Non per vantarmi ma quest'anno i miei auguri di Natale sono stati così.
sabato 26 dicembre 2015
venerdì 25 dicembre 2015
Modesta proposta per cambiare la data del Natale facendo lo scisma fra cattolici e pagani. Strenna online sul sito del Foglio.
mercoledì 23 dicembre 2015
Sul Natale non c'è niente da dire. In prima pagina sul Foglio di oggi trovate la mia intemerata contro la cultura secolarista affamata di modernità, che ogni anno cerca di rendere eccezionale il 25 dicembre uccidendo il senso rituale, cioè cristiano, della festa. Con una proposta per cambiare la data e alcune considerazioni sulle pagine festive del quotidiani e su Renato Pozzetto come modello del multiculturalismo.
domenica 20 dicembre 2015
Tale e tanta è la tristezza della nostra epoca che adesso, a dieci minuti dal calcio d'inizio della Coppa Intercontinentale (inspiegabilmente in diretta su Rai 2), su youtube sono già disponibili le immagini di Barcellona - River Plate replicata su Fifa 16. Ebbene poiché il calcio è quello sport che la televisione universale ha trasformato in attività metafisica, distinto dall'atto di prendere una palla a pedate ma indistinguibile dall'atto di guardare una palla presa a pedate, è normale che lo sviluppo naturale sia un videogioco che riproduce l'atto di guardare una partita rendendola interattiva, ed è inevitabile che il videogioco abbia lo stesso nome della federazione internazionale che dovrebbe fra una cosa e l'altra organizzare il regolare svolgimento del gioco vero, quello in cui si muovono le gambe. Non solo; è significativo che internet, in quanto mezzo di comunicazione cosmico assoluto, abbia reso disponibile la possibilità non solo di guardare il gioco (come accade con la tv) ma di guardare un gioco che riproduce il guardare il gioco. Anzi è auspicabile che presto la riproduzione si svincoli dalla realtà degli eventi e dalla loro verosimiglianza, così che i videogiochi non siano più costretti a utilizzare come attori virtuali calciatori e squadre reali da contrapporre in scontri possibili; bensì, a universale vantaggio economico, diventino compiutamente immaginari ossia soppiantino in toto la narrazione delle partite, rendendone superfluo lo svolgimento. Auspico pertanto che fra quattro minuti, al momento di fischiare il calcio d'inizio della sfida di Yokohama, l'arbitro convochi a sé i capitani di Barcellona e River Plate sancendo che è già stato omologato il risultato della simulazione diffusa su youtube, facendo risparmiare a tutti tempo, e sudore, ed eventuale noia.
di che si parla?
la scatola nera,
selvaggio e sentimentale
lunedì 14 dicembre 2015
Ho letto Non nel mio nome, pamphlet Rubbettino scritto da un militante cattolico - Jean-Pier Delaume Myard - che si picca già nel sottotitolo di essere omosessuale ma contro le nozze gay. Secondo me, il ragionamento non regge e regge ancora meno se ci si basa su una prospettiva cattolica: la ridda di sigle e associazioni nate per difendere la famiglia mi sembra l'inutile complicazione di un affare semplice. Nel libro però ho trovato due idee convincenti, una sul ruolo sociale dell'amore familiare e una su chi sia il nemico che i cattolici devono sforzarsi di combattere in questi tempi duri; unico problema, non sono idee dell'autore ma di un filosofo e di un cardinale. Potete leggere tutto sul sito del Foglio.
sabato 12 dicembre 2015
venerdì 11 dicembre 2015
Sul Foglio in edicola oggi (fate ancora in tempo a comprarlo) vi rivelo due metodi retorici infallibili: uno per vincere un dibattito contro un sostenitore delle nozze gay, l'altro per perderlo. Dipende da come leggete lo stesso libro, Non in mio nome di Jean-Pier Delaume-Myard (Rubbettino), che si definisce omosessuale contro il matrimonio per tutti. Se lo leggete come ragionamento giuridico, funziona; se lo leggete come pamphlet cattolico, no.
mercoledì 9 dicembre 2015
In prima pagina sul Foglio di oggi, fra il pezzo di Giuliano Ferrara e quello di Maurizio Crippa, trovate me che terzo fra cotanto senno difendo l'onore di Giovanna d'Arco dai registi che alla prima della Scala l'hanno rappresentata come una pazza, una visionaria in camicia da notte, una repressa vessata dal padre che tramuta la propria castità in allucinazioni medieviste e cristologiche. Ottima scelta, insultare in un'occasione istituzionale la santa patrona di una nazione confinante e sotto attacco. Poiché si tratta di un intervento di pubblica utilità, si trova anche gratis online.
martedì 8 dicembre 2015
Inizia il Giubileo della Misericordia e sul Foglio in edicola oggi lancio un appello a Francesco affinché commuti la pena per Nuzzi e Fittipaldi, caso mai venissero condannati, in lettura coatta di Vite efferate di papi di Dino Baldi (Quodlibet): così capiscono che nessuna inchiesta scandalistica potrà mai far tremare il Vaticano dopo che ci sono stati pontefici scomunicati, ubriaconi, incestuosi, e soprattutto dopo che Dio decretò di conservare intatto per cinquecento anni proprio il cadavere di Bonifacio VIII, con tutti i papi santi che aveva a disposizione.
Si trova anche sul sito del Foglio.
Si trova anche sul sito del Foglio.
lunedì 7 dicembre 2015
Grande attenzione oggi sui giornaloni – Corriere e Stampa in
primis – a Gianni Rivera che esce dalla propria consueta riservatezza lanciando
sul mercato un’autobiografia monumentale che non solo costa 50 euri ma che è
anche stata pubblicata da un editore che non esiterei a definire oscuro, che
richiede l’acquisto online (dal sito giannirivera.it) e definisce il
cinquantone prezzo promozionale. Mah. Mi
sorprende perché soli due anni fa Rivera aveva dato forse inavvertitamente il
più perspicace giudizio sul calcio – ma che dico sul calcio, sull’Italia dei nostri
giorni – quando era stato intervistato da Nicola Calzaretta sul Guerin Sportivo
in occasione del suo settantesimo compleanno. Calzaretta gli aveva chiesto
ragione di come mai si fosse sempre dimostrato “refrattario alle emozioni” e
Rivera aveva risposto – ve lo dico dopo cos’ha risposto. Prima verifichiamo il
senso della domanda e la sua corrispondenza ai dati di fatto.
Rivera esordì nella prima squadra dell’Alessandria a
quattordici anni in un’amichevole contro il non temibile Aik Solna. Dai vaghi
ricordi che serbo dell’adolescenza mi pare di sapere che a quattordici anni tutti
sono emozionati per definizione; Rivera però non lo fu e oltre a giocare benone
segnò anche una rete. Il due giugno del 1959, con l’Alessandria che si era
appena assicurata la salvezza ai danni del Torino, esordì sul serio in serie A
contro un’avversaria più temibile degli svedesi: l’Inter. Non si emozionò
nemmeno allora e finì 1-1. Non aveva all’epoca ancora sedici anni, età minima
per poter essere schierato in campo; l’Alessandria poté farlo solo grazie a un
permesso speciale della Federazione, per fortuna poco emotiva anch’essa e
quindi poco propensa a lanciarsi in alti lai sullo sfruttamento minorile.
Rivera passò al Milan e il 18 settembre 1960, una settimana prima dell’inizio
del campionato, esordì in rossonero in una gara di Coppa Italia: avversario
proprio l’Alessandria dov’era cresciuto. Niente emozioni, niente sceneggiate,
niente piagnistei. Rivera giocò e il Milan vinse. Non segnò ma c’è ragione di
presumere che, l’avesse fatto, non si sarebbe trattenuto dall’esultare cedendo
all’ipocrisia dell’ex. Aveva diciassette anni. Per rendere l’idea, quell’estate
Trapattoni ne aveva venti e giocava nella nazionale impegnata alle Olimpiadi di
Roma; in trattoria aveva notato una cameriera che gli piaceva ma si era
emozionato e, se non si fossero prodigati da pronubi due suoi compagni e
commensali, non avrebbe trovato il coraggio di conoscere la propria futura
moglie.
Avanti veloce col nastro. Rivera vinse lo scudetto del 1962,
esordì in nazionale, vinse la Coppa dei Campioni del ’63, arrivò secondo nella classifica
dell’unico Pallone d’Oro vinto da un portiere ma non si scompose, stante anche
il leggendario merito di Lev Jascin; nel ’66 divenne capitano, rivinse lo
scudetto nel ’68, rivinse la Coppa dei Campioni l’anno seguente e per
soprammercato l’Intercontinentale sopravvivendo alla caccia all’uomo
organizzata a Buenos Aires dall’Estudiantes; a dicembre del 1969 vinse il
Pallone d’Oro, un trofeo molto più contenuto del barocco macigno di oggidì, e
lo ricevé con guardinga indifferenza sul prato di San Siro prima di una partita
contro il Cagliari dalle mani di un uomo in impermeabile. Dopo di che lo
sollevò svogliatamente col braccio destro, quello senza la fascia bianca da
capitano, e ci volle qualche insistenza per farglielo portare in trionfo con
entrambe le mani. In una delle foto che documentano l’evento, sorride quasi.
Il 17 giugno 1970 si trovò sulla linea di porta dello stadio
Azteca di Città del Messico per difendere il palo alla sinistra di Ricky Albertosi
durante la semifinale dei Mondiali. Era il quinto minuto del secondo tempo
supplementare, l’Italia stava vincendo 3-2 e la Germania batté un calcio
d’angolo sul quale Uwe Seeler colpì di testa dando al pallone una traiettoria
arcuata sulla quale si avventò Gerd Müller. Il ralenti da dietro la porta dimostra
che, come commentò amaro Martellini, “potrebbe intervenire Albertosi o Rivera”;
invece la palla lambì il quadricipite di quest’ultimo e la Germania pareggiò.
Rivera si abbarbicò al palo: mentre i tedeschi si abbracciavano quasi venne
colto da uno spasmo ma subito si contenne, cinse il legno e lo avvolse con la
gamba destra dalla quale stava per partire uno scatto di rabbia, un calcio al
nulla. A cosa sarebbe servito? Rivera preferì non emozionarsi. Tornò a
centrocampo inseguito dagli improperi di Albertosi per prendere palla immediatamente
dopo il calcio d’inizio. La conservò sovrappensiero per qualche secondo mentre
i tedeschi si disponevano nuovamente in difesa, stremati però, dando via libera
all’azione che trovò Boninsegna furibondo sull’ala sinistra. Questi saltò
Schulz miserello e forse senza nemmeno guardare propose un rasoterra disperato
verso il centro dell’area, dove supponeva potesse, quanto meno dovesse esserci
qualcuno; c’era Rivera il quale, ancora inseguito dalle bestemmie che Albertosi
sarà stato intento a masticare sotto i baffi tagliati, segna nel momento più
difficile il goal più facile che si possa immaginare, un piatto destro dritto
nel punto in cui Meier non sarebbe arrivato, essendo il portiere tedesco stato spiazzato
dall’evenienza che chiunque a quel punto dello psicodramma avrebbe sentito i
polsi tremare e si sarebbe avventato sul pallone con la prima gamba
disponibile, la sinistra appunto e magari di collo pieno, e non avrebbe certo usato
la gamba della ragione, il piatto illuminista. Rivera alzò i pugni al cielo
arcuando le braccia verso di sé, mentre i compagni lo cingevano dal ventre
facendolo roteare, mentre Meier ancora carponava e Schulz giaceva faccia a
terra, mentre Martellini si concedeva addirittura un “Che meravigliosa partita,
ascoltatori italiani” e mentre una voce anonima dalla tribuna stampa urlava con
gutturalità gorillesca “Vingiamo! Vingiamo! Vingiamo! Vingiamo!”, mentre
l’arbitro che era messicano ma si chiamava Yamasaki favoriva il deflusso dei
calciatori azzurri verso la metà campo con consumate movenze da vigile urbano.
Poi Rivera tornò a centrocampo al piccolo trotto, quasi passeggiando, nemmeno
spettinato.
Conservò la stessa postura fieramente eretta il 6 maggio
1979, quando al Milan ormai completamente suo era più che sufficiente un
pareggio per tornare a vincere uno scudetto dopo undici anni. L’eccezionalità
dell’evento, poiché vincendolo sarebbe stato il decimo che avrebbe consentito
di decorare la maglia rossonera con la stella dorata, aveva richiamato sugli
spalti una quantità di persone tale e talmente incontenibile che non c’erano le
condizioni per far cominciare la partita in buon ordine. La stella del Milan
era in mano alle mattane di qualche migliaio di sconosciuti, più indomabili di
undici tedeschi. Rivera non perse la testa. Continuando col passo che aveva
tenuto nello stadio Azteca, avanzò sul prato di San Siro fino al punto in cui
gli venne porto un microfono a gelato e pronunciò l’epigrafe resa appena umana
dalla erre moscia: “Se non vi togliete dall’anello inferiore, il questore non
potrà dare il permesso di iniziare la partita”. Il pubblico era riottoso,
vociava e ruggiva. Un gentiluomo col cappello bianco a fungo gli si parò
dinanzi e protestò dimenandosi esagitato: “Signor Rivera, io non voglio che il
Milan perda lo scudetto perché vengo da Reggio Calabria, da Reggio Calabria
vengo. E io voglio che se ne vanno, perché ho fatto millecinquecento
chilometri”. Per Rivera l’esagitato era trasparente, invisibile, più piccolo
del Pallone d’Oro. A stento levò un braccio per impartirgli la benedizione. Poi
il popolo seguì la sua ammirevole calma, si ricompose, la partita poté iniziare
e il Milan ebbe la stella.
Dunque Calzaretta aveva chiesto ragione a Rivera di come mai
si fosse sempre dimostrato refrattario alle emozioni e Rivera gli aveva risposto
che veniva da una famiglia di contadini, in cui non c’era tempo per
emozionarsi. Italiani abituati a urla e strepiti, adusi all’aggettivo
“incredibile” in ogni salsa, avvezzi allo strillo per azioni appena passabili, assuefatti
al nome di campionissimo gettato a casaccio su fugaci fenomeni da baraccone, anestetizzati
dalle lacrime in tv, propensi a disciogliersi per un bambino ciccione che
canta, famelici di eventi, convinti ciascuno della propria eccezionale
irripetibilità, confinati in un carnevale di eccessi perpetui, o noi che nel
nostro piccolo siamo sentimentali, drammatici, esagitati, facinorosi,
epilettici: se vogliamo combinare qualcosa prendiamo esempio e non
emozioniamoci mai.
domenica 6 dicembre 2015
Sono apparso a Pietro Verri. Alla vigilia della prima alla Scala, la mia intervista esclusiva al fantasma dell'opera - con rivelazioni sconvolgenti su Milano capitale morale - è disponibile anche online, e gratis, sul sito del Foglio.
venerdì 4 dicembre 2015
Grandi rivelazioni sul Foglio in edicola oggi, a ridosso della prima alla Scala: il fantasma dell'opera è il conte Pietro Verri, che passa tutto in ghingheri davanti a Palazzo Marino per recarsi al teatro dove aveva assistito all'inaugurazione delle inaugurazioni, il 3 agosto 1778. Mi concede un'intervista esclusiva in cui parla del costo degli abbonamenti, di sua moglie, della mondanità milanese e della giustizia italiana; poi svanisce nel nulla.
lunedì 30 novembre 2015
Oggi il Belgio è terrorizzato dalle proprie stesse misure di sicurezza, ma centocinquant'anni fa Baudelaire aveva già capito che Bruxelles era il ventre molle di un'Europa marcia. Rileggiamolo grazie anche a un mio pezzo disponibile sul sito del Foglio.
sabato 28 novembre 2015
Non sono mai stato in Belgio ma ho letto Baudelaire, quindi sono contrario. Sul Foglio in edicola oggi ripesco un libro di centocinquant'anni fa - Pauvre Belgique! - per spiegare come già nell'Ottocento lo scrittore francese avesse avuto la visione di Bruxelles come capitale del ventre molle di un'Europa pavida e marcia.
venerdì 20 novembre 2015
Borghesi, commissionate il vostro ritratto. Potete permettervi l'esigenza di essere ricordati facendovi immortalare coi simboli dei valori che amate, siano la famiglia o il lavoro o la fede. Se la borghesia non avrà nulla da tramandare oltre la pubblicazione su Instagram della foto di un piatto quadrato al ristorante, l'Italia avrà finito di finire.
Sul Foglio in edicola oggi, e anche online, spiego infatti perché il progetto "Ritratto Italiano" di Camillo Langone non è soltanto un tentativo di esaurimento della pittura patria ma soprattutto un modo per salvare l'Italia dopo che è scoccata la ventitreesima ora.
Sul Foglio in edicola oggi, e anche online, spiego infatti perché il progetto "Ritratto Italiano" di Camillo Langone non è soltanto un tentativo di esaurimento della pittura patria ma soprattutto un modo per salvare l'Italia dopo che è scoccata la ventitreesima ora.
martedì 17 novembre 2015
Da oggi e per tutta la settimana trovate in edicola col Sole 24 Ore Non amatevi troppo, antologia di scritti di Voltaire sull'amore scelti e tradotti da me, pubblicata da Utet. Questa è una foto del backstage.
lunedì 16 novembre 2015
Arriverà un giornalista (forse è già arrivato) e definirà "ragazzo normale" uno qualsiasi dei terroristi descrivendone la routine quotidiana indistinguibile dalla nostra e passando sotto silenzio il dato di fatto che, essendo musulmano, appartiene a una minoranza religiosa. Da che la storia esiste, e in qualsiasi Stato, le minoranze religiose non sono mai state normali perché la loro stessa condizione li pone in attrito col credo professato in maggioranza entro gli stessi confini, che per etimologia costituisce la norma. In tempi recenti, avendo rinunciato a cambiare la religione delle persone, si è deciso di cambiare la definizione di normalità escludendo la fede dai suoi appannaggi. Negli ultimi centocinquant'anni si è deciso di abituarsi gradualmente all'idea ottusa che la fede abbia a che fare solo e soltanto con la sfera privata e che dunque non cambi nulla se un individuo si professi calvinista o scintoista o carpocraziano a patto che si comporti come tutti i connazionali seguendo le stesse leggi e gli stessi principii comuni; è come sostenere che non importa se un uomo sia raffreddato, l'importante è che non starnutisca. Bell'illusione illuminista contraria ai manuali di storia, smentita a posteriori dai fatti e a priori dall'etimologia, poiché religione significa quod religat ovvero ciò che lega e unisce e tiene insieme comunità che si riconoscono in un trascendente condiviso la cui negazione merita di essere contrastata alla morte. Possiamo fingere che non sia così, noi tiepida maggioranza di comodi atei o semicristiani paraculi dal sangue acquoso, ma non possiamo pretendere che lo finga anche chi si identifica in una minoranza e sa di appartenervi perché è meno distratto o codardo di noi. Noi però siamo troppo impegnati nello sforzo di riempire il posto vacante che la religione privatizzata ha lasciato nella sfera pubblica (poiché la natura non tollera vuoti) trasportandoci l'amore e i sentimenti destinati alla sfera privata, nella pretesa di tramutare i desideri intimi in diritti universali, nel tentativo di trasformare secoli e secoli di civiltà in un'enorme terza media mentre attorno a noi l'inevitabile corso della storia stringe il suo cerchio di fuoco.
domenica 15 novembre 2015
Sulla Domenica del Sole 24 Ore trovate un trafiletto in cui Voltaire spiega che cos'è l'amore: è tratto da un'antologia di brani scelti e tradotti da me che ho intitolato Non amatevi troppo e che uscirà martedì 17 in allegato col Sole 24 Ore, per la collana Lezioni d'Amore edita da Utet e curata da Armando Massarenti.
sabato 14 novembre 2015
All'ennesimo giornalista che parla di "follia jihadista" commentando gli attentati di Parigi si capisce con quanta meticolosità l'Occidente stia costruendo la propria sconfitta. Siamo (ma presto saremo stati) una civiltà incapace di trovare una giustificazione al male se non ricorrendo alla psicologia, a trame intime degli individui la cui ricerca ossessiva e ombelicale ci impedisce di comprendere e valutare seriamente le ragioni della politica e soprattutto della religione, che muovono gli islamici in modo più vigoroso e convincente di quanto possa mai fare un raptus collettivo. Equipariamo l'attacco su vasta scala dell'Islam all'Occidente alle occasionali esplosioni di malvagità dei vicini di casa che sterminano la famiglia nonostante che tutti li ritengano brave persone. Riteniamo inspiegabili razionalmente questi eventi perché ci spaventano; sono la testimonianza della presenza concreta del male nel mondo e nell'uomo e allora, non potendo negarli, li nebulizziamo nelle tortuosità psichiche. Lo stesso ci è capitato dopo il disastro Germanwings, quando si parlò di gesto suicida di un folle per evitare di ammettere che il pilota tedesco avesse deliberatamente deciso di ammazzare centocinquanta persone e che quindi, più che folle, andava considerato malvagio. Qualche giornalista parlerà di "malvagità jihadista"? O cederemo tutti alla comoda tentazione della rimozione? Ci trincereremo dietro un dito per non vedere che si tratta di libera e volontaria scelta del male, che come tale va affrontata e punita, e faremo finta di non accorgerci che i terroristi hanno colpito stadi, ristoranti, teatri ovvero i luoghi dell'intrattenimento che caratterizza la cultura occidentale degli ultimi cent'anni. Hanno colpito i luoghi cardine della rimozione, quelli in cui andiamo per dimenticare che la stessa possibilità di andarci è costata secoli di sangue, così che oggi li diamo per scontati; non li riteniamo più appannaggio della nostra civiltà (presto ex civiltà) e non capiamo più che la libertà di andare allo stadio o al ristorante o al teatro è un bottino di guerra. I combattenti islamici invece lo capiscono benissimo; il fatto che abbiano colpito lì dimostra che sono tutt'altro che folli, quindi continueranno a distruggerci con lucidità mentre noi li considereremo con la commiserazione degli ingenui, degli insipienti, degli imbecilli. Possiamo restare tranquilli; perderemo.
martedì 10 novembre 2015
Donne, date retta a Jane Austen e sposate un uomo che guadagna più di me. Sul Foglio in edicola oggi presento un elogio ragionato del matrimonio d'interesse a metà fra la pubblicazione di Lady Susan (Elliot edizioni) e il caso di divorzio che dall'Inghilterra sta sferrando il colpo di grazia al matrimonio occidentale.
mercoledì 4 novembre 2015
Il profeta Gramellini, l'arcivescovo, l'accento dei cuneesi e il salone di bellezza ispirato al Levitico. Sul Foglio in edicola oggi spiego perché la religione senza corpi del corsivista della Stampa è adatta all'indolenza degli italiani.
martedì 3 novembre 2015
Nella rubrica "Buongiorno" sulla prima pagina della Stampa di oggi, prendendo alla lettera la metafora dei quotidiani come preghiera del mattino, Massimo Gramellini attacca l'arcivescovo di Torino insegnandogli che le religioni devono occuparsi di anime e non di corpi. Sul sito del Foglio potete leggere in anteprima la mia risposta, in cui spiego perché la religione del profeta Gramellini è adatta a un popolo indolente come gli italiani.
sabato 31 ottobre 2015
Ma conviene tirar fuori il diavolo ogni volta, a Halloween? Sul Foglio online spiego perché esorcizzare Halloween è controproducente e perché sarà il politicamente corretto a portare alla fine repentina della festa della zucca.
Evviva Maurizio Crippa che in un articolo magistrale sulla primissima pagina del Foglio mi menziona nelle mie funzioni di voltairista.
venerdì 30 ottobre 2015
Si parla di disastro politico del Partito democratico in riferimento alle dimissioni ritirate da Ignazio Marino ma senza tenere presente che esso si annida in una frase che viene ripetuta da giorni dalle gerarchie romane del partito: ossia che non si può votare la sfiducia al sindaco insieme alle opposizioni perché, testuali parole di non so chi, "il nostro elettorato non capirebbe".
A rigor di logica, questo apre due ipotesi alternative. O l'elettorato del Pd non capisce perché costituito da aventi diritti al voto più cretini dell'elettorato degli altri partiti: ipotesi poco lusinghiera ma non peregrina per un partito che su scala nazionale prende il 40% dei voti totali, il quale statisticamente mica può essere espresso solo da geniacci inconfutabili. E questa è la tragedia del Pd in quanto partito. Oppure l'elettorato del Pd non capirebbe comunque da chiunque fosse composto; sarebbe a dire che, se anche per assurdo scambiasse integralmente gli elettori con altri partiti, nessuno capirebbe lo stesso poiché per definizione l'elettorato, essendo composto da italiani qualsiasi, è incrollabilmente cretino nella sua vasta maggioranza. E questa è la tragedia del Pd in quanto democratico.
M'interrogavo su quale alternativa fosse la più rispondente al vero quando m'è caduto l'occhio su un servizio di Sky Tg 24 sull'emergenza idrica in Sicilia, in cui una signora lamentava disperata: "Io non posso restare senz'acqua. Come faccio? Ho il cane". La signora non è di Roma bensì di Messina e non so per che partito voti; fatto sta che mi fa propendere decisamente per la seconda ipotesi.
A rigor di logica, questo apre due ipotesi alternative. O l'elettorato del Pd non capisce perché costituito da aventi diritti al voto più cretini dell'elettorato degli altri partiti: ipotesi poco lusinghiera ma non peregrina per un partito che su scala nazionale prende il 40% dei voti totali, il quale statisticamente mica può essere espresso solo da geniacci inconfutabili. E questa è la tragedia del Pd in quanto partito. Oppure l'elettorato del Pd non capirebbe comunque da chiunque fosse composto; sarebbe a dire che, se anche per assurdo scambiasse integralmente gli elettori con altri partiti, nessuno capirebbe lo stesso poiché per definizione l'elettorato, essendo composto da italiani qualsiasi, è incrollabilmente cretino nella sua vasta maggioranza. E questa è la tragedia del Pd in quanto democratico.
M'interrogavo su quale alternativa fosse la più rispondente al vero quando m'è caduto l'occhio su un servizio di Sky Tg 24 sull'emergenza idrica in Sicilia, in cui una signora lamentava disperata: "Io non posso restare senz'acqua. Come faccio? Ho il cane". La signora non è di Roma bensì di Messina e non so per che partito voti; fatto sta che mi fa propendere decisamente per la seconda ipotesi.
giovedì 29 ottobre 2015
Siccome non ci credevo dopo averlo letto sul Corriere della Sera, ho controllato anche sulla Stampa e perfino su Repubblica scoprendo che - se tre fonti fanno una prova - Raffaele Cantone ha davvero detto che Milano è la capitale morale d'Italia perché a Roma mancano gli anticorpi morali contro la corruzione. Mi sono riemersi ricordi vaghi di una trasmissione di un quarto di secolo fa i cui inviati fermavano per strada la gggente chiedendo di spiegare esattamente il significato di espressioni invalse nella routine del gergo giornalistico: ed ecco una signora spiegare con sussiego, sopra risate registrate in studio, che Milano era la capitale morale d'Italia perché c'era più moralità.
Voi vi accapigliate sull'inedita e trascinante questione se Milano sia meglio di Roma in base al parere personale di un magistrato (che, detto fra parentesi, non essendo cattolico ha dunque diritto a esprimere pareri personali che vengono commentati con ammirazione e rispetto per la sua autorità, mentre se fosse stato cattolico l'avreste preso a pedate in faccia perché i magistrati non devono esprimere opinioni); io invece traggo da questa storia due conseguenze. Anzitutto che aveva ragione Patrizia Valduga quando scriveva già in tempi non sospetti l'endecasillabo "Italiani, imparate l'italiano". Se nessuno alza il ditino per far notare che il senso di "capitale morale" è lo stesso di "vincitore morale" e dunque ha tutto a che fare con meriti contratti de facto e nulla col concetto etico un po' peloso di "anticorpi morali", vuol dire che rispetto ai tempi in cui la signora ignorante che la pensava come Cantone causava crasse risate gli italiani hanno smesso di sapere l'italiano: effetto forse collaterale ma certo inevitabile dell'avvento di vitelli d'oro linguisticamente ibridi come l'internet e l'euro - diceva l'immenso Geminello Alvi che l'euro era stato introdotto dagli italiani stanchi della dominazione italiana sull'Italia.
In secondo luogo, passando al livello delle implicazioni sociali dell'uso della lingua, il plauso a Cantone e il conseguente vacuo dibattito indicano che è variato il metro di giudizio delle azioni. Prima gli italiani esaltavano ciò che era luccicante o nobile: il vincitore morale, la Milano da bere e così via; adesso esaltano ciò che è etico e corretto. Ci siamo ridotti ad avere la stessa concezione del bello che a metà Cinquecento poteva avere un calvinista presbite delle valli svizzere. Venticinque anni non sono molti ma per l'Italia sono stati troppi. Ieri la signora che travisava il senso di "capitale morale" veniva sbertucciata in tv con ogni ragione; oggi al lessico confusionario di un magistrato si dedicano ossequiose lenzuolate sui quotidiani. Raffaele Cantone è la giusta guida per l'Italia che finisce.
Voi vi accapigliate sull'inedita e trascinante questione se Milano sia meglio di Roma in base al parere personale di un magistrato (che, detto fra parentesi, non essendo cattolico ha dunque diritto a esprimere pareri personali che vengono commentati con ammirazione e rispetto per la sua autorità, mentre se fosse stato cattolico l'avreste preso a pedate in faccia perché i magistrati non devono esprimere opinioni); io invece traggo da questa storia due conseguenze. Anzitutto che aveva ragione Patrizia Valduga quando scriveva già in tempi non sospetti l'endecasillabo "Italiani, imparate l'italiano". Se nessuno alza il ditino per far notare che il senso di "capitale morale" è lo stesso di "vincitore morale" e dunque ha tutto a che fare con meriti contratti de facto e nulla col concetto etico un po' peloso di "anticorpi morali", vuol dire che rispetto ai tempi in cui la signora ignorante che la pensava come Cantone causava crasse risate gli italiani hanno smesso di sapere l'italiano: effetto forse collaterale ma certo inevitabile dell'avvento di vitelli d'oro linguisticamente ibridi come l'internet e l'euro - diceva l'immenso Geminello Alvi che l'euro era stato introdotto dagli italiani stanchi della dominazione italiana sull'Italia.
In secondo luogo, passando al livello delle implicazioni sociali dell'uso della lingua, il plauso a Cantone e il conseguente vacuo dibattito indicano che è variato il metro di giudizio delle azioni. Prima gli italiani esaltavano ciò che era luccicante o nobile: il vincitore morale, la Milano da bere e così via; adesso esaltano ciò che è etico e corretto. Ci siamo ridotti ad avere la stessa concezione del bello che a metà Cinquecento poteva avere un calvinista presbite delle valli svizzere. Venticinque anni non sono molti ma per l'Italia sono stati troppi. Ieri la signora che travisava il senso di "capitale morale" veniva sbertucciata in tv con ogni ragione; oggi al lessico confusionario di un magistrato si dedicano ossequiose lenzuolate sui quotidiani. Raffaele Cantone è la giusta guida per l'Italia che finisce.
mercoledì 28 ottobre 2015
Hon, han o hen? Sul Foglio in edicola oggi spiego come la grammatica svedese verrà in soccorso della teologia anglicana per definire il gender di Dio pochi giorni dopo l'insediamento della prima donna vescovo alla Camera dei Lord e in vista del sinodo generale della Chiesa d'Inghilterra che durerà dal prossimo 23 novembre a una data imprecisata del 2020.
lunedì 26 ottobre 2015
Dal 1766 al 1796 Pietro Verri non pubblicò nulla, volontariamente, perché riteneva che il pubblico non fosse all'altezza delle sue idee. Se non che Pietro Verri era conte mentre io sono assegnista di ricerca in scadenza di contratto e ciò rende necessario che io scriva il più possibile e cerchi di pubblicare quasi tutto, quanto meno per la pecunia. Se dunque leggendomi trovate qualcosa di intelligente non prendetelo come un complimento.
domenica 25 ottobre 2015
Mentre a Milano finisce BookCity, sul Corriere della Sera ho letto un articolo che annuncia l'istituzione del prestito a pagamento di ebook per clienti premium tramite il sistema interbibliotecario virtuale Mlol (MediaLibraryOnline). Credo che il modello Netflix per le biblioteche possa essere una buona idea ma non è tutto oro quel che luccica, it's not gold all that shines. Mi spiego meglio in quest'articolo che trovate gratuitamente sul sito del Foglio - anzi, in questo free earticle.
lunedì 19 ottobre 2015
Einaudi manda finalmente in libreria il romanzo Duffy di Dan Kavanagh, giallista che non avete mai sentito nominare ma che conoscete benissimo perché è un antico pseudonimo di Julian Barnes. Io sono soddisfatto perché l'avevo segnalato mesi fa in un articolo per il Foglio sul fatto che l'editoria italiana trasmette gli autori inglesi in differita e su come a importare Barnes in Italia, camuffato da Kavanagh, fosse stata la Mondadori nel 1982. Potete rileggere il tutto, e gratis, cliccando qui.
lunedì 12 ottobre 2015
Come Lance Armstrong volle che i propri compagni di squadra indossassero una manica gialla per essere partecipi della maglia che gli spettava in quanto vincitore del Tour de France, così Roberto Saviano s’è arrogato un pezzettino della medaglia di Svetlana Aleksievic: nella lenzuolata di oggi su Repubblica definisce “rivoluzione culturale” e “terremoto” il Nobel conferito all’autrice bielorussa e per estensione anche a se stesso, ossia “a un genere letterario che non ha come obiettivo la notizia ma ha come fine il racconto della verità”. Ora che Saviano è passato di moda si farà dell’umorismo sull’appropriarsi dei Nobel altrui e sul fatto che il suo articolo possa essere un ulteriore tentativo di difendersi chiamando in causa mansueti accademici svedesi un po’ svampiti che non avranno come interesse primario le polemiche sul plagio intentate dal Daily Beast. Così ci si perde però la parte interessante e rivelatrice del pezzo di Saviano, quella in cui spiega che “relegare il racconto del mondo al solo lavoro dei cronisti significa spezzettarlo, isolarlo, in qualche modo debilitarlo”.
È vero più di quanto creda. Chiunque sia pratico di filologia sulla letteratura moderna sa che la grandezza di certi autori risiede anche nell’aver fatto proprio materiale altrui, nell’averlo scovato e rimaneggiato in modo tale da renderlo letterario e sottrarlo all’oblio. Pochi ricorderebbero Terenzio Mamiani se Leopardi non avesse schiaffato le magnifiche sorti e progressive nella “Ginestra”, tanto per dirne una, e se conduceste l’edizione critica di un classico vi accorgereste che pullula di riferimenti inconfessati a cianfrusaglie editoriali, detriti di varia provenienza che ne aumentano la portata. Se uno ambisce a scrivere classici, deve avere il coraggio di divorare i minori.
In ciò Saviano paga la differente idea di citazione che vige nel mondo anglosassone, in cui anche la parola più banale va pedissequamente appoggiata su un riferimento esterno; deve averlo capito poiché lungo tutto l’articolo si scaglia contro “quel mondo esatto che parla inglese e che, anche in letteratura, ha come cardine il positivismo protestante”. Senza scomodare Comte e Lutero, o John Stuart Mill e Melantone, bastava ricordare che fra i precedenti del grande inquisitore Michael Moynihan risalta l’accusa a John Lehrer di avere modificato dei virgolettati di Bob Dylan, peccato veniale per un divulgatore delle neuroscienze ma sufficiente a rovinargli la carriera. Come ha scritto Daniel Engber su Slate (specifico, non si sa mai) si tratta di un esempio della “esazione di tremenda giustizia per trasgressioni secondarie”; per questo Moynihan viene lungamente criticato da Jon Ronson ne I giustizieri della rete, che in Italia esce a fine ottobre (Codice edizioni).
Dunque Saviano può plagiare impunemente in nome della letteratura? No, perché a non renderlo un grande scrittore basta l’incapacità di fare ciò che ascrive al genere letterario che elogia e di cui si ritiene un’ipostasi pari alla Aleksievic: “raccogliere fatti e filtrarli attraverso la riflessione letteraria, la riflessione umana, la cura delle parole”. Non dico io che non sappia farlo, lo dice lui stesso; il pezzo di oggi può essere letto come ammissione di colpa se lo si compara all’autodifesa uscita su Repubblica il 25 settembre, in cui – lungi dalla “cura delle parole” – Saviano diceva che non ci sono molti modi di raccontare una notizia, anzi ce n’è uno solo che corrisponde alla verità poiché implica il riferirla “così com’era”. Cercasi a questo punto editore abbastanza temerario da pubblicare degli esercizi di stile savianeschi, novantanove modi diversi di raccontare l’accusa di plagio e la susseguente difesa così come avrebbe fatto Queneau: per litoti, omoteleuti, onomatopee o anagrammi, in modo ampolloso, disinvolto, volgare o reazionario, come ode, comunicato stampa, versi sciolti o commedia in tre atti. Dirime il come, non il cosa. Se un autore ha qualcosa da dire, anzitutto deve trovare una maniera che giustifichi la necessità di farlo; se invece vuole solo lasciare un messaggio non vale la pena che scriva un libro, può limitarsi a farmi una telefonata.
È vero più di quanto creda. Chiunque sia pratico di filologia sulla letteratura moderna sa che la grandezza di certi autori risiede anche nell’aver fatto proprio materiale altrui, nell’averlo scovato e rimaneggiato in modo tale da renderlo letterario e sottrarlo all’oblio. Pochi ricorderebbero Terenzio Mamiani se Leopardi non avesse schiaffato le magnifiche sorti e progressive nella “Ginestra”, tanto per dirne una, e se conduceste l’edizione critica di un classico vi accorgereste che pullula di riferimenti inconfessati a cianfrusaglie editoriali, detriti di varia provenienza che ne aumentano la portata. Se uno ambisce a scrivere classici, deve avere il coraggio di divorare i minori.
In ciò Saviano paga la differente idea di citazione che vige nel mondo anglosassone, in cui anche la parola più banale va pedissequamente appoggiata su un riferimento esterno; deve averlo capito poiché lungo tutto l’articolo si scaglia contro “quel mondo esatto che parla inglese e che, anche in letteratura, ha come cardine il positivismo protestante”. Senza scomodare Comte e Lutero, o John Stuart Mill e Melantone, bastava ricordare che fra i precedenti del grande inquisitore Michael Moynihan risalta l’accusa a John Lehrer di avere modificato dei virgolettati di Bob Dylan, peccato veniale per un divulgatore delle neuroscienze ma sufficiente a rovinargli la carriera. Come ha scritto Daniel Engber su Slate (specifico, non si sa mai) si tratta di un esempio della “esazione di tremenda giustizia per trasgressioni secondarie”; per questo Moynihan viene lungamente criticato da Jon Ronson ne I giustizieri della rete, che in Italia esce a fine ottobre (Codice edizioni).
Dunque Saviano può plagiare impunemente in nome della letteratura? No, perché a non renderlo un grande scrittore basta l’incapacità di fare ciò che ascrive al genere letterario che elogia e di cui si ritiene un’ipostasi pari alla Aleksievic: “raccogliere fatti e filtrarli attraverso la riflessione letteraria, la riflessione umana, la cura delle parole”. Non dico io che non sappia farlo, lo dice lui stesso; il pezzo di oggi può essere letto come ammissione di colpa se lo si compara all’autodifesa uscita su Repubblica il 25 settembre, in cui – lungi dalla “cura delle parole” – Saviano diceva che non ci sono molti modi di raccontare una notizia, anzi ce n’è uno solo che corrisponde alla verità poiché implica il riferirla “così com’era”. Cercasi a questo punto editore abbastanza temerario da pubblicare degli esercizi di stile savianeschi, novantanove modi diversi di raccontare l’accusa di plagio e la susseguente difesa così come avrebbe fatto Queneau: per litoti, omoteleuti, onomatopee o anagrammi, in modo ampolloso, disinvolto, volgare o reazionario, come ode, comunicato stampa, versi sciolti o commedia in tre atti. Dirime il come, non il cosa. Se un autore ha qualcosa da dire, anzitutto deve trovare una maniera che giustifichi la necessità di farlo; se invece vuole solo lasciare un messaggio non vale la pena che scriva un libro, può limitarsi a farmi una telefonata.
giovedì 8 ottobre 2015
Se puniamo quelli che si amano, cosa faremo a quelli che si odiano? Si tratta della faticosa conclusione cui sono giunto dopo avere dibattuto con Eduardo Savarese, magistrato romanziere napoletano e omosessuale ma soprattutto cattolico tormentato. Potete leggere tutto il dialogo gratis sul sito del Foglio.
mercoledì 7 ottobre 2015
Anch'io partecipo al Sinodo laico convocato oggi dal Foglio - un'intera pagina di dibattito sulle nozze omosessuali in mezzo al giornale, subito prima dell'inchiesta sul sesso coi robot - interpellando Eduardo Savarese, magistrato romanziere e autore della Lettera di un omosessuale alla Chiesa di Roma (edizioni e/o). Emerge che il motivo per cui non andiamo d'accordo non è il fraintendimento dell'amore ma di tre concetti religiosi fondamentali: natura, Spirito e bontà.
martedì 6 ottobre 2015
Non trovate solo Romano Luperini (i liceali sapranno chi è) sul nuovo numero del Gabellino, rivista online della Fondazione Luciano Bianciardi; trovate anche un mio racconto, un mio scritto, una mia divagazione anzi una mia passeggiata per Milano alla ricerca di obiettivi sensibili per un eventuale attentato, ovvero un tentativo di trovare un'identificazione attuale del torracchione che cinquant'anni fa Bianciardi raccontava di voler far saltare in aria ne La vita agra. Non è facile, oggi. S'intitola L'esplosione di Milano e se il pdf è scomodo potete anche leggerlo ricopiato qui sotto.
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Quando vado a Milano e faccio quattro passi da Corso Venezia
a Via della Spiga, penso che probabilmente il torracchione che cinquant’anni fa
Bianciardi voleva far saltare in aria oggi siano i sacrali negozi del
superfluo. Passo magari davanti alla vetrina di un bar vegano dove il caffè
costa tre euri perché fatto con la cicoria e penso all’esplosione che
consentirebbe di giocare a shangai con gli ossicini di tutte le signorine di
magrezza penitenziale lì dentro, talmente ricche da poter permettersi di
mangiare poco e niente mentre io ho sempre fame. Poi passo magari davanti a un
negozio che vende oggetti di design per arredare le stanze inutili della
propria casa, per quanto io non ne abbia una, e penso a quali e quante
montagnole di cenere diverrebbero le statuette decorative in gusto concettual-rococò
investite da una fiammata come si deve. E quale destino pensate che toccherebbe
ai ristoranti fusion metà tailandesi e metà brasiliani? Avete presente quanti
attentati si potrebbero agevolmente allestire toccando due o tre cosette nei caschi
dei parrucchieri megafashion aperti a mezzanotte, con l’aria sospesa a metà fra
la reggia di Versailles e il magazzino della lista nozze?
Anziché fermarmi a eseguire continuo a camminare a vuoto
fino a che mi si forma in mente l’idea che Bianciardi va bene che era anarchico
ma era anche pragmatico. L’esplosione di Milano, il debellamento delle sue aree
più luccicanti e frivole, sarebbe un vantaggio per i poveri? Alla fine, se uno
non ha soldi, cosa gliene torna quando vede bruciare l’arredamento ligneo di un
negozio di guanti britannici decorato con marmotte impagliate? Un bel niente, a
parte una transeunte soddisfazione estetica, per due motivi. Primo perché la
ricchezza non è un gioco a somma zero, e rispetto a cinquant’anni fa siamo
usciti dall’illusoria convinzione che un impoverimento dei ricchi implichi un
arricchimento dei poveri; l’impoverimento dei ricchi causa solo e soltanto
l’arricchimento di altri ricchi nonché l’impoverimento di quei poveri ai quali cessano
di arrivare le briciole in bilico sull’orlo della tovaglia. Secondo perché,
rispetto a cinquant’anni fa, i soldi veri sono altrove e i lustrini dell’alta
borghesia milanese adesso non sono che la testimonianza di una classe in
decadenza precipitosa e inarrestabile; così quando passo davanti a un negozio
di accessori per cani il cui pezzo minimo è una pallina da dentatura che costa
cinquanta euri, il primo istinto è di aprire il fuoco ma il secondo
immediatissimo è di entrare a compatire le commesse e pure il padrone. Non
capirebbero ma basta il pensiero.
Io poi nemmeno sono anarchico ma tutt’al più un moderato un
po’ pavido e senz’altro pigro, ragion per cui se proprio devo mi limiterei a
radere al suolo i negozi, librerie comprese, sorti nel ventre di chiese
sconsacrate, al precipuo scopo di cacciare i mercanti dal tempio e ripristinare
una benefica attività gratuita lì dove il terreno devozionale è stato eroso dal
capillare mercimonio. Per esempio io mai approfitterei delle tenebre di Abercombie
& Fitch per acquattarmi negli angoli che restano del tutto trascurati dalla
luce ora bluastra ora sanguinolenta e piazzare un ordigno che non solo
distrugga i capi d’abbigliamento e le clienti ma anche riesca a spettinare i
commessi e perfino a svegliare gli accompagnatori delle dame in fregola d’acquisto
accoccolati sulle portone d’attesa, a gruppetti di quattro estranei sospirosi per
ciascun recesso. Costerebbe troppa fatica; poi l’odierno torracchione certo non
è questo pacchiano palazzo d’angolo coi bodyguard all’ingresso e nemmeno lo è
tutto il vetro che sorge a Porta Nuova attorno all’appuntito vertice dell’Unicredit,
che sembra quasi una siringa fatta al cielo. Che facciamo, distruggiamo le cose
nuove che sono costate tanto denaro e fatica e hanno quanto meno arricchito le
maestranze? Buttiamo giù quel po’ di panorama che se non altro, quando il sole
ci brilla sopra come oggi, mette un po’ di allegria a chi sta andando al lavoro
anziché perdendo tempo come me? Inoltre, grazie all’attività cerebrale indotta
dal moto perpetuo delle gambe, sono diventato abbastanza acuto da rendermi
conto che cinquant’anni fa la principale soddisfazione nel fare scoppiare una
banca sarebbe stata riposta nel veder volare denaro che planando si sarebbe liberamente
redistribuito fra bisognosi, lazzaroni e immeritevoli, rendendo l’idea di una
specie di perequazione. Oggi le banche non hanno più soldi e quei pochi che
hanno sono dematerializzati; quando ci passo davanti mi viene piuttosto voglia
di scavare con la chiave dell’auto una fessura sul muro in cui infilare, a mo’
di salvadanaio, due euro d’elemosina col cipiglio tosco di Dante inciso sul
solido nichel. Non lo faccio perché, non avendo l’auto, nemmanco ho la chiave.
Dev’essere molto difficile essere Bianciardi oggi a Milano.
È una città talmente decaduta, talmente miserella in confronto alle roccaforti
del capitalismo protestante, talmente caduca dinanzi all’avanzata dei veri
ricchi asiatici con manie d’annessione, da sembrare quasi implorante nel
chiedere misericordia. Come si fa a far esplodere una città implosa? I palazzi
che cinquant’anni fa sembravano l’avanguardia implacabile di un cancro che
divorava la parte schietta e popolare della città adesso sono tutt’al più
pittoreschi e arrugginiti, caratteristici magari mentre negli interstizi fra un
cemento armato e l’altro si vede comparire il lucore della Madonnina. O
Madonnina, Madonnina sommersa da torri di Babele più alte di te, ieri sembravi
una mano che spuntava fra i marosi in cerca di soccorso e oggi – oggi che i
nostri occhi hanno visto il vero male a Londra, a Cupertino, a Pechino, a Dubai
– sembri solo ricordarci che ciò nonostante sei ancora lì, un po’ beffarda e un
po’ protettiva.
Non c’è nulla da far esplodere a Milano. È troppo tardi
perché questa città che cinquant’anni fa sembrava un nemico da combattere e
piegare adesso è provincia di un mondo troppo vasto, che guarda altrove e se ne
fregherebbe delle deflagrazioni più spettacolari, facessi anche saltare in aria
tutti gli esercizi che con la scusa di rendere un favore a cittadini troppo
impegnati restano aperti anche la domenica e così, per accumulare un settimo di
soldi in più, sfasciano le famiglie di chi ci lavora e non ha mai tempo di
stare a casa. Per quanto giri e rigiri alla ricerca di un obiettivo sensibile
devo prendere atto che il torracchione se n’è andato da Milano. Senza
accorgermene sbuco sotto la Torre Velasca e noto che proprio nel punto a mezzo
cielo, vicino ai puntoni che fra ventiduesimo e ventitreesimo piano dilatano l’edificio
in cubo, c’è una nuvoletta grande quanto una bomba a mano; il resto è tutto
azzurro limpido.
domenica 4 ottobre 2015
Secondo voi il problema è un prete che per stare al passo coi tempi ha il fidanzato anziché la fidanzata; secondo me invece il problema del cattolicesimo moderno sono gli applausi alla corona di spine durante la cerimonia in cui una monaca di clausura assume i voti perpetui di castità, povertà e obbedienza. Ecco online gratis l'articolo del Foglio in cui parlo dell'Apocalisse, dei selfie, di Tele Radio Padre Pio e del padiglione del Nepal all'Expo, dimostrando di essere pronto per l'Ordo Praedicatorum.
venerdì 2 ottobre 2015
Che bello essere moderni: troviamo strano che una ragazza si faccia monaca ma troviamo normale che una ragazza lavori in un call center; ci sembra assurdo scegliere la clausura ma poi facciamo la fila per guardare un Buddha di plastica nel padiglione del Nepal all'Expo. Sul Foglio in edicola oggi parlo di modernità ed eternità, di selfie e di apocalisse, di come scandalizzare la gente facendo una scelta irrevocabile.
venerdì 25 settembre 2015
Niente di nuovo sul fronte savianesco. L'articolo del Daily Beast riprende e struttura argomentandoli sospetti che saranno già insorti in addetti ai lavori mentre leggevano libri o articoli di Roberto Saviano ma soprattutto si concentra sul punto sbagliato, se vogliamo fare gli avvocati della letteratura: il problema non è il plagio (ben venga uno che è in grado di dire meglio ciò che altri hanno detto peggio), il problema di Saviano è il calabrone. Come spiegavo in un mio vecchio paginone sul Foglio che oggi torna improvvisamente d'attualità.
giovedì 17 settembre 2015
Come sempre in questa stagione sto salendo su un treno per Modena quindi ho fretta; intanto però beccatevi il programma delle mie presentazioni al Festival Filosofia di quest'anno.
Domani a Sassuolo Massimo Recalcati (piazza Garibaldi, ore 18) parlerà di madri.
Sabato a Carpi Marc Augé (piazzale Re Astolfo, ore 10) parlerà di scrittura fra eredità e avventura.
Domenica di nuovo a Sassuolo, tutto in piazza Garibaldi: Umberto Galimberti (ore 11:30) parlerà di adolescenza, Chiara Saraceno (ore 18) di genealogie sociali e, gran finale, alle 21 Arrigo Sacchi parlerà del retaggio del suo calcio rivoluzionario. Poi potrò morire felice.
Domani a Sassuolo Massimo Recalcati (piazza Garibaldi, ore 18) parlerà di madri.
Sabato a Carpi Marc Augé (piazzale Re Astolfo, ore 10) parlerà di scrittura fra eredità e avventura.
Domenica di nuovo a Sassuolo, tutto in piazza Garibaldi: Umberto Galimberti (ore 11:30) parlerà di adolescenza, Chiara Saraceno (ore 18) di genealogie sociali e, gran finale, alle 21 Arrigo Sacchi parlerà del retaggio del suo calcio rivoluzionario. Poi potrò morire felice.
mercoledì 16 settembre 2015
E dopo il numero chiuso obbligatorio ovunque, l'abolizione del valore legale del titolo di studio. Sul Foglio in edicola oggi qualche altro consiglio al Governo (con dati di fatto a profusione) su perché si tratti di una battaglia di sinistra e su come cambiare l'istruzione in Italia con la dinamite anziché col cacciavite.
Disponibile anche online sul sito del Foglio.
Disponibile anche online sul sito del Foglio.
martedì 15 settembre 2015
Il futuro del libro e la privatizzazione delle biblioteche: oggi appaio fugacemente sul Corriere della Sera come traduttore dell'interessante intervento di Robert Darnton, grande storico del Settecento, pubblicato come anticipazione del Festival Filosofia di Modena Carpi Sassuolo, da venerdì 18 a domenica 20, sull'ereditare.
venerdì 11 settembre 2015
E se domani Jeremy Corbyn venisse eletto, sarebbe il primo leader laburista ad avere alle spalle una raccolta di poesie in suo onore, Poets for Corbyn, pubblicata da un editore deluxe. Mica male per un leader pauperista che sogna di essere Nichi Vendola e si ritrova senza un governo ombra ma coi poeti di corte. Sul Foglio di oggi, a pagina 2.
giovedì 10 settembre 2015
Avete partecipato ai cortei, ai flashmob, ai blitz notturni e alle campagne online contro il numero chiuso in occasione dei test d'ingresso a medicina che si sono tenuti ieri? Bravi, adesso leggete l'elogio del numero chiuso che ho fatto sulla prima pagina del Foglio di oggi richiedendo che venga esteso a tutte le facoltà, anche a quelle umanistiche.
mercoledì 9 settembre 2015
Sono le cinque e mezza, il regno di Elisabetta II ha superato in durata quello di Vittoria ma la Regina non ha ritenuto opportune grandi celebrazioni per il semplice fatto che non si festeggia la morte di un'antenata. Voi che non siete parenti potete festeggiare leggendo gratis online il mio pezzo sul mestiere della Regina, ossia parlare parlare parlare e dare un senso a qualsiasi parola esca dalla sua bocca; e se non vi basta l'immagine verbale di questa Regina per non vedenti potete accostarla all'immagine visiva della Regina per non udenti di Sofia Silva, che ha spiegato ritratti, abiti e dita nel naso di Elisabetta II nel paginone a tema che ci siamo pacificamente divisi sul Foglio di oggi. Dio le salvi tutt'e due.
Per annunziare l'articolo di oggi lascio cavallerescamente la parola a Sofia Silva, pittrice padovana come si deve:
Antonio Gurrado e io siamo follemente innamorati della Regina Elisabetta, è il nostro unico argomento di conversazione, la pensiamo tutti i giorni a tutte le ore del giorno (ora, che io la emuli è del tutto comprensibile, ma se provate a fare una lettura comparata tra gli articoli di Gurrado e i Queen's Speeches...).
Sta di fatto, ci siamo spartiti i ruoli in questa pagina a due su Il Foglio di oggi in maniera molto primitiva, nel senso che Gurrado fa Gurrado scrivendo del magnifico eloquio della sovrana e io faccio me stessa scrivendo di vestiti, dita nel naso e dei miei trip romantici sui principi consorti che rimangono sempre azzurri senza mai diventare blu.
Antonio Gurrado e io siamo follemente innamorati della Regina Elisabetta, è il nostro unico argomento di conversazione, la pensiamo tutti i giorni a tutte le ore del giorno (ora, che io la emuli è del tutto comprensibile, ma se provate a fare una lettura comparata tra gli articoli di Gurrado e i Queen's Speeches...).
Sta di fatto, ci siamo spartiti i ruoli in questa pagina a due su Il Foglio di oggi in maniera molto primitiva, nel senso che Gurrado fa Gurrado scrivendo del magnifico eloquio della sovrana e io faccio me stessa scrivendo di vestiti, dita nel naso e dei miei trip romantici sui principi consorti che rimangono sempre azzurri senza mai diventare blu.
martedì 8 settembre 2015
Mica ci voleva il Papa per dire che il vostro matrimonio probabilmente è una burletta e che bisogna affrettarsi ad annullarlo; se vi specchiate nella vostra coscienza lo sapevate a priori, e se invece siete sorpresi che Francesco voglia imporre un percorso più agevole, rapido e gratuito alla nullità delle nozze vuol dire che non lo ascoltate o lo ascoltate distrattamente. Su queste pagine virtuali ho già detto che con Bergoglio abbiamo un problema di comprendonio perché capiamo solo ciò che ci va di capire mentre ci sfuggono gli elefanti che ci ficca in camera. La mossa di velocizzare la Sacra Rota, che oggi fa notizia e scandalo, era stata implicitamente dichiarata nell'estate 2013 nella conferenza stampa in piedi sul famoso volo di ritorno dal Brasile: Francesco non solo aveva sospeso il giudizio sugli omosessuali ("Chi sono io per giudicare?") ma aveva anche detto che la metà dei matrimoni è nulla perché ci si sposa senza maturità o senza considerare che è per tutta la vita - testuali parole - cioè che qualsiasi matrimonio contratto avendo anche solo lontanamente in testa l'ipotesi di poter divorziare è carta straccia. Andate a rileggere il testo integrale della conferenza stampa, stupitevi e stupite i vostri amici che stasera a cena introdurranno l'argomento della novità pontificia; già che ci siete, andate a rileggervi dal sito del Foglio anche il mio dialogo con Simonetta Sciandivasci sull'introduzione del divorzio, sarebbe a dire sull'abolizione del matrimonio.
venerdì 4 settembre 2015
Siete in ristrettezze? Non preoccupatevi. Da oggi il mio pezzo sul racket di Wikipedia pubblicato dal Foglio è online anche gratis (però potete sforzarvi, l'abbonamento costa poco). Cliccando qui scoprirete perché un caso di cronaca conferma che faccio bene a essere contro internet democratico, partecipativo e gratuito.
giovedì 3 settembre 2015
Gli inglesi hanno inventato un'infinità di cose, ultima delle quali il racket di Wikipedia: tu paghi un utente perché non inserisca notizie false o diffamanti alla specifica voce che ti riguarda. In fin dei conti, è l'upgrade di un servizio gratuito. Sul Foglio in edicola oggi (e online per abbonati) analizzo il fenomeno sotto tre aspetti mitologici di internet: universalità della competenza, immediatezza della documentazione e diritto all'informazione gratuita.
martedì 1 settembre 2015
Arriva l'ultimo mio giorno a Cambridge e, poiché non voglio proprio andarmene, sul Foglio esce un articolo sugli happy returns; ossia sulla mania tutta inglese di tornare sempre sui propri passi, guardare indietro per andare avanti e fare in modo che ciò che è già stato (ad esempio le carrozze per sole donne sui mezzi pubblici) possa sempre tornare a essere, Balotelli a parte. Lo trovate in edicola, con rivelazioni sulla prossima stagione televisiva britannica.
giovedì 27 agosto 2015
Non è curioso che proprio nel giorno in cui parto da Cambridge per ripassare dopo anni da Oxford esca sul Foglio un mio articolo sulla Oxbridge connection, ossia sul patto del Nazareno fra Cambridge e Oxford? In Inghilterra qualcuno avanza il sospetto che esista un accordo fra politici laureati nelle due università per continuare a governare all'infinito indipendentemente dal colore e dal partito. Nell'articolo spiego cosa c'è di vero e cosa no.
mercoledì 26 agosto 2015
Ogni volta che devo andare a Oxford accade qualche disgrazia, e infatti stamattina non appena ho fatto il biglietto del treno è venuta giù un'acqua battente che ancora non accenna a smettere e forse non solo funesterà l'intera trasferta di domani ma probabilmente durerà una quarantina di giorni, rendendo necessario costruire un'arca sulla quale far salire solo e soltanto due studiosi di sesso diverso per ogni materia così da garantire la salvezza della cultura: un professore e una ricercatrice di accadico, una lecturer e un dottorando di meccanica quantistica, un assegnista di studi voltairiani (bellissimo) con un'ospite a sua discrezione e così via. Comunque. Il principale motivo di orgoglio per questa trasferta a Oxford è avere scoperto che la rivalità con Cambridge è talmente radicata e capillare da essersi diffusa perfino nei bigliettai in stazione. Allo sportello infatti ho escogitato il numero di chiedere prima I wish to go to Oxford, desidero andare a Oxford, correggendomi poi con I would like to go to Oxford, mi piacerebbe andare a Oxford, e poi concludendo con un Well, I'm not so keen on that, dopotutto non sono così entusiasta di farlo, che per poco il bigliettaio non scavalcava la vetrata per venire a stringermi la mano ridendo.
martedì 25 agosto 2015
Grazie alle diatribe laburiste e al barbuto Jez Corbyn che va di gran moda, i riflettori sono puntati sulle diverse anime della sinistra fino al punto da far dimenticare che in Inghilterra esiste e resiste una destra non cameroniana. L'ho incontrata di persona stamattina. Avevo bisogno di una lavanderia e per evitare il traffico del bank holiday incombente ne ho cercata una piccolina, nella zona del Grafton Centre che è il principale centro commerciale di Cambridge. Il gestore era sulla cinquantina e mi ha guardato con il sospetto che si deve a un cliente nuovo che non solo è chiaramente straniero ma dichiara anche di avere bisogno di camicie stirate per martedì perché poi mercoledì parte per sempre e chi s'è visto s'è visto. Il modo in cui ha indagato su di me è stato educatissimo oltre che raffinato, inserendo nello smalltalk della consegna dei miei stracci una serie di considerazioni o domande volte a scoprire non tanto da dove venissi ma cosa pensassi, perché è quella la discriminante. Non gli interessava tanto sapere se fossi italiano quanto capire che idea mi fossi fatto della Rinascente, e quando gli ho spiegato del nome dato da d'Annunzio e dell'edificio milanese che mi piace perché è coerente col resto della città si è sentito libero di lamentare che il Grafton Centre non sarebbe mai dovuto sorgere perché non c'entra nulla con Cambridge, oltre a danneggiare i negozi più piccoli su cui la società locale si reggeva. L'ha ripetuto tre volte prima di esaminarmi introducendo nel discorso Michael Portillo; la delusione che ho causato non sapendo che dopo essersi dimesso da parlamentare Portillo aveva condotto una trasmissione di viaggi per la BBC è stata bilanciata dalla mia competenza nel ricordare che Portillo aveva perso le primarie per la leadership conservatrice da Iain Duncan Smith. A quel punto il lavandaio s'è sentito libero di esprimere l'idea che Portillo non fosse gran che come politico ma andasse bene come persona - rimarchevole la distinzione, l'opposizione anzi, fra person e politician - e mi ha fatto pagare perché altrimenti saremmo andati avanti all'infinito, io a rispondere alla sua interrogazione e lui a scoprirsi un po' di più a ogni risposta esatta rivelandomi di essere non ostile ai conservatori e non favorevole agli stranieri, non ostile però a quelli che si integravano con la cultura inglese ed erano in grado di sostenere una conversazione, ma nemmeno favorevole ai fat cats della finanza ai cui soldi i Tory si sono asserviti temo definitivamente; e così via a precisare sempre più la propria posizione differenziandola da quella del partito che avrebbe naturalmente supportato. All'uscita ho notato che mentre Cameron per cinque anni ha parlato e parlato della big society, la quale doveva venire in soccorso dei meno abbienti creando dei plotoncini locali di aiuto spicciolo, ma alla fine non credo che abbia combinato gran che, il lavandaio esponeva fuori dalla porta un cartello in cui prometteva che, se dimostravi di essere disoccupato e avevi bisogno di far lavare e stirare un abito per un colloquio di lavoro, lui lo faceva gratis. Lo vedrei bene come candidato alla leadership conservatrice nel 2020.
sabato 22 agosto 2015
Quiz per anglofili: cos'hanno in comune la corsa alla leadership laburista, i programmi scolastici di musica, il medico del Chelsea, i manichini di Topshop e l'università di Cambridge? Il fatto che in Inghilterra essere donna è diventata un'emergenza sociale. Ne parlo sul Foglio in edicola oggi.
martedì 18 agosto 2015
Cos'hanno in comune Henry Miller, Anthony Burgess, P.G. Wodehouse e Aldous Huxley? Troppo testosterone. Una critica letteraria inglese propone di eliminarli dalla lista dei cento migliori romanzieri di ogni tempo per sostituirli con autrici che potreste anche avere sentito nominare e che consentirebbero alla quota rosa di raggiungere percentuali accettabili. Sulla prima pagina del Foglio di oggi racconto la storia della decapitazione femminista dei monumenti letterari.
venerdì 14 agosto 2015
Ma le avete viste le facce dei quattro candidati alla leadership laburista? Siccome so che non sapete nemmeno chi siano, vi suggerisco di cercare su google gli identikit di Andy Burnham, Yvette Cooper, Jeremy Corbin e Liz Kendall. Non sorprende che buona parte del dibattito interno al partito verta sulla prospettiva di restare all'opposizione per altri dieci anni o forse venti, nonostante quanto avevo scritto sul Foglio nel giorno in cui Gordon Brown cedeva a tempo potenzialmente indeterminato la casa di Downing Street al dinamico ciuffo conservatore di David Cameron:
Gli inglesi hanno da sempre un rapporto controverso col corpo dei loro leader. La Regina, per esempio, ogni estate va in vacanza nello stesso paesino e la prassi è che tutti gli abitanti del luogo fingano di non vederla: è la loro maniera di tributarle onore. Ma un giorno un turista non molto pratico del tacito accordo, avendo scorto in una sala da tè questa signora dall’aria familiare, le si avvicinò sussurrandole discretamente: “Sa che somiglia moltissimo alla regina?”. E lei: “Grazie, è davvero rassicurante”.
Il desiderio di ignorare a ogni costo il sembiante di chi rappresenta la nazione è stato rimosso senza ritegno di fronte a Gordon Brown. Nel giorno che avrebbe portato alle sue dimissioni, quasi tutti i quotidiani – senza distinzioni fra raffinati broadsheet e tabloid popolari – hanno incentrato la prima pagina su un primissimo piano del suo volto accigliato, quasi grottesco per quanto infantile appariva la sua espressione. Sembrava volessero certificare all’unisono che Brown era da tempo la caricatura di se stesso, schiacciato sotto il peso di una fisicità che non riusciva più a governare e che lo rendeva un po’ ridicolo e un po’ implausibile. Per quanto i media inglesi abbiano iniziato a danzare intorno al cadavere di Brown già nel giugno 2009, quando le dimissioni in serie di ministri chiave lo costrinsero a un rimpasto estremo e quasi eroico per il suo equilibrismo, il momento in cui l’attenzione dell’opinione pubblica è stata fatta convergere sul corpo del primo ministro è arrivato a settembre. A Brighton, nel corso del congresso laburista, Andrew Marr della Bbc gli rivolse una raffica di domande improvvide sul suo effettivo stato di salute e Brown fu costretto a entrare nei dettagli su come avesse perso la vista dall’occhio sinistro durante una partita di rugby al college. Mai un premier era apparso tanto isolato e sperduto come Brown sul palco di Brighton mentre cercava affannosamente di non rispondere all’inquisitorio Marr, che gli chiedeva se davvero assumesse psicofarmaci.
Da allora le immagini imbarazzanti si sono susseguite incalzandolo. In un corteo solenne a Buckingham Palace si lascia sfuggire un incongruo sorriso che sembra piuttosto un rictus; visita le truppe in Afghanistan indossando (Dio solo sa perché) due elmetti uno sull’altro; sprofonda il volto fra le mani scoprendo di aver lasciato il microfono acceso mentre offendeva un’elettrice. Oppure, stando alle rivelazioni di Andrew Rawnsley in “The end of the party”, in auto conficca una penna nel sedile di un sottoposto che gli aveva fatto perdere la pazienza. I dibattiti televisivi hanno fatto il resto: mettendo Brown a confronto con due consapevoli posatori quali David Cameron e Nick Clegg, hanno contribuito a diffondere l’idea che non fosse adatto a governare perché muoveva la mascella in modo buffo e non sapeva mai come sistemare le mani sul leggio.
Il triste paradosso di Gordon Brown è che nessun primo ministro sembra aver dato meno di lui peso alla propria immagine e ciò nonostante verrà ricordato soprattutto per il suo corpo brutto, goffo e malandato. Non gli si può negare una grandezza tragica. Lui forse aspirava a essere un Macbeth destinato al dolce tormento di vedersi le mani sempre macchiate del sangue dei suoi alleati, divenuti avversari e via via sconfitti; invece i media hanno trasformato la sua inesausta furia politica nella rabbia di Calibano che scorge la propria immagine riflessa in uno specchio.
Gli inglesi hanno da sempre un rapporto controverso col corpo dei loro leader. La Regina, per esempio, ogni estate va in vacanza nello stesso paesino e la prassi è che tutti gli abitanti del luogo fingano di non vederla: è la loro maniera di tributarle onore. Ma un giorno un turista non molto pratico del tacito accordo, avendo scorto in una sala da tè questa signora dall’aria familiare, le si avvicinò sussurrandole discretamente: “Sa che somiglia moltissimo alla regina?”. E lei: “Grazie, è davvero rassicurante”.
Il desiderio di ignorare a ogni costo il sembiante di chi rappresenta la nazione è stato rimosso senza ritegno di fronte a Gordon Brown. Nel giorno che avrebbe portato alle sue dimissioni, quasi tutti i quotidiani – senza distinzioni fra raffinati broadsheet e tabloid popolari – hanno incentrato la prima pagina su un primissimo piano del suo volto accigliato, quasi grottesco per quanto infantile appariva la sua espressione. Sembrava volessero certificare all’unisono che Brown era da tempo la caricatura di se stesso, schiacciato sotto il peso di una fisicità che non riusciva più a governare e che lo rendeva un po’ ridicolo e un po’ implausibile. Per quanto i media inglesi abbiano iniziato a danzare intorno al cadavere di Brown già nel giugno 2009, quando le dimissioni in serie di ministri chiave lo costrinsero a un rimpasto estremo e quasi eroico per il suo equilibrismo, il momento in cui l’attenzione dell’opinione pubblica è stata fatta convergere sul corpo del primo ministro è arrivato a settembre. A Brighton, nel corso del congresso laburista, Andrew Marr della Bbc gli rivolse una raffica di domande improvvide sul suo effettivo stato di salute e Brown fu costretto a entrare nei dettagli su come avesse perso la vista dall’occhio sinistro durante una partita di rugby al college. Mai un premier era apparso tanto isolato e sperduto come Brown sul palco di Brighton mentre cercava affannosamente di non rispondere all’inquisitorio Marr, che gli chiedeva se davvero assumesse psicofarmaci.
Da allora le immagini imbarazzanti si sono susseguite incalzandolo. In un corteo solenne a Buckingham Palace si lascia sfuggire un incongruo sorriso che sembra piuttosto un rictus; visita le truppe in Afghanistan indossando (Dio solo sa perché) due elmetti uno sull’altro; sprofonda il volto fra le mani scoprendo di aver lasciato il microfono acceso mentre offendeva un’elettrice. Oppure, stando alle rivelazioni di Andrew Rawnsley in “The end of the party”, in auto conficca una penna nel sedile di un sottoposto che gli aveva fatto perdere la pazienza. I dibattiti televisivi hanno fatto il resto: mettendo Brown a confronto con due consapevoli posatori quali David Cameron e Nick Clegg, hanno contribuito a diffondere l’idea che non fosse adatto a governare perché muoveva la mascella in modo buffo e non sapeva mai come sistemare le mani sul leggio.
Il triste paradosso di Gordon Brown è che nessun primo ministro sembra aver dato meno di lui peso alla propria immagine e ciò nonostante verrà ricordato soprattutto per il suo corpo brutto, goffo e malandato. Non gli si può negare una grandezza tragica. Lui forse aspirava a essere un Macbeth destinato al dolce tormento di vedersi le mani sempre macchiate del sangue dei suoi alleati, divenuti avversari e via via sconfitti; invece i media hanno trasformato la sua inesausta furia politica nella rabbia di Calibano che scorge la propria immagine riflessa in uno specchio.
giovedì 13 agosto 2015
L'uovo oggi, la gallina domani e la rivoluzione copernicana nel sistema dell'istruzione inglese. Sul Foglio in edicola trovate un mio articolo su come oggi - con l'uscita dei risultati degli A-levels, gli esami di maturità britannica - cambia una volta per tutte la sorte degli adolescenti istruiti: non saranno più gli studenti a scegliere l'università ma le università a scegliere gli studenti.
mercoledì 12 agosto 2015
C'è quel racconto di Aldo Palazzeschi in cui (mi pare) un inglese va in Egitto per una spedizione archeologica con la moglie e un coccodrillo poco educato se lo pappa. La moglie allora presenta le proprie rimostranze al coccodrillo offrendogli un matrimonio riparatore; il coccodrillo accetta di buon grado e si trasferisce con lei in Toscana, dove si piazza sulla sedia a dondolo a leggere il giornale in tweed mentre fuma la pipa. Una lucertola vedendolo riconosce in lui un lontano parente e gli domanda cosa faccia conciato a quel modo. "Non lo vedi? Faccio l'inglese". Così anch'io al mattino leggo il giornale cercando di camuffarmi il più possibile perché vado a farlo da Savino, lo storico bar italiano di Cambridge che ha il pregio di vendere caffè Illy quindi viene frequentato da inglesi che se ne intendono, tanto che è sempre pieno e arrivano sempre persone che finiscono per chiedermi se possono sistemarsi sulle sedie vuote del mio tavolino; poiché io non amo il reducismo evito di prendere le copie tentatrici del Corriere della Sera e della Gazzetta dello Sport (del giorno prima, si capisce) ma leggo con sussiego il Guardian e poi sfoglio rapidamente il Telegraph, il Times e l'Independent in ordine decrescente d'importanza e di necessità. Faccio l'inglese talmente bene che ieri il signore col tweed e la moglie che condividevano il mio tavolino nell'atto di andarsene mi hanno sussurrato con fare cospiratorio: "Lei è italiano? Anche noi".
martedì 11 agosto 2015
Scusate, nel pubblico c'è un volontario per l'eutanasia? Ecco disponibile online il mio pezzo sullo spettacolo che Philip Nitschke, per gli amici Dottor Morte, sta mettendo in scena in questi giorni al Fringe festival di Edimburgo, direttamente dal sito del Foglio.
lunedì 10 agosto 2015
A completamento del mio pezzo uscito sabato sul Foglio riguardo alle nuove tendenze del teatro britannico e in particolare alla messinscena dell'eutanasia al Fringe Festival di Edimburgo, devo segnalare che questo fine settimana sui palchi scozzesi tutte le attenzioni sono state accentrate su uno spettacolo in cui due attori si spogliavano progressivamente lanciandosi reciprocamente addosso della vernice. Bello, intenso, significativo; come hanno segnalato alcuni recensori, un percorso per giungere alla piena liberazione del popolo britannico, troppo spesso costretto da cliché e obblighi sociali.
Prima che io possa liberarmi e andare in giro per Cambridge nudo cosparso di vernice deve passarmi il raffreddore, frutto delle temperature improvvisamente estive del fine settimana (il mio povero corpo, che si era acclimatato sul tipico freddolino di queste latitudini, non ha retto); vi terrò aggiornati. Posso però segnalare che oggi un ulteriore passo è stato fatto verso la liberazione del popolo britannico, proprio stamattina, proprio a Cambridge, proprio mentre ero in fila da WH Smith per comprare il giornale. Il signore davanti a me, in attesa che si liberasse l'unica cassa monopolizzata da un tale che stava comprando dei Gratta & Vinci e si dilungava in chiacchiere con la cassiera che per educazione gli dava corda, a un certo punto ha fatto l'imponderabile: si è raschiato la gola per farsi notare. Non contento, in seguito ha sbuffato; e quando il troppo gli è parso troppo, ha anche fatto minacciosamente un passo in avanti verso la cassa. Non vedo l'ora di leggere la recensione della performance domani su Cambridge News.
Prima che io possa liberarmi e andare in giro per Cambridge nudo cosparso di vernice deve passarmi il raffreddore, frutto delle temperature improvvisamente estive del fine settimana (il mio povero corpo, che si era acclimatato sul tipico freddolino di queste latitudini, non ha retto); vi terrò aggiornati. Posso però segnalare che oggi un ulteriore passo è stato fatto verso la liberazione del popolo britannico, proprio stamattina, proprio a Cambridge, proprio mentre ero in fila da WH Smith per comprare il giornale. Il signore davanti a me, in attesa che si liberasse l'unica cassa monopolizzata da un tale che stava comprando dei Gratta & Vinci e si dilungava in chiacchiere con la cassiera che per educazione gli dava corda, a un certo punto ha fatto l'imponderabile: si è raschiato la gola per farsi notare. Non contento, in seguito ha sbuffato; e quando il troppo gli è parso troppo, ha anche fatto minacciosamente un passo in avanti verso la cassa. Non vedo l'ora di leggere la recensione della performance domani su Cambridge News.
sabato 8 agosto 2015
Pensavate di volare a Londra per venire a vedere Benedict Cumberbatch che recita Amleto? Tanto vale che allunghiate il tragitto arrivando fino al Fringe Festival di Edimburgo, così potete andare a teatro per provare la macchina della dolce morte salendo sul palco durante un monologo sull'eutanasia: non avrete più dubbi su essere e non essere. Ne parlo sul Foglio in edicola oggi.
venerdì 7 agosto 2015
Ieri sera ero tutto ammirato da una brevissima recensione nel tradizionale dorsetto culturale sul Guardian del sabato, in cui Il libro delle cose nuove e strane di Michel Faber (Bompiani) viene raccontato in trenta righe dal punto di vista della moglie del protagonista nonostante che il romanzo sia scritto dal punto di vista del marito - quand'ecco che subito sotto ho scorto qualcosa di ancora meglio. Yes Please dell'attrice scollata Amy Poehler viene recensito da Laura Miller in questi termini:
Viene presentato su pagine stampate infilate fra due fogli cartonati a mo' di copertina; pertanto, tecnicamente parlando, è un libro. Tuttavia è il tipo di titolo cui nell'ambiente editoriale si fa talvolta riferimento come "non-libro", nel senso che ha poche delle qualità che la gente libresca abitualmente ama ritenere esemplificative dell'oggetto. Non è un atto di scrittura coerente e ben ordito attorno a una storia o a un argomento. Viene difficile immaginare qualcuno che riesca a trovare un senso in parti di esso, o addirittura a leggerlo tutto.
Purtroppo non conoscevo prima Laura Miller e purtroppo l'impietoso Google mi svela stamattina che si tratta di una lettrice professionista che scrive anche per Slate, New Yorker, Harper's Magazine. Peccato. Per tutta la notte avevo sognato che si trattasse dello pseudonimo con cui Fabio Fazio si vendicava di tutta la melassa che a Rai 3 gli fanno da anni riversare su libri e non libri.
Viene presentato su pagine stampate infilate fra due fogli cartonati a mo' di copertina; pertanto, tecnicamente parlando, è un libro. Tuttavia è il tipo di titolo cui nell'ambiente editoriale si fa talvolta riferimento come "non-libro", nel senso che ha poche delle qualità che la gente libresca abitualmente ama ritenere esemplificative dell'oggetto. Non è un atto di scrittura coerente e ben ordito attorno a una storia o a un argomento. Viene difficile immaginare qualcuno che riesca a trovare un senso in parti di esso, o addirittura a leggerlo tutto.
Purtroppo non conoscevo prima Laura Miller e purtroppo l'impietoso Google mi svela stamattina che si tratta di una lettrice professionista che scrive anche per Slate, New Yorker, Harper's Magazine. Peccato. Per tutta la notte avevo sognato che si trattasse dello pseudonimo con cui Fabio Fazio si vendicava di tutta la melassa che a Rai 3 gli fanno da anni riversare su libri e non libri.
giovedì 6 agosto 2015
Dall'affaire Edward Heath - primo ministro negli anni '70, immortalato nel coretto di una canzone dei Beatles sulle tasse, oggi accusato di pedofilia a furor di popolo dai quotidiani bassi - si apprende lo slittamento di alcuni concetti chiave nella cultura britannica. Heath è stato uno dei due primi ministri single nella storia contemporanea del Regno Unito, settant'anni dopo il notorio snob e libertino conte Balfour. Per dirvi l'inverosimiglianza di un primo ministro single, pensate che attorno a questo rarissimo caso è stata imbastita la trama del film Love, actually, con Hugh Grant che balla da solo di sera giù per le scale di 10 Downing Street. Heath era un modello di single molto diverso da Balfour (e da Hugh Grant, che alla fine sposa una stagista) in quanto alla carenza di una famiglia non sopperiva con un'attività seduttiva pubblicamente chiacchierata. Alle domande sulla sua vita privata, anche gli amici più intimi rispondevano: "Non ne ha". Ciò che nell'Inghilterra di quarant'anni fa era visto se non come un pregio come un'eventualità, ossia il sostanziale disinteresse dell'uomo nei confronti di tormenti sentimentali o turbamenti sessuali che lo avrebbero distolto dalla gestione del potere in cui era assorbito, oggi viene immediatamente interpretato come copertura di un'attività omosessuale. Può anche essere, ma who cares?
Qui entra in gioco infatti il secondo fattore. L'aggettivo più comune nel descrivere Heath era secretive, ovvero discreto ai limiti dell'occultamento. Anche questo era reputato un pregio nell'Inghilterra di quarant'anni fa, ritenendo che l'esposizione di emozioni, affari propri e mutande sporche fosse continentale, latina - anzi peggio, common: ossia una tentazione per così tante persone di varia estrazione che tanto valeva che nessuno vi cedesse, soprattutto chi copriva ruoli di responsabilità. Nessun inglese serio avrebbe voluto per amico uno che gli raccontava pettegolezzi su sé stesso. Oggi invece si ritiene che chi non metta in piazza la propria privacy abbia necessariamente qualcosa da nascondere. Nel caso di Heath, l'omosessualità; ma come mai era così secretive? Non è che c'è qualcosa di peggio?
Ecco il terzo tassello. La discrezione iperbolica di Heath deve nascondere qualcosa di losco, che colori di nero l'ormai acclarata predilezione per i maschi; anzi, per i ragazzi; anzi, per i bambini. Voilà. Basta che una tenutaria di bordello, ormai carampana, dichiari di avere servito Heath e il gioco è fatto: il privato diventa pubblico, il sesso reato, la passione delitto, inevitabilmente. Poco conta che la dichiarazione sia stata resa venticinque anni fa e mai confermata, anzi smentita dalla medesima; l'enjeu politico pretende che le indagini vadano a fondo e, se non c'è nulla, vuol dire che un quarto di secolo fa esse furono fermate per impedire di arrivare a colpire nomi molto in alto. Heath sembrava una persona discreta, forse un po' troppo solitaria, e invece era un diabolico complottista.
Non basta. Le indagini si sono basate sulle rivelazioni di un bambino di sessantacinque anni il quale si è improvvisamente ricordato di avere subito sevizie dal futuro primo ministro nel 1961. Non commenterò la credibilità del singolo caso ma mi limiterò a ricordarvi che scrivo da Cambridge, dove un'inchiesta ha rivelato che il 30% degli studenti universitari sostiene di avere subito violenza sessuale e il 77% molestie sessuali; se tanto mi dà tanto, è sorprendente che dopo un'intera settimana qui io non sia stato violentato. O non sia in galera.
Manca l'ultimo pezzo. La polizia. Le forze dell'ordine del Wiltshire, di fronte al sospetto di avere insabbiato un'inchiesta nei primi anni '90, hanno reagito con forza tenendo una conferenza stampa di fronte alla casa di Heath. Santo cielo! Ma nemmeno in Corea del Nord, spero almeno, la polizia tiene conferenze stampa davanti alla casa dell'indagato! Non solo: in barba a ogni principio di giustizia basata sulle indagini, e non sull'inquisizione, la polizia ha invitato a uscire allo scoperto chiunque da bambino abbia subito violenza sessuale, benché retribuita, da Edward Heath. Accorreranno a frotte, richiamati dalla succosa madeleine giuridica: così si potrà finalmente far pagare il fio a un orrido pedofilo che a prima vista sembrava un politico discreto e melanconico, un romantico che teneva sul comodino la foto di una fidanzata mai sposata. E che è morto dieci anni fa.
Qui entra in gioco infatti il secondo fattore. L'aggettivo più comune nel descrivere Heath era secretive, ovvero discreto ai limiti dell'occultamento. Anche questo era reputato un pregio nell'Inghilterra di quarant'anni fa, ritenendo che l'esposizione di emozioni, affari propri e mutande sporche fosse continentale, latina - anzi peggio, common: ossia una tentazione per così tante persone di varia estrazione che tanto valeva che nessuno vi cedesse, soprattutto chi copriva ruoli di responsabilità. Nessun inglese serio avrebbe voluto per amico uno che gli raccontava pettegolezzi su sé stesso. Oggi invece si ritiene che chi non metta in piazza la propria privacy abbia necessariamente qualcosa da nascondere. Nel caso di Heath, l'omosessualità; ma come mai era così secretive? Non è che c'è qualcosa di peggio?
Ecco il terzo tassello. La discrezione iperbolica di Heath deve nascondere qualcosa di losco, che colori di nero l'ormai acclarata predilezione per i maschi; anzi, per i ragazzi; anzi, per i bambini. Voilà. Basta che una tenutaria di bordello, ormai carampana, dichiari di avere servito Heath e il gioco è fatto: il privato diventa pubblico, il sesso reato, la passione delitto, inevitabilmente. Poco conta che la dichiarazione sia stata resa venticinque anni fa e mai confermata, anzi smentita dalla medesima; l'enjeu politico pretende che le indagini vadano a fondo e, se non c'è nulla, vuol dire che un quarto di secolo fa esse furono fermate per impedire di arrivare a colpire nomi molto in alto. Heath sembrava una persona discreta, forse un po' troppo solitaria, e invece era un diabolico complottista.
Non basta. Le indagini si sono basate sulle rivelazioni di un bambino di sessantacinque anni il quale si è improvvisamente ricordato di avere subito sevizie dal futuro primo ministro nel 1961. Non commenterò la credibilità del singolo caso ma mi limiterò a ricordarvi che scrivo da Cambridge, dove un'inchiesta ha rivelato che il 30% degli studenti universitari sostiene di avere subito violenza sessuale e il 77% molestie sessuali; se tanto mi dà tanto, è sorprendente che dopo un'intera settimana qui io non sia stato violentato. O non sia in galera.
Manca l'ultimo pezzo. La polizia. Le forze dell'ordine del Wiltshire, di fronte al sospetto di avere insabbiato un'inchiesta nei primi anni '90, hanno reagito con forza tenendo una conferenza stampa di fronte alla casa di Heath. Santo cielo! Ma nemmeno in Corea del Nord, spero almeno, la polizia tiene conferenze stampa davanti alla casa dell'indagato! Non solo: in barba a ogni principio di giustizia basata sulle indagini, e non sull'inquisizione, la polizia ha invitato a uscire allo scoperto chiunque da bambino abbia subito violenza sessuale, benché retribuita, da Edward Heath. Accorreranno a frotte, richiamati dalla succosa madeleine giuridica: così si potrà finalmente far pagare il fio a un orrido pedofilo che a prima vista sembrava un politico discreto e melanconico, un romantico che teneva sul comodino la foto di una fidanzata mai sposata. E che è morto dieci anni fa.
mercoledì 5 agosto 2015
Vi spiego rapidamente come funziona il giornalismo britannico. Prendiamo il Guardian; prendiamo anche un numero vecchio (venerdì scorso) così facciamo del vintage e possiamo concentrarci sui meccanismi anziché sulla stretta attualità. Partiamo da una pagina interna, quella degli editoriali, in fondo alla quale si trova il pezzo sul dottor Palmer o meglio su Cecil, il leone ucciso in un safari facilitato dal dentista americano. Il pezzo del Guardian lo paragona a Putin (il medico, non il felino) per via della passione nel farsi fotografare con selvaggina inerte, talvolta perfino a torso nudo. Putin lo ritroviamo in prima pagina, in un articolo che riferisce della visita in Scozia di Donald Trump. Il candidato alle primarie repubblicane, visitando un campo da golf nelle Highlands, ha dichiarato che col presidente russo avrebbe rapporti più amichevoli di quelli che Obama ha saputo costruire nel suo mandato e mezzo. Dunque, per la proprietà transitiva, da un lato troviamo i cattivoni Palmer, Putin e Trump; dall'altro i buoni che per ora sono soltanto un leone e Obama. Le schiere sono destinate a rimpolparsi rapidamente. Qual è la principale accusa che viene rivolta a Donald Trump dai benpensanti? Quella di avere rivelato che gli immigrati messicani portano in larga parte delinquenza. Inaudito. Infatti cosa c'è proprio di fianco all'articolo su Trump, sempre in prima pagina? Il resoconto dell'indignazione laburista a fronte delle dichiarazioni di David Cameron; in riferimento agli assalti di immigrati a Calais, il primo ministro li aveva definiti swarm, sciame, e giù proteste perché è un linguaggio disumanizzante, e le parole sono importanti, e bisogna rispettare gli animali ma anche gli immigrati, e così la Gran Bretagna scopre di essere governata da una specie di Donald Trump meno pacchiano. Ma corriamo all'inserto G2, quello degli approfondimenti sagaci e irriverenti, dove troviamo un'intervista ai Blur il cui membro Alex James è costretto a difendersi dalle accuse dovute alla scoperta di una vecchia foto che lo ritrae, orrore degli orrori, indovinate con chi? Con David Cameron: il simil-Trump quasi-Putin che se fosse un dentista se ne andrebbe in giro per l'Africa ad ammazzare tutti i leoni e i potenziali immigrati. Aggravante: nella foto incriminata appare anche Jeremy Clarkson, anchorman di enorme successo ed ex conduttore di Top Gear, trasmissione di punta dalla quale la BBC l'ha cacciato per presunte molestie sessuali; e chi c'è a pagina tre del quotidiano? Proprio Jeremy Clarkson: una pagina intera viene dedicata al fatto che Amazon gli ha affidato - insieme ad altri due tizi che qui sembrano famosissimi ma ai miei occhi sono ignoti - la conduzione di un'altra trasmissione sulle automobili volta a rivaleggiare con Top Gear. Sdegno di fronte a un'azienda che assumendo un potenziale stupratore retroattivo, noto per le sue foto con musicisti adusi a farsi fotografare con primi ministri che vorrebbero essere Donald Putin o Vladimir Trump al solo scopo di sparare a Obama in un safari facilitato, non tiene in debito rispetto le donne. Bisogna fare come invece suggerisce Mark Haddon - autore de Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte - il quale nella rubrica "Il libro che mi ha cambiato la vita" approfitta dello spazio concessogli dal Guardian per confessare che prima di leggere negli anni '80 Spare Rib reader (sottotitolo: "100 argomenti per la liberazione delle donne") non solo era un fedelissimo fan delle comiche scollacciate di Benny Hill ma nemmeno credeva che il mondo fosse così preclusivo e violento nei confronti delle donne. Da allora però Haddon è diventato un convinto femminista, uno di quelli che - si deduce - non solo ha iniziato a guardare Top Gear solo nella nuova versione corretta e declarksonizzata ma non sparerebbe mai nemmeno a un dentista americano, anzi se gli capitasse di incontrare un leone immigrato se lo sposerebbe immediatamente.
giovedì 30 luglio 2015
Bene, oggi prendo e vado a lavorare a Cambridge per un mesetto. Ciao. Mia madre, dal 1998 sempre attenta ai miei spostamenti, mi ha domandato perché non andassi piuttosto a Oxford, visto che ci avevo già vissuto e lavorato per due anni e mezzo; la domanda è saggia ma la risposta si trova già in un mio pezzo uscito sul Foglio nel settembre di cinque anni fa, subito dopo che Cambridge aveva superato Oxford e Harvard in vetta alla classifica delle migliori università del mondo:
Infilare le università in una graduatoria mondiale non ha molto senso perché la loro qualità andrebbe calcolata sul beneficio che ciascuna facoltà o dipartimento può garantire a ogni singolo alunno. Per questo i QS World University Rankings hanno risultati discutibili: Oxford peggio dell’University College London? L’École Normale Superieure trentatreesima? Bologna e La Sapienza uniche due università italiane decenti? Fra le righe la graduatoria fornisce anche un’importante indicazione per il futuro delle accademie. Sulle duecento università eccellenti, la prima non anglofona è Zurigo al diciottesimo posto, quelle francofone arrancano, le italofone sono disperse. Si è creata una lega stabile di sedi nelle quali circola un vortice pubblicazioni accademiche in inglese, che traggono affidabilità e prestigio da pareri favorevoli incrociati. Triste ammetterlo, ma pubblicare in italiano significa condannarsi alla periferia dell’Impero.
Se c’è una cosa sulla quale non mi sento di discutere è il primato di Cambridge, che finalmente quest’anno scavalca Harvard e ristabilisce l’ordine naturale del creato. Chiunque sia passato per Cambridge deve riconoscere (o ammettere a denti stretti, se viene da Oxford) che il primo posto è sacrosanto. È scritto nei muri della stessa città, nella sua cristallina coerenza architettonica. Cambridge non è una cittadella universitaria rinchiusa all’interno di una città che nel migliore dei casi la ignora e nel peggiore la osteggia; non è sgranata in infiniti dipartimenti e college distanti chilometri l’uno dall’altro. A Cambridge l’università è la città. Nella strada principale del centro, uno accanto all’altro si passano in rassegna i college più importanti: da nord a sud il St John’s, il Trinity, il King’s, ognuno con la sua peculiare costruzione che però non fa a pugni con il resto ma sembra volerlo completare, aggiungere qualcosa al tutto senza subissarlo. Nel quadrato costruito su quella strada dritta, che cambia nome a seconda del collegio davanti a cui passa, studenti e professori trovano tutto ciò di cui possono avere bisogno: supermercato, libreria, pub, centro commerciale, discoteca, biroccino che vende gli hot dog e senato accademico. Tutto il centro si percorre in lungo e in largo nel giro di dieci minuti. Uno può perdere così poco tempo che finisce per studiare con gioia.
È il fiume a sancire la coerenza di Cambridge. Oxford ne ha tre ma sono disposti malissimo. Il Cam invece passa parallelo alla strada principale attraversando i college e separandone la parte antica dalla parte nuova, generalmente ottocentesca, e da quella nuovissima dietro la quale si estendono i backs, ossia gli infiniti prati che ricongiungono il retro dei vari college in un’unica passeggiata. Né è una passeggiata di mero piacere: dai backs si percorre la strada più breve per arrivare alla University Library, il giardino proibito che custodisce tutto ciò che bisogna sapere. La University Library è il motivo per cui Cambridge, classifiche o no, sarà sempre e inevitabilmente la migliore università al mondo. Consta di due ali di sei piani ciascuna, separate da un torracchione in stile anni ’30 nel quale sono nascosti i libri preziosi o rari, che possono venire ordinati online e vengono consegnati nel giro di una mezz’oretta, con tante scuse per il rallentamento degli studi. Nelle due ali, divise per aree tematiche, i volumi sono disposti su scaffali ravvicinatissimi, che consentono il passaggio a una persona per volta e contengono tutto ciò che si possa desiderare di leggere. Essendo ad accesso libero permettono di avventurarsi in passeggiate tematiche in cui si scopre sempre la pubblicazione che non si conosce e si inizia a studiare qualcosa di nuovo mossi dalla curiosità e non dalla necessità. Questa è la grande differenza con altre università a scaffale chiuso: altrove bisogna sapere a priori cosa si sta cercando sul catalogo e quindi la propria ricerca consiste in un cauto ampliamento delle nozioni di partenza. A Cambridge invece il sapere ti salta addosso: si può entrare in biblioteca totalmente ignoranti e uscirne qualche anno dopo sapendo tutto.
Infilare le università in una graduatoria mondiale non ha molto senso perché la loro qualità andrebbe calcolata sul beneficio che ciascuna facoltà o dipartimento può garantire a ogni singolo alunno. Per questo i QS World University Rankings hanno risultati discutibili: Oxford peggio dell’University College London? L’École Normale Superieure trentatreesima? Bologna e La Sapienza uniche due università italiane decenti? Fra le righe la graduatoria fornisce anche un’importante indicazione per il futuro delle accademie. Sulle duecento università eccellenti, la prima non anglofona è Zurigo al diciottesimo posto, quelle francofone arrancano, le italofone sono disperse. Si è creata una lega stabile di sedi nelle quali circola un vortice pubblicazioni accademiche in inglese, che traggono affidabilità e prestigio da pareri favorevoli incrociati. Triste ammetterlo, ma pubblicare in italiano significa condannarsi alla periferia dell’Impero.
Se c’è una cosa sulla quale non mi sento di discutere è il primato di Cambridge, che finalmente quest’anno scavalca Harvard e ristabilisce l’ordine naturale del creato. Chiunque sia passato per Cambridge deve riconoscere (o ammettere a denti stretti, se viene da Oxford) che il primo posto è sacrosanto. È scritto nei muri della stessa città, nella sua cristallina coerenza architettonica. Cambridge non è una cittadella universitaria rinchiusa all’interno di una città che nel migliore dei casi la ignora e nel peggiore la osteggia; non è sgranata in infiniti dipartimenti e college distanti chilometri l’uno dall’altro. A Cambridge l’università è la città. Nella strada principale del centro, uno accanto all’altro si passano in rassegna i college più importanti: da nord a sud il St John’s, il Trinity, il King’s, ognuno con la sua peculiare costruzione che però non fa a pugni con il resto ma sembra volerlo completare, aggiungere qualcosa al tutto senza subissarlo. Nel quadrato costruito su quella strada dritta, che cambia nome a seconda del collegio davanti a cui passa, studenti e professori trovano tutto ciò di cui possono avere bisogno: supermercato, libreria, pub, centro commerciale, discoteca, biroccino che vende gli hot dog e senato accademico. Tutto il centro si percorre in lungo e in largo nel giro di dieci minuti. Uno può perdere così poco tempo che finisce per studiare con gioia.
È il fiume a sancire la coerenza di Cambridge. Oxford ne ha tre ma sono disposti malissimo. Il Cam invece passa parallelo alla strada principale attraversando i college e separandone la parte antica dalla parte nuova, generalmente ottocentesca, e da quella nuovissima dietro la quale si estendono i backs, ossia gli infiniti prati che ricongiungono il retro dei vari college in un’unica passeggiata. Né è una passeggiata di mero piacere: dai backs si percorre la strada più breve per arrivare alla University Library, il giardino proibito che custodisce tutto ciò che bisogna sapere. La University Library è il motivo per cui Cambridge, classifiche o no, sarà sempre e inevitabilmente la migliore università al mondo. Consta di due ali di sei piani ciascuna, separate da un torracchione in stile anni ’30 nel quale sono nascosti i libri preziosi o rari, che possono venire ordinati online e vengono consegnati nel giro di una mezz’oretta, con tante scuse per il rallentamento degli studi. Nelle due ali, divise per aree tematiche, i volumi sono disposti su scaffali ravvicinatissimi, che consentono il passaggio a una persona per volta e contengono tutto ciò che si possa desiderare di leggere. Essendo ad accesso libero permettono di avventurarsi in passeggiate tematiche in cui si scopre sempre la pubblicazione che non si conosce e si inizia a studiare qualcosa di nuovo mossi dalla curiosità e non dalla necessità. Questa è la grande differenza con altre università a scaffale chiuso: altrove bisogna sapere a priori cosa si sta cercando sul catalogo e quindi la propria ricerca consiste in un cauto ampliamento delle nozioni di partenza. A Cambridge invece il sapere ti salta addosso: si può entrare in biblioteca totalmente ignoranti e uscirne qualche anno dopo sapendo tutto.
mercoledì 29 luglio 2015
Sarà che domani torno a riconciliarmi (spero) con l'Inghilterra, land of hope and glory, quindi sospetto che dati i precedenti potrei non tornarne vivo; sarà che stamattina mi ha suggestionato sui giornali la magna copia di articoli sulla ragazza della Fortezza dopo che la corte d'appello ha sancito che non fu stuprata bensì consenziente, con profluvio inevitabile di campagne online a colpi di hashtag #nessunascusa; sarà che la rapidità, l'esattezza, la previdenza oramai preoccupanti con cui preparo i bagagli mi fanno balenare in mente che forse come casa ho una valigia, inducendomi pertanto a distoglierne i pensieri facendoli vagare lontano; fatto sta che mi sono ricordato all'improvviso che quattro anni fa avevo seguito dal vivo la Slut Walk organizzata a Londra per un caso assimilabile a quello della Fortezza e avevo scritto queste tremila battute che poi mai più avevo pubblicato. Quindi eccole:
Alla stazione di Oxford, la signorina in coda dietro di me sfoggia un boa violetto, il bordo delle autoreggenti che sfugge all’orlo della minigonna e vari cuoricini di rossetto dipinti sulle guance: sta andando a Londra per la Slut Walk, la marcia delle zoccole inventata in Canada dopo le esternazioni poco furbe di un vigile (“Per evitare di venire stuprate, le donne non dovrebbero vestirsi in maniera discinta”) ma culminata la scorsa settimana in una serie di eventi britannici con sorprendente partecipazione da Newcastle in giù. Una volta giunti davanti all’Hard Rock Cafe di Green Park, balza all’occhio un dettaglio fondamentale: anche se l’obiettivo della protesta è di rivendicare il diritto a vestirsi in modo più che provocante senza rischiare di subire violenza, hanno optato per abiti oggettivamente discinti quasi solo cinquantenni o sessantenni ignare che gli anni ’70 sono finiti da un pezzo. A parte un paio di universitarie conciate come manichini da sexy shop e una trentenne coraggiosamente in topless, buona parte delle migliaia di partecipanti si presenta all’appuntamento nell’abito che avrebbe verosimilmente usato nel resto del fine settimana. Ciò si deve a una certa confusione di intenti, che ha reso la marcia londinese molto diversa dall’originale nordamericano; l’infelice frase del vigile canadese viene rapidamente dimenticata e lascia campo libero all’espressione di pulsioni puritane e antipuritane profondamente radicate nella società britannica. Insieme a chi si arroga il diritto alla zoccolaggine marcia chi vuole che il corpo femminile non venga mai considerato oggetto sessuale e ne sortisce una protesta di tutti contro tutti, anzi tutte contro tutti: donne nere tirano in ballo Strauss-Kahn col cartello “Siamo tutte cameriere”; volantini criticano un vigile scozzese che, esasperato dalla movida del sabato sera, aveva raccomandato ad alcune ragazze di bere di meno e coprirsi di più; smunte funzionarie del Socialist Workers Party, unica formazione politica presente alla marcia, scandiscono slogan contro Ken Clarke, il ministro della giustizia recentemente costretto a rimangiarsi l’asserzione che non ogni approccio possa essere equiparato alla violenza sessuale; immancabili gli attivisti gay, quelli pro aborto e perfino i raeliani. Desta sconcerto la delegazione di zoccole vere, professioniste, col cartello “Le prostitute hanno bisogno del femminismo e il femminismo delle prostitute”; fa un po’ ribrezzo la tredicenne spedita in giro a vendere biscotti allo zenzero rilasciando alle tv locali dichiarazioni sul timore che in ogni fidanzatino possa celarsi un maniaco. Ma nulla ha colpito più della massiccia presenza di uomini, che hanno superato di gran lunga le femministe quanto a provocatorietà. Oltre a una cospicua delegazione di veterani del travestitismo, moltissimi ragazzi hanno deciso di accompagnare amiche e fidanzate indossando solo parrucche, mutandine di pizzo e reggiseno dall’imbottitura improvvisata, sfilando orgogliosi di mostrare la nuova tendenza estrema del progressismo britannico: l’autocastrazione del maschio femminista.
Alla stazione di Oxford, la signorina in coda dietro di me sfoggia un boa violetto, il bordo delle autoreggenti che sfugge all’orlo della minigonna e vari cuoricini di rossetto dipinti sulle guance: sta andando a Londra per la Slut Walk, la marcia delle zoccole inventata in Canada dopo le esternazioni poco furbe di un vigile (“Per evitare di venire stuprate, le donne non dovrebbero vestirsi in maniera discinta”) ma culminata la scorsa settimana in una serie di eventi britannici con sorprendente partecipazione da Newcastle in giù. Una volta giunti davanti all’Hard Rock Cafe di Green Park, balza all’occhio un dettaglio fondamentale: anche se l’obiettivo della protesta è di rivendicare il diritto a vestirsi in modo più che provocante senza rischiare di subire violenza, hanno optato per abiti oggettivamente discinti quasi solo cinquantenni o sessantenni ignare che gli anni ’70 sono finiti da un pezzo. A parte un paio di universitarie conciate come manichini da sexy shop e una trentenne coraggiosamente in topless, buona parte delle migliaia di partecipanti si presenta all’appuntamento nell’abito che avrebbe verosimilmente usato nel resto del fine settimana. Ciò si deve a una certa confusione di intenti, che ha reso la marcia londinese molto diversa dall’originale nordamericano; l’infelice frase del vigile canadese viene rapidamente dimenticata e lascia campo libero all’espressione di pulsioni puritane e antipuritane profondamente radicate nella società britannica. Insieme a chi si arroga il diritto alla zoccolaggine marcia chi vuole che il corpo femminile non venga mai considerato oggetto sessuale e ne sortisce una protesta di tutti contro tutti, anzi tutte contro tutti: donne nere tirano in ballo Strauss-Kahn col cartello “Siamo tutte cameriere”; volantini criticano un vigile scozzese che, esasperato dalla movida del sabato sera, aveva raccomandato ad alcune ragazze di bere di meno e coprirsi di più; smunte funzionarie del Socialist Workers Party, unica formazione politica presente alla marcia, scandiscono slogan contro Ken Clarke, il ministro della giustizia recentemente costretto a rimangiarsi l’asserzione che non ogni approccio possa essere equiparato alla violenza sessuale; immancabili gli attivisti gay, quelli pro aborto e perfino i raeliani. Desta sconcerto la delegazione di zoccole vere, professioniste, col cartello “Le prostitute hanno bisogno del femminismo e il femminismo delle prostitute”; fa un po’ ribrezzo la tredicenne spedita in giro a vendere biscotti allo zenzero rilasciando alle tv locali dichiarazioni sul timore che in ogni fidanzatino possa celarsi un maniaco. Ma nulla ha colpito più della massiccia presenza di uomini, che hanno superato di gran lunga le femministe quanto a provocatorietà. Oltre a una cospicua delegazione di veterani del travestitismo, moltissimi ragazzi hanno deciso di accompagnare amiche e fidanzate indossando solo parrucche, mutandine di pizzo e reggiseno dall’imbottitura improvvisata, sfilando orgogliosi di mostrare la nuova tendenza estrema del progressismo britannico: l’autocastrazione del maschio femminista.
martedì 28 luglio 2015
Muore Sebastiano Vassalli ma resta in ottima salute l'abitudine italiana a commemorare per generiche allusioni - "raccontò i costumi degli italiani", "ci mancherà", "nei suoi libri la storia d'Italia", "uno scrittore sensibile e appassionato" - che rivestono la stessa identica funzione di quando, al liceo, avevamo sempre pronta una risposta vaga utile a non fare scena muta quando ci chiamavano alla lavagna e non avevamo studiato. Permane l'uso, anzi il riflesso condizionato, a sentirsi in dovere di un elogio quando muore qualcuno la cui attività riteniamo meritoria per quanto faticoso sia per noi fruirne, vergognandoci di ammettere che sì, Sebastiano Vassalli era famoso ma nessun passante sarebbe in grado di elencare i titoli dei suoi libri foss'anche in disordine cronologico, e che La Chimera, sì, La Chimera era proprio un bel romanzo ma molti italiani sedicenti colti, con la laurea in lettere addirittura, o ne hanno solo sentito parlare o magari l'hanno iniziato e non finito o l'hanno comprato e messo ad aspettare tempi migliori in bella mostra su una mensola, intonso. Quando muore uno scrittore, vogliamo fare bella figura perché abbiamo la coscienza sporca; noi nazione di non lettori, di fumosi chiacchieroni, di superficiali incapaci di distinguere il grano dal loglio, di refrattari alla parola chiara, ci siamo scatenati su twitter a postare copertine de La Chimera o foto baffute con l'hashtag #Vassalli e profondendoci in alti lai in vista della mancanza che ne sentiremo; senza nessuno che dicesse: giusto, Sebastiano Vassalli era una daga conficcata nella coscienza italiana, era uno degli ultimi testimoni di una generazione di intellettuali in via d'estinzione, aveva la fortuna di scrivere libri che compravamo e una tribuna sui giornali da cui ammonirci, ma ha spostato il carattere nazionale di un millimetro? No, perché siamo di cemento. Sebastiano Vassalli era un bravo scrittore, quindi non mancherà quasi a nessuno; non si sarebbe altrimenti rinchiuso nel Monferrato in splendido isolamento.
lunedì 27 luglio 2015
Le Tour, jamais (5)
Quinta e ultima puntata del feuilleton giallo del psicociclismo estivo. Cliccando qui trovate la prima, la seconda, la terza e la quarta.
Se sei martello batti e se sei incudine statti, dicono a
Napoli e forse, per via di Garibaldi, la voce sarà arrivata fino a Monza. Dopo
mesi e mesi trascorsi in posizione fetale a leccarsi le ferite inferte dal
Tour, Gianni Bugno torna martello al Giro delle Fiandre del 1994. È il giorno
di Pasqua e, si parva licet, la
risurrezione non guasta. Veste maglia Polti e brucia Musseuw in volata
infinitesimale, in discussione fino all’ultimo fotofinish perché ha alzato le
braccia proprio mentre il belga dava il corpo di reni postremo. Rischiosissimo;
di lì in poi deciderà di non alzarle più se non per una vittoria che meriti,
ossia o il Tour o il terzo Mondiale. Continua a vincere al Giro, una tappa,
indossa fugacemente la maglia ciclamino, si classifica dignitosissimo ottavo
nella prima corsa a tappe in cui Indurain riesca a non primeggiare, infilzato
nell’ordine dal russo di Broni Eugenio Berzin e dal gregario spelacchiato di
Chiappucci, Marco Pantani.
Al Giro Indurain non tornerà più, consapevole che il suo
fisico non può più reggere un impero su cui non tramonti mai il sole; si
ripresenta invece in giallo all’apertura di gala al gran prologo di Lille. Non
vince (si aggiudica il prologo Chris Boardman, da poco spogliato del record
dell’ora da Graeme Obree, lo scozzese che correva su una bici fatta anche con
pezzi della lavatrice) ma distanzia tutti i concorrenti, da Rominger a Zülle a
Chiappucci. Bugno, che pure è lo stesso che aveva aggredito le prime tappe del
Giro sembrando tornato agli antichi fasti, è dietro a tutti loro. Rimane
trasparente, impercettibile, fino alla nona tappa, la cronometro di Bergerac.
Indurain non fa prigionieri e dà due minuti a Rominger, cinque e mezzo a
Boardman, sei a Ugrumov, otto a Chiappucci, nove a Zülle. Bugno arriva a
10’37”, sconquassato benché sempre illeggibile in volto, penultimo fra i
favoriti davanti al solo peso piuma Pantani. Stringe il cuore il computo dei
minuti che giorno dopo giorno gli piombano addosso nelle tappe di montagna. Al
mattino del 17 luglio 1994, a Castres, la classifica recita Indurain primo con
7’56” di vantaggio su Virenque, secondo. Vale la pena di continuare?
Bugno non
si presenta ai nastri di partenza e torna in Italia. Pantani invece continua,
insiste, scatta e a fine Tour arriva sul podio, terzo dietro Ugrumov, a 7’19”
da Indurain che ha tirato i remi in barca.
Bugno non vincerà null’altro di significativo fino all’anno
dopo, complice una squalifica per doping dovuta a un caffè con Coca Cola preso
al bar prima della Coppa Agostoni. A una settimana dall’inizio del Tour del
1995 si corrono a Pescara i campionati italiani di ciclismo. Bugno va in fuga,
resiste alla pioggia, vince su Andrea Tafi la volata del gruppo ristretto e si
guarda bene dall’alzare le braccia. È il ritorno dell’eroe? A ben guardare, ha
di nuovo saltato il Giro privilegiando una lunga pausa meditativa. Nel ’92
l’aveva fatto per cercare di scalzare Indurain e Chiappucci dai rispettivi
troni; nel ’95 lo fa perché spera di accaparrarsi la maglia anche per un solo
giorno, in maniera più o meno casuale, con una coltellata di gran classe nelle
prime tappe. Ha bisogno di passare anzitutto indenne il prologo di
Saint-Brieuc, che si corre in notturna. È una tappa atipica, tant’è vero che la
vince il mattacino Jacky Durand; Bugno, minacciato dalle tante cadute nella
notte bretone, preferisce affrontare le curve con prudenza e rimanda l’assalto
alle tappe successive; non è così che ha fatto anche al Giro dell’anno prima?
Ma niente, la sua corsa procede anonima mentre a Le Havre acciuffa la maglia
Ivan Gotti, bergamasco sino ad allora sconosciuto, che la serba un paio di
giorni.
Niente, non è destino; tanto più che il 9 luglio c’è la
crono di Seraing; tanto più che l’8 luglio, mentre tutti stanno cercando di
risparmiare energie, Indurain impazzisce e va in fuga in una tappa piatta. Fa
una cronometro da solo, con a rimorchio Johann Bruynell che gli succhia le
ruote, non dà un cambio e poi si prende tappa e maglia gialla (tanto, il giorno
dopo, Indurain sa di vincere la crono, tappa e maglia come sempre). È il più
gran numero mai fatto sulle strade dei Tour postmoderni. “Dite che vinco solo a
cronometro, dite che in montagna amministro stancamente?”, sembra chiedere
Indurain mentre taglia l’aria a velocità missilistica: “Allora vi faccio vedere
che mi basta una tappa a casaccio per mettere un minuto fra me e gli altri, per
pura forza di watt sui pedali”. Bugno affonda. Mentre perfino il vecchio
Chiappucci s’affaccia in classifica (decimo a un quarto d’ora a metà Tour), il
campione d’Italia sparisce dai radar. A Parigi è cinquantatreesimo a 1h58’47”
di distanza da Indurain, primo e ultimo a vincere cinque Tour di fila. Meglio
di Bugno fa Gotti, quinto, meglio di Bugno Chiappucci, undicesimo; ma meglio
fanno anche corridori come Lanfranchi,
Cenghialta, Podenzana, Pelliccioli, il danese Bo Hamburger e l’ucraino Vladimir
Poulnikov, la meteora statunitense Lance Armstrong e il redivivo polacco Zenon
Jaskula, tutti rispettabilissimi pedalatori ma non baciati da un alluce del
talento che la bici aveva riservato a Bugno.
Ultimo forse a essere nato passista, scalatore, cronoman e
velocista tutt’insieme, Gianni Bugno decide di non partecipare più al Tour. Il
giallo avrebbe donato alla manifesta superiorità della sua classe ma è meglio
lasciar perdere; finché ci sarà Indurain non c’è speranza e andare in giro per
la Francia a fare il treno merci non è confacente. L’estate dopo, spogliato
anche del tricolore, Bugno segue la corsa dal divano di casa. Alla prima tappa
di montagna Rai Tre gli telefona in cronaca e lui a mezza bocca sembra quasi
rimproverarli: “Non avete visto che a Indurain in cinque anni non è mai venuto
un raffreddore?”. Tradotto, cosa state lì a fare la telecronaca? Cosa stavo io
lì a corrergli dietro? Detto, fatto. Sulla salita di Les Arcs, a tre chilometri
dall’arrivo, la telecamera inquadra Indurain da solo. Ecco, dicono i cronisti,
ecco che è partito, s’invola verso il sesto Tour anche senza la cronometro
pedemontana di prammatica. L’inquadratura successiva mostra però i culi di vari
ciclisti davanti a lui. All’arrivo Indurain prenderà quattro minuti di ritardo,
non vincerà mai più un Tour, e Bugno sul divano penserà che proprio non era
destino.
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