sabato 25 maggio 2013

Oggi è il duecentocinquantaduesimo anniversario della posa della prima pietra dell'unica chiesa francese (e cattolica) fatta costruire da Voltaire. Aspettatevi qualcosa a breve.

martedì 21 maggio 2013

Contrario al lavoro femminile, alla fecondazione assistita e all'educazione sessuale, muovendosi disinvolto sul crinale della distinzione fra "femmes comme il faut" e "femmes comme il en faut", lo zio Gustavo patrocina le pari opportunità ma solo per la donna brutta, che "non appartiene al sesso femminile che di nome, perciò bisognerebbe accordarle la piena parità con gli uomini, non escluso il servizio militare obbligatorio".

In prima pagina sul Foglio di oggi do un consiglio spassionato a Silvio Berlusconi, inteso come editore. Ora anche gratis sul sito.

lunedì 20 maggio 2013

Finalmente domenica!
Ultima giornata, 19 maggio 2013


Alla fine l’ultima giornata di campionato era importante quando facevo le elementari, le medie o il liceo, ossia quando era un trampolino verso un’estate pressoché immediata e segnava non tanto il momento dello stacco (seguivano, all’epoca, le ultime interrogazioni o gli esami) quanto la dimostrazione pratica delle promesse del futuro: le ultime partite venivano giocate con un’aura da ultimo giorno di scuola, talune con disimpegno talaltre con il la disperazione di chi non s’è impegnato prima, sotto il sole rilassato delle sedici e trenta; fra sussulti e sbadigli si iniziava a progettare la stagione che veniva, coi primi nuovi acquisti, le qualificazioni alle coppe europee, le promozioni, le retrocessioni, di modo tale che al futuro incasellamento delle squadre corrispondesse un rinnovato incasellamento della vita propria, un altro morso alla febbre di crescita che io e i miei coetanei pensavamo ci avrebbe portati chissà dove.

Ci ha portati qui, eccoci. Ora il campionato finisce ma noi no, la vita e i pensieri continuano uniformi fino ad agosto e anche quando siamo in vacanza non smettiamo di pensarci se non per finta, di tanto in tanto, sapendo che settembre è sempre dietro l’angolo e che fra un bel po’, ma non si sa quanto esattamente, ogni settembre potrebbe rivelarsi l’ultimo. Per questo inizio a confondere le stagioni una con l’altra, non ricordo quanti scudetti di fila abbia vinto la Juventus o chi si fosse qualificato per l’Europa League due anni fa (a bruciapelo non se lo ricorda nessuno, temo, nemmeno l’estensore dell’Almanacco Panini) e questo vale anche per i Giri d’Italia, i playoff di basket, gli Internazionali di racchettoni a Roma: un tempo ogni maggio segnava un salto mentre adesso qualsiasi maggio niente segna se non la prosecuzione della ruota. Per me da qualche anno segna tutt’al più l’inizio della stagione delle migrazioni, visto che inizia la tournée per conferenze e sfogliando l’agendina scopro con orrore che nel giro di in fin dei conti pochi giorni oltre che in Lombardia devo essere in Toscana, in Inghilterra e in Francia senza per questo essere dotato del dono dell’ubiquità come San Francesco.

O era Sant’Antonio? Mi è venuto il dubbio ieri sera, guardando La lingua del Santo di Carlo Mazzacurati, sin dai titoli di testa in cui i nomi degli attori scorrevano su “Guantanamera” in sottofondo. Ecco, ora la distinzione del maggio è che di qui in poi la sera, quando non ho niente da fare, dopo cena faccio due passi per il centro di Pavia con la scusa che devo tenere d’occhio la pressione (con la minima che avevo a Oxford potevano usarmi per gonfiare le ruote delle biciclette) e poi torno a casa e mi stravacco sul divano a vedere un film perché di primavera ho bisogno di dormire meno ore che d’inverno; ma questa è una distinzione di massima visto che, facendo una cura per potenziare le difese immunitarie da ottobre ad aprile, da un paio d’anni inevitabilmente mi raffreddo con ammirevole regolarità a settembre e a maggio così che riuscire a compiere la passeggiata serotina durante la mezza stagione diventa già grasso che cola.

“Guantanamera” ritorna anche alla fine del film, montata stavolta su immagini di repertorio che mostrano la traslazione anzi la restituzione della reliquia del Santo alla Basilica dopo il furto anzi il rapimento operato nel 1991, che riguardò in realtà il mento e non la lingua, e su questa musica essendosi fatta mezzanotte mi sono svestito preparandomi ad andare a letto. Ho dato un’occhiata alla fascetta riassuntiva del romanzo che avrei letto l’indomani, ho sfogliato le pagine inutili del Guerin Sportivo (quelle cioè che parlano del calcio italiano odierno, in particolare le interviste ai calciatori, che sono simili ai tornei di calcio fra intellettuali) poi, mentre recitavo compieta, da un’altra camera del collegio ho sentito distintamente arrivare le sillabe scandite di un’altra versione di “Guantanamera” che rispondeva alla mia e allora, clic, ho spento la luce.

["Finalmente domenica!" finisce qua. L'ultima puntata, completa della metà di Francesco Savio, si può leggere come sempre su Quasi Rete.]

domenica 19 maggio 2013

Va bene, il Sassuolo è in serie A e ogni giornale si sente libero di raccontarne la favola, ma la storia? Ad esempio Gianni Mura su Repubblica di oggi dice qualche comprensibile sproposito; su Quasi Rete io cerco di fare un po' di ordine grazie alle fonti locali. Sassuolo nel pallone, una storia di pedate, ceramica e profezie marxiste-leniniste.

lunedì 13 maggio 2013


Finalmente domenica!
Trentasettesima giornata, 12 maggio 2013

Stamattina, trovandomi ospite in casa di amici, in bagno ho visto una bilancia e non ho resistito: trattandosi di una di quelle bilance moderne, accattivanti, digitali, che con la loro stessa sottigliezza sembrano promettere il dimagrimento dell’utente, appena uscito dalla doccia mi sono avvicinato e saltatoci sopra ho atteso che le cifre sul display si stabilizzassero. Dopo di che mi sono stupito, mi sono rivestito condecentemente e ho pensato quanto segue.

Il peso del corpo è un guaio che ci portiamo addosso dalla nascita – non per niente di un neonato la prima cosa che si chiede è quanto pesi, la seconda è se respiri ancora – perché in maniera più o meno newtoniana dà la misura del nostro inevitabile ancoramento al terreno. Anche quando ci sentiamo presuntuosi e riteniamo che sopra di noi non ci sia nessuno (perché abbiamo avuto la promozione, l’aumento, la macchina nuova o l’amante di zecca) il solo fatto di avere un corpo ci limita entro confini angusti che possiamo voler violare quanto ci pare ma sempre lì sono, insormontabili. Anche se fossimo dittatori del mondo, basterebbe un’unghia incarnita a precipitarci nell’abisso. Il corpo è un ammasso di peccati e malattie, di peli, nei, verruche, ferite, muscoli indolenziti, sporcizia dentro e fuori che solo il Cattolicesimo può benedire. Da piccoli siamo prigionieri del corpo in cui vogliamo crescere e cerchiamo di superarne i confini; da adolescenti siamo prigionieri del corpo che crescendo si deturpa e non ci piace perché non piace agli altri; da giovinotti siamo prigionieri del corpo che ci impedisce di mangiare, bere, ballare e scopare a oltranza, perché a un certo punto non ce la fa più e dice basta; da adulti siamo prigionieri del terrore che i capelli inizino a cadere, che la pancia si dilati, che i fianchi si allarghino, che le rughe spuntino, e di non essere più in grado di compiere con estremo sforzo ciò che a diciassette anni facevamo senza accorgercene; da vecchi, nel migliore dei casi, siamo il sostegno delle nostre vene varicose; da malati non ne parliamo; perfino da morti ci sarà la risurrezione della carne, anche se per fortuna il Vangelo ci assicura che non si prenderà né moglie né marito ma saremo come angeli nel cielo.

Diceva Proust che siamo condannati a trascorrere tutta la vita incatenati a un estraneo, che è appunto il corpo; o forse lo diceva Pascal; o forse non lo diceva nessuno dei due ma è come se l’avessero detto, perché basta citarli per ottenere assensi da tutti quelli che non li hanno letti ma sono convinti che avrebbero dovuto farlo. Di sicuro (non lo dice Proust né Pascal ma lo dico io) siamo tutti condannati a fare la cacca, e di conseguenza siamo condannati a nutrirci, e di conseguenza a lavorare, e di conseguenza a ricoprire un ruolo sociale con tutte le conseguenti implicazioni, forzature e delusioni. Quando guardiamo il Giro d’Italia ci entusiasmiamo per i grandi scalatori perché sfidano la forza di gravità salendo repentini verso l’alto lì dove tutti gli altri rotolerebbero verso il basso; e ci entusiasmiamo per i cronometristi perché filano veloci fendendo l’aria che respingerebbe chiunque avesse un filo di grasso e non indossasse il casco aerodinamico.

Io non so andare in bicicletta quindi non oso né fendere l’aria né scalare montagne. L’anno scorso di questi tempi tuttavia mi ero trovato pesante oltre il limite della decenza, 84 chili di pane perduto, e avevo deciso di abbatterne qualcuno eliminando le porzioni più assassine dalla dieta e soprattutto montando a giorni alterni su uno strumento che chiamerei cyclette per ignoranza di termini ulteriori ma che era uno strumento a pedali senza ruote moderno, accattivante e digitale che con la sua stessa snellezza sembrava promettere il dimagrimento della vittima. Regolavo percorsi che simulavano salite, discese e mezza costa e intanto che pedalavo, quando i quadricipiti dolevano e il cuore m’implorava, pensavo: questa pedalata è perché salendo due piani di scale mi viene l’affanno; questa perché a letto sono costretto a inventarmi sorprendenti diversivi per dissimulare il fiatone; questa perché il completo elegante non mi contiene più l’ombelico; questa perché dieci anni fa pesavo 62 chili; questa perché dopo morti non ci metteremo più a dieta ma saremo come angeli nel cielo. Quelli scalavano il Mortirolo e io pedalavo nella palestra immobile, sentendomi ridicolo perché in cravatta faccio miglior figura che in pantaloncini; sudando e bestemmiando perché perdevo tempo avevo tirato avanti per un paio di mesi e a luglio, pesatomi, ecco che constavo di 77 chili.

Io ambisco a essere un paio di occhi alati ma, calcolato il rapporto fra il sudore che avevo emesso e i grammi di cui mi ero disfatto, avevo deciso che sette chili in due mesi bastassero ed ero andato al mare a stare sdraiato per tre settimane. Poi sono stato seduto a scrivere e a leggere per nove mesi. Poi ho mangiato come un porco. Poi non ho avuto tempo per tornare in palestra. Poi hanno aperto nuovi ristoranti, nuove enoteche, nuove gelaterie. Poi, incomprensibilmente, sono tornato ad avere l’affanno quando salivo due piani di scale. Eppure, mi sono detto nel bagno dei miei amici, questa bilancia che è sotto di me mi assicura con asettica oggettività che, nonostante la mia impressione di essere enorme e inchiavardato al suolo e condannato a portare a spasso me stesso quando mi lascerei volentieri a casa, nonostante tutto questo peso esattamente quanto pesavo a luglio dello scorso anno dopo tanta fatica e tanto sudore, dopo l’impegno ossessionante di accanirmi su quelle parti del mio corpo che potevano essere disciolte. Anzi, meno: 76 chili e 600 grammi, nudo come un verme dopo la doccia; lo dice la bilancia digitale, sottile e accattivante.

Allora l’esercizio fisico è una mitologia illusoria, il peso del corpo è una variabile indipendente dalla nostra volontà esattamente come la morte o il funzionamento dello smartphone. Tutto contento della mia scoperta ne ragguaglio i miei ospiti raggiungendoli dabbasso. “Ah, la bilancia?”, reagiscono: “Guarda che è starata, bisogna aggiungere una decina di chili”. Oggi i ciclisti attraversano l’Italia mentre io guardo la cyclette e non ho il coraggio, non ho la forza.

[L'altra metà della rubrica, in cui Francesco Savio tratta l'acquisto di una barca con una bambina di nove anni, si trova come ogni lunedì su Quasi Rete.]

domenica 12 maggio 2013

"Partiamo?"
"Partiamo pure."

Aldo Palazzeschi (e io) al Giro d'Italia, ma quello del 1909. In onore dell'odierna tappa di Firenze, sul sito web del nuovissimo magazine "Cycle!".

mercoledì 8 maggio 2013

Sorprende che le recensioni ad Adriano VII di Frederick Rolfe non si siano scatenate nel trovare punti di contatto più o meno profetici con l'anno in corso: il conclave incerto, e poi una personalità sorprendente a capo della Chiesa, un Papa nemico della formalità che ama passeggiare fra la gente, una stampa che si pasce degli scandali di San Pietro, la scelta radicale di vendere i beni ecclesiastici e così via. Se ciò non è avvenuto è forse perché l'immaginario pontefice di Rolfe tocca le corde del cattolicesimo meno coerenti con l'immaginario collettivo sulla figura del Papa.


Sul Foglio in edicola oggi spiego il cattolicesimo atipico di Adriano VII, Papa scorbutico e immaginario che segue Cristo a furia di sigarette e sganassoni.

martedì 7 maggio 2013

Finalmente domenica!
Trentacinquesima giornata, 5 maggio 2013


Sarà che sto invecchiando ma non riesco più a fingere: quando mi invitano a presentazioni letterarie con formula tradizionale o innovativa, e soprattutto quando nessuno mi invita esplicitamente ma è mio implicito dovere presenziare per documentarmi o per salutare autori che un po’ conosco un po’ no, inizio a dare chiari segni di impazienza prima ancora dei saluti del presentatore del presentatore e sovente me ne vado prima che sia stata detta la prima cosa intelligente della serata, o della giornata intera. Molte volte me ne vado consapevole che se anche avessi aspettato per ore e ore, restando inchiavardato sulla mia sedia dopo che tutti hanno abbandonato il campo, comunque al momento di alzarmi e andarmene sarei ancora stato in vana attesa di sentir dire la prima cosa intelligente. Io non so perché a Pavia i presentatori, che pure fuori da tale temporanea incombenza sono persone normali (magari con un lavoro vero e una famiglia e una capacità di interagire sanamente con chi li circonda stabilmente od occasionalmente), quando devono presentare un autore iniziano a cantilenare. Più ritengono importante dare importanza all’autore che presentano, più la cantilena si fa marcata. Meno importante è l’autore che presentano, più ritengono importante dargli importanza e in caso di autore letterariamente insostenibile il cui incensamento è però necessario a fare bella figura – per una causa nobile che ha abbracciato, per una moda, perché è la moglie del cugino dell’azionista di maggioranza della libreria ospite – la cantilena diventa insopportabile, oltre i confini della salmodia.

Ieri mattina a mezza strada fra l’edicola e camera mia mi sono ricordato dell’appostamento di una due giorni di presentazioni letterarie, o meglio di un ciclo compresso in cui giovani lettrici presentavano giovani autori dal mattino alla sera. Mi sono ricordato che dovevo andarci per forza perché conoscevo alcune delle lettrici ed ero stato in contatto con alcuni degli autori ma niente: sono arrivato verso la fine del primo evento in calendario, mi sono seduto (era un bar) a un tavolino seminascosto da un arbusto artificiale, ho sfogliato la Gazzetta dello Sport perché va bene la letteratura ma il Giro d’Italia è più importante, sono stato fotografato in posa indolente da un tizio che trovava curioso il contrasto fra il quotidiano rosa e i libri (D.H. Lawrence, Joseph Roth e George Mikes) che avevo posato sul tavolino, poi me ne sono andato prima che iniziasse l’evento secondo ripromettendomi di rifarmi vivo per quello pomeridiano che iniziava alle tre. Dopo pranzo sono arrivato con un paio di amici, abbiamo preso il caffè, abbiamo chiacchierato con un paio di presentatrici e alle tre meno dieci, quando un organizzatore ha annunciato l’imminente arrivo del terzo scrittore della giornata, me ne sono andato ritenendo di avere visto più che abbastanza.

Nello specifico mi stuzzicava la formula con giovani lettrici (per giovani si intende anche della mia età, quindi donne compiute) che presentavano giovani lettori (per giovani si intende della mia età e più, ma che forse vivono ancora coi genitori): mi sembrava un’improvvida ammissione, forse involontaria, del ruolo ancillare della donna nella letteratura. Niente di tutto ciò: era una rivendicazione del ruolo dominante della donna nell’editoria, a furia di gonnelline svolazzanti e ciglia sbattute. Scusate, ho interrotto la stesura per schiacciare una coccinella sotto la suola destra. Cosa stavo dicendo? Ah, che io posso sbattere le ciglia quanto voglio ma fatalmente non sortirò lo stesso effetto. Ergo, la mia avversione deriva altresì da roboante invidia dovuta all’inghippo che alla mia età ci sia gente più famosa di me, che viene invitata a dire chiacchiere sull’importanza della propria mamma mentre io sono seduto ai tavolini a sfogliare la Gazzetta, che viene pubblicata da Feltrinelli mentre io metto in subbuglio gli scaffali delle librerie dell’usato per scovare George Mikes. Il quale, lo dico a beneficio delle giovani lettrici esperte di editoria italo-milanese, essendo ungherese non si legge Màics ma Michèsc; me l’ha insegnato un vecchio lettore anglofilo e bassaiolo, lo zio Athos Andrea Maietti.

Se non che mentre la cantilena della presentazione andava avanti e s’insinuava nella mia testa così che nemmeno la visione integrale della cronaca della prima tappa del giro a opera di Pancani & Cassani fosse sufficiente a scacciarla, è arrivata l’immancabile scolaresca e il giovane scrittore, come l’antropologo fra i cannibali, ha cercato di instaurare una comunicazione con questi giovani più giovani di lui chiedendo loro quali videogiochi prediligessero. Al che ci sono stati l’immancabile elogio ai videogiochi che hanno una struttura davvero romanzesca e l’immancabile intervento ecumenico sull’utilità e il beneficio della lettura.

Ho quindi capito che la mia insofferenza di fronte alle presentazioni non si origina dai complimenti reciproci, né dalla cantilena, né dall’invidia, tutte cause di per sé ragionevolissime; bensì da una causa prima che consiste nel paralogismo secondo il quale la lettura sia di per sé nobilitante. Non è vero. Alcune letture fanno bene e altre sono dannose, mentre la gran parte è indifferente. Gli alti lai sul femminicidio o sulle pari opportunità, per dirla con Jerome K. Jerome, non eleverebbero una vacca. Idee che dette ad alta voce suonano stupide non diventano meno stupide messe per iscritto, e vale ancor di più per i ragionamenti fallaci, i sillogismi zoppi e le conclusioni tratte erroneamente da pregiudizi: stamattina per trovarne conferma ho letto accuratamente la pagina dei commenti dei principali quotidiani e con grande generosità Vito Mancuso e Michela Marzano, tanto per dirne un paio, sono prontamente intervenuti in mio soccorso temendo che Concita De Gregorio da sola non ce la facesse. La cultura consiste soprattutto nel capire al volo cosa non leggere e, se inavvertitamente lo si legge, a cosa non credere. Il paralogismo invece è il fondamento di una delle rovine della società, dovuta all’evenienza che le donne siano molto più determinate degli uomini nel voler fare carriera e abbiano una soglia del dolore molto più elevata quando si tratta di star seduti a leggere senza accettare distrazioni: la convinzione che basti studiare tanto per essere intelligenti.

[Come sempre l'altra metà della rubrica l'ha scritta Francesco Savio e si trova su Quasi Rete.]