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Quando vado a Milano e faccio quattro passi da Corso Venezia
a Via della Spiga, penso che probabilmente il torracchione che cinquant’anni fa
Bianciardi voleva far saltare in aria oggi siano i sacrali negozi del
superfluo. Passo magari davanti alla vetrina di un bar vegano dove il caffè
costa tre euri perché fatto con la cicoria e penso all’esplosione che
consentirebbe di giocare a shangai con gli ossicini di tutte le signorine di
magrezza penitenziale lì dentro, talmente ricche da poter permettersi di
mangiare poco e niente mentre io ho sempre fame. Poi passo magari davanti a un
negozio che vende oggetti di design per arredare le stanze inutili della
propria casa, per quanto io non ne abbia una, e penso a quali e quante
montagnole di cenere diverrebbero le statuette decorative in gusto concettual-rococò
investite da una fiammata come si deve. E quale destino pensate che toccherebbe
ai ristoranti fusion metà tailandesi e metà brasiliani? Avete presente quanti
attentati si potrebbero agevolmente allestire toccando due o tre cosette nei caschi
dei parrucchieri megafashion aperti a mezzanotte, con l’aria sospesa a metà fra
la reggia di Versailles e il magazzino della lista nozze?
Anziché fermarmi a eseguire continuo a camminare a vuoto
fino a che mi si forma in mente l’idea che Bianciardi va bene che era anarchico
ma era anche pragmatico. L’esplosione di Milano, il debellamento delle sue aree
più luccicanti e frivole, sarebbe un vantaggio per i poveri? Alla fine, se uno
non ha soldi, cosa gliene torna quando vede bruciare l’arredamento ligneo di un
negozio di guanti britannici decorato con marmotte impagliate? Un bel niente, a
parte una transeunte soddisfazione estetica, per due motivi. Primo perché la
ricchezza non è un gioco a somma zero, e rispetto a cinquant’anni fa siamo
usciti dall’illusoria convinzione che un impoverimento dei ricchi implichi un
arricchimento dei poveri; l’impoverimento dei ricchi causa solo e soltanto
l’arricchimento di altri ricchi nonché l’impoverimento di quei poveri ai quali cessano
di arrivare le briciole in bilico sull’orlo della tovaglia. Secondo perché,
rispetto a cinquant’anni fa, i soldi veri sono altrove e i lustrini dell’alta
borghesia milanese adesso non sono che la testimonianza di una classe in
decadenza precipitosa e inarrestabile; così quando passo davanti a un negozio
di accessori per cani il cui pezzo minimo è una pallina da dentatura che costa
cinquanta euri, il primo istinto è di aprire il fuoco ma il secondo
immediatissimo è di entrare a compatire le commesse e pure il padrone. Non
capirebbero ma basta il pensiero.
Io poi nemmeno sono anarchico ma tutt’al più un moderato un
po’ pavido e senz’altro pigro, ragion per cui se proprio devo mi limiterei a
radere al suolo i negozi, librerie comprese, sorti nel ventre di chiese
sconsacrate, al precipuo scopo di cacciare i mercanti dal tempio e ripristinare
una benefica attività gratuita lì dove il terreno devozionale è stato eroso dal
capillare mercimonio. Per esempio io mai approfitterei delle tenebre di Abercombie
& Fitch per acquattarmi negli angoli che restano del tutto trascurati dalla
luce ora bluastra ora sanguinolenta e piazzare un ordigno che non solo
distrugga i capi d’abbigliamento e le clienti ma anche riesca a spettinare i
commessi e perfino a svegliare gli accompagnatori delle dame in fregola d’acquisto
accoccolati sulle portone d’attesa, a gruppetti di quattro estranei sospirosi per
ciascun recesso. Costerebbe troppa fatica; poi l’odierno torracchione certo non
è questo pacchiano palazzo d’angolo coi bodyguard all’ingresso e nemmeno lo è
tutto il vetro che sorge a Porta Nuova attorno all’appuntito vertice dell’Unicredit,
che sembra quasi una siringa fatta al cielo. Che facciamo, distruggiamo le cose
nuove che sono costate tanto denaro e fatica e hanno quanto meno arricchito le
maestranze? Buttiamo giù quel po’ di panorama che se non altro, quando il sole
ci brilla sopra come oggi, mette un po’ di allegria a chi sta andando al lavoro
anziché perdendo tempo come me? Inoltre, grazie all’attività cerebrale indotta
dal moto perpetuo delle gambe, sono diventato abbastanza acuto da rendermi
conto che cinquant’anni fa la principale soddisfazione nel fare scoppiare una
banca sarebbe stata riposta nel veder volare denaro che planando si sarebbe liberamente
redistribuito fra bisognosi, lazzaroni e immeritevoli, rendendo l’idea di una
specie di perequazione. Oggi le banche non hanno più soldi e quei pochi che
hanno sono dematerializzati; quando ci passo davanti mi viene piuttosto voglia
di scavare con la chiave dell’auto una fessura sul muro in cui infilare, a mo’
di salvadanaio, due euro d’elemosina col cipiglio tosco di Dante inciso sul
solido nichel. Non lo faccio perché, non avendo l’auto, nemmanco ho la chiave.
Dev’essere molto difficile essere Bianciardi oggi a Milano.
È una città talmente decaduta, talmente miserella in confronto alle roccaforti
del capitalismo protestante, talmente caduca dinanzi all’avanzata dei veri
ricchi asiatici con manie d’annessione, da sembrare quasi implorante nel
chiedere misericordia. Come si fa a far esplodere una città implosa? I palazzi
che cinquant’anni fa sembravano l’avanguardia implacabile di un cancro che
divorava la parte schietta e popolare della città adesso sono tutt’al più
pittoreschi e arrugginiti, caratteristici magari mentre negli interstizi fra un
cemento armato e l’altro si vede comparire il lucore della Madonnina. O
Madonnina, Madonnina sommersa da torri di Babele più alte di te, ieri sembravi
una mano che spuntava fra i marosi in cerca di soccorso e oggi – oggi che i
nostri occhi hanno visto il vero male a Londra, a Cupertino, a Pechino, a Dubai
– sembri solo ricordarci che ciò nonostante sei ancora lì, un po’ beffarda e un
po’ protettiva.
Non c’è nulla da far esplodere a Milano. È troppo tardi
perché questa città che cinquant’anni fa sembrava un nemico da combattere e
piegare adesso è provincia di un mondo troppo vasto, che guarda altrove e se ne
fregherebbe delle deflagrazioni più spettacolari, facessi anche saltare in aria
tutti gli esercizi che con la scusa di rendere un favore a cittadini troppo
impegnati restano aperti anche la domenica e così, per accumulare un settimo di
soldi in più, sfasciano le famiglie di chi ci lavora e non ha mai tempo di
stare a casa. Per quanto giri e rigiri alla ricerca di un obiettivo sensibile
devo prendere atto che il torracchione se n’è andato da Milano. Senza
accorgermene sbuco sotto la Torre Velasca e noto che proprio nel punto a mezzo
cielo, vicino ai puntoni che fra ventiduesimo e ventitreesimo piano dilatano l’edificio
in cubo, c’è una nuvoletta grande quanto una bomba a mano; il resto è tutto
azzurro limpido.