giovedì 30 giugno 2011

Ieri Giorgio Napolitano si è visto conferire il titolo di dottore di ricerca in legge dall'università di Oxford ma le vere star della cerimonia mattutina allo Sheldonian Theatre sono state George Martin, inventore delle canzoni dei Beatles, Richard Jenkins, oratore ufficiale dell'ateneo che eccelle tanto in inglese quanto in latino, e una scienziata che ha guadagnato surrettiziamente il titolo di Signora delle mosche. Sul sito del Foglio trovate la mia dettagliata cronichetta di una giornata speciale.

martedì 28 giugno 2011

Il caldo mi favorisce: ieri mi destreggiavo con disinvoltura mentre a Oxford impazzava un’improvvisa canicola e gli inglesi, essendosi superati i ventitre gradi, davano evidenti segni di squilibrio. Essendo climaticamente meglio equipaggiato di loro, ho potuto non solo sbrigare in un sol giorno più lavoro di quanto ne avessi accumulato starnutendo nei precedenti mesi ma anche considerare dettagli confusi con maggiore lucidità. Ho pertanto capito alcune cose e deciso alcune altre. La visita a Cambridge – un ricco ritorno vacanziero sul luogo nel quale da ventenne appena alfabetizzato avevo sfruttato fino all’ultima pagina librerie lussuriose e immani biblioteche – mi ha ricordato che sono uomo da carta stampata più che da schermate e schermaglie virtuali. La lettura dell’ottimo ultimo romanzo di Richard Mason (History of a Pleasure Seeker, pubblicato da Weidenfeld e Nicolson; ne riparleremo) mi ha confermato che per ottenere una prosa di buon livello ci vuole più pazienza nella composizione che continuità nella pubblicazione. L’imbecillità di buona parte dei navigatori mi ha fatto maledire l’esistenza di internet, un mezzo potentissimo che fa sentire gente indegna in diritto di scrivere e dire la propria, un po’ come se uno senza patente si sentisse in diritto di sfrecciare in Ferrari solo perché esistono le autostrade a sei corsie: per fortuna i libri e per certi versi i giornali non prevedono l’opzione della parità fra autore e lettore. La progressiva stanchezza di cui Oxford mi ha fatto ammalare nel giro di due anni pesati come due ventennii sul mio ego repentinamente invecchiato mi consiglia di tagliare al minimo le attività non strettamente necessarie; inoltre la sempre maggiore irregolarità con cui ho aggiornato il mio blog un tempo puntualissimo, e la mia crescente insofferenza nei confronti del dovere di scrivere un’idea al giorno senza venire retribuito e senza che l’avvenuta auto-pubblicazione mi causi soddisfazione alcuna né in realtà alcuna reazione se non un vago fastidio per la sempre rischiosa eventualità di incorrere in refusi, mi suggeriscono che per qualche tempo sarà bene lasciare spazio sulla rete a gente che non ha di meglio da fare. Il caldo improvviso e petulante, infine, mi ha ricordato che nonostante le apparenze è giunto il momento della solita sospensione estiva. Anche se l’estate di Oxford, iniziata domenica a mezzogiorno, è finita ieri pomeriggio con le prime piogge autunnali, l’aggiornamento di questo blog è sospeso fino a settembre, fatta salva la notifica delle mie eventuali uscite su altre testate e le comunicazioni di servizio; e nei mesi da qui al consueto Festival Filosofia di Modena queste pagine verranno rimaneggiate significativamente sia quanto a forma sia quanto a contenuti, prima di decidere quando, come e se continuare una volta che sarò tornato a vivere in Italia come una persona normale. Sarà un’estate lunga.

venerdì 24 giugno 2011

Non so voi ma io oggi piglio e vado a Cambridge, dove quand’ero giovane (ventidue, ventuno, addirittura vent’anni) ho trascorso tre lunghe estati più che memorabili, per una durata complessiva di mesi sei, ospite del glorioso St John’s College che al momento festeggia il cinquecentenario. Contrariamente a quanto tutti pensano, Oxford e Cambridge non sono affatto vicine, anzi i mezzi di trasporto fanno di tutto per tenerle separate un po’ come accade alle città universitarie italiane – non so se siete mai stati abbastanza temerari da andare da Pisa a Pavia, io no. Nonostante tutta l’Italia s’immagini che Oxford e Cambridge siano tutt’al più separate da un rigagnolo guadabile, per coprire la distanza mi toccano in realtà tre ore di treno per andare e altrettante per tornare: ma non è questo il problema; il problema è che i treni possono viaggiare nello spazio ma non nel tempo.

giovedì 23 giugno 2011

Pierluigi Battista ieri ha scritto sul Corriere della Sera che la protesta di Marco Pannella sarebbe piaciuta a Voltaire, il quale soleva giudicare il grado di civiltà di uno Stato in base alle carceri e non ai palazzi. Mi permetto di aggiungere qualche postilla. A Voltaire sarebbe piaciuto anche uno Stato che evitasse la gogna mediatica degli indagati, poiché scriveva: "Una nazione è ancora sufficientemente immersa nella barbarie quando fa subire agli accusati il reiterato supplizio della tortura, ossia quando fa soffrire loro mille condanne a morte invece di una, e per giunta esercita tale enorme furore senza sapere se siano innocenti o colpevoli". Gli sarebbe piaciuto anche che venissero stigmatizzati solo i veri reati e non un indefinito malcostume: "Trovo tanto assurdo quanto crudele punire i delitti commessi contro l'opinione vigente, che non hanno causato alcun male fisico". Soprattutto gli sarebbe piaciuta una bella stretta sulle intercettazioni: ai suoi tempi non esisteva il telefono ma già vigeva "un metodo ben singolare per stabilire le prove evidenti. Vengono ammesse delle semi-prove, che in fondo altro non sono che dubbi: perché, com'è noto, non esiste una semi-verità. Si ammettono perfino i quarti e gli ottavi di prova. Si può considerare, per esempio, una conversazione come un quarto di prova, e un più vago sentito dire come un ottavo; in maniera tale che otto mormorii, che altro non solo che l'eco di un sussurro mal fondato, possano divenire una prova completa".

mercoledì 22 giugno 2011

Io coi calvinisti (tranne una) già ce l’ho su per motivi miei, figuriamoci dopo avere trascorso l’intera giornata di ieri a leggere i loro saggi apologetici del XVII e XVIII secolo – nelle edizioni originali, poi non stupiamoci se divento cieco – senza trovare in migliaia di pagine alcuna delle tre o quattro citazioni che mi sarebbero state utili. Dopo una giornata del genere, non avevo altra scelta che concedermi un cheeseburger (tentando di fatto il suicidio, visto quello che accade di recente con la carne tritata, ma non tentandolo abbastanza visto che ho chiesto espressamente di evitare pomodori spagnoli, cetrioli internazionali e possibilmente anche i germogli di soia) e guardarmi la registrazione della migliore trasmissione sportiva della Rai, Sfide. La puntata in questione era dedicata a Vialli e Mancini, i gemelli del goal – un po’ come me e Francesco Savio – che col talento comune hanno trasformato la Sampdoria di vent’anni fa in una cosa di bellezza armonizzando provenienze opposte: Vialli, da famiglia ricca, giocava a calcio solo per divertimento; Mancini, da un convitto per adolescenti, giocava a calcio soprattutto per rivalsa. Rivederli intervistati oggi e così diversi – Vialli felicemente intrallazzato nell’ambiente ma senza incarichi specifici nonostante una carriera da allenatore niente male già lasciata alle spalle, Mancini ingrassato e installato sulla panca di una squadra onusta di petroldollari, Vialli che racconta di quando ritardò i tempi supplementari di una finale di Coppa Italia perché doveva fare la cacca, Mancini che tenta di giustificare i reiterati scatti d’ira che lo portarono a essere squalificato proprio nel memorabile giorno dell’unico scudetto, Vialli con gli occhi che ancora gli ridono, Mancini no – mi ha fatto pensare quanto il tempismo sia davvero tutto: se si fossero incontrati oggi non si sarebbero riconosciuti, le loro metà combacianti non si sarebbero specchiate l’una nell’altra e loro non avrebbero più potuto diventare fratelli in blucerchiato. Ma ho pensato anche a quanto contino le circostanze: il breve brillare della loro amicizia non sarebbe potuto accadere senza un presidente come Paolo Mantovani, paterno ma non scemo, né senza un allenatore come Vujadin Boskov, prima di Mourinho il migliore utilizzatore nel circo calcistico della lingua italiana. Un giorno un giornalista Rai lo insegue chiedendogli: “Ma insomma, mister, oggi in panchina chi va?”; e Boskov, prima di scappare negli spogliatoi: “Tutti che non giocano”.

martedì 21 giugno 2011

Bisogna lanciare un’operazione Sant’Antonio contro l’estinzione del mio onomastico. La scorsa settimana si sono ricordate di farmi gli auguri persone per lo più comprese entro una ben ristretta fascia sociale determinata dall’intersezione di tre insiemi: over 50 (in alcuni casi anche over 70), residenti al sud, credenti. Una sparutissima minoranza che non ha potuto essere controbilanciata adeguatamente dal tiepido entusiasmo per Sant’Antonio da parte delle giovani generazioni (under 40), peraltro allertate da un messaggio subliminale via facebook altrimenti stavamo freschi: qualche pugliese, due abruzzesi, un sardo. Da nord sono arrivati auguri solamente da Padova, ma lì è oggettivamente difficile dimenticarsi del Santo negli altri giorni dell’anno, figuriamoci il 13 giugno. Fra trent’anni, quando ne avrò 60, quelli che mi fanno gli auguri ogni anno basculeranno fra gli 80 e i 100, a voler essere ottimisti. I meridionali si saranno tutti trasferiti al nord per necessità pecuniaria e, a meno che non scelgano Padova en masse, ne contrarranno il vizio di ignorare quei giorni speciali che pure permettono di sorprendere le donne con auguri che in questo reo tempo non s’aspettano più o ai quali peggio ancora non sono consapevoli di avere diritto (basterebbe scorrere la rubrica del telefonino: sant’Anna il 26 luglio, santa Barbara il 4 dicembre, santa Camilla il 14 luglio, santa Chiara l’11 agosto, santa Elisabetta il 17 novembre, santa Lucrezia il 23 novembre, santa Michela il 29 settembre, santa Silvia il 3 novembre, santa Teresa il 15 ottobre – senza considerare alcune finezze come la mia insistenza per celebrare Santa Giulia il 22 maggio come da desueto martirologio, o la questione quodlibetale su qualora una Maria Vittoria vada festeggiata il 23 novembre in quanto santa Vittoria o piuttosto il 7 ottobre, giorno della Madonna del Rosario altresì nota come Nostra Signora della Vittoria e quindi più pertinente al doppio nome). E i credenti? Onomastico dopo onomastico, petalo dopo petalo, dimenticanza dopo dimenticanza non ci sarà da stupirsi se fra trent’anni saranno diventati tutti mussulmani.

lunedì 20 giugno 2011

Nelle mie originarie intenzioni dovevo approfittare della scorsa settimana a Parigi per rimettermi con miglior lena a curare questo blog ma, nonostante avessi infilato in borsa il computerino portatile che è grande come un iPad ma pesa il doppio, non sono riuscito ad andare oltre l'aggiornamento di queste pagine virtuali di lunedì scorso, al primo giorno feriale per me ma festivo per Parigi (essendo la locale Ascensione), il solo in cui ho passato l'intera mattinata, quasi due ore, in albergo a scrivere. Poi, un po' la depressione per i risultati del referendum (a riprova, caso mai ce ne fosse bisogno, che come diceva quello governare gli italiani non è difficile ma inutile), un po' la mia a dir poco scarsa voglia di diventare l'ennesimo scrittore wannabe che s'installa, portatile in resta, ai tavolini dei caffè di Place de la Sorbonne o peggio ancora di fronte al passeggio dell'angolo fra il Boulevard Saint Michel e il Lungosenna che guarda Notre-Dame (le cui torri, precedente inquietante per chiunque voglia scrivere, in una stampa del XIX secolo erano state equiparate alla mutina iniziale del cognome di Hugo), ho finito per non combinare gran che, beninteso lavoro a parte. Tanto che sabato, terminato il mio convegno, dopo pranzo mi sono rintanato in camera a leggere l'Equipe e France Football, alè, rischiando concretamente di fare la fine di Strauss-Kahn dappoiché la donna delle pulizie (peraltro nera) stava entrando senza preavviso mentre vista l'elevata temperatura degli interni languivo sul materasso in mutande; poi, una volta andatasene colei e riguadagnato io l'intero letto matrimoniale, mi sono svegliato che erano le sei. Ma mentre uscivo dall'albergo (dopo aver trovato il tempo d'infilarmi camicia e pantaloni, non è per il mio corpo che voglio diventare famoso), deciso a passare leggendo Papini all'aria aperta quell'oretta e mezza che mi separava dalla cena, ho scorto per la prima volta in sette giorni di fianco all'ingresso una targa che commemorava come Gabriel Garcia Marquez, in quel medesimo albergo mio, ci avesse nientemeno scritto Nessuno Scrive al Colonnello; ho pensato a quale targa avrebbero potuto invece dedicarmi e sono stato assalito da un lieve senso di colpa nei confronti della storia della letteratura.

lunedì 13 giugno 2011

Indipendentemente dai risultati di oggi pomeriggio (che o verranno invalidati grazie alla losca pagliacciata compiuta sul voto degli italiani all’estero, al quale mi onoro di non aver partecipato, oppure verranno sterilizzati con apposite controleggine), ho escogitato un metodo infallibile per garantire l’utilità dell’istituto del referendum. Mi è venuto in mente ascoltando coloro che si lamentavano per lo spreco dovuto al mancato accorpamento del referendum alla data delle elezioni amministrative; costoro ovviamente cercano di tirare acqua al proprio mulino, com’è legittimo, e mentono sapendo di mentire, in quanto le elezioni amministrative sono una cosa e i referendum sono ben altra, le prime riguardano parti non uniformi del territorio nazionale chiamate a esprimere un voto politico (e come tale necessario) su temi generali riguardanti il governo di un organo locale, mentre i secondi riguardano uniformemente tutto il territorio nazionale chiamando i cittadini a esprimere un parere istintivo su argomenti specifici a casaccio. Non è il mancato accorpamento lo spreco; lo spreco è il referendum. Se io domani mi metto d’accordo con altri trecentomila stravaganti e decidiamo di sottoscrivere la richiesta di una consultazione per abrogare, che so, l’esistenza della Corte dei Conti, o del Molise, o della forza di gravità, è chiaro che quando viene convocato il referendum a votare si presenteranno ben in pochi ma tutti, anche quelli che avrebbero volentieri strangolato sia me sia i miei trecentomila stravaganti compari, sono costretti a pagare un pezzettino di referendum con le proprie tasse, ossia a devolvere parte del proprio reddito acciocché io possa convocare i miei compatrioti a decidere del destino della Corte dei Conti, del Molise e della forza di gravità. Invece bisognerebbe organizzarsi così. Quando qualcuno organizza un referendum, quando qualcuno lo sottoscrive, oltre a nome cognome e indirizzo lascia anche il proprio numero di conto corrente. Se il referendum non raggiunge il quorum, le spese di organizzazione del referendum vengono equamente ripartite fra tutti i firmatari, aggiungendo una sovrattassa in occasione della loro successiva dichiarazione dei redditi. In questa maniera vedrete che o tutti si precipiteranno a votare oppure nessuno proporrà più un referendum.

venerdì 10 giugno 2011

Non so se voi domenica abbiate degli impegni: io vado a Londra e prendo il treno subacqueo per Parigi; e vorrei vedere con che coraggio qualcuno a fronte di questo programmino potrebbe propormi di far prevalere quelle che Nichi Vendola, Dio solo sa perché, chiama “le ragioni della vita” e dirottare detto treno facendolo riemergere non già a Calais ma nel porto di Brindisi onde correre a casa per votare i quattro referendum – caso mai non ne foste al corrente perché guardate solo il Tg1, si tratta di uno sul nucleare, uno sul legittimo impedimento e due sull’acqua (uno su quella liscia e uno su quella frizzante). Non entro nemmeno nel merito delle mie idee: sul nucleare non ne ho di particolarmente chiare; sull’acqua so che una legge più estrema di questa era stata fatta nel 2007 dal governo Prodi; e sul legittimo impedimento so che in buona parte delle nazioni civili il capo del governo non può essere processato mentre è nell’esercizio delle proprie funzioni, e che non a caso ciò è prassi consolidata proprio in Francia dove è stata definita nel senso modernamente inteso la distinzione fra il potere esecutivo e quello giudiziario (in Italia c’è un po’ troppa confusione al riguardo). Le mie idee non contano; è l’istituto del referendum in sé che col passare dei decenni s’è rivelato pateticamente inutile. Immaginiamo che vincano i sì per tutti e quattro i quesiti: accadrà che nel giro di qualche anno si troverà una scappatoia per fare una legge sull’acqua peggio ancora di questa (il mercato sta andando in una ben precisa direzione e purtroppo non credo che la volontà popolare possa bloccarlo); che il governo in carica rigirerà la frittata del legittimo impedimento e chiamerà la medesima sostanza con un nome diverso; che le centrali nucleari non si faranno come non si sarebbero comunque fatte, per il consueto misto patrio di indolenza e incompetenza e per la tendenza inveterata a seguire le tendenze dell’estero, dove al momento è in programma la chiusura di molte centrali già attive. Il problema principale del referendum è che è abrogativo e quindi, gratta gratta, chiede ai cittadini di sostituire determinate parole di una legge con determinate altre; quindi per aggirarne i risultati basta cambiare ulteriormente le medesime parole per salvare la forma e rovesciare la sostanza. Pensate a cos’è accaduto col finanziamento pubblico ai partiti. Ancora di più: pensate agli ultimi referendum decenti, quello sulla riduzione delle preferenze elettorali e sull’uninominale. In entrambi i casi il cambiamento ha vinto con maggioranze schiaccianti, ma vent’anni dopo quali frutti godiamo dell’utilità della consultazione? Che non solo a forza di riforme parlamentari si è andati esattamente in direzione opposta alla volontà popolare (oggi si vota col proporzionale), ma che addirittura l’eliminazione totale delle preferenze, in accordo con la tendenza espressa dal referendum del 1991, ha scatenato un moto d’indignazione popolare per chiedere a gran voce la reintroduzione delle medesime. Mah. Poi c’è il problema del quorum, che è un problema sul serio in quanto due amici di pensiero opposto mi hanno scritto entrambi lamentandosene per ragioni inconfutabili. Uno, che al referendum voterà, dice: “Se uno non vota decide di avvalersi di un diritto sacrosanto, di una delle opzioni della democrazia; però la sua scelta può vanificare la scelta di un altro che ha deciso di votare, e così il primo si trova a esercitare un doppio diritto e il secondo nessuno”. L’altro, che al referendum non voterà, ribatte: “Se va a votare solo il 51% delle persone e di queste il 51% vota si, cambieranno le leggi con solo il benestare di circa il 26% della popolazione”. Insomma, a rigor di logica, che una consultazione non sia valida sotto il quorum del 50% dei votanti è ingiusto ma che una consultazione sia valida con un quorum appena superiore al 50% è altrettanto ingiusto. Io non voterò per generico disinteresse nei confronti dell’istituto del referendum (ciò non toglie che un domani l’opportunità politica di un quesito possa farmi turare il naso e imbracciare la matita copiativa), ma perfettamente consapevole che si tratti di un non voto d’opinione, altro che disinteresse o sciatteria. Quando si tratta di elezioni vere, coi partiti, io sempre voto e raccomando di votare perché in tal caso i seggi vengono distribuiti in ragione di una percentuale calcolata sui voti effettivi, e quindi non votando si perde l’occasione di esprimere la propria opinione; nei referendum invece viene effettuato un duplice calcolo il primo dei quali considera una percentuale di votanti in ragione degli aventi diritto, e quindi non votare equivale a esprimere un’opinione. Non è una regola geniale ma quella è e bisogna comportarsi di conseguenza. Qualcuno dice (testuale) che il referendum è “l’unico strumento a disposizione dei cittadini”, ma chi cerca di far passare un’idea del genere è un golpista in incognito perché l’Italia, a quanto ne so, è una democrazia rappresentativa: ossia eleggiamo dei rappresentanti e costoro fanno le leggi in base alle indicazioni ricevute dagli elettori. Se ciò non accade è colpa del fatto che i nostri parlamentari sono eletti senza vincolo di mandato, ragion per cui io posso essere stato eletto coi voti dei sostenitori del partito del cetriolo ma passare impunemente all’opposto partito dei germogli di soia. Se si volesse davvero far funzionare la democrazia in Italia basterebbe introdurre il vincolo di mandato e riaggiustare i regolamenti parlamentari; non c’è bisogno di abbandonarsi periodicamente (e su questioni oggettivamente marginali) a sussulti di democrazia diretta, manco fossimo la Svizzera.

giovedì 9 giugno 2011

Volto la pagina del calendario che celebra il seicentocinquantesimo anniversario della fondazione dell'Università di Pavia e scopro che miss giugno è Maria Pellegrina Amoretti, la prima signorina a laurearsi nell'ateneo pavese (a posteriori qualcuno commentò: "L'inizio della fine"), alla quale l'immarcescibile Parini aveva dedicato l'ode La Laurea in cui definiva Pavia, esagerando forse un po', "la risorta insubre Atene". Comunque sia, oltre a riprodurre il vezzoso profilo della dott. Amoretti, la pagina di giugno su detto calendario rivela anche date scabrose: la protolaureata nasce nel 1756, discute la tesi in legge il 25 giugno 1777 e muore nel 1787. Dunque dieci anni di vita da avvocatessa a fronte di, presumo, cinque anni di studi per diventarlo. Ne valeva la pena? (Maliziosamente si potrebbe arguire che su un ipotetico calendario che celebrasse il settecentocinquantesimo anniversario della fondazione della medesima Università, mister luglio potrebbe essere Antonio Gurrado: nasce nel 1980, discute la tesi in filosofia il 18 luglio 2002 e intraprende un'ascesa inarrestabile che lo porta dritto filato a Oxford, dove muore nel 2011 ucciso da un cetriolo killer, oppure calpestato da una masnada di turisti giapponesi miopi, oppure di indigenza dopo avere pagato tutte le rate della council tax. Ne valeva la pena? Questo di tanta speme oggi mi resta! / Straniere genti, l'ossa mia rendete / allora al petto della madre che mi ha spedito sempre più distante, ovviamente per il mio bene).

mercoledì 8 giugno 2011

Viva la Fifa! Saluto con imprevisto sollievo la decisione assunta dal neorieletto Joseph Blatter di squalificare da non so quale competizione calcistica femminile (né voglio saperlo) la nazionale dell'Iran le cui giocatrici erano ree di indossare una versione sportiva di un abito locale tipicamente imposto di cui non so il nome (né voglio saperlo) ma che le faceva somigliare ad altrettante tartarughe sgusciate. Mentre ogni istituzione sovranazionale politica ed economica si perde in mille frivoli distinguo e controbilancia la difesa del più immediato buon senso con la più ottusa rivendicazione di diritti altrui, il calcio finisce per rivelarsi sorprendente ultima isola di serietà su questa terra. Il regolamento è semplice: si gioca indossando una maglietta, a maniche corte o lunghe, calzoncini, calzettoni e scarpe bullonate. Chi si presenta in campo così può giocare, chi si presenta diversamente è gradito come spettatore e basta. Alla nazionale maschile del Camerun qualche anno fa venne impedito di giocare in canottiera sulla scorta di questo stesso criterio inderogabile. Se le calciatrici dell'Iran desiderano giocare con addosso una muta da sub, vuol dire che si sono confuse e hanno sbagliato sport. Se, com'è più probabile, lo stato maggiore dell'Iran ritiene che le giocatrici possano evitare di offendere la decenza lasciando scoperte meno porzioni del corpo di quante previste da un regolamento universalmente concordato, vuol dire che c'è qualcosa di sbagliato nella testa degli iraniani, non nel regolamento. Non avrei mai pensato di dirlo, ma magari la politica internazionale fosse governata da Blatter.

martedì 7 giugno 2011

Il Milan, il Milan, tutto dipende dal Milan; o meglio, se volete capire le prossime mosse di Berlusconi non guardate ad Arcore ma a Milanello. A titolo di esempio, ricorderete che durante la campagna elettorale di Napoli Berlusconi aveva promesso agli elettori che non avrebbe mai comprato Hamsik; visti i risultati, secondo me, ora non solo compra Hamsik ma pure Lavezzi, Cavani e il Vesuvio. Nel 2002, quando acchiappò Nesta all'ultimo minuto di mercato spendendo uno sproposito nonostante l'intuito suggerisse la maggiore opportunità che il Presidente del Consiglio tenesse stretti i cordoni della borsa per dare l'esempio a una nazione economicamente provata dal rinculo degli Stati Uniti post undici settembre, iniziarono a verificarsi i primi scricchiolii che portarono all'allontanamento, per fortuna temporaneo, di Tremonti. Per com'è messo il calcio oggi in Italia, per come la passione calcistica è divenuta in largo anticipo sulla politica una faida di minoranza contro minoranza, in cui il torto si contrappone al torto sulla sola base della considerazione che il mio torto mi sembra meno storto del tuo, senza alcun rispetto per alcun principio universale che non sia la negazione dell'evidenza, al Berlusconi vittima di Pisapia non conviene affatto tenersi la sua squadra, foss'anche con l'immagine vincente: la minoranza di attivisti calcistici e la minoranza di tifosi politici non coincidono e finirebbe per venire apprezzato in pieno come il capo universale, politico-calcistico, della parte di una parte. Se Berlusconi davvero volesse diventare Presidente della Repubblica, dovrebbe vendere istantaneamente il Milan e magari spingere gli uomini più in vista della società - i Galliani, i Braida, i Tassotti - verso un ruolo di spicco nella federazione europea o mondiale onde garantire più peso e più rispetto all'Italia intera. Ma se finisse per venderlo agli arabi, che già hanno iniziato a campeggiare sugli sponsorizzati petti, allora dimostrerebbe che sotto sotto dell'alleanza con la Lega Nord non gliene importa un accidente. Se invece Berlusconi, colto da incantamento per un Massimiliano Allegri che gli rammenta i giorni in cui aveva inventato Sacchi e Capello, dovesse rimboccarsi le maniche per il suo (nonché mio) giocattolo preferito e ricominciare a impegnarsi per il calcio - ma sul serio, non blaterando di tattiche a casaccio come nell'ultimo decennio - allora vorrebbe dire che ha scelto di liberarsi dai capestri burocratici dell'esercizio diretto del potere e riservarsi il ruolo che forse gli è più consono: quello di uomo di parte, grande mecenate di una destra culturale per la quale potrebbe patrocinare la diffusione dell'idea di responsabilità individuale e merito dell'eccellenza pagando di tasca sua un fottio di testate giornalistiche, trasmissioni televisive e collane editoriali sulle quali nessuno gli potrà obiettare nulla perché saranno faccende private pagate con portafoglio privato, come furono all'epoca Gullit e Van Basten per i quali nessuna prefica insorse dicendo che, putacaso, sottraevano ascolti a Michele Santoro. Dite che non è credibile come padre nobile della destra italiana perché ha chiare, evidenti, imprescindibili radici craxiane? Nessuno ha mai trovato da ridire sulla sua riuscita come presidente rossonero anche se tutti nutrono il fondato sospetto che da ragazzino tenesse per l'Inter.

lunedì 6 giugno 2011

Dunque, dove eravamo rimasti? Diciamo che nell'ultimo mese o mese e mezzo è emerso che avessi bisogno di riposo e, per far sì che detto riposo non risultasse eterno, era assolutamente necessario che rallentassi i ritmi, evitassi di fare mille cose con un numero di mani decisamente inferiore a quello della dea Kalì, rinunziassi al dovere di leggere e scrivere un tot al giorno e pensassi invece a godermi Oxford come fanno tutti coloro che hanno la fortuna di vivere qui. Io sono timido ragion per cui non ho ardito indagare se godermi Oxford comportasse andare su e giù per la principale strada del centro dando risolute craniate contro il palmo della mia stessa mano destra, come suole un giovanotto ben noto ai locali passanti il quale arricchisce la scena inveendo coloritamente (in Inglese forbito) contro sé stesso e il giorno in cui s'è trasferito a studiare qui senza più poterne scappare. Mi sono invece limitato, settimana dopo settimana, a dormire quando ci riuscivo, a mangiare senza esagerare soprattutto di sera, a bere ma soltanto analcolici poiché alla prima birra mi veniva spontaneo prendere a pugni oggetti inermi o meno, e a fare lunghe passeggiate campestri onde guardare le mucche inglesi, i cagnolini sguinzagliati che annusavano le mucche inglesi, le anatre che dalle acque si libravano in volo sui cagnolini sguinzagliati che annusavano le mucche inglesi, e intere squadre femminili di canottaggio (otto con) che solcavano ansimando le medesime acque dalle quali le anatre si libravano in volo sui cagnolini sguinzagliati che annusavano le mucche inglesi le quali giorno dopo giorno a loro volta mi guardavano passare sempre sullo stesso sentiero domandandosi se putacaso non fossi uno stalker. Poi, sempre stando attento a come mangiavo e a cosa bevevo e a quanto dormivo e a fin dove camminavo onde tenere a bada la pressione sanguigna, ho potuto ricominciare a lavorare col misurino. Vai in ufficio, ma non tutto il giorno! Vai in biblioteca, ma esci spesso a prendere aria! Leggi un libro, ma a meno di cento pagine per tirata! Scrivi qualcosa, ma piano piano e senza esagerare col computer! Mi è stato suggerito di disegnare diagrammi che fornissero una mappatura delle mie preoccupazioni onde averne una visione più chiara (l'ho fatto), e poi di architettare una lista delle azioni che non compio mai perché mi angosciano, associando a ciascuna una percentuale di angoscia e conseguentemente impegnandomi a praticarle nell'ordine progressivo di percentuale di angoscia (non l'ho fatto: già mi angosciava la lista in sé, 10%, ma in particolare non capivo bene come avrei potuto sfangarmela visto che mi angoscia il dovere di godermi la vita a Oxford, 30%, senza superare il quale non posso affrontare l'angoscia di infilarmi in un consesso estremamente affollato, 50%, o andare a una festa dove tutti sono allegri tranne me, 60%, o mimetizzarmi in mezzo a una pletora di hooligan allo stadio, 70%; e poi avrei forse dovuto iscrivermi a corsi appositi per imparare finalmente ad andare in bicicletta, 90%, a guidare un'automobile, 100%, a fare bungee-jumping, 150%?). Soprattutto mi è stato raccomandato di svagarmi (sempre a Oxford), andando al museo (l'ho fatto) o al teatro o al cinema (non l'ho fatto, devo ancora finire il museo dove mi sono rotto le palle dopo due mattinate trascorse a guardare sedili giapponesi, stuoie indiane e porcellane di Macao), e si è insistito sulla necessità che io mi godessi la vita comportandomi come qualsiasi ragazzo della mia età - se non che qui siamo alle parole in libertà in quanto anzitutto uno è ragazzo tutt'al più fino al 25 anni, passati i quali come giovane è solo patetico, e poi perché se io mi sono laureato a 21 anni mentre tutti si laureavano a 25, se ho fatto la maturità a 17 mentre tutti si diplomavano a 19, se ho iniziato le elementari a 4 anni e nove mesi mentre i compagni di classe avevano 6 anni, se sono stato mandato all'asilo a 1 anno e rotti in mezzo a futuri criminali di anni 3, ecco direi insomma che pretendere che inizi a comportarmi come uno della mia età a 30 anni è un po' tardivo, la situazione è irrimediabile e bisognava pensarci prima, quanto meno all'inizio degli anni '80. Allora ho optato per una cura più radicale: vai a Heathrow, prendi l'aereo, atterra a Linate, prendi la navetta, pranza alla Stazione Centrale di Milano con l'altro coordinatore di Quasi Rete, prendi la Frecciabianca, vai a Padova, accàmpati da amici, cena tardi, pranza quando capita, bevi il bianco, mangia il gelato, mangia un panino bisunto, rotolati nel profitterol, guarda la finale di Champions League sperando che perdano entrambe, prendi l'intercity, vai a Modena, mangia una pizza in piazza Grande, fai quattro passi con un compare all'una di notte, parla di filosofia con questo, parla di lavoro con quello, pranza con l'ex medico della locale e paglierina squadra di calcio, prendi il regionale, vai a Bologna, partecipa a un convegno, parla di università con questo, parla di pubblicazioni con quello, pranza al bar, cena coi professori, passeggia su Via dell'Indipendenza fino a che sei rimasto l'unico, inizia a guardare la tv alla sigla finale di Porta a Porta, dormi male, passa un altro paio di giorni del genere poi prendi la Frecciarossa, vai a Pavia, parla di presentazioni con questo, parla di conferenze con quello, prendi un aperitivo a base di spessissimo crudo innaffiato a oltranza, divora una pizza in piedi nella portineria del tuo Collegio onde salutare chi passi brandendo tranci di margherita, concediti il gelato anche se è quasi mezzanotte, vai su e giù per il vivace mercoledì pavese fino a tarda ora, torna in camera, dormi malissimo, alzati presto, leggi tutti i quotidiani che puoi, leggiti le nuove uscite che hai comprato nella prima libreria disponibile incurante delle ridotte dimensioni del bagaglio a mano, leggi riviste letterarie, magazine politici, rotocalchi sportivi, patinati femminili dimenticati da signore distratte, fumetti, inserti staccabili, istruzioni per l'uso, elenchi telefonici, prendi la navetta, torna a Linate, caricati di carta stampata e decolla corazzato in cotal guisa alla volta di Heathrow. L'altro giorno sono tornato a Oxford perfettamente riposato e ora sto una bellezza.