sabato 20 dicembre 2008

Buona fine e buon principio

Cercate di ricordarvi che Natale è una solennità religiosa.



Quanto al blog, se ne riparla il 7 gennaio come minimo.

venerdì 19 dicembre 2008

Letterine letterarie (14)

...da abruzzese raminga...
Lisa

Scusa scusa scusa, prima di dire qualsiasi altra cosa: ma è vero che alle regionali d'Abruzzo il Pd è andato così male che hanno dovuto arrestare il sindaco di Pescara?

...di un sereno Natale...
chicchessia

Per non dire che ero ormai terrorizzato: l'altro giorno alle Edizioni Paoline per comprare i biglietti di auguri (e non vi dico che soddisfazione sia spedire un biglietto delle Edizioni Paoline alla Voltaire Foundation) mi sono accorto che pian pianino i soggetti religiosi stanno venendo via via erosi - anche lì! - e che le Madonne della tenerezza (ossia quelle che si stringono il Bambino al seno o alla guancia, secondo il tema natalizio che scelgo di solito e che va per la maggiore nelle icone bizantine) stanno venendo soppiantate da abeti, palle e signorine che suonano il piffero, manco fossi andato a casa del diavolo oppure alla Feltrinelli. E, sono sicuro, ben presto spariranno dai loro bigliettini non solo le citazioni papali ("Maria ci aiuta a credere con più fiducia nel bene") ma anche gli auguri di buon Natale, cui le Paoline hanno già provveduto ad affiancare gli auguri di buon anno secondo la più becera calendariolatria, progressivamente svaniranno in un etereo limbo di vaghezza, diventeranno auguri di buone feste prima, di buone vacanze dopo, di buona pausa dal lavoro alla fine e di buon Ramadan prima che ce ne rendiamo conto.

...Saviano...
Frank Camorra

E facendomi strada fra la folla di imbecilli che si ricorda solo a dicembre dell'esistenza delle librerie, e allora viene presa da una smania di acquisto compulsivo e totale, e compra Cafonal e L'imitazione di Cristo, e cerca un libro divulgativo sulla costruzione di campanili per un bambino di undici anni o un romanzo lungo che vada bene per una signora larga, e si accalca verso le casse, e prende in ostaggio i commessi, e si lamenta perché c'è troppa gente, e protesta perché il libro che doveva arrivare venerdì mattina non è ancora arrivato di giovedì pomeriggio - facendomi strada fra questi presuntuosi analfabeti che spendono più di quel che meritano ho notato che per venir loro incontro la Mondadori ha pubblicato un cofanetto: Saviano legge Gomorra, sette cd, ventitré euri. Io ne pagherei volentieri cinquanta per sette cd con Saviano che sta zitto.

giovedì 18 dicembre 2008

Eros e thanathos su Facebook

Ma Facebook sta uccidendo il corteggiamento? Il dubbio m'è venuto quando ho notato - ma prima mi rendo conto che devo spiegare delle cose fondamentali alla buona cinquantina di milioni di Italiani che ancora, per loro fortuna non hanno aperto la propria brava paginetta con la propria brava faccina sul social network più devastante dell'universo. Italiani, sappiate dunque che Facebook si struttura così: a ciascuna persona viene attribuita una pagina che ricalca uno schema simile a tutte le altre; basta fornire (almeno) una foto e dei dati sensibili (che ne so, l'indirizzo mail, in che città vivete, se gradite i film de paura, se siete single o sposati o coppia aperta o è troppo complicato per spiegarlo), dopo di che avete a disposizione una casella di posta privata e una bacheca pubblica. Ovviamente a foto, informazioni, casella e bacheca possono accedere solo gli amici che vi siete scelti (per la serie: chi è causa del suo mal). La differenza fra la casella di posta e la bacheca è la stessa che passa fra una raccomandata che vi arriva sulla scrivania e un saluto generico graffitato sul muro esterno di casa vostra.

Ma Facebook - dicevamo - sta uccidendo il corteggiamento? Per ovvi motivi non posso essere a conoscenza dei contenuti delle caselle private, a eccezione della mia che comunque mai vi svelerò, ma posso agevolmente leggere cosa viene scritto sulle bacheche altrui. Per i maschi, Facebook è utile solo a una cosa: ottenere l'amicizia (ossia la possibilità di farsi i fatti) di vecchie amiche dimetnicate, donnine con cui avevate litigato senza ricordare tuttavia il motivo, compagne di scuola che non vi degnavano di mezzo sguardo, compagne di facoltà che non vi degneranno mai di mezzo sguardo, passanti di cui sapete solo nome e cognome, sorelle cugine di amici maggiorenni fino a un certo punto, giovani supplenti che all'epoca non potevate concupire, colleghe ritrose, stronze generiche, tizie e caie, commesse, lattaie, postine, bariste e in generale signorine ingenue che hanno avuto l'ardire di presentarvisi con virile stretta di mano. A questo punto, parte la tattica d'approccio che, essendo ritenuto troppo invasivo l'intervento diretto in casella di posta, nella quasi totalità dei casi si verifica in bacheca (o commentando una foto lo stato sentimentale un dato di fatto della signorina in questione, che ai fini dell'indagine è esattamente lo stesso).

Un rapido survey dei profili delle mie amiche più gnocche - che per ovvie questioni di privacy fonderemo in un'unica amica estremamente gnocca gratificandola del nome di Marianunzia - rivela una sconfortante pallosità nelle tecniche per attaccare discorso. Sull'immaginaria bacheca virtuale di Marianunzia, infatti, troviamo abitualmente scritto (ricopio diligentemente, punteggiatura compresa):
"Nunziaaaaa ciao kme stai???"
"Ho matchato con te e sono sconvolto dalla quantità delle cose in comune!!!"
"Grande Nunziaaaa ma kme stai?? è da tanto che non ci sentiamo" [si tratta peraltro dello stesso di prima, non ci vuole un filologo per capirlo]
[segue il solito pirla che se vede citato un verso di una canzone trascrive l'intero contenuto del testo, forse per far vedere che la conosce, forse per far vedere che sa leggere]
"Ma ciao! Ma come non vieni? Vabbè alla prossima festa devi venire"
"Ehehehehehe. E gli esami ttt bene? PS: sicuramente."
"Wei, miss M, ahaha tutto bene?"
"Buongiorno miss"
"cazzo era il tuo compleanno!"
"Ciao bella!"
"Tanti auguri Marianunzia, come stai? Spero tutto bene, ti scrivo solo ora perché stamane ero impegnato con il concorso per la *** ma non potevo non farteli. In bocca al lupo per tutto e un bacio."
"Ciao!!!!1"
"ciaoooooo"
"ma ciaooo, finalmante anche tu su facebook"
"io son sempre qui, per cui quando vuoi fatti sentire"
"ma ciao...... come si sta a ***.......da dio....... eh ehhhh"
"ehila ciao come va? sono 4 anni che non vedo la gente di ***. vedo che studi a ***, cosa fai?"
[in commento a un test] "e cosa è uscito? ciao Marianunzia!"
"Minkia che super [segue riferimento al mestiere di Marianunzia]!"
"Ciao Marianunzia...mi passeresti le foto della festa?? Dai dai dai...hehe"
"perché non metti questa foto nel profilo? è bellissima"
[commento della stessa persona a un'altra foto completamente diversa] "wow......bellissima questa! ciaooooo"

E qui mi fermo perché temo che sia contagioso. Giuro che non ne ho inventata mezza. La mia signorina informatrice, interrogata direttamente su come reagisce a una media così repellente di approcci su Facebook, ha risposto che il più delle volte non reagisce affatto. A dire il vero la mia signorina informatrice non fa molto testo perché quando qualcuno la infastidisce un tantino lei diventa affabile come una Demogorgone, né saprei darle torto; quindi eviterò di sottolineare che seleziona fra i suoi amici solo uomini in grado di esprimere concetti compiuti e non già di battere a caso sulla tastiera, ed eviterò altresì di riferire che qualora le dovesse malauguratamente arrivare un approccio del tipo di cui sopra la sua reazione più generosa consiste nel chiamare a raccolta buona parte delle sue amiche e ridere per mezzo pomeriggio alle spalle del mentecatto di turno.

Sempre che non sia morto, nel frattempo. Un signorino informatore mi ha fatto notare che l'unica maniera di liberarsi da Facebook è eliminare scientemente il proprio profilo: cosa che - oltre a comportare alcune difficoltà in quanto Facebook è un Dio geloso, che si compiace del chiedere per centinaia di volte al tuo indirizzo mail perché e percome te ne vai, e non andartene, e pensaci due volte, e pensaci tre, e dai torna fra noi, e ti ricordi quant'era bello - può avvenire solamente a seguito di un atto esplicitamente volto all'autoeliminazione. Da Facebook, sostanzialmente, ci si suicida.

Questo complica parecchio le cose in caso di morte accidentale. Se io per esempio questa sera andassi a cena e inghiottissi inavvertitamente un ferro da stiro, il mio profilo su Facebook continuerebbe a prosperare imperterrito. Continuerebbero ad arrivarmi nella casella postale le circolari del gruppo "Roman Catholic" e di quello "Le donne preferiscono gli uomini di destra". Continuerei ad apparire nelle didascalie di foto imbarazzanti via via recuperate da amici ignari. Verrei invitato ad aderire ai gruppi "Financial Times forever", "Tira anche tu una scarpa", "Scuola elementare Madonna Pellegrina" e "Ricostituiamo il PCI". Mi sommergerebbero di test quali "Scopri quanto sei catanzarese" o "A quale principessa Disney corrispondi?". Si lamenterebbero perché non segnalo più le presentazioni a venire nella pagina "Pavia città di lettori".

A meno che qualche anima bella non si prendesse la briga di accorgersi che sono morto, ed eventualmente di diffondere la notizia. In tal caso sono sicuro che si verificherebbe l'uso funerario della bacheca pubblica: diventerebbe uno spazio d'esibizionismo nel porgere il saluto estremo. "Ci manchi." "Senza di te non è come prima." "Per l'ultima volta ciaoooooooo". "Non ti ho mai rivolto la parola ma avrei voluto". "E ora chi segnala le presentazioni di Pavia città di lettori?". "Se me la chiedevi te la davo." "Posso tenermi il libro che mi hai prestato?". "Grazie di tutto, a presto anzi spero di no." "Brutta merda, mi dovevi dieci euri."

mercoledì 17 dicembre 2008

Lo storico in diretta

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Il Melangolo ha voluto trasporre su stampa gli atti di una tavola rotonda tenutasi presso l’Università di Pavia lo scorso 12 marzo. Nell’occasione il diplomatico, storico e giornalista Sergio Romano donava al locale Ateneo una quantità di propri manoscritti, rigorosamente elencati nell’appendice del volume e sorprendenti per la varietà di temi e generi che esplorano: non solo, com’era presumibile, riflessioni sulla politica estera o cronologie e prontuari per la stesura di saggi storici, ma anche traduzioni letterarie (soprattutto da Dubliners) e addirittura racconti. Consegnando i propri appunti al fondo manoscritti pavese, Sergio Romano si è di fatto consegnato agli studi, accettando di farsi considerare dall’esterno e indubbiamente ascoltando con curiosità i vari suoi ritratti esposti nel corso della tavola rotonda primaverile.

In questa stessa polifonia ritrattistica risiede indubbiamente il maggior pregio di quest’agile volumetto. Certo bisogna saperlo leggere, scavando oltre la superficie accademica pedissequamente riportata dall’editore, che ha incluso non solo la lettera beneaugurante del Presidente della Repubblica e il saluto del Rettore dell’Ateneo ma anche tutto il continuo e reciproco ringraziarsi e lodarsi che costituisce la cifra stilistica di qualsiasi convegno in qualsiasi università (per contro non può che risultare consolante la freschezza del tono pure rigorosamente accademico della giovane professoressa Arianna Arisi Rota, che nel descrivere o forse decrittare il Crispi di Romano risale felicemente ai giorni in cui lo conobbe da laureanda accompagnandolo nel Collegio Ghislieri). Una volta grattata via questa patina inevitabile, emerge un formidabile multiritratto di un ingegno proteiforme, a opera di alcuni fra i migliori intellettuali italiani.

Tanto Arrigo Levi quanto Salvatore Veca, infatti, impostano il loro intervento su un quesito paradossale: “quale Sergio Romano?”. Come tutti sanno, ne esistono almeno tre: il rinomato ambasciatore, l’autorevole storico e l’editorialista di successo, erede di Montanelli nella corrispondenza del Corriere. A ciascuno di questi tre infaticabili gemelli s’è dedicata maggiormente l’attenzione ora di uno, ora dell’altro intervento nel corso della tavola rotonda, che per noi lettori di romanzi potrebbe avere quasi una struttura giallistica nel suo tentativo di rispondere all’interrogativo esistenziale di cui sopra; e alla fine, per fortuna, la soluzione viene rivelata da Sergio Romano medesimo, nella duplice metaforica veste di vittima e assassino, con una breve e sapidissima “confessione” in cui spiega chi è per davvero e che pare rispondere passo passo alla lucida introduzione di Fabio Rugge.

Se ci si limita agli interventi esterni, che inaugurano ufficialmente lo studio di Sergio Romano, la miglior risposta è quella di chi insiste nel sottolineare l’identità di questi tre gemelli indiscernibili, o meglio ancora l’interscambiabilità dei loro ruoli. Il giornalista, insiste Arrigo Levi, è uno storico in diretta: qualcuno che tenta di descrivere quotidianamente il procedere della Storia in corso d’opera, e può farlo solo in ragione di una solida cultura storico-geografica che il Sergio Romano saggista e diplomatico indubbiamente possiede e maneggia con la serena maestria che gli è propria. Idem, lo storico non avrebbe riscosso il successo che meritava se non avesse potuto parlare con una lingua che non fosse immediatamente fruibile al pubblico e che lo coinvolga pur conservando saggiamente le distanze, così come accade ogni giorno nella rubrica delle lettere che Romano gestisce sul Corriere. Infine, il talento del diplomatico non sarebbe stato noto fra i non specialisti qualora non fosse immediatamente identificabile nell’autorevolezza e nel raffinato eloquio del Sergio Romano noto al grande pubblico.

Per questo colpisce l’insistenza di tre relatori – lo stesso Rugge, Vittorio Dan Segre e soprattutto Angelo Stella – sul riferimento alla figura di Voltaire. Questi, in tempi e luoghi diversi, era storico, uomo di corte e autore apprezzato dal grande pubblico; Julien Gracq lo gratificò appunto dell’appellativo di “giornalista” (che in Gracq non è precisamente un complimento, ma poco importa). In particolare, Stella ricalca l’identità fra la conclamata proprietà linguistica di Voltaire e di Romano; e vede le radici di quest’identità nell’intenzione di restituire per mezzo del linguaggio una struttura razionale al caos altrimenti incomprensibile della Storia in continuo e inarrestabile avanzamento. Romano è dunque da ascrivere non tanto alla tradizione dell’illuminismo oltranzista (per quanto la sua insistenza sul laicismo possa farlo sospettare) quanto a quella più nobile, ragionevole e destinata a durare dei secoli dell’illuminismo quale applicazione pratica dell’ordo rhetoricus in ogni ambito delle scienze sociali.

Per questo motivo mi ha lasciato un po’ perplesso la notazione di Silvio Beretta che distingue recisamente l’approccio di Sergio Romano da quello che George Lytton Strachey espone in Eminenti Vittoriani, e che consiste nel “pescare nel grande oceano di materiale calandovi dentro, qua e là, un secchiello per portare alla luce, da quelle remote profondità, qualche caratteristico campione da esaminare con diligente curiosità”. La curiosità cui fa riferimento Strachey non è tanto da intendersi nel senso di capriccio eccentrico, credo, quanto nel senso originario del termine latino “curiositas”, ovvero “ricerca del vero”: esattamente il compito che nella sua confessione finale Sergio Romano adombra, celato dietro un velo di modestia, quale comun denominatore dello storico, del diplomatico e del giornalista.

Il volume è indubbiamente apprezzabile più nei suoi contenuti che nella forma – ove peraltro un’occhiata in più del proto non sarebbe stata male (a pagina 88 ci scappa l’imbarazzante refuso “un’amico”, che in un volume universitario sarebbe meglio evitare). Finisce però che il miglior ritratto di Romano lo fornisce senza una parola Emilio Giannelli: una vignetta che lo ritrae davanti a uno scaffale in cui è catalogato tutto il suo sapere storico, politico e letterario, circondato dalle riproduzioni in scala dei grandi personaggi di ieri e di oggi, mentre è intento a scrivere a mano qualcosa che non si distingue ma mi piace immaginare come risposta a qualche suo lettore per nulla accademico.

martedì 16 dicembre 2008

Tutti i libri che non ho letto (9)

(Gurrado per Books Brothers)

Come i più arguti di voi non avranno mancato di notare, mi occupo di letteratura: scrivo recensioni di nuovi romanzi, tento di ricuperare quelli vecchi, leggo ponderosi saggi di stile, colleziono antologie, ammonticchio biografie di scrittori, le rare volte che mi accade qualcosa tiro sempre fuori una storia in cui è già successo pari pari e mi diletto nell’utilizzare brevi lacerti di citazioni poetiche in contesti deleteri che raramente farebbero la felicità dei poeti che le hanno composte pensando in grande. Se nei dintorni capto un volume storia della letteratura, non c’è scampo, è mio: che si tratti di uno di Francese sul quale ha studiato mia madre, di uno di Latino di mio padre, o uno mio di Greco risalente ai bei tempi dell’adolescenza andata, o il De Sanctis a metà prezzo su una bancarella, o una delle innumerevoli letterature inglesi accumulate nel tempo e nello spazio (Daiches, Burgess, Praz, Sanders, Norton…). So chi è Christopher Smart, cito a memoria Agrippa d’Aubigné e posso parlare per ore di Giovan Francesco Maia Materdona. Ho addirittura pubblicato due romanzi, anche se tendo a non dirlo troppo in giro. E ogni giorno vado a letto col rimpianto di non essere stato abbastanza scrittore, di non aver contribuito al progressivo gonfiarsi dell’universale mole letteraria (che un giorno scoppierà) con un nuovo raccontino, una silloge, un romanzo. I più arguti di voi non saranno sorpresi dall’apprendere che sono dottore di ricerca in filosofia.

Ho tuttavia sempre cercato di tener segreto questo curioso hobby che m’è costato otto anni di studio (quattro di università, uno di specializzazione postlaurea, tre di dottorato). In fondo non è difficile, vista la peculiare struttura dell’istruzione superiore italiana: basta non presentarsi mai a lezione e parlar d’altro durante gli esami. Se pure nel corso degli esami qualche larvato riferimento alla filosofia può essere avanzato con la dovuta prudenza, ma giusto per non destare troppi sospetti e ovviamente curandosi di parlare a bassa voce così che solo e soltanto il professore vi senta, è invece assolutamente fondamentale non andare mai a lezione: c’è il rischio concreto di essere visti in facoltà, e in tal caso sarebbe decisamente ardimentoso architettare una scusa plausibile (perché mai uno dovrebbe frequentare le facoltà di filosofia, se non è filosofo egli stesso? per ammirarne l’architettura dall’interno? per uno studio antropologico? per rimorchiare le ragazze? ma l’avete mai vista una filosofessa?). Di più, a furia di frequentare le aule di filosofia si finisce per frequentarne la fauna e chi va col filosofo finisce sempre, volente o nolente, per filosofare. Non è raro essere seduti al bar e venire affrontati a muso duro da una ultras della materia grigia che posa i palmi sul tavolino e vi chiede a bruciapelo: “Ma tu che ne pensi del neoplatonismo hegeliano?”

Una soluzione tanto drastica quanto ragionevole per i problemi assortiti dell’università in Italia potrebbe essere la sua abolizione: a eccezione però delle facoltà di filosofia, le quali andrebbero invece rase al suolo senza porsi troppe domande (e soprattutto senza mai chiedersi cosa si debba pensare del neoplatonismo hegeliano). Non mi riferisco solo al dato di fatto che dalle nostre parti la filosofia è fra le prime cause di disoccupazione, a meno che non si voglia considerare ottimisticamente come sbocco professionale privilegiato la circostanza che fossero laureati in filosofia entrambi gli ultimi Papi. Penso invece soprattutto al paralogismo pseudoaristotelico che affolla e ammorba le facoltà medesime.

A quanto pare la prima opera di Aristotele (non l’ho mai letta, ma c’è scritto nell’Abbagnano) è un dialoghetto, il Protrettrico, che esorta alla pratica filosofica per mezzo di una logica stringente. Per filosofare bisogna dapprima decidere se filosofare o meno. Ma per decidere se filosofare o meno bisogna filosofare anche solo quel tanto che basta a decidere di non filosofare affatto. Quindi prima o poi tutti devono filosofare, anche per non filosofare. Tanto vale filosofare e basta, filosofava il cucciolo di Stagirita. Ve lo ricordate? Bravi, ma non l’avete letto nemmeno voi: l’opera è andata perduta integralmente e noi la conosciamo solo tramite citazioni di Giamblico a sua volta citato dall’Abbagnano.

La banale considerazione del giovane Aristotele, al succo che tutti sono dotati del pensiero e quindi degli strumenti base per filosofare, non ha solo consentito discutibili travasi di studenti nelle facoltà di filosofia ma ha fatto in modo che ogni studente finisse per sentirsi filosofo egli stesso. E un filosofo che fa? Ascolta, pensa, pondera e contraddice. Poi arriva un altro filosofo che lo ascolta, pensa, pondera e contraddice pure lui. Poi un altro, poi un altro ancora. L’indegno teatrino montato dall’Abbagnano – nel quale arriva Kant e dice: “Il noumeno è la cosa in sé”, poi arriva Fichte e gli dice: “Non la cosa in sé, ma l’io”, poi arriva Hegel e gli rinfaccia: “Non l’io, ma l’idea”, poi arriva Schopenhauer e lo rimbrotta: “Non l’idea, ma il velo di Maya”, poi arriva Marx e protesta: “Non il velo di Maya, ma la caduta tendenziale del saggio di profitto”, poi arriva Nietzsche e Dio solo sa cosa dice – ecco, quest’indegno teatrino diluito nei secoli vede una replica ipercompressa ogni giorno, alla fine di ciascuna lezione di filosofia, moltiplicata per le innumerevoli sedi universitarie italiane e per le brulicanti sottobranche di cattedre e insegnamenti in cui si diramano i corsi di laurea in filosofia (che so, Laboratorio di scrittura filosofica o anche Storia del pensiero femminista nell’Alto Medioevo o addirittura Antropologia culturale). La filosofia è così: uno alza la mano e parla.

Molti di questi studenti si sentono giustificati all’intervento logorroico e petulante dall’evenienza di aver letto dei libri. Forse un po’ ingenui, forse in malafede, non tengono presente che il migliore metodo per leggere i libri di filosofia è stato enunciato intorno alla metà del XVIII secolo da un filosofo onesto, David Hume, e consiste grossomodo in questo procedimento reiterativo: si va in una biblioteca di filosofia; si prende un libro a caso; si legge il titolo e, se il titolo è troppo oscuro, anche parte dell’indice; si considera se il libro contiene qualcosa di utile; ci si ricorda che si è in una biblioteca di filosofia; si getta il libro nell’immondizia; se ne prende un altro e così via finché la biblioteca non finisce; dopo di che si cambia biblioteca. D’altra parte David Hume poteva permettersi di essere onesto come filosofo, in quanto campava facendo l’avvocato. D’altra parte ancora, io al metodo Hume preferisco il ben più antico metodo Al Gazali (XI secolo), esposto in un trattato che si intitola La distruzione dei filosofi e che vi esporrei volentieri se non mi fossi limitato a leggerne il titolo per poi gettarlo via.

Sul metodo Hume ho infatti basato il mio intero corso di studi universitari: al primo anno non ho letto Schopenhauer, Mauss e Montaigne. Al secondo ho fotocopiato Bion, ho sentito parlare di un tale che si chiamava Heidegger, o Habermas, o Horkheimer (sinceramente non ricordo) e, dovendo affrontare il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, ho ritenuto opportuno leggerne soltanto le sette proposizioni segnate con un numero intero, così da poterne abilmente maneggiare una significativa sintesi (“Il mondo è tutto ciò che accade. Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”). Al terzo anno ho fatto degli esami di storia. Al quarto ho organizzato la festa di laurea.

I miei studi di filosofia mi hanno quindi consentito di formarmi una solida cultura letteraria. E tuttora, quando per mio piacere leggo un libro di filosofia (ne ho letto uno nel 2002 e un altro lo scorso anno), mi interessa sapere se è ben scritto o meno, tutto qui – non m’importa essere d’accordo coi contenuti di un testo più di quanto m’importi di andare d’accordo con una canzone, un quadro o una mucca. In fin dei conti ho fatto non una ma due tesi, fra laurea e dottorato, entrambe su Voltaire che del filosofo aveva solo una confusa fama, dovendo invece la sua gloria all’indefessa attività letteraria e a una sterminata produzione in bello stile che, venisse letta oggi, faticherebbe a venir collocata nei ripiani di filosofia in qualsiasi Feltrinelli – e nella quale rientra e si staglia Il filosofo ignorante, appunto.

lunedì 15 dicembre 2008

Altrove

(Gurrado per Quasi Rete)

Fosse stato Highbury, non avrei battuto ciglio nel momento in cui – pochi minuti dopo l’inizio del secondo tempo – Juventus-Milan s’è trasformata in battaglia campale sotto una pioggia che la mandava un Dio visibilmente nemico di Eupalla, gelide gocce sferzanti che toglievano anche ai pedatori più modaioli ogni parvenza di fighettume per restituirli al più vero e antico ruolo di fighters nell’arena da sempre alloggio del good old football. Fosse stato White Hart Lane, fosse stato il Villa Park, fosse stato Craven Cottage non avrei avuto remore ad applaudire anzi a incitare anzi a fomentare la scossa di fangosa violenza che ha salutato i rantoli del primo tempo e i vagiti del secondo, culminata poi nell’espulsione di Zambrotta reo soltanto di aver applicato nei confronti del volatile De Ceglie le più elementari norme del taekwondo.

Ma era l’albagia del Comunale, era Juventus-Milan, era roba che da sempre è per palati fini – e un Artusi non può cavarsela con rigatoni e pajata qualsiasi, per quanto serviti in quantità industriale, fino a scoppiare. Da Fabio Caressa in giù, ieri sera, tutti a dire quant’è stata bella Juventus-Milan, quante occasioni per ferirsi a vicenda, quanti fuochi d’artificio, quanti goal. Ma se questo è il metro di giudizio, la partita è stata indubbiamente vibrante, emozionante, magari spettacolare – solo che la bellezza nel calcio è un’altra cosa. Misurarla a colpi di goal ricorda la teoria derisa ne L’Attimo Fuggente, dove il valore di una poesia veniva tradotto in area occupata su un grafico cartesiano universalmente valido. O, più prosaicamente, è come voler misurare a chili la bellezza di una signora.

In tal caso, la giornata sedicesima dovrebbe venire archiviata come una delle migliori nella storia del calcio in quanto vi sono stati segnati (un attimo, faccio il conto) la bellezza di quarantuno reti, ivi inclusa l’apocalissi da salotto di Zlatan Ibrahimoviç, all’irragionevole media di quattro a partita col resto di uno. Se volete trasformare il calcio in hockey su prato, accomodatevi pure: in tal caso sono state tutte partite una meglio dell’altra. Se il calcio italiano è per voi una cosa seria, che quando funziona liscio finisce 0-0, la gragnola di goal non entusiasma ma deprime: si pensa a che fine avrà mai fatto la nobile arte della difesa, ci si chiede se sia stato smarrito il chiavistello del verrou. In tal caso, Juventus-Milan non è un culmine ma un abisso.

Fosse stato il Santiago Bernabeu a questo sarebbe stata rivolta la mia pañolada: avrei acchiappato il primo fazzoletto bianco a portata di naso e l’avrei sventolato imperterrito non per dissociarmi dal Milan tutto scassato né per omaggiare la Juve tutta muscoli e ancor più cervello, che con tanta virulenza sembra voler dire suo lo scudetto che fu suo (citazione, Pascoli, controllate). Già troppe volte è successo, ne ricordo tre: un Milan-Juventus 1-3 che fu lo scoppio più preoccupante del motore inarrestabile e perfetto che Fabio Capello aveva montato nel campionato ’92-’93; un Milan-Juventus 1-6 dell’aprile 1997, ove ogni commento suona come minimo superfluo; uno Juventus-Milan 4-1 un anno dopo esatto esatto, che dovrebbe tacitare tutti quelli che da dieci anni vanno raccontando come nel 1998 la Juventus rubò il campionato.

Avrei dunque alzato la manina col fazzoletto bianco per sventolarlo molestamente in faccia a chi saluta come conquista della civiltà pedatoria l’evenienza che in trasferta i difensori del Milan sembrino d’abitudine birilli ubriachi, ovvero che la Juventus possa stravincere una partita in cui, quando s’è giocato palla a terra, è stata letteralmente dominata da un avversario che, dopo dieci minuti di fuoco e fiamme, ha deciso di essersi stancato troppo. Juventus-Milan è una partita fra squadre serie, non può finire come all’oratorio.

[Se queste note vi risultano un fumoso enigma, pazienza: le scrivo sotto gli effetti di alcol e cibo dai quali sono stato sommerso da mezzodì alle cinque per la consueta pacciada breriana, organizzata e ospitata dalla pro loco di Spessa Po, luogo che Brera amava oltremodo e posso capirlo. Io Brera l’ho conosciuto molto presto e molto tardi: molto presto da lettore (io), visto che quand’è morto avevo dodici anni; molto tardi da scrittore (lui), stante che quando ho iniziato a leggerne qualcosina aveva già prodotto indubbiamente il meglio di sé. Tuttavia una caratteristica immarcescibile dell’ultimo Brera, che commentava il campionato su Repubblica, era di conchiudere i suoi articoli con un istantaneo saluto che il più delle volte era “ciao”. Se qualcuno oggi provasse a siglare i propri scritti salutando il lettore, andrebbe a finire che sonerebbe artificioso e mesto: perché per salutare il lettore bisogna entrarci in confidenza e non è mica facile trattandosi di uno sconosciuto. Per guadagnarsi la fiducia di qualcuno senza prendersi la briga di conoscerlo, bisogna che questi si aggrappi alle cose che dici, e a monte bisogna avere delle cose da dire. Brera, lui, ne ha avute per cinquant’anni e più, tanto che oggigiorno ancora ci vediamo e ne parliamo come se fosse in mezzo a noi a versarci il vino invitandoci a non dire troppe balle. Quindi, ciao.]

venerdì 12 dicembre 2008

Letterine letterarie (13)

Caro Gurrado,
per il compleanno un caro augurio e una domanda: che ne pensi dei Promessi Sposi?
Flavio

Tutto il bene possibile, direi - fermo restando che li ho letti solo tre volte. Giuro che non voglio essere snob e vantarmi di averli letti non una non due ma ben tre volte, giuro che intendo significare che i Promessi Sposi andrebbero letti ben più spesso. La prima volta è stata durante l'estate fra quarta e quinta ginnasio: avevo tredici anni, credo (ormai sono così tanti che faccio fatica a contarli), e la faccenda risultò un po' indigesta. In compenso servì particolarmente a facilitare la seconda lettura, durante la quinta ginnasio, secondo il regolare programma di studi di quel tempo (non so se si leggano ancora, qualcuno sa qualcosa?). Ovviamente la lettura commentata in classe non era integrale, ma la integravo io leggendo a casa per mio conto i capitoli che restavano scoperti: così che molti miei amici si sono annoiati a leggere delle pagine a casaccio senz'alcun nesso logico fra di loro se non una certa omonimia dei personaggi (idem per la Divina Commedia, nei tre anni successivi); mentre io almeno ho potuto gradire un romanzo integrale, ossia non solo una storia che si dipanava ma soprattutto la fitta rete di coerenti riferimenti intratestuali che alla fin fine costituisce il romanzo vero e proprio (altrimenti si tratta di parole ammucchiate). La terza volta, per ora definitiva, è stata durante l'università, quando si può iniziare a capire quello che un liceale di solito non capisce; e ancora una volta non mi riferisco alla trama (che, per chi non lo sapesse, consta di un Renzo e una Lucia che dopo varie peripezie si sposano) ma alla tecnica narrativa e soprattutto alla Storia sulla quale questa tecnica è montata e che le fa da sfondo. Qualche anno fa ero arrivato all'eccesso di tentare di strangolare una signorina di Casale la quale non sapeva le date dell'assedio - ma come, dico io, hai un romanzaccione che parla di casa tua e non stai attenta a cosa c'è scritto? Ma era qualche anno fa, appunto, e forse è tempo di programmare per il minaccioso 2009 che mi attende la rilettura dei Promessi Sposi, quarta e ancora non sufficiente.

Antonio,
per quel po' che ti conosco, mi sa che sei come l'odontoiatra di Mourinho.
Gino

Per quanto possano apparire difformi nella forma e nel contenuto, questa letterina e quella di sopra affrontano lo stesso argomento da due punti di vista diversi anzi opposti. I Promessi Sposi sono notoriamente il romanzo assoluto, quello in cui viene fatto il maggiore sforzo da parte dell'autore (Alessandro, per chi non lo sapesse, Manzoni) di uscire dalla propria persona, dal proprio tempo, insomma dalla propria scrivania per descrivere un mondo (non tanto geografico quanto sentimentale) a lui del tutto estraneo - e ciò nondimeno, se uno lo legge la quarta o quinta o seicentesima volta, il gran romanzo del Manzoni gratta gratta ci parla di lui. Ogni testo è un boomerang, parte dall'autore e all'autore ritorna, talvolta coinvolgendo un numero più o meno ragionevole di lettori (nel caso di Manzoni, venticinque; nel caso di Guareschi, ventitré; nel mio caso, mia madre che mi corregge i refusi via mail). Idem Mourinho: uno prende il libro pubblicato da Cairo, lo legge, spiegazza le orecchie alle pagine che contengono affermazioni notevoli, ragionevoli, sottoscrivibili, accende il portatile, apre Microsoft Word, si mette a scrivere la recensione, inizia con delle considerazioni late riguardanti le dichiarazioni degli allenatori, prosegue con il suo personale parere riguardante lo specifico Mourinho e, quando arriva al succo in cui deve trarre da una nuda raccolta di dichiarazioni i quattro cardini della filosofia che sottostà (e che soprattutto sostiene, essendo Mourinho una persona intelligente e coerente) a tali dichiarazioni, quando tira le somme e scopre che i quattro pilastri del murignismo sono l'antiegualitarismo, la cultura del lavoro, l'attenzione alla sistematicità teorica e la concentrazione sul risultato quale unico criterio di giudizio - be', arrivato a quel punto uno si sente un po' speciale pure lui. José Mourinho c'est moi.

giovedì 11 dicembre 2008

Effetto speciale

(Gurrado per Quasi Rete)

I giornalisti, alcuni dei quali estremamente noiosi, hanno impostato quasi tutto il loro lavorio su Mourinho sul paragone col suo imbarazzante predecessore, andando così contro le più elementari leggi della statistica (confrontano il primo anno di Mourinho con l’ultimo di Mancini), del professionismo (traggono conclusioni a lavori in corso, e non a prodotto ultimato) e del buon senso (giudicano a vanvera di domenica in domenica, a seconda dell’ultimo risultato). Ne sortisce che Mourinho perde il derby col Milan, o scivola al secondo o addirittura terzo posto in classifica, ragion per cui l’Inter sedicente tricampione è affidata a uno sbruffone senza adeguato pedigree. Oppure che l’Inter vinca l’anticipo con la Juventus, aumenti da uno a tre punti il vantaggio sulla seconda, ragion per cui Mourinho è in fuga, è imbattibile, ha trovato la quadratura del cerchio e come fa funzionare l’Inter lui non ci riuscivano nemmeno Herrera e Trapattoni in combutta.

Il campionato deve ancora vivere inverno e primavera, notoriamente stagioni lunghe e massacranti, in cui tre punti di vantaggio possono dilatarsi o incenerirsi come niente. I giornalisti (specie quelli più noiosi) parlano parlano e non considerano che il principale effetto dello sbarco di Mourinho in Italia è nel fatto che finalmente anch’io posso guardare le interviste nel dopopartita senza tema di addormentarmi sul divano alle dieci e mezzo di sera o, ciò che è più grave, alle cinque del pomeriggio. Con Mancini, oggettivamente, le interviste nel dopopartita erano un’inutile appendice. Con Mourinho, bene o male, la partita è il pretesto per l’intervista.

Da quando ho iniziato a seguire il calcio, gli allenatori dicono bene o male sempre le stesse cose. Non parlo dei singoli. L’arbitro ci ha danneggiati involontariamente. La società è straordinaria. Il mercato va concordato col presidente. Ai tempi del Milan, da perfetto uomo-azienda, Fabio Capello era l’apice della reiterazione. Che si perdesse in casa col Napoli o si vincesse 3-7 a Firenze, davanti alle telecamere la dichiarazione era invariabilmente: “Abbiamo giocato una buona partita, l’avversario s’è dimostrato molto quadrato”. Rai e Fininvest, per risparmiare, avrebbero potuto trasmettere un nastro registrato semel in aeternum; invece, avide di novità, attendevano che Capello si palesasse davanti ai microfoni e all’apertura dei mascelloni speravano (Van Basten aveva rifilato quattro goal all’Ifk Göteborg, oppure Sebastiano Rossi aveva stabilito il nuovo record d’imbattibilità) che per l’occasione proferisse qualcosa di diverso. Invece: “Abbiamo giocato una buona partita, l’avversario s’è dimostrato molto quadrato”.

Mourinho sotto quest’aspetto è proprio l’anti-Capello. Ne avevamo avuto sentore quando s’era presentato in Italiano – miracolo indubbio, nella Patria che ha foraggiato per un decennio Schumacher senza chiedergli una parolina in cambio – specificando di fronte alla stampa: “Ma io non sono un pirla” (e dando così implicita ragione a Eugenio Montale: codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo). Né io né, presumo, nessuno sano di mente sarebbe in grado di ricordare una qualsiasi frase detta da un qualsiasi altro allenatore prima dell’inizio del campionato (dando ragione a Montale pure noi: non chiederci la parola). In Inghilterra, quattro anni prima, a tempo di record Mourinho s’era dato un soprannome da solo proclamando: “Non sono uno fatto in serie: sono uno speciale (I think I’m a special one)”. Quindi è recidivo, quindi è intenzionale, quindi è un professionista che cura le proprie dichiarazioni e i suoi effetti con la stessa professionalità che dedica al campo da calcio.

L’editore Cairo ha avuto la giusta idea di comprare i diritti di un volume inglese del 2005 (John Amhurst, The Special One) e di tradurlo in Italiano aggiornandolo con un’ampia sezione su Mourinho in Italia, curata da Giancarlo Padovan (nonché con una breve biografia privata e una brillante prefazione di Gino e Michele). Mourinho: pensieri e parole di un allenatore molto speciale si distingue dagli altri libri sullo stesso argomento perché è un’antologia delle dichiarazioni di Mourinho dal 2004 a oggi. A fronte della volubilità delle interviste agli allenatori medi, che il più delle volte rispondono a domande contingenti con frasette di circostanza, la raccolta in volume permette di notare come nel passare degli anni tutte le sentenze dello Specialone siano rimaste improntate a una notevole costanza per così dire filosofica e a un’ammirevole coerenza nel giudicare sé stesso e gli altri con lo stesso metro – dote rara ovunque, figuriamoci nel calcio.

A leggerlo in volume, dunque, ci si accorge che Mourinho funziona così: di fronte a una domanda contingente causata da un fatto di cronaca, risponde con un principio generale o un criterio valido universalmente. Le sue interviste sono affascinanti perché nulla è più lontano dall’occasionalità o dall’opportunismo. Volendo cogliere fior da fiore per estrapolare la sua filosofia fuori dal campo, potremmo fondarci su quattro assunti.

Il primo è l’antiegualitarismo, cosa che non sorprende affatto in un tizio dalla conclamata eccezionalità. In tal caso però non si tratta di presunzione ma di serena presa di coscienza davanti alle diversità dei singoli: “Sono totalmente contrario al vecchio adagio che dice: tutti dovrebbero essere trattati alla stessa maniera. Non è così. Siamo tutti diversi e tutti meritiamo un trattamento specifico”. Questo spiega come e perché Mourinho riesca a farsi amare da pressoché tutti i suoi giocatori, anche quelli che punisce o mette dietro la lavagna. Li fa sentire tutti speciali quasi quanto lui.

Il secondo è la cultura del lavoro, che idem non sorprende in uno che arriva ad Appiano Gentile prima che il custode apra il cancello, e che si fa pagare tantissimo per lavorare ancora di più. “La migliore condizione al mondo”, spiega Mourinho urbi et orbi, “è quella di allenatore licenziato. Ti alzi alle dieci e mezza, fai colazione, vai a farti una corsettina seguita da una sauna e da una tranquilla panoramica sui siti sportivi in internet. Poi il pranzo, un pisolino e un incontro con il tuo commercialista o con il tuo operatore di Borsa. Poi torni a casa e fai una buona cena con la tua famiglia. Tutta questa attività ti lascia ancora il tempo di criticare gente che non conosci”. Questo spiega, con qualche anno d’anticipo, i frequenti attriti fra Mourinho in piedi nel monitor e l’esperto di turno seduto negli studi televisivi. Uno dei due sta lavorando.

Il terzo è l’attenzione alla sistematicità teorica piuttosto che all’improvvisazione pratica, per fortuna o per ingegno. Al riguardo Mourinho è fulmineo: “Il mio odontoiatra è fantastico, eppure non ha mai avuto mal di denti”.

Il quarto e più importante è la concentrazione sul risultato quale unico criterio uniforme di giudizio dell’operato di una persona (si tratti di sé stesso o, poniamo, di Ranieri); questo fin quasi ai confini della nevrosi e alla scissione dell’ego. Nel corso della polemica estiva col finto-settantenne allenatore della Juventus, i giornali hanno dato risalto all’attacco verso il nemico esterno (Ranieri “non ha mai vinto trofei importanti; forse avrebbe bisogno di cambiare la sua mentalità, ma probabilmente è troppo vecchio per farlo”); rileggere invece la stessa dichiarazione in volume permette di concentrarsi sull’attacco al più subdolo nemico interno: “Io sono una persona molto esigente con sé stessa; ho bisogno di vincere per essere felice, per avere la sicurezza che tutte le cose stiano andando bene”. Questo spiega perché di anno in anno Mourinho abbia sempre vinto qualcosa: per riuscire a non parlar male di sé.

mercoledì 10 dicembre 2008

Altro compleanno

Passiamola questa soglia una volta di più
(Vittorio Sereni)

Mi sveglio alle 7:30 sul divano-letto a casa di Mirko. Essendo troppo presto, lui dorme nell'altra metà della casa, accendo il televisore (senza volume per non disturbare) e controllo sul televideo che sia effettivamente il 9 di dicembre. Lo è. Scivolo in doccia, mi cambio, accendo il cellulare. Messaggino di mia madre. Inforco gli occhiali e attendo il risveglio del resto della casa leggendo sul divano, tornato divano-e-basta, le ultime cinquanta pagine del romanzo di Martin Amis che in giornata devo restituire alla Delfini, e sarebbe meglio restituirlo finito. Messaggino di Silvia. Mirko si sveglia, consegue caffè. Messaggino di Ottavia. Messaggino di Ilaria. Passeggiata verso il centro. Amo Modena senza ritegno, c'è pure il sole. Messaggino di un'altra Silvia. Ulteriore caffè, anzi cappuccino e svedese al Molinari, all'angolo con la via Emilia. Messaggino di Lisa. Vado a restituire Amis e gli altri due romanzi alla Delfini. Fra gli scaffali incontro per caso una compagna di liceo, ora lavora a Modena, la ricorrenza non viene menzionata. Telefonata di mia madre. Genuflessione e preghierina in Duomo, in fondo se sono nato non è merito mio. Visita agli uffici del dottorato, strette di mano, auguri natalizi. Messaggino di Corinne. Pranzo nella mensa del San Carlo. Ulteriore caffè in camera di Peppe, che per raggiungere la macchinetta sopraelevata deve alzarsi in piedi sull'armatura del letto (quand'è solo lo beve così, in piedi e in altura, dove l'aria è più rarefatta e le molecole di caffè si sentono di più). Messaggino di Valentina. Ulteriore invito per un ulteriore caffè al Molinari, ma per essere sicuro di addormentarmi prima o poi mi limito a una spremuta d'arancia. Messaggino di Mariagrazia, che poco dopo si palesa in carne e capelli. Messaggino di Giulia. Due passi verso largo Garibaldi, di fronte al Teatro Storchi, con la fontana dei due fiumi ardimentosamente ritratta in un quadro custodito chissà perché nella casa di Gravina. Ulteriore possibile caffè con Giulia, previdentemente trasformato in tè (lei) e cioccolata calda (io, il tè mi ripugna, mi fa schifo ed è una porcheria). Faccio un salto a casa di MarVi per salutarla. Poi passo a risalutare Peppe con annessa fidanzata. Risaluto Mariagrazia. Ricupero il borsone rosso preso in prestito e guadagno la via della stazione, è quasi nuvoloso ma non fa troppo freddo. In treno viaggio con Silvia (non la prima, la seconda) la quale, essendo modenese, prolunga gli effetti di Modena anche al di fuori della stazione FS, perfino al di fuori dell'Emilia, fin quasi a Milano Rogoredo, sede dell'ultimo cambio del viaggio breve e complicato. Messaggino di Anna Chiara. A Pavia prendo la strada che riporta dalla stazione in camera mia. Il borsone rosso preso in prestito pesa di più e inizia a nevicare bagnato. Apro la porta, ritrovo gli stessi vestiti poggiati lì dove li avevo lasciati. Mi ero dimenticato di aver rifatto il letto. Accosto la bottiglietta vuota al rubinetto del lavandino (per quanto io detenga un bidet, ho delle remore a bere da lì). Esco di nuovo sotto la neve e vado a prendermi un cartone con dentro una pizza cipolle e grana. Il pizzaiolo mussulmano, dalle pareti onuste di crocifissi e foto di Giovanni Paolo II, non ricorda se pareggiando la Roma passi il turno o venga eliminata. Torno da me, mangio la pizza. Con alito mefitico mi informo sui parziali di Champions League al quarto d'ora della ripresa. La Roma pareggia e vincerà, l'Inter pareggia e perderà. Ascolto reiteratamente il loop di Guccini che canta La Locomotiva, forse cinque, forse venti, forse cento volte. Hélène passa a salutarmi e a chiedermi se sono tornato vivo. Controllo la posta. Controllo Facebook e trovo gli auguri di Luna, Elisabetta, Valentina (un'altra), Giorgia, Nelly, Letizia, Montse, Eleanor, Alessandra, Valeria, Emanuela, Liana, Marissa, Stefania, Ottavia (sempre quella di prima), Deysi (si scrive così), Vanessa, Lodovica e Silvia (un'altra ancora, Silvia è un nome estremamente comune, che vi credete, mica Ottavia). Ma Facebook è una porca cosa perché con una settimana d'anticipo crea l'evento associato al compleanno di qualsiasi tuo contatto, avvisa tutti di far gli auguri a tutti indipendentemente dal fatto che si provi passione sconsiderata ovvero indifferenza olimpica, e per non saper né leggere né scrivere uno è costretto a passare dal suo profilo per fargli augurare buon compleanno a tappeto, altrimenti l'altro si offende e desume che lo odi; ragion per cui Facebook è ruffiano, Facebook non vale. Mi esercito col nuovo videogame di calcio che Mirko mi ha passato. Il caffè fa il suo effetto, il caffè fa il suo dovere. Qualcuna si sarà dimenticata come sempre, qualcuna per la prima volta, qualcuna avrà ricordato e taciuto. Mi addormento che è l'una passata.

Gli eroi son tutti giovani e belli
gli eroi son tutti giovani e belli
gli eroi son tutti giovani e belli
(Francesco Guccini)

martedì 9 dicembre 2008

Questa è la prova che la storia si ripete

Io sono nato nel 1908 ma ho cinquemila anni. Sono pieno di screpolature, di ammaccature, di buchi. Mangio con tre denti, digerisco con un quarto di stomaco, respiro con mezzo polmone, ho la pancia fasciata, sto su a forza di legacci. Ogni tanto mi si rompe qualcosa: un molare, un dito, un'orecchia, un occhio: e vado avanti sempre, come una vecchia Ford. Vado avanti a bicarbonato, a simpamina, ad aspirina e a calci del buon Dio, così fra bene e male si mangia tutti.
(...)
Monarchico in una repubblica; di destra in un Paese che cammian decisamente, inflessibilmente, verso sinistra; sostenitore dell'iniziativa privata in tempi di statalismo; assertore dell'unità in tempi di regionalismo; assertore di italianità in tempi di antinazionalismo; cattolico intransigente in tempi di democristianismo, io non sono stato - come poteva sembrare - un indipendente, bensì un anarchico.
(Giovannino Guareschi, 1946 e 1954)

venerdì 5 dicembre 2008

Letterine letterarie (12)

Illustre Gurrado,
ti scrivo questa mail visibilmente posticcia e farlocca per sapere come reagiresti a un'eventuale mail di, poniamo, Giuseppe Genna il quale, lungi dall'adombrarsi per una stroncatura da parte tua o altrui, pur riconoscendo la tua ricchezza di riferimenti letterari ti rimproveri con gentilezza il fatto che proprio questi medesimi riferimenti ti consentirebbero di non prendere in giro né il testo né l'autore, come invece hai fatto, di non travisare il perno del suo romanzo ritenendolo 19 pagine del tutto incomprensibili illeggibili e inutili, di dichiararti a priori edotto riguardo a quanto l'autore in generale (e Genna in particolare) sappia o non sappia: costituendo tutto ciò il limite critico e teorico di una recensione che infine risulta più ideologica che scientifica e che prevede un giudizio incentrato non già sul linguaggio di Italia De Profundis bensì su temi delicatissimi e prevalentemente politici. Come reagiresti dunque?
G.

Illustre Gurrado,
ferma restando l'evenienza che una mail del genere mi parrebbe più creazione letteraria che effettiva corrispondenza (ma d'altronde la corrispondenza non è che un genere letterario, e tutte le lettere che scrivevamo ieri e tutte le mail che scriviamo oggi sono un'indegna imitazione di un romanzo epistolare teorico e infinito) - penso che inizierei ringraziando Genna per la pronta lettura e la non comune educazione della sua risposta, permettendomi tuttavia di contestare la sua notazione riguardo al fatto che io presuma di sapere tutto quello che l'autore (in generale più che in particolare) abbia inserito o meno nel suo libro. Io penso infatti che il ruolo del recensore sia quello di parlare all'ipotetico lettore che non ha avuto per le mani il libro e di interpretare a suo beneficio le intenzioni dell'autore. Per fare questo ho a disposizione la geometria di un libro, ossia la sua scansione in parti e/o capitoli, e le parole stesse dell'autore. Gli farei notare che i primi capoversi della recensione a Italia De Profundis, in cui cerco di spiegare al lettore la ragion d'essere del suo romanzo, sono basati esclusivamente sulla perimetrazione del testo e su due citazioni portanti che a mio avviso spiegano la compresenza dei due piani narrativi (individuale e collettivo) nel suo romanzo. Sottolinerei come l'io-lettore emerga soltanto a partire dal quarto capoverso, col tentativo di risalire alle fonti letterarie; e come anche qui io mi sia basato su dati di fatto (benché, non avendo qui con me a disposizione una biblioteca decente, abbia dovuto lavorare esclusivamente di memoria). Insisterei su come dalla ricerca delle fonti, e dall'estrapolazione delle "quattro storie di merda", prenda spunto il mio tentativo di proporre al lettore un'interpretazione plausibile del nocciolo del volume; essendo quello di Genna un romanzo molto complicato (cosa che, sia chiaro, costituisce un merito), la questione risale a monte e si concentra soprattutto sullo stabilire quale sia il nocciolo del volume. Ovviamente io a quel punto non sto dicendo che l'autore Genna ha indicato la seconda parte di Italia De Profundis come parte più importante del suo romanzo; sto dicendo al lettore che, invece di farsi prendere dallo sconforto di fronte alle celebri 19 pagine (qualora non volesse saltarle) e lanciare il volume contro il muro, può confidare nel ritrovamento di un collante narrativo che tenga insieme le diverse (e non prive di fascino) pulsioni del romanzo con l'arrivo della seconda parte. A questo punto, azzarderei un ulteriore passaggio logico: nel momento in cui mi trovo davanti un romanzo ideologico (nel senso non deteriore del termine) deve necessariamente diventare ideologica (idem come sopra) anche la mia recensione. Devo prendere il lettore per la collottola e tuffargli il naso nei contenuti, cosa che personalmente detesto e cerco di fare il meno possibile quando si tratta di letteratura (poi, fuori dalla letteratura, ho le mie idee e plausibilmente io e Genna non andiamo d'accordo, ma ciò non vuol dire). Proprio perché abitualmente mi trovo a disagio nell'analisi contenutistica mostrerei che infine ho preferito tornare in conclusione sulla lingua, evidenziando una parola-spia; quel "negro" che - gli direi in tutta sincerità - mi ha fatto sobbalzare quando ho scoperto che scandalizzava tanto il Genna protagonista quanto il Genna autore. Il "qualcosa non funziona" finale è appunto basato su un parametro tecnico dichiarato, l'utilizzo di un segno grafico per isolare dal contesto una singola parola colpevole: proprio quest'improvvisa asimmetria fra il tremendismo delle trecento pagine precedenti e l'eccesso di politically correct (peraltro su una parola che una trentina d'anni fa, prima che iniziasse la degenerazione patria che Genna stesso lamenta, non avrebbe scandalizzato nessuno) incrina a mio avviso la riuscita del libro, fa subodorare la forzatura qua e là. Insomma lamenterei che io non tento altro che mediare fra lettore e autore, cercando di immedesimarmi in entrambi e di spiegare all'uno le istanze dell'altro. Lo scongiurerei di tener presente due attenuanti: che non mi legge praticamente nessuno, nemmeno lui, anche perché faccio recensioni troppo lunghe e complicate; e che gli eventuali lettori sarebbero quasi sempre più d'accordo con lui che con me.

giovedì 4 dicembre 2008

Pippo mesto

Dovete sapere che io sono un accanito sostenitore delle interivste a Pippo Baudo: le cerco, le leggo, le rileggo, le medito, le diffondo e sono per lo più concorde sui loro contenuti. Ad esempio l'altro giorno ero particolarmente d'accordo con quanto detto da Baudo nella sua intervista al CorSera, ove si augurava (forse in termini un po' nazisti, benché efficaci) (d'altra parte nessuno può negare che i nazisti siano stati efficaci) una rieducazione del pubblico. Rieducazione a cosa? Al bello, sosteneva, facendo il raffronto (indubbiamente interessato ma sicuramente efficace e in tal caso per nulla nazista) fra certi programmi generalisti della tv privata e il suo altrettanto generalista Serata d'Onore sulla tv pubblica. Io Serata d'Onore non l'ho visto giammai, ma so che a Baudo bisogna riconoscere almeno due pregi, à savoir:
- una non comune capacità di tenere le fila della trasmissione, che talvolta sconfina nel voler condurre anche le trasmissioni altrui in cui va ospite;
- un continuo tentativo di rendere fruibile al pubblico un valore estetico magari facile e consolatorio ma pur sempre ordinato e per certi versi educativo.

Di là dagli infiniti Sanremi, Fantastici e Domeniche In, Baudo ha fatto almeno due ottime trasmissioni utili a creare una minima e decente coscienza comune in tutti i teleutenti italiani (che è, gratta gratta, il motivo per cui si paga il canone): Uno su Cento molti anni fa su Rai1 e Novecento nel 2002 su Rai3. In entrambi i casi si trattava di un tentativo di recupero della storia recente d'Italia, doppiamente filtrato attraverso gli archivi Rai e il rimodernato passaggio televisivo (con annessi quiz, giochini, circenses e quant'altro fosse necessario ad affezionare il pubblico della prima serata). Per questo credo alla sua sostanziale sincerità quando auspica la creazione, anzi la preservazione di un senso estetico nei telespettatori.

Che Baudo soffra di manie di grandezza (d'altronde è alto) è risaputo agli occhi di chiunque abbia visto anche soltanto il suo lontano cameo ne I Promessi Sposi del Trio Marchesini-Solenghi-Lopez. Questo spiega il suo riferimento diretto con annessa lamentela (e magari identificazione nel personaggio) al dato di fatto che come Serata d'Onore anche la recentissima fiction su Paolo VI sia stata seguita da un numero di spettatori infimo ma largamente sufficiente a giustificare ancor oggi il perfido nomignolo di "Paolo Mesto" affidato al Papa quand'era ancora vivo e operante.

Cinque milioni di spettatori, per una fiction fatta con tutti i crismi e lanciata con gran rullio di tamburi nella prima serata domenicale di Rai1, non sono praticamente nulla. Mi hanno ricordato i "quattro gatti" fotografati da Pasolini in una Via Crucis al Colosseo, nel 1973 mi pare e comunque in pieno regno dello stesso Paolo VI. Evidentemente non è un Papa che smuove le folle. Evidentemente non è stata sufficiente la campagna pubblicitaria con annessa polemica pseudovaticana riguardo all'interpretazione eccessivamente politica della figura del Santo Padre (volta sostanzialmente a dare a intendere che egli fosse stato una vacca magra dedita esclusivamente alla cementazione del centrosinistra italiano, coi risultati che sappiamo) o peggio ancora riguardo all'apparizione incongrua del nipote brigatista, personaggio inventato che può sì comparire in una fiction nel vero senso della parola ma che andrebbe espunto dalle cosiddette fiction storiche italiane, le quali visto il loro ammirevole intento educativo e la loro impostazione documentaristica rientrano piuttosto nella categoria della narrativa nota come nonfiction.

Io stesso non l'ho vista; l'ho persa quand'è stata trasmessa e poi ho cercato di rivederla via internet ma sugli archivi di Raiclick al momento è possibile vedere solo la fiction su Giovanni Paolo I (oltre che tutte le puntate di Ho Sposato uno Sbirro). Se invece di vederla avessi dovuto girarla, la mia fiction su Paolo VI sarebbe iniziata con un'inquadratura sulla porta santa del Giubileo del 1975, chiusa, che stava per essere aperta dal variopinto Pontefice nella notte di Natale; e avrei mostrato, con una prima scena muta, la porta che si apre rivelando la sagoma smagata di Paolo VI sulla spalla del quale cade crudele un po' di stucco.

Non ci sarebbe stata miglior immagine, credo, per mostrare oggi la tragedia di un uomo che ha via via visto traditi nei fatti gli ideali nei quali credeva quand'era a capo degli Universitari Cattolici, assistendo impotente ma sempre più rigido alla degenerazione dei costumi giovanili, all'aborto, al divorzio, al progressivo fraintendimento del Concilio Vaticano II, alla guerra in Vietnam, all'uccisione di Aldo Moro. Tutto questo l'avrei mostrato come se Paolo VI, ancora sporco di stucco, se lo fosse trovato davanti in visione una volta aperta la porta santa giubilare.
E avrei concluso con il recupero pressoché integrale dell'antica omelia con la quale, destando una certa sorpresa ancor oggi, lo stesso uomo esile e cerebrale con la poca voce che aveva implorava disperato tutti i fedeli a voler bene al Papa. E, per estensione, anche a Pippo Baudo.

mercoledì 3 dicembre 2008

Quattro storie di devastazione di sé

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Bisognerebbe sforzarsi di esprimere un giudizio univoco sull’ultimo romanzo di Giuseppe Genna per quanto l’autore stesso faccia di tutto per far coesistere all’interno dello stesso volume due libri differenti, collocati su due piani altrettanto diversi: dividendo nettamente il romanzo in due parti diseguali quantitativamente e narratologicamente (“la narrazione” prima, “il racconto” poi) e giustapponendo in una tormentata convivenza il lamento per l’Italia che muore e quello per la degenerazione del sé (tanto che, spiega nella nota conclusiva, il romanzo avrebbe altrettanto bene potuto intitolarsi Giuseppe Genna De Profundis).

Genna è uno scrittore notoriamente calibrato, quindi la geometria del suo romanzo va studiata con attenzione. All’interno delle due parti, la divisione procede – ne “la narrazione” – in sette capitoli circolari, che seguono una scansione logica (o quanto meno una sfilza di associazioni d’idee) anziché cronologica, muovendo tutti da incipit similari dedicati sempre alla stessa estate del 2007, gratificata ogni volta di un paio di aggettivi poco lusinghieri (“improduttiva e faticosa”, “estenuata e neurotica”, etc.). L’altra metà invece procede – ne “il racconto” – con la scansione temporale in quattro capitoli in ordine cronologico, che partono dal tradizionale “inizio del racconto” e finiscono con l’altrettanto tradizionale “epilogo”.

Questi due procedimenti narrativi sono la traduzione su carta del duplice procedimento di scandaglio che Genna intende proporre nel suo nuovo romanzo (breve peraltro: meno di 400 pagine a fronte delle oltre 600 di Hitler e delle oltre 700 di Dies Irae). Da un lato assistiamo a un avanzamento centrifugo, che partendo dalla pretestuosa e imbarazzante estate del 2007 vissuta dal singolo protagonista/narratore/autore Giuseppe Genna intende via via coinvolgere i più vari strati della società italiana (e milanese in particolare), corresponsabili della degenerazione dell’individuo in questione. Dall’altro lato c’è un avanzamento centripeto, che fa confluire i più deludenti effetti della degenerazione sociale italiana (perlopiù milanese) nella vita individuale del singolo protagonista/narratore/autore Giuseppe Genna nel corso della sua solitaria e affollata estate del 2007 in un villaggio vacanze di Cefalù. Lo conferma Genna medesimo sentenziando: “L’intera superficie del Globo è esplorata. Poco di me è esplorato”.

Quando il libro inizia, con Genna che si descrive di spalle al “mare incontenibile del Capo, nella punta più tempestosa della Sicilia”, la faccenda promette bene perché consente di ricordare due precedenti letterari di gran livello. Sembra anzitutto che Genna sia riuscito a compiere il trasbordo di Scilla e Cariddi sul quale Stefano D’Arrigo trentatre anni fa aveva incentrato l’impatto di ’Ndrja Cambrìa su Horcynus Orca, anch’egli alla scoperta di un’Italia nuova e apocalittica. Altrettanto, procedendo un po’ all’indietro, Genna sembra aver presente l’impotente contemplazione dello Stretto da parte del protagonista/narratore/autore de Il Male Oscuro, e come Giuseppe Berto in questo caso Genna muove la sua narrazione a partire dalla morte del padre. In Berto il padre moriva di cancro, a seguito di una lenta agonia che lo sfigurava. In Genna il padre muore di infarto fulminante, che lo congela rapidissimo in una mossa grottesca: il vecchio comunista crepa col pugno serrato in alto nel tentativo di aggrapparsi al letto.

Man mano che le pagine passano, viene fuori che D’Arrigo e Berto sono falsi riferimenti. Un altro autore che muove volentieri dalla morte del padre è Michel Houellebecq, che Genna cita spesso e dichiara di leggere soprattutto nella prima parte di Italia De Profundis, quando invece il suo influsso è ravvisabile soprattutto nella seconda metà, dove la descrizione del villaggio turistico di Cefalù deve qualcosa all’approccio narrativo di Houellebecq in Lanzarote. Su David Foster Wallace, invece, Genna discetta sovrabbondantemente nella seconda parte del romanzo (con annessa palinodia a pie’ di pagina dovuta alla notizia del suicidio di DFW, un annetto dopo la composizione del De Profundis: Genna conclude che se DFW era “uno stronzo implicito, (…) Giuseppe Genna è uno stronzo esplicito”), mentre la sua influenza è più visibile fin dal titolo del lungo e fondamentale capitolo portante della prima parte: “Quattro storie di merda che non ricordo più”.

La coprolalia di Genna, lungi dall’essere molesta, trova la sua giustificazione appunto nelle quattro storie in questione, che il lettore fatica a dimenticare. Si tratta di quattro frammenti indipendenti sulla devastazione di sé stesso e del circostante, riguardanti la droga (con le prime tardive iniezioni di eroina), il sesso (con una barocca esperienza omosessuale e ipersessuata al cospetto di tre drag queen), la morte (con Genna che provvede all’eliminazione di un malato terminale) e la scissione dell’io. Proprio in quest’ultima circostanza, ricevendo una lettera scritta da sé stesso, Genna si autoaccusa di essere “letteralmente una merda: cioè il deposito di rifiuti inerti di un enorme intestino sociale”.

Va dedotto che l’intero romanzo di Genna intende mostrare peristalsi e prodotti dell’intestino sociale in essere, ipostatizzandoli non tanto nel compiaciuto autocompatimento quanto nella dimostrazione pratica della vita quotidiana dell’italiano medio in libertà. La parte più importante del patrio De Profundis va di conseguenza ricercata nella seconda metà del libro, e non nel quarto capitolo della prima parte che porta pari pari lo stesso titolo del romanzo. Qui, strafacendo, Genna accumula diciannove pagine che egli stesso denunzia come noiosissime e invece sono solamente insensate, portando agli estremi la sua consueta tecnica narrativa di accostare a sorpresa o a casaccio parole altisonanti per dare al lettore l’impressione di aver capito qualcosa (non per niente Genna, purtroppo, ha studiato filosofia): citando qua e là, Genna si diffonde sul “grande viaggio”, su “pozzi segreti e dolci declivi solcati da colate di metallo fuso e fontane di pece e nitrato”, sull’“inversione dei climi e delle scrivanie” e su lui solo sa che altro.

Invece, appunto, il baricentro del romanzo è nella seconda parte narratologicamente tradizionale e impeccabile, e in questa stessa seconda parte giace segreto il fallimento del progetto. “Il racconto” di Italia De Profundis è la storia – finalmente – dell’estate “cristica e anoressica” del 2007, alla quale Genna ha fatto fugace riferimento nelle precedenti 230 pagine. Ridotto a scrittore di cose e non più di parole, Genna tracima nel territorio che è già stato trattato a oltranza e meglio, per esempio da Francesco Piccolo sia in Allegro Occidentale sia ne L’Italia Spensierata. Quando non può più nascondersi dietro l’incomprensibilità, Genna ricorre alla satira ed è satira ritrita, che prende di mira e sviluppa espressionisticamente i temi sociali già adombrati in nuce nella prima parte del libro, dove fra le righe dell’autodissoluzione individuale e collettiva era possibile leggere il solito sermoncino su Welby, la stilettata alla sanità lombarda tutta in mano a Comunione e Liberazione, la consueta reprimenda sui reality show e sugli adolescenti che abusano del cellulare.

Prima ancora di essere d’accordo o meno sull’eutanasia – o più prosaicamente sull’Isola dei Famosi e sull’eccesso di essemmesse – il problema di Italia De Profundis è proprio nel non larvato impegno sociale che emerge dalle pagine più lamentose di Genna (il quale proclama di volersi esprimere per lamentazioni come un novello Giobbe, dimenticando che le Lamentazioni sono di Geremia). Qui la narrazione tradizionale di Genna mostra la corda e lascia sospettare che tutto il resto, ossia la corposa narrazione sperimentale della prima parte, possa venire ritenuto un bluff. Si potrebbe fare l’esempio del disprezzo ipocrita per le donnine che, nel villaggio vacanze di Cefalù, si immergono nella lettura di Gomorra senza essere degne degli sforzi letterari e umani di Saviano – così almeno lascia trapelare Genna, senza venire neppure sfiorato dal sospetto che la principale ragione del successo su vasta scala di Saviano possa risiedere appunto nei loro polpastrelli unti di crema solare.

Invece penso che sia più indicativo un piccolo risibile esempio che compare indolore a pagina 263, dove Genna mette fra caporali la parola “negro”, riferendo il discorso di una guanciuta signorina che di lì in poi verrà identificata nientemeno come “La Donna Dei Negri”. L’utilizzo con le pinze, scandalizzatissimo, di una parola formalmente corretta, derivante dritta dritta dal latino e sulla quale ha da eccepire solamente il birignao del politically correct è la spia di un disagio linguistico che va ascritto al simultaneo e inconciliabile doppio desiderio di destare scandalo da un versante (l’eroina, le drag queen, l’eutanasia clandestina) e dall’altro di coccolare il senso civico dei lettori che non si riconoscono nella fauna caratteristica dei villaggi vacanze, e che non accetterebbero un “negro”senza virgolette o maiuscole. Se un autore per trecento pagine non ha ritegno a parlare di “apodissi” e “disponibilità passiva ad attuare una partitura attiva”, ovvero a darsi della “merda” con cognizione di causa e a descriversi mentre pratica sesso orale su tre travestiti più aggressivi della media, e poi improvvisamente si scandalizza e monta un solitario corteo di protesta contro l’utilizzo della parola “negro”, be’, decisamente qualcosa non funziona.

martedì 2 dicembre 2008

Abbastanza Paradiso

Il 2 dicembre 2007, un anno fa esatto esatto, sostenevo la tesi di dottorato intrattenendo sette professori e una quarantina di amici.

Per festeggiare, quest'ultimo weekend sono andato a Modena; e come sempre una volta arrivato ho iniziato a essere assalito su una serie di progetti riguardo a cosa e come scrivere - descrivere anzi - una volta che mi fossi ritrovato col portatile sottomano. Se non che il portatile non era affatto a Modena con me, bensì a Pavia dove scrivo ora. Ragion per cui al momento mi ritrovo davanti allo schermo nel vano tentativo di una ricollezione di quanto visto e provato in loco.

Quello che ho visto lo so a memoria. La stazione, dall'interno verso l'esterno. Il traffico di viale Monte Kosica. Corso Vittorio Emanuele. Il retro dell'Accademia. La Ghirlandina (leggasi: il telo sulla Ghirlandina) da lontano. Il davanti dell'Accademia. La candida statua di Ciro Menotti. Il portico di via Farini, il caffè Giusti. L'ex bar dell'amico Willy. Il passeggio sulla via Emilia. Il collegio dove ho fatto il dottorato. La Bona. Piazza Grande. La Ghirlandina (leggasi: il telo sulla Ghirlandina) da sotto. Via Carteria. La statua di Muratori. Via Ganaceto. La Pomposa. La tomba di Muratori dentro la Pomposa. Via del Taglio. L'altro ex bar dell'amico Willy. La Feltrinelli, addirittura. Altro passeggio sulla via Emilia. Largo Garibaldi. La fontana con Secchia e Panaro. Il mercato di piazza XX Settembre. Fermatemi prima che sia troppo tardi.

Le emozioni collegate, invece, si sono come staccate e non potranno tornare se non di fronte al medesimo itinerario di cui sopra, che serve a non sentirsi addosso l'anno che oggi è passato - anzi a risentire intensificati e concentrati i tre anni in cui passare sotto la Ghirlandina (senza telo) o davanti alla statua di Muratori era una cosa quotidiana ma non per questo meno eccezionale. Quindi oggi se parlo di Modena non posso scrivere niente che un nudo elenco topografico.

Per fortuna sono previdente e quindi, fra una cosa e l'altra, ho avuto tempo di andare alla biblioteca Delfini in corso Canalgrande; sono entrato come se vivessi lì e fossi un utente comune e potessi ancora prendere dei libri in prestito. D'altra parte potevo, posso ancora prendere dei libri in prestito inquantoché la tessera è vitalizia e ovviamente l'ho conservata. Ho controllato il portadocumenti azzurro e tutto sfasciato che mi ritrovo ed effettivamente dietro la carta d'identità c'era la tessera della Delfini.

Per fortuna sono parsimonioso e ho calcolato che andare e tornare da Modena costa 20 euri. I tre libri che ho gratuitamente preso in prestito, invece, costavano uno 17 euri, uno 16 e mezzo e l'ultimo 15, per complessivi 48 euri e mezzo. Vale dunque la pena di andare a Modena a prenderli e tornare a restituirli una volta finiti; perché c'è il valore aggiunto che ogni volta che vado a Modena vedo Modena, cosa ovvia, ma anche, cosa meno ovvia, che mentre sono qui a scrivere che non posso riprodurre l'emozione provata a Modena eccetera eccetera custodisco invece in camera tre pezzi di Biblioteca Delfini, che saranno poco ma pur sempre meglio di niente.

Vabbe'.

lunedì 1 dicembre 2008

Quattordicesima giornata

Io vorrei sapere come si fa a scrivere del campionato senza averlo visto (cosa leggermente diversa dallo scrivere di calcio senza capirne nulla, hobby invero più diffuso di quel che si creda). Tecnicamente non ho seguito niente: ho dato colpevolmente le spalle a Juventus-Reggina in un pub, ho visto metà Inter-Napoli di straforo, ho appreso il risultato di Palermo-Milan alle undici e mezzo di sera da un pizzaiolo mussulmano che, insomma, avrà sì appeso il Crocifisso sopra il forno ma pur sempre mussulmano rimane.

In realtà il lungo weekend di serie A, anche se ho finito per ignorarlo più o meno deliberatamente, mi s'è infilato sottopelle dimostrandomi che non esiste una sola maniera per guardare una partita di calcio (come invece credono gli scettici, i monomaniaci e le donne). Sabato sera Juventus-Reggina è stata il sottofondo di una serie di incontri con amici, davanti a una ributtante quantità di piadine che ancor oggi fatico a digerire, col televisore di profilo rispetto alla conversazione nella quale la Juventus s'è infilata quattro volte (una per goal; ogni volta ci siamo girati a vedere il replay richiamati dall'urlo del resto del pub) e la Reggina una soltanto (col goal meraviglioso ed epocale su punizione, benché inutile del tutto, annullato per motivi che non sono risultati più chiari a chi ha effettivamente guardato con tanto d'occhi la partita dall'inizio alla fine).

Domenica pomeriggio Inter-Napoli è stata il sottofondo visivo (piacevolissimo nei suoi tre goal tutti di pregevole fattura, fortunatamente tutti nel primo tempo ché alle 16 dovevo andare a prednere il treno, benché la prima rete dell'Inter fosse visibilmente casuale non tanto per la balzana traiettoria della palla quanto per l'evenienza che detta parabola fosse partita dal piede dell'illustre e rinomato scarpone Ivan Ramiro Cordoba) - dicevo, Inter-Napoli è stata il sottofondo visivo della radiocronaca di tutte le partite minuto per minuto, compresa appunto quella che stavo guardando. E poiché una partita di campionato non è una finale secca ma ha senso solo in relazione a tutte le altre, guardarne una e ascoltarne sette è un'esperienza non solo corroborante perchè serve a dislocare la mente in luoghi vari più dello yoga (provate voi a sentir descrivere il goal di Maccarone in Siena-Torino mentre a San Siro vedete Gargano franare sui tacchetti del medesimo illustre e rinomato scarpone Ivan Ramiro Cordoba); ma è l'attraversamento di una sinestesia di pedate atta a rendere l'idea di quanto sia caotico e casuale il pomeriggio che, nel giro di un paio d'ore, consegna dei tabellini e una classifica alfanumerici perfettamente ordinati e senza sbavature, ulteriore conferma del fatto che il calcio mi piace soprattutto in quanto reiterata applicazione pratica dell'ordo rhetoricus.

Domenica sera, alla fine, Palermo-Milan 3-1, come mi ha riferito dietro mia domanda svagata il pizzaiolo mussulmano fuori tempo massimo. Occhio non vede, cuore non duole.

venerdì 28 novembre 2008

Letterine letterarie (11)

Gurrado,
non credi che un Pavese di nascita o di elezione possa star male sentendosi dire che, praticamente, la sua città non esiste?
Mamma

Cara mamma,
comprendo senz'altro le reazioni degli indigeni soprattutto, i quali hanno l'ovvio istinto a difendere la propria città. Penso che in caso di sommosse - fermo restando il diritto di ognuno a esprimere le proprie idee, quindi tanto il loro quanto il mio - andrebbe spiegato che il mio articolo rientrava in un ciclo che Tempi, per mezzo di Camillo Langone, ha deciso di dedicare a come le piazze delle città italiane vengono interpretate dallo sguardo di alcuni scrittori. Il busillis sta appunto in questo: gli autori dei vari pezzi (Doninelli, Laura Bosio, Langone stesso, Enrico Brizzi, etc.) sono tutti scrittori e non giornalisti, ragion per cui danno un taglio letterario alla descrizione/interpretazione di ciò che vedono. Per questo motivo tutti i pezzi sono risultati parziali: non solo perché eravamo tutti costretti a contenerci entro i limiti delle 7.500 battute (che ti assicuro sono molto poche per descrivere una città intera) ma soprattutto perché l'obiettivo del ciclo di Tempi è quello di far vedere ai lettori le singole piazze con gli occhi di un singolo scrittore - quindi uno sguardo soggettivo e non oggettivo. D'altra parte penso che sia evidente il mio utilizzo continuo del pronome "io" nel corso del mio intervento. Altrimenti, per avere i vari articoli, invece che a degli scrittori Tempi avrebbe dovuto rivolgersi alle pro loco.
Nel mio caso la letterarietà del testo, benché implicita, credo che sia decisamente evidente. In primo luogo per la scelta del genere letterario in cui inscrivere le due paginette: la satira (all'inizio e alla fine, con il ritornello paradossale "Pavia non esiste") e l'invettiva (al centro, con la descrizione minuziosa di casi effettivamente accadutimi, come ad esempio la faccenda dell'ambulante che si siede al mio tavolo mentre sto offrendo un caffé a una signorina: cosa che mi è successa anche l'altro giorno, sempre in piazza della Vittoria, a un altro bar, con un altro ambulante e un'altra signorina). In secondo luogo la letterarietà del mio intervento era intuibile dalla presenza di una serie di citazioni implicite di cultura locale, che non dovrebbero sfuggire alle fasce più colte della cittadinanza (indigena o d'elezione), e delle quali ti elenco le più eclatanti:
- l'attacco "Pavia non esiste" si ricollega direttamente all'incipit del passo più celebre dell'Antapòdosis di Liutprando da Cremona, diacono di Pavia nel X secolo, il quale scrive una vibrante descrizione della distruzione di Pavia che si fonda sul ritornello "Brucia la disgraziata Pavia, un tempo così bella";
- la divisione di Pavia in "due compartimenti stagni" è un riferimento a un celebre brano di Cesare Angelini, ex rettore di una tristemente nota residenza universitaria nei pressi del Ticino, che fa riferimento alla divisione di Pavia in due parti "come nella Gallia di Cesare";
- la descrizione delle direttrici composte da cardo e decumano, che corrono verso i differenti punti cardinali, è un riferimento al Liber de laudibus civitatis Ticinensis di Opicino de Canistris, parroco a Pavia nel XIV secolo, in cui offre una descrizione di Pavia come specchio geografico dell'universo intero e delle differenti pulsioni dell'animo umano (nel caso del mio articolo, "passeggio e fuga");
- "a Pavia ogni battaglia è persa" è, come dovrebbero effettivamente sapere gli studenti di cui parlo nella circostanza specifica, un riferimento al fatto che le varie battaglie di Pavia sono state decisive per la (cattiva) sorte di grandi popoli nel corso della storia: sempre a Pavia infatti nel 271 l'Impero Romano dovette soccombere agli Alemanni, nel 773 i Longobardi furono sconfitti dai Franchi, nel 1525 i Francesi persero contro il Sacro Romano Impero la possibilità di impossessarsi di tutta la Lombardia (e, nella circostanza, venne addirittura imprigionato il Re di Francia Francesco I).
E così via: tutte queste informazioni peraltro sono reperibili nel volume Lombardia della collana Letteratura Regionale Italiana dell'editrice La Scuola, curata dal prof. Stella e da un ottimo pavese, Cesare Repossi. Penso si chiaro che sotto la patina graffiante e ironica ci fosse una non comune attenzione alla storia e alla cultura di una città nella quale sono capitato più di dieci anni fa, pur non avendoci vissuto continuativamente, e che quando si legge un testo non ci si debba limitare al senso letterale.

Eh no, Gurrado!
[omissis] Anna Karenina [omissis] Tolstoj [omissis] i romanzi russi [omissis]
.
Enzo, Erika, Graziano

Madò, che putiferio.
Uno per volta, direi a Enzo che lo svuotamento culturale, indubbio e indegno, di questi tempi colpisce altrove che nei romanzi russi. Penso che loro si siano un po' svuotati da soli, polarizzando uno scontro fra una minoranza di sostenitori estremi e un'altra minoranza di insofferenti urticati. Nel mezzo c'è la maggioranza svuotata culturalmente che dei romanzi russi non si cale e pertanto non è né favorevole né contraria, anzi si stupisce di come un argomento del genere possa anche spingere alla faida.
Alla signorina Erika direi che alla stessa maniera non è solo questione di gusti. Se i romanzi russi non mi piacciono non è solo perché non mi piacciono (sarebbe una misera tautologia) ma perché non riesco a specchiarmici; anzi, mi sembrano come i vecchi specchi trascurati dove uno può a stento vedere la sua immagine scurita ma qua e là la sua capacità di riconoscersi, o di vedere qualcosa tout court, viene sopraffatta dalle incrostazioni. Limitandoci ad Anna Karenina (che nel frattempo ho ovviamente gettato sotto il treno, finito e digerito), la parte del romanzo che mi interessava di meno è appunto quella che riguardava strettamente lei, Anna Karenina eponima. (Con la ragionevole eccezione delle venti pagine per descrivere la mietitura nelle campagne russe.) Ho avuto l'impressione di star leggendo qualcosa che non aveva a che fare con l'evoluzione sentimentale e intellettiva che una persona solitamente ha una volta passati i quattordici anni, e che nella circostanza il talento di Tolstoj fosse sprecato in faccenduole (meno trama! meno trama!).
A Graziano infine direi che ha un po' di torto su una cosa e ragione su un'altra. Il Dono di Nabokov l'ho letto e ne ho ricavato la lettura di aver sprecato tre giorni di vita (la vita è una sola, ricordiamocelo, e purtroppo è questa). Peraltro mi sorprende che Nabokov mi sia piaciuto nelle sue prove successive, composte in Inglese, mentre Il Dono era irrimediabilmente scritto in Russo (se non erro il titolo originale è Dar): chi lo sa, magari è la lingua che rende indigesta la scrittura, magari è il cirillico che ingolfa i motori, boh. Invece ha ragione assoluta quando dice che per me (ma temo anche per altri) a furia di praticarla la lettura sia diventata l'esercizio di un dovere un po' vuoto, un cartellino da timbrare, una catena corta.

Gurrado,
dici che hai fatto il biglietto per Modena ma causa neve non sai se riuscirai a utilizzarlo domani. Secondo me si scioglie, ma ricordati piuttosto di dirmi a che ora arrivi.
Mirko

Ora che ci penso, questa potrebbe essere un'idea per un nuovo e postmoderno mecenatismo: mi faccio ospitare a turno un paio di notti da tutti quelli che leggono il mio indegno blog, dove che vivano. Dite che riempio un anno o che dopo due settimane mi ritrovo sotto i ponti?

giovedì 27 novembre 2008

Tutti i libri che non ho letto (8)

(Gurrado per Books Brothers)

Per me, la Corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca!
-seguono novantadue minuti di applausi-
(Paolo Villaggio)

Tutti i libri noiosi sono simili fra loro, ogni libro russo è noioso a modo suo.

Ogni anno con l’autunno arriva la pioggia, arriva la nebbia e arriva il tempo di migrare. Impacchetto i bagagli, consegno l’estate al suo tramonto, separo l’utile dal dilettevole così come durante la creazione Dio, tanto per cominciare, separò le acque superiori da quelle inferiori (operazione di dubbia concretezza ma di sicuro impatto). Il viaggio è lungo, lo spazio è poco, quindi è meglio selezionare con ragionevolezza e immaginare nel dettaglio i prossimi mesi di vita così da non dimenticare nulla di fondamentale, senza per questo aggiungere niente di superfluo. Il computer portatile è piuttosto utile, quindi è meglio infilarlo in borsa. La raccolta completa di dvd su trent’anni di campionato, un dvd per anno, potrebbe risultare ridondante quindi è meglio lasciarla dov’è. L’ombrello, a Pavia, potrebbe servire di tanto in tanto: dentro. Il travestimento da fiore impollinato, che più di vent’anni fa ha segnato il mio esordio sul palcoscenico nonché il mio simultaneo e precoce addio al mondo dello spettacolo, non troverebbe adeguato séguito nel settore al quale mi pregio di appartenere: fuori. Dentro la Bibbia, qualche film di Woody Allen, magari anche un paio di scarpe di ricambio. Fuori il Martirologio Romano, il videoregistratore, magari anche la foca in porcellana (a grandezza naturale) che campeggia nel soggiorno. Ogni anno con l’autunno arriva il tempo di migrare e arriva il gesto furtivo col quale all’ultimo istante riapro la borsa per lasciarvi cadere Anna Karenina.

Si tratta di un’Anna Karenina d’antan, finita di stampare il 6 marzo 1965, prima uscita assoluta della collana “Garzanti per tutti – i grandi libri”. 823 pagine, 850 lire. A un occhio analfabeta la distribuzione della copertina potrebbe apparire spiazzante, ove la protagonista viene chiamata per nome e cognome in alto e quindi potrebbe benissimo essere l’autrice; mentre Tolstoj, sistemato puro e semplice al centro della copertina, potrebbe altrettanto bene passare per titolo enigmatico (chissà, magari è una biografia). Una volta ristabilito l’ordine fra autore e titolo, e di conseguenza la netta separazione fra realtà (Lev) e fantasia (Anna), l’elemento principale che emerge dalla copertina è un treno nella neve (di Claude Monet, 1875) che avanza minacciosissimo verso il lettore, terrorizzandolo e portando con sé la rappresentazione grafica del finale che tutti conoscono, perfino io.

Quanto all’oggetto-libro, forma pura e niente contenuto, lo conosco alla perfezione perché dal 1998 ogni autunno lo infilo in borsa e parto; arrivo e lo sistemo nello scaffaletto provvisorio che mi serve a tirare avanti fino a Natale, sistemandolo fra la S e la U in ordine di autore; poi pian pianino i giorni passano, l’autunno degenera, io invecchio e affronto lo scaffale leggendo tutti gli altri libri a esclusione di Anna Karenina. Eppure so che ha un odore ottimo, di carta saggiamente invecchiata: potrei annusarlo per ore e alla fin fine è l’unica cosa che faccio, non riuscendo mai a trovare altri motivi per aprirlo.

Anna Karenina è la punta di un iceberg contro il quale mi schianto pervicacemente e che m’impedisce da tempo immemorabile di riuscire a leggere i grandi romanzi russi. Ho esordito promettente a sedici anni con Dostoevskij, leggendo Delitto e Castigo e traendone una mirabile relazione per la professoressa d’Italiano al Liceo; poi mi sono detto: “Mai più”. L’Idiota, I Demoni, I Fratelli Karamazov sono rimasti ben rinchiusi nel baule delle pie intenzioni. Ho arrancato vedendo che tutti dico tutti i miei compagni di classe, anche quelli che usavano i libri solo per pareggiare le zampe di tavoli zoppi, si sono appassionati al genere e hanno letto un Dostoevskij dietro l’altro, diventando altrettanti potenziali protagonisti di Matchpoint (un giorno sarà interessante abbozzare una statistica su quanti maniaci di Dostoevskij abbiano prima o poi ammazzato una vecchietta). E non più tardi di domenica scorsa, venendomi esplicitamente chiesto un parere tecnico sullo stile discontinuo e spezzettato della prosa di Dostoevskij, tutto ciò che son stato capace di rispondere suonava: “Be’, ci credo, era epilettico”.

Achille Campanile non aveva tutti i torti quando sosteneva che la peculiarità dei romanzi russi è che non si capisca mai bene cosa stia succedendo e a chi. Le perifrasi sono interminabili, le descrizioni minuziose di porcherie infime sovrabbondano ma vengono misteriosamente troncate in ellissi che oscurano del tutto il dénouement lasciando alla notevole buona volontà del lettore (la mia è molto poca e per niente buona) il compito di capire cos’è successo alla trama, chi ha sparato a chi altro, chi ha sposato cosa, perché il pope non è zar, il tutto mentre il fuoco narrativo si sposta bellamente sulla dettagliata cronaca, per sette od otto pagine, dell’appassimento di un nasturzio o del mutamento d’espressione di un personaggio secondario mai apparso prima e che mai più ritornerà. Questo in fin dei conti è stato il segreto del successo storico dei romanzi russi; nell’impossibilità di ammettere generalmente che nessuno ha capito niente, tutti li hanno trovati unanimemente meravigliosi, inimitabili e (per fortuna) irripetibili.

Senza contare che, con la scusa del romanzo polifonico, gli autori russi si sono sentiti in dovere di chiamare i personaggi con una pletora di nomi ciascuno, ora Darija ora Dolly, ora Dunja ora Dunečka, ora Ekaterìna ora Katja ora Kitty, ora Tatjàna ora Tanja ora Tančuročka nientedimeno, senza premurarsi di spiegare come si tratti della medesima persona una e trina, così da fugare ogni residuo dubbio riguardo alla possibilità di capire di chi mai stiano parlando man mano che le pagine si susseguono – senza che mai si arrivi al dunque, poiché i romanzi russi hanno l’insondabile caratteristica che alla fine di ogni giorno il numero delle pagine che mancano alla fine è superiore a quello del giorno precedente. Ora io capisco uno che, come me, legge più per professione che per diletto; ma come può impelagarsi in questo vespaio, e poi dichiarare di esserne uscita indenne e soddisfatta, una persona normale che legge solo ogni sera a letto, prima di addormentarsi?

Si potrebbe obiettare che tutti i romanzi russi, anche se non è sera e anche se non si è a letto, vengono inevitabilmente letti prima di addormentarsi. Io da parte mia ho azzardato numerosi tentativi. Sospettando che Dostoevskij fosse troppo lungo, ho letto Padri e figli di Turgenev che è più sintetico; l’ho letto in treno da Pavia a Desenzano e mi ha fatto capire a cosa si riferisce la frase “in caso di necessità, rompere il vetro per uscire” scritta su ogni finestrino. Forse Turgenev era troppo filosofico, allora ho letto La Madre di Gorkij, il quale è un vero talento sprecato poiché sarebbe stato un eccellente analfabeta. Forse Gorkij era troppo impegnato, allora ho letto Il Dono di Nabokov il quale, spaventato egli stesso da come scriveva in Russo, s’è ravveduto e poco dopo ha iniziato a scrivere in Inglese. Forse Nabokov era troppo ingenuo all’epoca, quindi ho trattenuto il respiro e in apnea mi sono dato al capolavoro dei capolavori, il russo dei russi, il romanzo dei romanzi, quello che a Napoli verrebbe definito il fatt’apposta. Come Woody Allen, di Guerra e Pace ricordo soltanto che è ambientato in Russia.

Chissà, magari è un problema tecnico-linguistico. Dev’essere semioticamente molto difficile scrivere bene in cirillico, con tutti quei rettangolini e le N arrovesciate. Ma di Guerra e Pace ricordo altresì che è scritto in Francese, lingua che all’epoca non conoscevo (mentre oggidì fingo con classe), nonostante che qua e là compaiano degli inserti in Russo, fortunatamente tradotti nell’edizione italiana. Per certi versi ho capito Guerra e Pace solo qualche mese fa, quando ho letto una raccolta di brevi saggi morali di Tolstoj (Perché la gente si droga?, uscito quest’anno per Mondadori). Il problema di Tolstoj è che lui fa queste magnifiche tirate sulla Storia, sulla Religione, sull’Amore, sulla Politica, su Tutta Una Serie Di Cose Con La Maiuscola. Pagine e pagine di meraviglioso vibrato tenute assieme dalla corda sottile del virtuosismo. Poi, d’improvviso, si ricorda di star scrivendo un romanzo e, per contentare i suoi appassionati lettori, si tace e ricomincia a raccontare la trama: Anna balla con Vronskij, Bezuchov si fa massone, Padre Sergij si mozza un dito e così via. Nessuno come Tolstoj pare dar ragione al ritornello di Mattia Pascal: maledetto sia Copernico, il quale ha rivoluzionato l’universo impedendoci di preoccuparci seriamente di Teresina che si moriva di fame e di Lucrezia che spasimava d’amore.

Tutte queste interruzioni fanno male alla sua prosa, vanno a detrimento del complesso ragionamento che sottostà a ogni suo romanzo e che viene poi disperso nella trama e nel fatterello. Ne sappiamo qualcosa noi teledipendenti, con tutta la pubblicità ben fatta sovente interrotta da film noiosi e programmi di pessimo livello. Nei saggi invece, libero dai legacci della trama, Tolstoj galoppa felice e sragiona con pieno diletto, appassionandosi in dettagliate istruzioni su come capire il Vangelo armati solamente di lapis rosso e blu, o sulla motivazione preclara per cui tutti i soldati debbano invece fare i contadini. In tal caso si contiene e dà il meglio di sé, spiegando perché invece di raccontare come, senza avere l’esigenza di inventare un disertore fittizio che scriva allo zar per spiegargli di abbracciare anch’egli la vita dei campi, né un fattore barbuto che sottolinei in blu le frasi di Gesù che capisce al volo e in rosso i commenti degli evangelisti che spiegano le parabole più oscure. Nessuno come Tolstoj pare dar ragione alla cantilena di Virginia Woolf: non pensare alla trama, la trama non conta.

La stessa vita vissuta da Tolstoj, solitamente relegata in poche pagine a carattere minuto prima delle faccende private di Oblonskij e del principe Andrej, è ben più interessante delle vite altrui che è riuscito a inventare, con l’infanzia senza madre, lo scioperatismo universitario, il matrimonio con la figlia di un’ex innamorata (vecchio porco), la magnifica utopia di Jasnaja Poljana, la conversione tormentatissima e lucida, la fuga dalla sua stessa vita che lo conduce inevitabilmente a morire – in una stazione secondo i gusti peculiari dei personaggi suoi. Per questo, eccezionalmente, il miglior romanzo russo non è quello non letto; il miglior romanzo russo è quello mai scritto.

Ieri sera ho iniziato Anna Karenina, a letto, prima di addormentarmi.