni; aspira al dilettantismo universale e tiene per l’Inter. Nonostante quest’ultimo difetto è il mio critico cinematografico di riferimento. Questo il suo parere sui film che ha visto:

- Voi a Explotar (di Gerardo Naranajo) Storia d'amore e crescita di due adolescenti messicani che scappano dalle benestanti famiglie per rifugiarsi sul tetto di casa. Superfluo il riferimento a La Rabbia Giovane (Badlands), capostipite del genere, ma l'affinità, complicità e sensualità tra i due ragazzi ha poco da invidiare a quella di Kit ed Holly (purché lo vediate nel loro caldo spagnolo). Camera a mano, primi piani stretti, il desiderio e la paura del cambiamento, le promesse di due ragazzi e sullo sfondo l'eco tragico di Giulietta e Romeo (noto ora l'assonanza con il personaggio maschile, Roman, da lei poi chiamato Romantico). Una storia d'amore che diventa ragione di vita. Spaccacuore (come suggerisce lo stesso titolo, 'Sto per scoppiare'). Non lo vedremo mai in sala, spero per alcuni a qualche festival. 7 ½

- BirdWatchers: La terra degli uomini rossi (di Marco Bechis) Il regista argentino firma l'ennesimo buon film battendo con forza sui temi tipici del suo cinema. Filma la lotta per la terra, fondamento (non nel senso heideggeriano) e sopravvivenza per gli indios nordbrasiliani, senza alcuna retorica e dal punto di vista degli ultimi - possibili desaparecidos (il rischio è sempre dietro l'angolo). La pellicola intreccia un duplice piano, i conflitti degli indios che tentano di mantenere la propria cultura contro la forza distruttiva del tempo, ossia il lavoro ed il denaro del fazendero, e le dinamiche interne dela comunità che cerca appunto di tramandare la forza identitaria del gruppo di generazione in generazione - ennesima mutazione del tema del riconoscimento presente in Figli. Non aspettatevi la forza di Garage Olimpo ma i soldi della RAI - che l'ha prodotto - sono stati ben spesi. Un buon Claudio Santamaria che non so per quale motivo sia qui presente. 7 +

- Vegas: Based on a True Story (di Amir Naderi) Il regista iraniano, ormai trapiantato negli USA dopo la scomunica degli ayatollah (1989), continua la sua ricerca sulle ossessioni e risvolti borderline della tranquilla periferia americana, quella che vede ogni giorno in lontananza i casinò di Las Vegas. Nella povera e ormai semi tranquilla vita di due ex malati di gioco d'azzardo, compare uno straniero, un ex marines, che li coinvolge in una ennesima fatale scommessa in cui i due genitori precipitano integralmente. Fuor di metafora, ma con dei riferimenti alla trama che ritengo opportuno non svelare, 'si scavano la fossa' con le proprie mani. Ennesima demistificazione dell'American dream. Tutto intorno gira la storia del proprio figlio che diventa adulto quando i genitori scompaiono - o meglio, si affossano - in una nuova ossessione. Interamente girato in digitale, immagini quasi scadenti da filmino amatoriale domestico, forse per esser ancor più vicino al sottolitolo del film: a True Story. In molti spingono per il Leone d'oro e c'è qualche barlume. Il presidente della giuria è Wim Wenders e sebbene somigli ogni giorno di più a Marzullo, ama queste storie. Se non otterrà la vittoria, sarà la conferma del fatto che è un ottimo film (nei festival, come al solito, ci sono troppi interessi ed alla fine non vince il miglior film ma il più solido e strutturato). A tutti infine consiglio la trilogia di Naderi su Manhattan: imperdibile. 7/8

Below Sea Level (di Gianfranco Rosi) Monumentale documentario di Rosi girato nel deserto del New Mexico, una terra di nessuno, 40 metri sotto il livello del mare, in una base militare dismessa a 250 km a Sud Est di Los Angeles. Qui, un gruppo di persone ai confini del mondo, senza elettricità e senza acqua, trova rifugio. Centinaia di homeless - che non hanno però nulla dei 'barboni' - accampati nel nulla dentro roulotte, camion abbandonati, macchine o furgoni - i detriti della nostra cultura. L'umanità incredibile, vera e sincera, di chi ha perso tutto, dai figli alla famiglia, di chi si sente ormai fuori dal consorzio civile, chi per scelta, chi per necessità. Tutti si mettono a nudo davanti alla telecamera, complice l'intimità creatasi tra loro e Rosi, sempre di fianco alla macchina da presa ma invisibile durante i sette mesi trascorsi con loro, immagazzinando 120 ore di girato! Decine di impensabili personaggi, 'Wayne Insane', 'Cindy', 'Lucy Bulletproof' (per ricordare alcuni), cantori della propria storia e sculture della nostra: tolto il superfluo espongono appieno la loro forma e l'essenza che dovrebbe animarci. Rosi è come se avesse immagazzinato la lezione dell'ultimo Herzog documentarista, rifacendo un qualcosa di ancor più bello e potente. Imperdibile - ma non ha ancora un distributore! 9

- Un altro pianeta (di Stefano Tummolini) “Commedia” agrodolce declinata a sfondo homosexual, divertente e non scontata. Interamente girata sulla spiaggia nudista di Capocotta, racconta una giornata al mare di Salvatore, macho omosessuale napoletano presunto poliziotto, e gli incontri fatti sulla spiaggia, tra storie di sesso rubato tra le dune, nuovi amori e ricordi di quelli vecchi, ed una comitiva di ragazze in vacanza. Lavora bene sui tipi, presentando l'intellettuale, la svampita, la complessata e la malinconica. Una sorta di remake de Il casotto (senza casotto ma sotto l'ombrellone) in chiave odierna. Credo lo vedremo nelle sale; un'ora e mezzo di divertissement. 7

- The Sky Crawlers (di Mamoru Oshii) Il maestro giapponese affronta ulteriormente i temi di Ghost in the Shell (1 e 2), la distanza tra realtà e percezione dell’individualità umana, cercando una risposta. Sky Crawlers sono 'kildrens', robot bambini che non invecchiano e che combattono una guerra tra due compagnie aeree in diretta televisiva. Ma l'ansia, l'amore, la gelosia e la paura della morte, di un'ultima e fatale missione, s'insinua tra loro come nei replicanti di Blade Runner. Un'orgia di malinconia, in cui il rapporto tra sensazioni reali ed immaginarie, affetti veri o presunti, si fa meno filosofico e complesso che in Ghost in the shell, ma sempre pensieroso e mai banale. Per alcuni la 'semplificazione' può esser un merito, per altri un alleggerimento del retroterra filosofico che anima tutta la sua poetica. Comunque grande. 7+

- Bumazhny soldat: Paper soldier (di Alexey German Junior) L'epopea russa della storia dei lanci nello spazio vista dal basso (1961). Ambientato nella landa desolata del Kazakistan, in una marea di fango, miseria e resti di un passato glorioso, il film assomma le tensioni di un dottore deputato al controllo dei futuri astronauti, insieme a quelle dei candidati per superare i test attitudinali, dai quali infine spunta lui, Yuri Gagarin. L'ansia nazionale del riscatto, di un futuro di redenzione roseo, visto dalla moltitudine di quanti hanno fatto della missione spaziale la propria missione di vita. L'intera pellicola è un'infiità di piani sequenza fatti con camera mano, si concentra ciclicamente sui volti ed i dialoghi, o si apre sul paesaggio per fare entrare nuovi personaggi in una sorta di danza corale. Imperdibile per gli amanti del cinema russo (e della Russia), lo vedremo forse solo nei festival. 7

Giro infine commenti di seconda mano, ma affidabili, sul film di Jonathan Demme, Rachel gets married, dramma 'cechoviano' di una famiglia liberal americana che si ricompone - o scompone, a causa delle tensioni vecchie enuove - dopo l'uscita dalla comunità di recupero di una delle figlie per il matrimonio della sorella Rachel. Interessante, corale/altmaniano, scava in profondita tra i nodi familiari, tanto loro quanto nostri, irrisolti. Strappalacrime. Lo vedremo insieme in sala. 7 ½

Fin qui Alessandro Poli, che ringrazio. A dire il vero abbiamo anche un’inviata al Festival Letteratura di Mantova, ma è troppo pigra per scrivere qualcosa.

lunedì 8 settembre 2008

Nell'isola di Cipro

La palla sarà rotonda ma il calcio è quadrato, in quanto si compone di numero quattro elementi: storia, tecnica, tattica e fortuna.

Innanzitutto, la storia. Prima di sabato sera, l'Italia aveva affrontato Cipro soltanto 6 volte (5 vittorie e 1 pareggio), segnando 17 reti e subendone 2. L'ultima partita risaliva al dicembre 1991, per le qualificazioni all'Europeo: 2-0 per l'Italia allenata da Arrigo Sacchi, che aveva messo in campo come d'abitudine una formazione piuttosto insensata poi sommersa dalle critiche per aver ottenuto un risultato decisamente peggiore di quello conseguito un anno prima dall'Italia di Vicini, vittoriosa per 4-0 nella partita di andata in trasferta, con una formazione e un atteggiamento più che ragionevoli. Quella del dicembre 1991 era la seconda partita di Sacchi ct, e la prima in cui s'iniziò a sospettare - sulla scorta di dati di fatto - che nel cambio di allenatore la Nazionale ci avesse perso più di quanto avesse da guadagnarci.

La storia insegna dunque che contro Cipro la Nazionale va a peso, ossia viene misurata in base alle dimensioni della vittoria. Lo stesso vale per le squadre italiane, da tempo abituate a maramaldeggiare a Larnaca e dintorni: nel 1991 la Juventus aveva vinto 6-1 in casa e 4-0 in trasferta contro l'Anorthosis Famagosta; un paio d'anni dopo l'Inter era riuscita nell'impresa di pareggiare 3-3 a casa dell'Apollon Limassol, qualificandosi ma rimediando di fatto una figuraccia.
Prima di Donadoni, era opinione comune che il punto più basso raggiunto dall'Italia fosse stato il pareggio per 1-1 (in rimonta e su autorete) a Cipro pochi mesi dopo la vittoria nel Mundial '82.

Guardando con raccapriccio l'inizio della partita di sabato scorso, sono stato assalito da più di un sospetto di trovarmi di fronte a un ricorso vichiano, con Lippi al posto di Bearzot. La tecnica diceva infatti che la differenza fra Italia e Cipro è sostanzialmente incolmabile, per quanto Cipro sia una realtà in ascesa che ultimamente s'è permessa di pareggiare 1-1 con la Germania e di qualificare una squadra (l'Anorthosis di cui sopra, che non per niente significa "rinnovamento", anzi "raddrizzamento") ai gironi della Champions League e due al primo turno di Coppa Uefa. La tattica conferma che Lippi s'è fidato troppo della presunta superiorità italica e troppo poco del tambureggiante raddrizzamento cipriota, schierando una formazione sbagliata e somigliante a certe attrici gradite soprattutto a un pubblico prettamente maschile - ben abbondante davanti e troppo scoperta dietro. Quando se n'è accorto (e quando se n'era accorto chiunque, da Marco Civoli a me medesimo, quando insomma se ne sarebbe accorto perfino Donadoni), era troppo tardi perchè il quarto elemento, la fortuna, aveva provveduto a rimodellargli mezza difesa infortunandogli Gamberini e Grosso: il che significava che, per fare il terzo e ultimo cambio, bisognava avere pazienza, sangue freddo e non comune capacità di leggere la partita.

Sinceramente ho creduto che la fine arrivasse nel momento in cui, a seguito di una miracolosa parata di Buffon, il subentrato Cassetti si è trattenuto nel bel mezzo dell'area di rigore a interrogarsi immobile su cosa fosse mai la sfera bianca e nera a spicchi che gli rimbalzava davanti, consentendo così al barbaro Aloneftis di pareggiare senza prendersi particolare disturbo. Ma la stessa fortuna che tanto aveva tolto all'inizio, negli ultimi minuti ha restituito il tutto con gli interessi: grazie al talento di Lippi che ha azzeccato l'ultimo cambio possibile, alla caparbietà di Gilardino che inizia a capire di poter essere utile alle sue squadre anche se non s'incaponisce a voler segnare per forza e, soprattutto, grazie alla freddezza del maiuscolo Camoranesi. Di Natale invece segna ma non mi convince più di tanto; mi sembra ottimo per vincere le partite contro Cipro e contro il Palermo, ma difficilmente lo vedo decisivo contro - che so - il Brasile o la Germania. O, come abbiamo avuto modo di vedere, Olanda e Francia.

Morale della favola: l'Italia di Lippi gioca malaccio come quella di Donadoni. Significa innanzitutto che Donadoni, nel suo piccolo, ha fatto guai come Prodi su più vasta scala. Significa inoltre che la stessa partita, un anno fa, Donadoni si sarebbe limitato a guardarla terrorizzato dalla panchina, e nel migliore dei casi avremmo pareggiato. Lippi ha fatto quel che ha potuto e, con un'unica mossa tattica che ha ristabilito i valori tecnici, ha aiutato la fortuna a farci vincere.

(Pensierino conclusivo per la Serie B, dove tifo per galletti e canarini. Attendo fiducioso che il Bari promettentissimo inizi a mantenere, ad esempio vincendo invece di pareggiare. Mi congratulo col Modena che ha finalmente trovato un attaccante capace di segnare tre goal a partita; ora sarebbe il caso di trovare un portiere in grado di non prenderne quattro).

sabato 6 settembre 2008

venerdì 5 settembre 2008

I love Sarah Palin


La mia convinzione che in Alaska vi fossero soltanto pinguini e sottomarche di gelati è stata smantellata in un sol botto dalla notizia che John McCain – la cui corsa alla Casa Bianca è sostenuta da questo blog senza alcuna riserva ma anche senza alcun finanziamento – abbia scelto come futura vicepresidente la governatrice dell’Alaska, Sarah Palin (se avete la molesta abitudine di leggere ad alta voce ciò che scrivo a beneficio di parenti e amici consenzienti o meno, pronunziate: Serapèlin).

Lo staff di Barack Hussein Obama ha commentato che la giovane Sarah Palin non ha esperienza sufficiente al ruolo di vicepresidente degli Stati Uniti d’America. Ripeto: lo staff di Barack Hussein Obama ha commentato che la giovane Sarah Palin non ha esperienza sufficiente al ruolo di vicepresidente degli Stati Uniti d’America. Smettetela di ridere, non è una battuta.

Io, invece, non solo non sapevo chi fosse Sarah Palin, ma nemmeno sapevo che l’Alaska avesse un governatore (in questo sono come Alexander Portnoy, che voleva portarsi a letto un’americana per stato, fino a un ammontare complessivo di 48 perché eschimesi e hawaiane non contano). Mi sono documentato ed è emerso che questa Sarah Palin, oltre a essere una quarantaquattrenne di più che soddisfacente avvenenza, è stata la prima donna e la persona più giovane a essere mai eletta a tale carica.

Questi primati, però, vanno bene per dei democratici. Per dei repubblicani è più consolante apprendere che Sarah Palin è smaccatamente pro-life e ha cinque figli, l’ultimo dei quali affetto da sindrome di Down, e che pur sapendolo non solo l’ha voluto comunque ma se lo coccolava già nel pancione passeggiando sui ghiacci come documentato da una copertina del Foglio in tempi non sospetti. Il più grande sta per partire soldato per l’Iraq. Le tre figlie in mezzo sono decisamente graziose (specie la seconda) e giocano a hockey, piuttosto prevedibilmente sul ghiaccio. Nel periodo in cui è stata sindaco di Wasilla, ridente (mah) paesino nel sud dell’Alaska, la popolazione è aumentata di duemila unità su cinquemila abitanti.

Sarah Palin è favorevole alla pena di morte (può permetterselo perché non è cattolica; se non fossi cattolico me lo permetterei anch’io), contraria al matrimonio omosessuale, non preclusiva nei confronti dell’evoluzionismo né vergognosa riguardo al creazionismo. Detesta l’aborto, non crede al riscaldamento globale e protegge il diritto a difendersi con armi. Non transige sulla marijuana, figuriamoci sulle droghe più pesanti.

Sarah Palin è stata capitana della squadra di basket del suo liceo e l’ha condotta alla vittoria del campionato nazionale. Si è classificata seconda a un Miss Alaska di qualche annetto fa, e tuttora non sfigurerebbe. È apparsa più che sorridente su una recente copertina di Vogue. Mangia carne di caribù.

Una presidentessa così farebbe venir voglia di diventare americani. Tuttavia, perché ciò avvenga, bisognerebbe sperare non solo che McCain vinca le elezioni ma anche che muoia qualche settimana dopo – e pare brutto. Limitiamoci pertanto a insignire Sarah Palin del titolo di donna repubblicana ideale, e a sospirare perché già sposata (con un eschimese).

Ora, mi raccomando, tutti a dire che la figlia di Sarah Palin, Bristol, è rimasta incinta a sedici anni, e che quindi figuriamoci se Sarah Palin è in grado di governare mezzo mondo se non ha saputo tenere a bada una figlia su due. Nessuno ha detto invece che Bristol sposerà il suo fidanzato, partorirà e darà vita a una famiglia presumibilmente felice, o se non altro regolare. Nessuno ha riconosciuto che è meglio avere un figlio a sedici anni che nessuno a quaranta. Nessuno ha ammesso che Barack Hussein Obama non ha di questi problemi, poiché la sua figlia maggiore ha nove anni; nessuno ha ricordato che Obama ha detto, testualmente, che se una delle sue figlie dovesse in futuro commettere un errore lui sarà comprensivo e non consentirà che “venga punita con un bambino”.




[Questo è il video integrale del discorso con cui Sarah Palin ha accettato la vicepresidenza - o, se vogliamo fare gli iettatori, la candidatura alla vicepresidenza - nel corso della convention repubblicana. Chi non fosse in grado di sopravvivere a tre quarti d'ora d'Inglese sboccato, può leggerne la traduzione completa sul sito del Foglio.]

giovedì 4 settembre 2008

Letterine letterarie (seconda passata)

[Con estrema modestia devo riconoscere che il genere delle Letterine Letterarie non è stato inventato da me, ma ha numerosi precedenti nella varia letteratura degli ultimi tre secoli. Io mi sono limitato a renderlo perfetto un paio d’anni fa per mezzo di trentanove interventi (che potete leggere in massa cliccando qui) sul blog della rivista Ore Piccole, quando ancora qualcuno, cioè io, scriveva qualcosa sul blog della rivista Ore Piccole. È tempo di rinverdire questa tradizione: a cominciare da oggi, e a scadenza periodica, scegliendo fra le varie lettere che ricevo risponderò pubblicamente alle migliori di esse, per lo più scritte da me.]


Caro Gurrado,
poiché da quel che scrivi traspare evidente che saresti un ottimo predicatore (benché petulante da far spavento) ma che al contempo hai qualche problema col voto di castità (ma non di povertà e obbedienza, a quanto pare). Ti offro una soluzione: perché non ti fai pastore protestante?
Irene

Perché, fra una cosa e l’altra, i protestanti sono eretici. E poi ci vuole un bel coraggio ad aderire a una religione inventata da un Tedesco, ragion per cui potrei solamente farmi anglicano. Ma l’anglicanesimo è un contenitore vuoto: si è visto nella recente conferenza di Lambeth il sinodo che ha visto partecipare molti meno vescovi di quanti Rowan Williams ne avesse invitati e durante il quale si è discusso soprattutto del permesso di far sposare i preti anglicani con altri uomini, eventualmente preti pure loro. A questo punto, meglio il voto di castità: il protestantesimo avrà il vantaggio di non contemplarlo, ma è pure una religione senza Madonna: nello scambio decisamente ci perde.

Illustre dott. Gurrado,
mi sento ferita nella mia coscienza di donna…
Lisa

Gentile lettrice, la interrompo giusto all’inizio del suo prezioso intervento per metterla al corrente che le sue gradite proteste sono viziate a priori dal non aver letto un impegnativo e ambizioso volume che, invero, non ho letto neanche io, con la differenza che io non ne avrò mai bisogno. In compenso ho avuto modo di guardarne la copertina, che qui riproduco a suo beneficio, e di ricordarne il titolo e il nome dell’autore: Dante Moore, The Re-education of the female (se Silvia Vegetti Finzi lo permetterà, prima o poi verrà tradotto anche in Italiano). In questo volume, il cui acquisto le consiglio senz’altro, troverà concentrate idee ragionevoli che oggi appaiono rivoluzionarie e provocatorie perché cadute in disuso: come quella, la cito a titolo d’esempio, che le donne meglio farebbero a mantenersi snelle, a essere carine, a vestirsi bene, a curarsi insomma e a lavarsi addirittura. Per completezza d’informazione mi sento in obbligo di segnalarle che la dott. Gilda Carle, femminista statunitense di chiara fama, ha protestato che le teorie del Moore non hanno alcun valore scientifico perché questi (cito) “non ha mai trovato la donna giusta, non si è mai innamorato”. Converrà che è come riconoscere che il manuale di psichiatria del Kaplan non ha alcun valore scientifico perché l’autore non è mai impazzito. Tuttavia si consoli: una rapida ricerca iconografica ha confermato che la dott. Gilda Carle, la cui foto non riproduco a universale beneficio, è oltremodo brutta, ma si crede bellissima.

Onorevole Gurrado,
il Governo appare sempre più distaccato dal comune sentire; per fortuna Veltroni ha il polso della situazione.
Peppe

Veltroni avrà il polso della situazione ma non ha quello della divisione fra i poteri dello Stato: c’è il potere legislativo (ossia Governo e Parlamento) che emana le leggi contro la violenza dentro e fuori dagli stadi, il potere esecutivo (ossia la polizia) che arresta cinque vandali fra i turbolenti tifosi del Napoli e il potere giudiziario (ossia la magistratura) che li scarcera ventiquattr’ore dopo. Avessi soldi, provvederei a far pervenire a Veltroni una pregevole edizione Bur de Lo Spirito delle Leggi di Montesquieu. Se non ha tempo di leggerlo, può farselo ridurre e sceneggiare da Vincenzo Cerami.

Dear Gurrado,
come osi dire che Barack Obama è invotabile perché ha ascendenze musulmane? Di questo passo finirai per sostenere che sia invotabile perché – come dici tu – negro.
Hillary Clinton

Non ho mai detto questo. Barack Hussein Obama è invotabile perché democratico.