domenica 25 marzo 2007

Vano tentativo di spiegazioni con una hostess delle British Airways


(copyright Ore Piccole)


“Come sarebbe a dire al massimo ventitrè chilogrammi?”

Ora, quando prendo l’aereo io vivo nella convinzione che sia necessario portarsi appresso tutta una serie di cose inutili, e che i nuovi limiti imposti su suolo britannico – peraltro inevitabili vista la recente stronzaggine degli attentatori più vari – abbiano un che di profonda ingiustizia che mi colpisce nell’intimo. Tanto per dire, partendo per l’Inghilterra ho dovuto separarmi da tutta una serie di oggetti fondamentali, dalla bandiera tricolore al crocifisso, tratti distintivi senza i quali potrebbe anche sembrare che in camera mia viva un turcomanno, un gangaride o addirittura un francese progressista. Per non parlare della disperante ricaduta di queste limitazioni sul vestiario, così da consentirmi di portare, poniamo, una quantità teoricamente infinita di cravatte ma non più di due giacche eleganti (sarà per questo che presto o tardi inizierò a indossare le cravatte a due o tre per volta); oppure, poniamo ancora, o le scarpe da tennis (calzo 44, fate un po’ voi) da indossare sotto degli abiti sportivi o degli abiti sportivi da indossare sopra le scarpe da tennis. Rassegnatomi ad andare in giro come un guitto – come d’altronde chiunque altro in Inghilterra – con maggiore riluttanza ho accettato l’idea blasfema di portarmi appresso giusto due maglioni da abbinare a una quantità sconsiderata di camicie, lasciando presagire che dovrò lavarli molto spesso e che quindi, per reazione uguale e contraria, finirò per non lavarli mai – come d’altronde chiunque altro in Inghilterra. Ma a tutto sono pronto, davvero, pur di riuscire a passare il check-in.

“Come sarebbe a dire che supera le misure consentite?”


Gli inderogabili limiti di grandezza previsti sul bagaglio a mano sono un altro flagello del Signore. È noto che sono sempre leggermente inferiori alla dimensione del bagaglio a mano che mediamente viene venduto come sicurissimo a essere portato sull’aeromobile – questo perché ogni volta inizia una interminabile diatriba scolastica (ossia quaestio quodlibetalis) riguardo all’evenienza che la maniglia debba o meno venire conteggiata nella misurazione dell’altezza, o al caso in cui la presenza di un oggetto soffice nella tasca anteriore debba essere considerata in base alla sua dimensione compressa o spiegata. Per non parlare del trucchetto, applicabile soltanto fino a un certo punto, non solo di indossare contemporaneamente capi sufficienti a cambiarsi per tre o quattro giorni (“Be’, cosa c’è da guardare? In Inghilterra fa un freddo cane e io mi premunisco”) ma anche di infilarsi nelle tasche oggetti la cui dimensione varia dal tubicino di Efferalgan® alla tenda da campeggio varie volte ripiegata su sé stessa.


“Come sarebbe a dire che c’è un’indebita escrescenza?”


Mancano ben più di due ore al mio volo pertanto c’è tempo sufficiente a investigare e a scoprire che l’indebita escrescenza sulla parte anteriore del bagaglio a mano consiste nella copertina rigida di Fuoco, Vento, Alcol, l’ultima raccolta di racconti di Alessandra Montrucchio pubblicata testé da Marsilio e infilata in extremis dopo la notte insonne, verso le sei e cinque del mattino, in avanzato stato allucinatorio e su precisa indicazione di Mosè redivivo. La hostess di terra mi guarda interrogativa. “Ah, questo. Senta, ho appena iniziato a leggerlo e devo recensirlo. Lo so che non è un romanzo e che quindi potrei anche lasciarlo mezzo letto su suolo Italiano per poi riprenderlo e finirlo quando tornerò fra due, tre, quattro mesi o quando Cristo vorrà. Se non che io non riesco mai a lasciare un libro a mezzo, neanche temporaneamente, e soprattutto non riesco a iniziare un nuovo libro se non ho finito quello di prima, e quindi questo comporterebbe che io stia due (o tre, o quattro) mesi senza leggere a single fucking page, cosa alla quale non sono certo di riuscire a sopravvivere, anzi, sono certo di non riuscire a sopravvivere. La prego, sono nevrotico, non dormo da tre notti e le mie fidanzate hanno sempre votato per partiti ridicoli, abbia pietà.”


(Intermezzo. Allora uno dice: se temevi che le regole d’imbarco della British Airways fossero troppo rigide e restrittive per uno che in fin dei conti è pur sempre un Italiano, perché non hai deciso di volare con Alitalia? Allora io rispondo: perché non ero sicuro che l’Alitalia non fallisse prima che io atterrassi.)


Le hostess della British Airways, oltre ad essere le meglio vestite di tutti i cieli, sono anche particolarmente colte e attente alle nuove tendenze della narrativa contemporanea. Godono inoltre di spiccato senso pratico e provano sottile piacere nella tortura psicologica qualora il cliente si trovi dalla parte del torto, come a me accade dal 1980 in cui nacqui. Nello specifico, l’hostess deputata al mio imbarco – dopo aver ostentatamente dimostrato che proprio l’indebita escrescenza impediva al bagaglio a mano di entrare nella scatoletta per comprovarne la corretta dimensione, e soprattutto dopo aver alzato il sopracciglio sinistro nell’apprendere che io, ridicolmente vestito qual ero, dovevo recensire i racconti di Alessandra Montrucchio – ha finto di venirmi incontro proponendomi una soluzione di compromesso. Visto che la copertina è rigida come il cadavere del papanonno, arguiva, e visto che presumibilmente dovevo recensire (nuova levata di sopracciglio) il libro e non la copertina, be’, una ragionevole soluzione sarebbe stata quella di strappar via la copertina e riporre il resto del libro nel bagaglio a mano.


Ciò fatto, tuttavia, ci siamo accorti che il resto del volume costituiva tuttavia un’indebita escrescenza, benché di dimensioni più limitate (parentesi: so che internet è pieno di porci come me pertanto vi prego di non fare battutacce sulle indebite escrescenze di dimensioni limitate). La hostess della British Airways, avendo ovviamente già letto il libro per meglio rimarcare la mia mancanza, piglia e fa: “Temo che sia necessario operare delle scelte, signor Gurrado A, se vuole comunque portare il libro con sé. Tuttavia non si preoccupi, perché mi pare che in questo caso la scelta, benché dolorosa, sia quasi giustificata dalla struttura stessa del volume.” “Scusi, signorina hostess, in che senso giustificata, in che senso struttura?”


La hostess sbuffa e argomenta: “Vedo, signor Gurrado A, che nonostante lei rimarchi continuamente il suo dovere di recensire questo libro, mi vedo costretta a farlo io poiché lei da due pagine e nove capoversi sta dicendo capitali fregnacce ma non una parola su Alessandra Montrucchio, la cui prosa merita molta più attenzione di un bagaglio a mano. Dunque, il titolo stesso del libro suggerisce che esso è tripartito come una pala d’altare, che chiusa è una e aperta sono tre; il Fuoco, il Vento e l’Alcol danno il nome a ciascuna delle tre parti. La prima parte, Fuoco, costituisce la trilogia dell’amore letterario; la seconda, Vento, la trilogia delle fiabe non raccontate; la terza, Alcol, piuttosto prevedibilmente la trilogia elitica, e lei ben lo sa a giudicare dal suo alito - gone out boozing with friends, haven’t you?”.


Sorvolo con un vago cenno del mento sui miei trascorsi durante gli ultimi giorni prima della partenza e mentre dietro di me inizia a formarsi una fila la prego di spiegarsi meglio. “Sarebbe a dire che ogni parte racchiude in sé un aspetto del senso dell’intera raccolta, e che al contempo l’intera raccolta trae senso dalla completezza interna di ciascuna sua parte...” “Come un’anguria?” “Cyril Connolly non la metterebbe così ma per quanto ingenua la metafora funziona. Per facilitare il mio compito e il suo lavoro, signor Gurrado A, dovrebbe scegliere uno fra Fuoco, Vento, Alcol, attenendosi agli stessi dettami che l’autrice le propone – ha presente la sineddoche, ha presente la parte per il tutto, insomma in gioventù lei ha frequentato un liceo o ha pascolato le pecore?”


Scelgo Fuoco. Scelgo Fuoco non solo perché sono dannunziano dentro, né solo perché i tre titoli da cui è composta (Fiore di lago, Cronaca di una storia qualunque, Tre armi) suonano più evocativi, ma soprattutto perché – “Sì, sì, lo sappiamo, signor Gurrado A; soprattutto perché Alessandra Montrucchio ha già dimostrato (ad esempio in Cardiofitness, che gira e rigira è uscito quasi dieci anni fa) di avere un talento non comune nel gestire le storie interpersonali, bilanciando i punti di vista, creando differenti versioni della stessa realtà, puntando la lente d’ingrandimento contro i dettagli più insignificanti e al contempo irrinunciabili per l’evoluzione, anzi, la degenerazione di una storia d’amore o di qualsiasi altro genere di rapporto interpersonale. Questo è vero, ma non rende giustizia alle acrobazie linguistiche della Montrucchio nella parte etilica (sono sicuro che anche lei, signor Gurrado A, quando è ubriaco compie delle acrobazie linguistiche, ma preferisco non apprendere di quale genere né con chi); soprattutto non rende giustiszia all’innovativa narrazione delle tre fiabe non raccontate, dove si apprende che fine fa Geppetto e in cosa ha sbagliato i suoi calcoli Cenerentola e soprattutto chi pettinava ogni giorno la Bella Addormentata nel Bosco, caso mai arrivasse il Principe Azzurro.”
Con ciò siamo a posto, penso. Faccio per rimettere Fuoco, Vento, Alcol nella tasca anteriore del bagaglio a mano e tento di oltrepassare lo sbarramento, se non che la hostess di terra nuovamente mi fa notare un’indebita escrescenza, impercettibile quantunque, ma pur sempre indebita. “Questo perché, mi spiega, lei non è molto intelligente” (infatti sono laureato in filosofia) “e delle tre parti ha scelto la più voluminosa, ottantuno pagine contro quarantaquattro e contro cinquanta. Siamo dunque punto e a capo: poiché ciascuna delle tre parti è composta da tre racconti secondo un sofisticato gioco di architetture interne, e potendo portare con sé in aereo non più di una cinquantina di pagine, quale dei tre racconti sceglie il signor Gurrado A?” Sorvolo sul tono di esplicito dileggio (e sullo sguardo severo che la rassomiglierebbe al ritratto di Alessandra Montrucchio in terza di copertina, non foss’altro che la copertina rigida è stata gettata via per i meandri di Linate, e che probabilmente già costituisce cibo per turisti giapponesi) e, scegliendo alla cieca fra i titoli sull’indice, punto il dito su Cronaca di una storia qualunque. “E perché mai?” “Perché è il più lungo, perché è quello che sta in mezzo (e quindi la chiave di volta), perché visto che lo devo recensire penso che la bravura di un autore emerga più nettamente quando la trama è, come lascia presagire il titolo stesso, di tono assolutamente ordinario e quindi non consente a un cronista di camuffarsi da scrittore.”


“Forse fa bene, forse no, chi lo sa. Insomma è la storia di Andrea che giovanissimo sposa Rosaria perché l’ha messa incinta, però ama Giulia; ama Giulia però deve non solo sposare Rosaria ma anche e soprattutto cercare un lavoro per provvedere al mantenimento di lei e della creatura, così che la sua vita ordinaria - scandita dall’apparentemente semplice ma in realtà imperioso (e impietoso) utilizzo che la Montrucchio fa delle date altrimenti qualunque della vita, il 19 marzo 1998, il 24 dicembre 2001, il 3 novembre 2005 e così via – sarebbe di squallore indicibile se la sola fantomatica presenza di Giulia, la sola eventualità di poterla prima o poi rincontrare (la incontra? non la incontra? sono sadica e non lo dirò), la speranza che una nuova storia rimedi a quella vecchia e bolsa costituisce un’apertura di possibilità, un periodo ipotetico, una ragione di vita. D’altronde chi non ha un’alternativa alla quale ha dovuto rinunciare, chi non ha una Giulia che ha giocoforza smesso di inseguire per abbracciare la vita semplice, la retta via, la porta larga? Tenga, signor Gurrado A, il suo biglietto per Heathrow e faccia buon viaggio.”


Silente e sbalordito, infilo i brandelli di Fuoco, Vento, Alcol (anzi, ormai solo Fuoco, e manco tutto) nella tasca anteriore del bagaglio a mano, pensieroso supero il metal detector e mostro la carta d’identità (la cui fototessera non rende giustizia alla mia avvenenza), infine mi avvio verso il gate B28, ma vengo rincorso da un’ispettrice di polizia aeroportuale. “Mi scusi, va in Inghilterra, lei?” “Ci provo, se non altro.” “Posso controllare il suo bagaglio a mano? C’è un’indebita escrescenza.” Annichilito, le porgo il tutto. Lo posa sul suo tavolino, apre la cerniera, solleva l’asciugamano che ne copre l’intera larghezza e fa: “Ma quella cos’è?”, indicando la Bibbia. Svengo.


[Nota per i boccaloni: tutto ciò non è mai avvenuto, o meglio è avvenuto soltanto nella mia nevrotica immaginazione durante l’agitatissima notte prima di decollare, nel corso della quale – verso le quattro meno dieci – ero giunto alla conclusione che l’unica maniera per salvare capra e cavoli fosse infilare ventitrè chili del mio corpo mortale (la capra) nella valigiona e comprimere i restanti, ehm, cinquanta, ehm, cinquantacinque chili (i cavoli) nel bagaglio a mano. Quanto alle hostess della British Airways, sono carinissime e imbarcandomi per primo si sono inevitabilmente tutte innamorate di me, salvo poi mostrare severo disprezzo quando, a mezz’aria, una lieve turbolenza mi ha proditoriamente infilato il naso nella tazza di caffè.]

giovedì 22 marzo 2007

Elogio dell'Inter

(copyright Il Resto del Pallone)

È vero, quest’anno l’Inter è fortissima. Sono di parte (avversa, rossonera) ma non posso nascondere una verità così semplice da apparire quasi banale, da venire potenzialmente passata sotto silenzio come una scontata supremazia di fronte all’incredibile scoramento che mi piglia ogni volta che leggo la classifica e vedo il disperante abisso che si è dischiuso fra la prima e la seconda. L’istinto di sopravvivenza mi dice di aggrapparmi alla matematica e pensare che non è ancora detta l’ultima parola, che tutto ancora può succedere, che la palla è rotonda e che non si sa mai. Ma se devo considerare me stesso non come diabolico macumbista bensì come ammirato spettatore di (bel) calcio, qualche settimana in più di attesa non potrà mai scrollarmi di dosso l’idea che – qualunque cosa accada – lo scudetto l’ha vinto l’Inter.
E che scudetto! Diciamolo, per anni e anni l’abbiamo data per favorita ad agosto e puntualmente siamo stati smentiti, talvolta già a dicembre. Quest’anno c’era più di un vago sospetto intorno alla soluzione del campionato, ma non meno meritevole è stata l’Inter a non concedere nemmeno il beneficio del dubbio, a non traballare quando la navigazione appena iniziata poteva rivelarsi incerta e insidiosa, a scappare talmente lesta da non far quasi render conto che il campionato appena iniziato era già finito. Onore a chi sta tentando, o meglio ha tentato, di inseguirla. L’attesa per lo scontro diretto, tuttavia, è ancor più che una formalità. La superiorità è schiacciante: e non perché appare manifesta ogni domenica la si può ritenere un miracolo minore.Io penso che i punti chiave siano tre. Per prima cosa, un centrocampo che definire perfetto sarebbe riduttivo, agglomerato di potenza, precisione e classe sia nel collettivo sia nel singolo giocatore che funge da perno della squadra. In secondo luogo, la meraviglia dei dettagli: il terzino più forte del mondo; un portiere capace di coprire tutto lo specchio della porta con torsioni inaspettate; un attaccante argentino che si nota poco ma fa sempre il suo dovere, cioè segnare; un cannoniere di devastante abilità sulle palle inattive: insomma tutto quello che fa gran calcio, un ingranaggio di infinite rotelline capaci di diventare un coro di perfezione.
E vogliamo parlare dell’allenatore? Basta dire che è il più vincente in Italia, numeri alla mano. Che sin da quando giocava appariva un predestinato. Che gli manca ormai soltanto un grande successo con la nazionale. Che ai giornalisti incute timore reverenziale e ai tifosi affetto viscerale. Un uomo che non ha altra descrizione possibile se non il suo stesso cognome: basta pronunciarlo e in sé pare racchiudere la storia del calcio italiano, il passato, il presente e il futuro.
Certo, potrei malignare sul triste destino europeo: una cavalcata trionfale che è stata spazzata via da pochi minuti di follia - già agli ottavi di finale, poi. Ma l’avversario era una squadra quadrata e si sa, prima o poi la fortuna presenta il conto. I goal subiti a San Siro gridano vendetta, oggettivamente: se la stessa partita venisse rigiocata altre venti volte sono sicuro che l’Inter vincerebbe sempre. Paradossalmente la sconfitta europea rende più grande il merito in Italia di quest’allegra macchina da guerra, la sua manifesta superiorità: ed è solo un ciclo che si apre, l’anno prossimo tremerà l’Europa intera.
Gli intenditori di calcio e i solutori più che esperti si saranno resi conto che stamattina non avevo voglia di scrivere e ho riciclato un pezzo scritto qualche anno fa. A beneficio dei lettori distratti, spiego che l’allenatore più vincente d’Italia è Trapattoni, il terzino più forte del mondo è Brehme, il portiere felino è Zenga, l’attaccante argentino Ramon Diaz, il cannoniere devastante Aldo Serena; il centrocampista fondamentale è Matthäus. La seconda in classifica, a distanza siderale, è il Napoli di Maradona, e le altre avversarie erano la Juve di Zoff, la Sampdoria di Vialli, il Milan degli olandesi, la Fiorentina di Baggio. L’eliminazione europea fu agli ottavi di finale di Coppa Uefa contro il Bayern Monaco: nonostante la vittoria in Germania, l’Inter perse 1-3 in casa subendo tutti i tre goal in pochissimi minuti, gettando al vento una qualificazione e, forse, una vittoria finale ampiamente alla portata. Era il 1989, l’anno in cui l’Inter vinse il suo ultimo scudetto vero.

giovedì 8 marzo 2007

Del nascere e morire

(copyright Books Brothers)


Il guaio è che quando si va a letto con qualcuna non si possono fare citazioni. Mi spiego: utilissimo al riposo degli occhi e al divertimento del cervello, l’Elogio dell’Amore Vizioso della collaudata ditta Remmert & Ragagnin (Marsilio 2006) si fa leggere rapidamente e senza fatica, ché come le ciliege una descrizione segue un sonetto, un autore del seicento rimpiazza un’autrice postmoderna, una parte del copro succede all’altra e all’amore risponde la perversione. Fin qui, tutto perfetto; leggere letteratura erotica non ha mai fatto male a nessuno, anzi, e si spera che un furtivo brano di Apollinaire o di Bukowski, lasciato cadere da R&R nella loro antologia, sia funzionale al desiderio (appunto) di leggere prima o poi il testo intero. Fin qui, dunque, addirittura ammirevole il peccaminoso volume della Marsilio, il libretto rosso dell’erotismo scritto; il difetto, se mai, va cercato nell’animus catalogatore, nella gabbia tematica costruita dai curatori gemelli.


Prosatori e poeti, Enrico Remmert e Luca Ragagnin hanno inteso proseguire sulla strada del loro precedente Elogio della Sbronza Consapevole; con la differenza sostanziale che il vino, come si dice nella liturgia eucaristica della messa, è “frutto della vite e del lavoro dell’uomo”, dunque è grezza materia alla quale si dà forma, piena cooperazione dell’uomo esperto e della natura condiscendente sotto il benevolo sguardo di Dio. Al contrario, il sesso è fiume in piena; produce l’uomo più che esserne prodotto, lo insidia e lo pervade, ne costituisce insieme al riso il tratto distintivo poiché gli altri animali si accoppiano ma l’uomo fa sesso con la mente, col corpo e pure con l’anima, chi ce l’ha. Prova ne sia che, di tutti gli animali, l’uomo è l’unico che circola vestito, appunto perché – eccezion fatta per talune signorine – sempre si vergogna di essere nudo.

Se vogliamo cercare l’ago della mancanza nel pagliaio delle innumerevoli citazioni, per quanto mi lambicchi riesco a trovarne due soltanto. Una, secondaria, è la totale assenza delle tracce di Paul Bonnetain, l’autore di Charlot S’Amuse (1879 se non sbaglio, o 1883, tanto cambia poco), la più struggente elegia sulla masturbazione che sia mai stata scritta ad esclusione del Portnoy di Philip Roth – un romanzo il cui iperonanistico protagonista viene condotto al suicidio dal proprio eccesso ma, prima di gettarsi nella Senna, non resiste e si tocca per un’ultima volta. Pazienza, a questa mancanza R&R sapranno rimediare con un’eventuale seconda edizione. Più grave mi è parsa invece la citazione soltanto parziale della Bibbia: ci si limita a una frasetta di provenienza non specificata ma che è sicuramente tratta da Levitico 18, il capitolo delle proibizioni in materia copulativa; in questa maniera non viene resa giustizia – nel particolare – alla fantasia iperbolica di Mosè o chi per lui nell’inventarsi i più impensabili misfatti da punire e – nel generale – all’erotismo neanche tanto sotterraneo che percorre il testo sacro. Pensate a Salomè. Pensate a Giuditta che provoca Oloferne fino mozzargli il collo. Pensate alle figlie di Loth che ubriacano il padre per portarselo a letto, o a David che spia Betsabea mentre fa il bagno in una tinozza, sacerrima antenata delle docce di Edvige Fenech. Gli stomaci forti possono leggere cosa combinano con gli asini le birbanti sorelle Oolla e Ooliba in Ezechiele 23.

Non lo dico per mania esegetica, ma soprattutto per dimostrare che, se perfino la Bibbia trabocca di passi scabrosi, vuol proprio dire che l’uomo non può fare a meno del sesso, e che – parafrasando, sia chiaro – non è il sesso fatto per l’uomo ma l’uomo per il sesso: per questo motivo non sembra domabile mediante la classificazione, per quanto Remmert e Ragagnin siano in questo brillanti e volenterosi. Volenterosi nel non escludere nessuna casistica: partono dal bacio e passano a quel coso lì, corrispettivamente a quella cosa lì, quindi tramite l’imeneo, la prostituzione, l’autoerotismo e l’omoerotismo passano in rassegna tutte le possibili varianti del rapporto. Brillanti nell’attribuire a ogni variante un titoletto sagace – “Numeri Dispari”, “La Revisione della Natura”, “Altri Amori” – per pervenire infine alla fenomenologia del sudaticcio, triplicata in “Religione dell’Umido” (tesi), “Politica dell’Umido” (antitesi) e “Filosofia dell’Umido” (sintesi).

Appurato con ciò che Remmert e Ragagnin sono oggigiorno i più verosimili eredi di Hegel, va reso atto che di là dalla Bibbia e Bonnetain (in rigoroso ordine alfabetico) c’è tutto quel che si possa desiderare e anche di più: Sade, Restif de la Bretonne, Mirabeau, Crébillon fils, Houellebecq, Giorgio Baffo, Emanuelle, Pietro l’Aretino, Colette, Anaïs Nin, Sacher-Masoch, Henry Miller, Pierre Louÿs e pure Cicciolina, per non dire i fratelli Grimm. L’assenza di Casanova è controbilanciata dalla sorprendente presenza di Lenin. Uno spirito enciclopedico e un tantinello barocco come me ha di che sguazzare nelle loro citazioni (volutamente, forse, dei vari autori non vengono indicate le opere, così da rendere necessaria la peccaminosa ricerca privata che si sarebbe invece evitata a pappa pronta) e nelle biografie minime dell’appendice, dove Ambrose Bierce risulta “diavolo di uno scrittore” e Rabelais americanamente “bigger than life”.

Ma come dicevo all’inizio, purtroppo quando si va a letto con qualcuna non si possono fare citazioni. Uno prendeva in mano l’Elogio della Sbronza Consapevole e dall’erudizione di Remmert e Ragagnin poteva piluccare un brindisi coltissimo. Al contrario non mi ci vedo a bloccare l’amata dicendo: “Le sante, come meretrici, portano con sé tutto quel che serve” (Santa Caterina da Siena), o “La vergine è solo una puttana imbalsamata” (William Scott). Perché mai? Se pensate ai migliori giallisti, vi renderete conto che molto pochi sono investigatori, e che quasi nessuno è assassino, o maggiordomo. Al contrario, tutti coloro che hanno scritto di sesso sono stati soggetti (o oggetti) sessuali – anche Santa Caterina, che per evitare di sposarsi dovette radersi il capo e chiudersi in casa – e di conseguenza, scrivendo di sesso, necessariamente scrivono di sé (anche quando si favoleggiano accoppiamenti con unicorni, in Beardsley, o con orche, in Lautréamont). Scrivere di sé, ripiegarsi sul proprio ombelico (o su qualsiasi altra parte del corpo), complica in qualche modo l’applicazione di una forma razionale a una materia irragionevole quale il desiderio, che come lo spirito soffia dove vuole, senza cercare permesso alcuno.
Enrico Remmert e Luca Ragagnin hanno ammirevolmente combattuto con quest’idra; hanno chiamato al proprio fianco, come gli eroi mirmidoni, gli dèi letterari più disparati; hanno inventato parole da aggiungere alle parole con le quali già era stato ammantato l’eros, che è pulsione animale e per ciò stesso muta, o quanto meno non articolata. Però la loro catalogazione parrebbe prescindere dall’incatalogabile e perpetua forza gravitazionale esercitata dal sesso sull’uomo, causandone tanto la nascita quanto il deperimento e la morte. A meno di non considerare spie due citazioni lasciate cadere nella sezione dedicata al centralissimo e sfuggente organo femminile, riguardo al quale Zavattini lamenta: “Ah se potessi spiegarmi ma / è difficile / come parlare del nascere e del morire”, e soprattutto Giuseppe Gioachino Belli insegna che c’è “chi la chiama vergogna, e chi natura / chi ciufèca, tajola, e sepportura”.


mercoledì 7 marzo 2007

Parole di calcio

(copyright Il Resto del Pallone)

Prima, Paolo Valenti. I suoi sorrisi domenicali erano l’inaugurazione della gioia del calcio, in un tempo nemmeno tanto lontano milioni di italiani il campionato, per ore e ore, si limitavano ad immaginarselo. Poi compariva lui, sereno, affabile, con il fondo degli occhi pieno della responsabilità di entrare nelle case di tutta Italia e al tempo stesso non disturbare, venire atteso e passare sottotraccia, proporre le tirate strapaesane di Strippoli o di Bubba ammantandole di lieve ironia, di understatement, di cortese avvertimento al non prendere un gioco troppo sul serio. E dall’altra parte i telespettatori, che lo aspettavano per tutta la settimana e che, quando 90° Minuto divenne appuntamento quotidiano in occasione dei mondiali in Italia, si sentirono come se d’improvviso fosse domenica ogni giorno, vedendosi salutare dal suo sorriso, dal tono di voce smorzato, dallo sguardo concentrato e divertito di chi ama veder giocare.
Poi, Gianni Brera. Quando morì, la televisione di corta memoria ricordava quasi soltanto la sua polemica con Sacchi, in cui sosteneva che il gioco del calcio consistesse nel trattare la palla e non nel far scattare all’improvviso quattro difensori in linea. Dimenticò, certa televisione di corta memoria, che per Brera l’esercizio dialettico contava più del suo contenuto, alle volte, e che la polemica era parte integrante del gioco, del confronto, fondamento irrinunciabile del calcio.
Poi, Vladimiro Caminiti. Il velenoso corsivista che con il suo ampio e ipnotico periodare prendeva l’ignaro lettore che cercava un commento sportivo e lo trascinava per le lande diverse della politica, dell’arte, della letteratura, senza che nessuno osasse interromperlo, distogliere gli occhi, chiudere il giornale; perché sapeva che alla fine si sarebbe ritrovato di nuovo a leggere di calcio, considerandolo non più l’unico argomento possibile ma la parte di un tutto armonico, di un intero mondo vagliato da uno sguardo caustico.
Poi, Sandro Ciotti. La voce perduta che tutti i bambini tentavano di imitare gorgogliando, raccontandosi le proprie partite. Il mito del viveur che scriveva canzoni, giocava a carte tutta la notte e fumava quaranta sigarette al dì. Il fine dicitore che stigmatizzava un arbitraggio definendo testimoni gli spettatori e che aveva la faretra piena di perifrasi sarcastiche; ogni parola al proprio posto, mai un congiuntivo sbagliato nella foga, l’impressione che stesse leggendo un testo già scritto al quale i calciatori si limitavano ad adeguarsi.
Poi, Enrico Ameri. Il basso continuo, il sottofondo inafferrabile delle domeniche trascorse a girare la manopola della radiolina sperando di riuscire ad ascoltare, miracolo dei miracoli, un tempo intero tutto di fila. Finché non arrivava il momento in cui, al colmo della disperazione, orientati quasi a spegnere il marchingegno e a non pensarci più, dal fruscio delle onde elettromagnetiche si sentiva giungere il suo racconto, riconoscibile fra mille, ci si ingolosiva, si girava impercettibilmente la manopola per sentirlo meglio e non lo si sentiva più.
Poi, Nando Martellini. Che quando venne scritturato in vecchiaia per commentare alcune partite di Coppa dei Campioni ce le fece apparire più importanti per il solo fatto che fosse la sua voce a farcele arrivare in casa, eco di un passato perduto nella mitologia e del triplice compostissimo grido che ci battezzò campioni del mondo.
Ora, Giorgio Tosatti. L’ultima testimonianza che esistono due motivi per seguire il calcio. Il primo è puramente estetico, immediato, e consiste nel vedere la giocata spettacolare, l’azione travolgente, la rete impossibile. L’altro è mediato, intellettivo, e consiste nell’attendere con trepidazione il commento in seconda serata o il quotidiano del giorno dopo; sapere che una vittoria non sarà mai piena se non ci sarà qualcuno a raccontarla, o che una sconfitta ci sembrerà sempre irragionevole finché qualcuno non ce la spiegherà. Perché la palla che rotola è un’emozione unica nel cuore di ognuno; ma nella memoria collettiva, si sa, se non ci fosse stato Omero alla guerra di Troia non avremmo dato tutta questa importanza.

venerdì 2 marzo 2007

Storia naturale dell'alienazione, ovvero La recensione militante

(copyright Ore Piccole)




Comunicazione di servizio: la recensione del romanzo di Joshua Ferris, E Poi Siamo Arrivati alla Fine (Neri Pozza, 2006) inizia dopo un enorme capoverso introduttivo che vi prego di saltare a pie’ pari.




C’è un dato di fatto che, per quanto io tenti di ignorarlo o di far finta che emerga da una serie di letture a tappeto e quindi necessariamente stocastiche, alla fine si ripropone continuamente come i più ardimentosi tentativi culinari di mia madre che da quando è andata in pensione ha quasi tanto tempo libero quanto me. Mi sembra che, a parità di argomento trattato, i romanzi più interessanti vengano quasi tutti da oltreoceano o, se vogliamo limitarci all’Europa, da oltremanica; e tanto più mi sconvolge l’idea che la stessa trama possa risultare narrativamente diafana se prodotta, che so io, a Centocelle e invece improvvisamente solidissima se affrontata, poniamo, a San Antonio, Texas. Premesso che ovviamente si tratta di una considerazione generale, e che di conseguenza le eccezioni supereranno magari in numero le conferme, penso che le ragioni principali siano tre. La prima è di natura linguistica: l’inglese, e in particolare il gergo americano che è venuto via via costruendosi una nuova sintassi, consente ai narratori opzioni più sbrigative, più dirette, forse anche più agevoli a manovrarsi. La seconda è di natura sociale: gli americani hanno una cultura condivisa molto più giovane (e per certi versi ingenua) della nostra, la quale consente loro di fronteggiare a cuor leggero gli argomenti letterariamente più scottanti, quali il lavoro, il sesso, l’angoscia vitale; gli inglesi hanno una cultura condivisa talmente radicata da poter permettersi uno spirito narrativo incrollabile (si pensi alla impressionante regolarità della produzione di Defoe, di Dickens, di Graham Greene). La terza è di natura politica: i principii basilari della comunità, benché radicalmente opposti fra loro, sono parimenti cristallini in America e in Gran Bretagna, di modo tale che il narratore anglofono di solito non deve ricorrere al sotterfugio del romanzo esplicitamente impegnato, le cui varie metastasi hanno avvelenato buona parte della recente narrativa italica.




E Poi siamo Arrivati alla Fine è un ottimo esempio di trama che, sviluppata in Italia, sarebbe divenuta un pessimo romanzo. Grazie al cielo invece Ferris vive a Brooklyn, è nato in Illinois, ha studiato in Iowa e in California e ha ambientato il plot a Chicago, mettendosi al riparo da ogni possibile decadentismo eurocentrico. Si prenda infatti un suo immaginario coetaneo italiano – chiamiamolo Giosuè Ferrari - che sia nato nel 1974 a Torino, abbia studiato a Bologna e viva adesso a Roma. Fosse venuta in mente all’immaginario Giosuè Ferrari, la trama si sarebbe sviluppata così: un gruppo di dipendenti di una holding pubblicitaria di Milano, tutti sull’orlo del licenziamento, tutti sull’orlo di una crisi di nervi, alcuni sull’orlo addirittura della morte per consunzione costituiscono la miglior pubblicità contro la new economy, pertanto giù a criticare il governo ladro, il precariato sistematico, l’impossibilità di avere una vita decente prima dei quarant’anni e dopo i sessanta, la società schiava della cultura dell’immagine e già che stiamo anche la guerra preventiva, il cardinal Ruini e la fame nel mondo. Grazie al cielo invece Giosuè Ferrari non esiste, altrimenti avrei provveduto a sopprimerlo colpendolo reiteratamente sulle corna col dorso del suo stesso (immaginario) romanzo.




Prescindendo dal suo valore letterario, il (realmente esistente) romanzo di Joshua Ferris dimostra che i problemi non si risolvono lamentandosene in continuazione ma affrontandoli; che bisogna scendere a compromessi, e si finisce per sopravvivere benone; che il più delle volte la soluzione non è nel rovesciamento del macrosistema ma nella riconsiderazione dell’equilibrio privato. Se invece vogliamo includere anche il suo valore letterario, è fuori discussione che si origini proprio dall’esser partito dalla trama di cui sopra (un gruppo di dipendenti di una holding pubblicitaria di Chicago, tutti sull’orlo del licenziamento, tutti sull’orlo di una crisi di nervi, alcuni sull’orlo addirittura della morte) e averci costruito attorno una struttura narrativa solida, disinvolta e sorprendente che consegue l’unico obiettivo che uno scrittore dovrebbe prefiggersi in vita sua – rendere la gente felice di aver comprato il suo romanzo.




Io ho iniziato a sorridere quando sono stato posto di fronte al prevedibile licenziamento dell’instabile Tom Mota e ho continuato a sorridere quando è stato notificato il testamento di Frank Brizzolera; ho sorriso imperterrito di fronte alle istanze politically correct di Karen Woo e ai meno riusciti abbozzi creativi dei copywriter, ma anche scavando nel cancro che condanna Lynn Mason, nella follia che divora Carl Garbedian, nel sospetto che Joe Pope sia frocio, vergato da una mano ignota sulla parete del suo ufficio. Non ho smesso di sorridere pagina dopo pagina, ho sorriso quando socchiudevo il libro augurandomi una versione cinematografica e pensando a chi potesse interpretare chi; ho sorriso, infine, riponendo definitivamente il libro e continuando involontariamente a immaginare cos’avrebbero continuato a fare tutti i personaggi nelle pagine non scritte del romanzo, quelle che seguono la quarta di copertina.




I miei potenti informatori d’oltreconfine, dietro esplicita domanda, mi hanno riferito che la scrittura di Joshua Ferris viene ritenuta molto americana: sullo stile, per intenderci, degli americanissimi Jonathan Franzen o Dave Eggers, tanto per citare autori diversi accomunati dal piacere che si ricava nel leggerli, e dalla voglia di andare avanti anche quando si è troppo stanchi per continuare a girar pagine. Può darsi (ma non credo) che i miei agenti a Oxford abbiano inteso sottilmente offenderlo; ma alle mie orecchie la considerazione è suonata come un incoraggiamento poiché Ferris, esattamente come Franzen, esattamente come Eggers, ripone proprio nella serenità con cui affronta i contenuti una solidità formale che stupisce, considerando che si tratta pur sempre di un esordio (e comparandolo all’immaginario e potenzialmente agghiacciante esordio dell’immaginario Giosuè Ferrari, narratore impegnato).




E Poi Siamo Arrivati alla Fine è raccontato in prima persona, e fin qui niente di nuovo; se non che E Poi Siamo Arrivati alla Fine è raccontato in prima persona plurale: “Eravamo irritabili e strapagati”, inizia. Poiché il valore di una narrazione dipende molto più da come è narrata che da cosa viene narrato, giova ricordare che questa persona narrativa al tempo stesso autoreferenziale e spersonalizzante è sostanzialmente impossibile da rendersi in Inglese (lingua che abbonda di pronomi, a cominciare dall’incipit: “We were fractious and overpaid”), a meno di essere veramente molto ma molto bravi a fare slalom linguistici degni dell’OuLiPo (e, visto com’è andata la discussione sulla fiducia, degni anche dell’Ulivo). Già che stiamo, giova ricordare anche che la traduttrice, Katia Bagnoli, per quanto avvantaggiata dalla possibilità di elidere i pronomi in Italiano, ha saputo cavarsela più che egregiamente di fronte a un testo lungo quattrocento pagine e sovrabbondante di gergo tecnico, senza mai farlo pesare a chi, come me, non avrà mai un lavoro vero pertanto decisamente non può dirsi specialista.




Sappiamo tutti, lettori sgamati, che i romanzi di solito si basano su alcune trovate e parecchi riempitivi. Certamente, questa di narrare in prima persona plurale è una trovata e non delle più banali; tuttavia non mi sembra che si possa ridurla a mero espediente. Scavando più a fondo, infatti, è evidente come il “noi” che accompagna il lettore dalla prima all’ultima pagina costituisca la coscienza collettiva dei dipendenti dell’agenzia pubblicitaria; e come altresì i personaggi che appaiono in terza persona, Lynn e Karen e Carl e Tom e tutti gli altri, non siano da ritenersi di volta in volta esclusi da quest’insieme, ma piuttosto posti sotto un occhio collettivo che tutto vede e tutto sa, parte di un corpo che come un leviatano aziendale si compone di tutti i mali privati: “Soffrivamo di tutti i tipi di disturbi”, scrive Ferris, “avevamo la madre di tutti i mal di testa, eravamo influenzati dai cambiamenti di clima, dai cambiamenti di umore e da insicurezze liceali mai superate del tutto”.




Ferris s’inventa un livello di narrazione onnisciente che si incunea fra l’assoluta alterità dell’autore (che come il Dio di Flaubert lascia che il mondo corra e provvede a limarsi le unghie) e la compartecipazione piena dell’autodiegesi. Tradotto in termini che possano essere capiti addirittura da uno studente universitario post-riforma del tre più due, Ferris presta il suo inchiostro allo spirito inquieto che si agita nei corridoi dell’azienda, quello che appartiene a ogni dipendente ma che non coincide con nessuno di loro. Tradotto in termini che possano essere capiti perfino dall’autore stesso della riforma del tre più due, il “noi” usato dall’autore è il luogo narrativo in cui si ritrova la cospicua parte di cervello che ogni dipendente dedica all’azienda; è, per dirla marxianamente, il contenitore dell’alienazione.




Quando facevo il liceo ero troppo impegnato a rincorrere altezzose signorine per poter prestare la debita attenzione all’undicesima tesi esposta da Marx contro Feuerbach, e che recita: “I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta ora di trasformarlo”, con tanto di verbi evidenziati in corsivo come nel peggiore dei master aziendali. Joshua Ferris non lo sa, ma il maggior pregio del suo romanzo è quello di avere superato Marx: essere riuscito a individuare un problema, e a far riflettere sulla sua eventuale soluzione, non ponendosi l’obiettivo di trasformare il mondo del lavoro ma soltanto quello di descriverlo; e di descriverlo benissimo, con questa voce narrante collettiva che testimonia come non ci si possa fermare a fare i rivoluzionari perché “avevamo le nostre bollette da pagare e i nostri limiti da considerare; avevamo famiglie da mantenere e i weekend per distrarci”.



Comunicazione di servizio: la recensione è finita, andate in pace. Ma per i pervicaci e i gurradomani non posso trattenermi dal rendere giustizia al talento narrativo di Joshua Ferris, che si rispecchia nel personaggio di Hank Neary, l’unico dipendente che passi il tempo libero a leggere romanzi e che sappia distinguere Dickens da Shakespeare. Saggiamente, tuttavia, le dichiarazioni di poetica vengono infilate in bocca ad altri personaggi; a Tom Mota quando dice “siamo creature tanto tristi, in fondo al cuore, noi clown; soli, disperati e pieni di dolore: così, per sentici meglio, facciamo gli scherzi!”; allo zio di Jim Jackers per cui quello della pubblicità “è un uso della lingua troppo assurdo per essere vero”; alla voce collettiva quando rivela che “certi giorni il tempo passava decisamente troppo piano, altri troppo in fretta, e quello che era accaduto la mattina poteva sembrare vecchio di secoli mentre quello che era avvenuto sei mesi prima era ancora vivido nella nostra mente come se fosse successo da meno di un’ora”. Ferris infatti gioca con il tempo, dilatandolo e ripercorrendolo a ritroso, taglia e cuce la lingua parlata e soprattutto i suoi scherzi, i suoi dialoghi brillanti (versione postmoderna delle conversation novel), le sue immaginifiche soluzioni narrative celano un fondo di tristezza clownesca. Quanto ad Hank Neary – e qui chiudo perché se no rischio di morire di vecchiaia prima di finire – riesce a pubblicare il suo romanzo quando tutto è finito, quando il gruppo si è sciolto, quando del compatto noi iniziale è rimasto poco e niente. Qualche suo vecchio collega, richiamato dalla diaspora aziendale, crede che abbia avuto successo col romanzo arrabbiato che stava scrivendo per denunziare l’inaccettabile vita di grafici e copywriter in un enorme grattacielo al centro di Chicago. Invece si apprende, per bocca dello stesso personaggio scrittore, che il romanzo di successo tutt’altro, e che il romanzo impegnato è stato gettato via senza rimpianti. Allora io sorrido una volta di più, ricordando cosa scrisse Nietzsche: che Zarathustra poté sputare sulla città di Vacca Pezzata solo dopo averla attraversata tutta, dalle strade principali ai più nascosti vicoli, diventando parte di essa e rendendola parte di sé.