lunedì 30 giugno 2014

Ieri ho esordito come predicatore su La Provincia Pavese, commentando il Vangelo del giorno. Riporto qui di seguito l'intero articolo, compresa la parte che è stata tagliata. I più attenti di voi non mancheranno di notare che il brano in corsivo non è mio bensì di San Matteo.

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». (Mt 16, 13-19)


Non tutte le domande suonano chiare come quelle di Gesù; non tutti i punti interrogativi ci pongono così serratamente di fronte alla nostra coscienza senza via di fuga. Forse abbiamo sbagliato l’interpretazione della domanda che Papa Francesco aveva posto quasi un anno fa sull’aereo che lo riportava da Rio de Janeiro a Roma. Verso la fine dell’intervista collettiva Ilze Scamparini, giornalista brasiliana, gli aveva chiesto un parere sulla presunta “lobby gay” del Vaticano e il Papa aveva risposto con una lunga argomentazione che culminava in un’altra domanda: “Se una persona cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”.
Per forza di cose i giornali devono abbreviare i fatti, dunque l’hanno trasposta nei loro titoloni con questa formula sintetica dall’aria un po’ scettica se non qualunquista: “Chi sono io per giudicare?”. Così abbiamo trascurato due aspetti fondamentali. Il primo è che il Papa si riferiva a qualsiasi peccato, anche non sessuale, ricordando che se una persona si sforza la Chiesa ha il dovere di perdonare, e che si ottiene il diritto al perdono solamente col pentimento e con lo sforzo. Se Gesù ha detto: “Neanche io ti condanno; va’ e non peccare più” (Giovanni 8, 11), il Papa che è il suo vicario a maggior ragione deve chiedersi: Gesù non ti condanna, chi sono io per giudicare?
Il secondo aspetto è una diretta conseguenza del Vangelo di oggi. La domanda di Francesco affonda le radici in quella di Gesù. Tutte le domande che vorticano intorno alla nostra vita e alla nostra coscienza possono essere ridotte a ciò che Gesù chiede ai discepoli: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Se rispondiamo come Pietro, se siamo convinti che Gesù è “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, cambia il senso di tutto ciò che pensiamo e di tutto ciò che facciamo: chi sono io per giudicare te di fronte a Cristo? Se invece alla domanda di Gesù rispondiamo balbettando o perdendoci in mille distinguo o lasciandoci travolgere dalla presunzione che il nostro io sia più importante di Dio, allora il nostro giudizio nei confronti della vita nostra o altrui sarà mutevole e vacuo, sarà un sacchetto vuoto che il vento porta dove capita.
Francesco è Papa perché alla domanda di Gesù ha risposto come Pietro. Quando la vocazione lo ha avvolto, da giovane a Buenos Aires, è stato pronto e fermo nella risposta; in conclave è tornato a rispondere alla domanda di Gesù e la sua fermezza, la sua convinzione, è diventata la nuova pietra sulla quale continuare a edificare la Chiesa. Non conta la dimensione della pietra né la sua forma né la sua consistenza: l’importante è che sia pietra. Tutte le disquisizioni sulla lana caprina, tutte le comparazioni fra un pontefice e l’altro, mi sembrano un po’ frivole e a tratti offensive perché dimenticano che alla radice di tutta la storia della Chiesa c’è questo momento eterno che si ripete nei millenni: Gesù che chiede chi crediamo che lui sia e un Pietro che risponde con fermezza e merita le chiavi del regno dei cieli.


domenica 29 giugno 2014

Maracanazo
da Brescia, Colombia-Uruguay

Gianni Clerici scrive mirabilmente di tennis su Repubblica dopo un lontano passato da tennista, non luminosissimo ma nemmeno oscuro. Partecipò anche a Wimbledon, se non erro, anzi se non erra Francesco Savio il quale facendo colazione alla pasticceria Piccinelli (dal 1862) mi ricorda un articolo in cui Clerici rimembrava il proprio passato agonistico: nel corridoio che conduceva al campo vedeva appesi i ritratti dei grandi campioni di un passato ancora più remoto e così, prima ancora di mettere piede sull'erba, capiva di avere già perso. Così noi due ieri alla Feltrinelli di Brescia: ci conducono nella saletta allestita per le presentazioni e al muro vediamo appesi i ritratti di Amélie Nothomb, Anna Magnani, Concita De Gregorio. Sarò sincero, io appena vedo la foto di Concita De Gregorio capisco di avere già perso perché non sarò mai in grado di esprimere un concetto profondo al pari della frase che il pannello eterna assieme alla sua effigie: "Bisogna distinguere il bene dal male, non il bianco dal nero". Infatti, prova del nove, a seguire i Mondiali in Brasile hanno mandato Concita De Gregorio e non me, che finisco a seguirli da Brescia: prima dalla pizzeria Il Serbatoio, osservando in lontananza la traversa potenzialmente fatale di Pinilla in Brasile-Cile e rinunziando ai susseguenti rigori per portare il piccolo Pietro a prendere un gelato, cosa saranno mai i rigori, vuoi mettere col gelato di Bedont? E poi da un pub non lontano da piazzale Arnaldo ma nemmeno tanto vicino, se uno ha la sciatica e si trova in una città dov'è così difficile parcheggiare, il cui avventore più pittoresco, con forte accento del luogo, pone imprescindibili indovinelli geografici: "Addò 'stà Sando Domingo in Golombia?".  C'è una cosetta minima che lega costui al piccolo Pietro: non tanto il fatto di appartenere allo stesso genere animale, ciò che dubito, bensì un'inesausta tendenza a porsi domande. Il piccolo Pietro - che in pizzeria ha vinto il campionato nazionale di mangiamento di grissini per la categoria under metro - ha due anni ed è già entrato nell'età dei perché, che però per intrinseco pirronismo già declina in tono scettico: la sua è piuttosto l'età dei "come mai?". Provo dunque ad applicare il metodo petrino a partire dal mattino dopo. Noto l'insegna della pasticceria Piccinelli (dal 1862) e mi chiedo: come mai dal 1862? Magari questi Piccinelli prima erano alti funzionari dell'Austro-Ungarico, hanno perso, sono stati estromessi dagli uffici con l'Unità d'Italia e tempo un anno hanno dovuto reinventarsi pasticceri non sapendo che così stavano facendo la propria fortuna e in piccola parte pure la mia (i cornetti sono molto buoni, solo per etichetta mi trattengo dal mangiarne nove). Perdono i Piccinelli contro i patrioti, perdo io contro Concita, perde l'avventore pittoresco contro gli abissi della geografia e perde pure l'Uruguay contro la Colombia; a nulla valgono improperi, suppliche, preghiere, bestemmie, considerazioni sul fatto che non ha senso far giocare Forlan che ha trentacinque anni se io a trentatré ho già la sciatica, l'urlo "Metti Suarez" rivolto a Oscar Washington Tabarez che per novanta minuti guarda la partita immobile col sopracciglio sinistro inarcato a significare l'assurdità della squalifica che ha colpito il calciatore più forte del mondo, roba da chiedere la perizia psichiatrica per chi l'ha comminata. Forse per questo, al risveglio, Savio mi ha mostrato una vecchia maglia dell'Unione Sovietica, con sul petto la scritta CCCP che veniva spacciata per l'acronimo di Col Cazzo Che Perdiamo. Invece perde l'Uruguay, perde l'avventore, perdo io contro Concita ma penso ai Piccinelli e mi dico che forse, magari, sarà la fortuna di domani: l'Uruguay su queste basi getterà le fondamenta della vittoria ai mondiali di Russia, l'avventore quelle dell'acquisto di un atlante, io quelle dell'impegnarmi a scrivere con più coscienza e serietà che bisogna distinguere il bene dal male, non il bianco dal nero. Per ora, quanto meno, esordisco su La Provincia Pavese curando la colonna che commenta il Vangelo del giorno, in cui mi lancio in una raffinata esegesi dell'istituzione del Papato perché oggi è San Pietro ("Come mai?"). Finisce che prendo il treno sotto la pioggia e per un'ora e mezza mi aspetto di essere accolto alla stazione da una torma di parrocchiani infuriati che unanime brandisce contro di me il quotidiano al grido di: "Non abbiamo capito niente!".
Gurrado omiletico, Gurrado esegetico, Gurrado profetico, Gurrado predicatorio: oggi esordisco su La Provincia Pavese curando la colonna di commento al Vangelo della domenica.

Quello di oggi, come avrete forse notato, racconta l'istituzione del Papato (il famoso "Tu sei Pietro", eccetera). Io parlo di lobby gay, aeroplani, materiali edili, brasiliane, titoli dei quotidiani, balbuzie e sacchetti per la spesa.

Per una curiosa coincidenza, da domani La Provincia cambierà direttore.

venerdì 27 giugno 2014

Dite la verità, ieri non eravate alla presentazione di Ho visto Maradona alla Feltrinelli di Torino. Vi siete persi un Darwin Pastorin attentissimo ai dettagli, un Francesco Savio in grande spolvero e la dimostrazione del comunismo di Berlusconi, oltre che un certo quantitativo di vermut. Savio ha inoltre scritto il resoconto della giornata su Quasi Rete, il blog che parla d'altro.

Domani sabato 28 giugno replichiamo a Brescia: nuova presentazione di Ho visto Maradona e de Il fuorigioco sta antipatico ai bambini, con me e Francesco Savio, ore 18 alla Feltrinelli di corso Zanardelli, o di piazza Zanardelli, o di via Zanardelli - insomma, quante Feltrinelli volete che ci siano a Brescia? Ci sarà una sola Feltrinelli così come c'è un solo Zanardelli. Venite lì. Ciao.

giovedì 26 giugno 2014

Maracanazo
da Pavia, Nigeria-Argentina

"Credi in Dio?" "Diciamo che lo stimo molto". Purtroppo non è mia, come intuirete, bensì di Walter Fontana; ed è la battuta su cui si apriva già nel 1991 l'antologia di freddure e sarcasmi passata alla storia col titolo Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano. Trovo significativo che sia stata catalogata col numero 1 in una raccolta onnicomprensiva e ancor più significativo che una buona metà del pubblico ritenga che sia di Woody Allen. Walter Fontana ieri era a Pavia per presentare Splendido visto da qui, il nuovo romanzo (Giunti) che presenta un futuro distopico diviso in zone militarizzate non comunicanti denominate come il decennio che gli abitanti di ciascuna area sono condannati a vivere a ripetizione: Sessanta, Settanta, Ottanta, Novanta e Zero. (Anche l'Argentina è divisa in psicoaree a compartimenti stagni. Chi vive a Sessanta cova un odio residuale nei confronti dell'Inghilterra per via della perfetta esecuzione arbitrale con cui gli argentini furono estromessi dal mondiale inglese. A Settanta si ritiene che l'importante è far funzionare l'Argentina e che dunque Videla, come el flaco Menotti, fosse una medicina destinata a far star bene il Paese per quanto amara potesse sembrare. A Ottanta, campeggia Maradona invitto). Walter Fontana è un umorista raffinatissimo, forse uno dei più grandi italiani viventi, che lega la battuta fulminante al contesto di una riflessione anche profonda. Splendido visto da qui è un romanzo sulla nostalgia, anzi, è un romanzo sulla paura del futuro e quindi contro la nostalgia: il sentimento che porta gli uomini a preferire di rivivere il già vissuto per timore di essere travolti dal non ancora e me a riguardare ciclicamente i giornali di venti-venticinque anni fa alla ricerca di qualcosa di nuovo nel sempre più vecchio. (A Novanta l'Argentina inizia ad avere paura del futuro, si è aggrappata a ciò che restava di Maradona, ne è stata delusa e ha iniziato a vagolare alla vana ricerca di qualcosa di simile. A Zero l'Argentina trova un sosia di Maradona e se ne innamora al punto da ritenere che possa diventare superiore a lui; Messi, per tutta risposta, non vince un accidente con la nazionale e in più, all'approssimarsi del Mondiale, inizia a vomitare tutt'attorno come lo Scrondo di Matrioska). Una decina di anni fa in Inghilterra era uscito Divided Kingdom, romanzo il cui autore Rupert Thomson immaginava un futuro distopico diviso in quartieri secondo la prevalenza, negli abitanti, di uno dei quattro umori del corpo. Era stato salutato come novello Orwell, come autore che univa una lucida prefigurazione di ciò che sarà a una fine interpretazione del mondo attuale, come sagace fustigatore dei costumi presenti, passati e futuri. Se Walter Fontana si fosse chiamato Walter Fountain sarebbe stato salutato alla stessa maniera mentre, essendo italiano in Italia, ci si limiterà a dire che Splendido visto da qui è il romanzo brillante e leggero del celebre autore dei testi televisivi di Claudio Bisio, della Cortellesi e della Gialappa's Band anziché ammettere che, nonostante il nome, nonostante la cadenza lombarda, nonostante la vaga somiglianza all'ultimo Arrigo Sacchi quando sorride, Walter Fontana ha avuto e sviluppato un'idea da scrittore vero (tant'è vero che per andare alla sua presentazione non ho guardato la partita dell'Argentina).

mercoledì 25 giugno 2014

Anzitutto il mio più cordiale buongiorno a tutti coloro che mi avevano sfottuto quando, il 12 giugno, avevo indicato come favorita per la vittoria del Mondiale l'Uruguay, cito, "squadra zingaresca di cagnacci infingardi, nazione con la più alta proporzione di trofei vinti per chilometro quadro e di campioni per abitante".

Dopo di che ricordo a tutti gli amici sportivi e letterari che domani giovedì 26 giugno alle diciotto io e Francesco Savio presentiamo rispettivamente Ho visto Maradona e Il fuorigioco sta antipatico ai bambini a Torino, nella Feltrinelli di piazza CLN. Interviene, modera e furoreggia Darwin Pastorin.

martedì 24 giugno 2014

Maracanazo
da Pavia, Brasile-Camerun

Manco a dirlo la Rai non intuisce che ieri l'unica partita interessante da trasmettere su quattro, dicasi quattro, era Messico-Croazia e propina quindi ai propri abbonati - giova ricordarlo di tanto in tanto, la Rai si paga - l'ultima futile del Brasile. C'è la scusa che, tecnicamente, i verdeoro possono ancora essere eliminati al primo turno, raggiungendo così la Spagna nella pattumiera e facendo insindacabilmente la storia dei Mondiali: i padroni di casa e i campioni in carica eliminati d'acchito manco fossimo in Sudafrica. Sky invece esagera e a due partite dedica tre canali, anzi quattro: c'è anche il canale highlights che mostra reiteratamente tutte le azioni salienti delle partite che si stanno giocando in quel momento, aggiornandole in tempo reale man mano che se ne aggiungono di nuove salienti. L'effetto, per chi lo guarda a lungo, è lo stesso del povero Alex sottoposto al videoloop della superviolenza in Arancia Meccanica; solo che in sottofondo c'è Emis Killa anziché Beethoven, ma è colpa dello Zeitgeist. Gli altri tre canali sfoderano uno l'inevitabile Brasile-Camerun, un altro la decisiva Croazia-Messico e il terzo la diretta alternata delle due partite. Noialtri optiamo per quest'ultimo cercando di non confonderci e impelagandoci in calcoli amletici. Per esempio, a Brasilia il Camerun pareggia all'improvviso e noi giù di abaco per calcolare che, se il Brasile perde e le altre due pareggiano, passano il Messico con un punto in più e la Croazia per la differenza reti (cosa per capire la quale abbiamo dovuto ricorrere altresì ai regoli): l'arbitro Nishimura verrebbe neutralizzato dall'evenienza che non contano gli scontri diretti, tanto per salvaguardare la regolarità del torneo. Prendete ad esempio i camerunensi, che giocano con una disinvoltura ammirevole mai vista nelle due partite precedenti: qualcuno giunge a suggerire che dipenda tutto dalla polemica che hanno imbastito contro la propria stessa federazione che non voleva pagare loro adeguati premi partita. Ah sì?, avrebbero detto i camerunensi, allora noi perdiamo le prime due in maniera imbarazzante, facciamo levitare le quote delle scommesse e a eliminazione inevitabile puntiamo tutto sulla nostra vittoria contro il Brasile e vinciamo a sorpresa. Ammetto che ci sarebbe piaciuto. Oppure nel secondo tempo, mentre il Messico dilaga sulla Croazia, noi tiriamo fuori il calcolatore scientifico per stabilire che basta un altro gollettino del Messico, e/o uno del Camerun, per far arrivare il Brasile secondo nel girone e schiantarlo contro l'Olanda. Ammetto che ci sarebbe piaciuto anche questo. Il Brasile invece tira avanti sospinto da un'inerzia incomprensibile, quasi controvoglia; questo Mondiale è un piano inclinato come si capisce perfettamente quando Fred segna di panza e i cronisti di Sky, dai campi più diversi, iniziano a disquisire sulla questione se si pronunci Fred, come Buscaglione, o Fregi. (Sulla Rai, ci scommetto, si pronuncia Fredde). Nessuno fa notare invece che Fred si è fatto crescere i baffetti di Ademir, numero nove brasiliano nella fatale partita del 1950 contro l'Uruguay: gira e rigira, di qui a metà luglio sempre lì si tornerà. Allora mi viene in mente un racconto di Jonathan Lethem che per puro caso ho letto nel pomeriggio. Parla di una distopica NBA del futuro in cui i cestisti indossano delle supertute con gli skills, le doti dei campioni del basket americano del passato: il campionato diventa così una faccenda fra figuranti che impersonano giocatoroni che in realtà non si sono mai affrontati per via del brutto inghippo della cronologia e della vecchiaia. La maglia del Brasile dev'essere qualcosa del genere, uno la eredita insieme a un peso di tradizione e capacità da riprodurre e onorare; mica è facile. Nel racconto di Lethem le doti di Michael Jordan spettano a un giovane bianco modaiolo che si fa chiamare Vanilla Dunk e che le sfrutta esagerando, tirandole fuori quando non serve (esattamente come gli highlights di Sky) e per certi versi svilendole, sciupandole. Tutti lo adorano anche se è insopportabile, tranne un collega nero che spiega qual è il problema, quale la differenza impercettibile dell'usare le supertute: "Jordan aveva un gioco integrale. Il migliore di tutti i tempi. Quello di Dunk è solo uno spettacolino". Oggi, anziché guardare l'Italia tanto è inutile, leggete Jonathan Lethem: il libro si chiama L'inferno comincia dal giardino, l'ha pubblicato minimum fax, "Vanilla Dunk" è uno dei migliori racconti sportivi della storia e sostituendo a "Jordan" la parola "Pelè" e a "Dunk" la parola "Neymar" capirete perché il Brasile non vincerà il Mondiale e sarà di nuovo psicodramma.

lunedì 23 giugno 2014

Non so voi ma io a Trento ho il mio seguito. Oggi sui quotidiani gemelli Il Trentino e Alto Adige è uscito questo box magnificamente illustrato a firma di Carlo Martinelli su Ho visto Maradona. Platini sarebbe Francesco Savio.


domenica 22 giugno 2014

Maracanazo
da Pavia, Germania-Ghana

Finisce nel sangue di Thomas Mueller la partita che capita a fagiolo nella autoproclamata, sui social network, settimana mondiale del luogo comune. Ricapitoliamoli tutti. La Germania è affidabile. La Germania è fortissima. La Germania è una macchina da guerra. La Germania dimostra che si può creare una squadra vincente dando fiducia ai giovani. In Germania la gente non smette di lavorare per guardare la partita. La Germania arriva sempre in semifinale ma non vince mai. Poi. Il Ghana è una squadra fisica. Il Ghana patisce meno il caldo. I ghanesi sono abituati da piccoli a correre chilometri e chilometri per andare a scuola, figurati se si spaventano per una partita. I temibili guerrieri ghanesi. La simpatica compagine africana. Se una squadra africana si qualificasse per le semifinali sarebbe un segnale forte per tutto il movimento. Sarebbe importante che le nazionali africane venissero tutte affidate a commissari tecnici africani. Se il calcio non fosse in mano ai poteri forti, se non ci fossero dietro troppi interessi economici, gli africani vincerebbero il Mondiale. Detto questo, una volta finita la partita ho lasciato Thomas Mueller a sanguinare in area di rigore (fonti autorevoli mi rivelano che stamattina è ancora vivo) e sono stato portato da dei comunisti ad Africando, una manifestazione in piazza a Pavia organizzata per raccogliere fondi per il Senegal. Curiosamente il gruppo musicale che concludeva la serata di Africando stava in realtà russificando, ovvero suonava un po' Tchaikovskij un po' canti tradizionali sovietici inframezzandoli alle tipiche sonorità subsahariane delle Danze ungheresi di Brahms. Nel frattempo accadevano cose orribili, che il sangue di Thomas Mueller era niente in confronto: gente che ballava sotto il palco venendo guardata con disprezzo dai figli di cinque o sei anni. D'altra parte però l'importante è divertirsi e ognuno è libero di farlo come vuole: loro lanciandosi in danze stregonesche, io facendo cose su cui non posso dilungarmi perché mia madre mi legge con ammirevole regolarità. Non nascondo tuttavia che uno dei miei principali divertimenti consta nella rappresentazione scenica di luoghi comuni incoerenti, ad esempio: guardare in compagnia una partita fra la forte squadra di una ricca nazione europea e la squadra così così di una nazione africana poverissima; cercare di scoprire chi nel pubblico tifa per gli africani allo scopo di favorirne la riscossa sociale contro una nazione avversaria oppressiva e non ancora scevra di tutti i residui colonialisti; aspettare l'inevitabile momento in cui sul pareggio la squadra africana si trova lanciata in contropiede di fronte a una difesa europea che si è sbilanciata con troppa leggerezza; vedere i progressisti del gruppo scorgere in questa situazione l'occasione ideale per cambiare il mondo ribaltandone le sorti; assistere all'altrettanto inevitabile errore del portatore di palla africano che si fa rimontare o stoppare nonostante la superiorità numerica; sentire i progressisti del gruppo lasciarsi sfuggire per l'enorme delusione patita l'istintivo urlo "Negro di meeeeeeeee!"; vederli dopo la partita tornare a leggere in buon ordine Repubblica e a votare Lista Tsipras.

venerdì 20 giugno 2014

Maracanazo
da Pavia, Inghilterra-Uruguay

Italiani che vi umettate l'indice onde contare sulle dita dell'altra mano le possibilità che l'Italia ha di passare il turno - e se convenga vincere o basti pareggiare con la Costa Rica, e se e con quanti goal di scarto si potrebbe addirittura perdere contro l'Uruguay, e se ieri sera non ci sarebbe derivato maggiore agio da un eventuale pareggio dell'Inghilterra - lasciate perdere il riquadro esplicativo della Gazzetta dello Sport e interpretate piuttosto i segni che dal cielo discendono sui campi. Nel pomeriggio, durante Colombia-Costa d'Avorio, il cronista di Sky non ha saputo farlo, limitandosi alla smarrita considerazione che non si capiva cosa stesse accadendo. Glielo spiego io. A un certo punto del primo tempo, mentre colombiani e ivoriani erano lì a giocare coi tocchetti di fino e colpi di tacco superflui, qualcuno aveva lanciato un secondo pallone sul terreno di gioco, con conseguente interruzione seguita pochi minuti dopo da un'ulteriore interruzione per via di un ulteriore secondo pallone lasciato cadere in campo non si sa se dalle stesse mani di ricotta. Fra un secondo pallone e l'altro, entrambi di cuoio, il vento aveva invece gettato lo scompiglio fra i ventidue portando fra loro un pallone da calcio enorme, gonfiabile e volante, come a dire: cosa state lì a giocare di fino, cosa state a fare assist di tacco quando potete tirare in porta, guardate che il calcio è un gioco serio e se fate così vi meritate tutt'al più di intrattenerci con ludi circensi - come effettivamente avviene quando un colombiano a caso stoppa quest'enorme pallone volante rigonfio, cerca di schiattarlo coi tacchetti ma finisce quasi per inciamparci sopra e capitombolare in mondovisione. Considerate invece Inghilterra-Uruguay, tre ore dopo, e ditemi se una mongolfiera a forma di Tango avrebbe mai osato posarsi sul campo: sarebbe esplosa a mezz'aria per la sola tensione che si respirava su San Paolo, città che non a caso si chiama come il quartiere più emozionante di Bari. Partita per sistemi nervosi, partita da bari che giocano a carte con le punte dei coltelli conficcate sotto il tavolo alla bisogna; in cui la ginocchiata sulla nuca è endemica e non c'è fallo in cui chi scivola non cerchi di colpire entrambe le gambe dell'avversario con entrambe le proprie. La salvaguardia delle caviglie è decorativa. Alvaro Pereira, dicasi con Alvaro Pereira un signore somigliante più a un pesce gatto che a un calciatore ai tempi in cui traccheggiava sulla fascia dell'Inter di Stramaccioni, viene tramortito da una pedata in faccia di Raheem Sterling, reagisce rimanendo sdraiato come il Cristo morto del Mantegna ma poi si rialza, sbraita, s'incazza con il medico che vuole preservarne il comprendonio facendolo sostituire, fa ampi gesti di diniego verso la panchina per assicurare che non ha la minima intenzione di abbandonare la battaglia, torna in campo presumibilmente ancora stordito e tempo un minuto uccide il primo avversario che trova. Finisce che l'Inghilterra sostituisce Sterling. L'Uruguay, poesia non pittoresca dell'America Latina, luogo dove Peter Cameron ha voluto ambientare Quella sera dorata, è la patria del rovesciamento delle sorti, come dimostrato in gran sovrabbondanza quattro anni fa dalla partita contro il Ghana. Stavolta Luisito Suarez, pallone d'oro di noi intenditori, non para indebitamente i tiri avversari bensì segna come Hemingway scrive: pulito, semplice, scabro, dritto per dritto, bello e purtuttavia irriproducibile. Quando gli arriva la seconda palla utilizzabile, dopo il goal del primo tempo, di fronte alle pertiche di Joe Hart non si perde in gargarismi circensi, non aspetta di sormontare un palloncino; non si perde in disquisizioni sul fair play e su quanto in Inghilterra abbiano menato il torrone etico con questa balzana idea che uno non possa essere un campione solo perché nella concitazione ha morso il braccio di un avversario. Tira, segna e vince in un colpo solo mentre io balzo su dalla poltrona e urlo un vaffanculo a due anni e rotti del mio passato infilzato all'arma bianca.

mercoledì 18 giugno 2014

Oggi, due cose.

Anzitutto andate in edicola, comprate il Foglio e troverete a pagina 2 un progetto per riunificare Oriente e Occidente sotto un'unica teocrazia affidando un ruolo chiave alla Russia. Vi sorprenderà scoprire che tale progetto di ritorno della teocrazia non l'ho architettato io avantieri bensì Vladimir Solov'ev nel 1884.

Dopo di che, letto coscienziosamente tutto il Foglio, accorrete in massa a Pavia per assistere alla presentazione de Il sale rosa dell'Himalaya di Camilla Baresani (Bompiani). Appuntamento oggi 17 giugno alle 18:30 presso la consueta libreria Il Delfino di piazza Cavagneria. Presento io, e le domanderò come fa a immedesimarsi così bene negli avverbi.

In serata siete liberi di guardarvi Spagna-Cile.

Maracanazo
da Milano, Brasile-Messico

"Fai almeno finta che ti dispiaccia". Nessuno ricorda l'anno preciso ma qualche tempo fa l'Inter aveva perso un derby col Milan in modo esorbitante, 5-1, 5-0, 6-0, boh. A tarda sera Sergio Meda, già colonna della Gazzetta dello Sport, si ritrova ai Navigli e lì vede Bobo Vieri che fa il galletto con due o tre fanciulle; gli si avvicina e lo rimprovera: "Fai almeno finta che ti dispiaccia". Non si sa cos'abbia risposto Vieri né se abbia risposto; gravissima mancanza, inoltre, è non avere idea dei pensieri delle due o tre fanciulle dei Navigli. Belgio-Algeria è appena finita, esattamente come la presentazione del mio romanzo e di quello di Francesco Savio, siamo in un bar vicino a Corso Buenos Aires: c'è Meda, appunto, c'è Savio, ci sono io, c'è Silvano Calzini, quello delle figurine letterarie rese celebri da Antonio D'Orrico su Sette del CorSera, c'è Gino Cervi, omonimo ma non parente. Io mi metto a ricordare la sofferenza incarnata un mesetto fa sui volti di diciassette ventenni (maschi): detto a Milano suona irreale ma dovete sapere che a Pavia ci sono talmente tanti collegi universitari da poter organizzare un abbondante torneo di calcio fra di loro, che viene seguito perfino su La Provincia Pavese. Il mio collegio ha di recente inanellato, negli ultimi quattrocentocinquant'anni, risultati poco convincenti: l'anno scorso non aveva partecipato per manifesta inferiorità, l'anno prima era arrivato ultimo a -1 punto per via di antiche penalizzazioni. Insomma, poiché il calcio è uno sport incomprensibile, quest'anno la squadra funziona, arriva in semifinale dove affronta un altro collegio più forte ma già inopinatamente sconfitto nella fase a gironi e, inevitabilmente, perde; ma perde di un gollettino, per una smemoratezza difensiva avvenuta prima di organizzare un tiro a segno verso la porta avversaria senza riuscire a pareggiare. Storia prima felice e dolentissima che si chiude con diciassette ventenni, ancora sudati dalle fatiche del campo a noleggio, seduti affranti e silenziosi con lo sguardo perso in un punto indefinito del cortile del collegio, dalle undici a mezzanotte, all'una. A vent'anni, nonostante il mondo in mano e tutta la vita davanti, fatti a pezzi da una partita persa. Non poteva passare di lì, Sergio Meda? Non potevano passare almeno venti o trenta fanciulle amiche di Bobo Vieri? Dal bar ci spostiamo a cena, intanto, e nessuno ne approfitta per far notare a Gino Cervi che il precedente romanzo di Savio era stato pubblicato dall'editore Fernandel. Troviamo un ristorante pugliese, quello che in altri tempi si sarebbe definito un trani, ed entriamo accingendoci a guardare Brasile-Messico ma ecco, a sorpresa, nel trani non c'è il televisore, c'è solo una gigantografia di Pippo Baudo attorniata da centinaia di foto del proprietario assieme a personaggi dello star system incorniciate però entro dimensioni meno imperial-regie. Così, anziché guardare la partita, siamo costretti (facendo finta che ci dispiaccia) a mangiare panzerotti, orecchiette, bistecche di cavallo: e io giù a dire che, viste le mie origini, portarmi a cena fuori in un ristorante pugliese è assurdo come far giocare al Brasile i Mondiali in Brasile, con la differenza che i panzerotti, le orecchiette, il cavallo che ci hanno servito erano buoni mentre ho come l'impressione che al Brasile stia restando qualcosa sullo stomaco.

martedì 17 giugno 2014

Ieri la presentazione di Ho visto Maradona a Pavia è stata divertente, almeno per me. Spero anche per i librai. Un po' meno, temo, per il pubblico che ci guardava pensando al fatto che contemporaneamente si stava giocando Germania-Portogallo. Fonti certe però mi assicurano che ieri pomeriggio Képler Laveran Lima Ferreira, meglio noto come Pepe,  è stato espulso per un gesto inconsulto dovuto al nervoso di non poter essere a Pavia.

Oggi martedì 17 giugno si replica a Milano: appuntamento alla Feltrinelli di Corso Buenos Aires alle 18:30. Sempre con Francesco Savio, scrittore, e Gino Cervi, editor. E se venite sarete più fortunati dei pavesi, perché contemporaneamente c'è solo Belgio-Algeria.

lunedì 16 giugno 2014

Maracanazo
da Pavia, Svizzera-Ecuador

Comment peut-on être persan? Montesquieu racconta di questi persiani che arrivano a Parigi e trovano i parigini di stravaganza più che straordinaria ma poi, una volta presentati nei salotti, si sentono domandare dai curiosi: “Quindi voi siete persiani? Ma come si fa a essere persiani?”. Ieri, nell’ozioso e frescolino pomeriggio di dormiveglia, poiché non ho più l’età per guardare l’Italia alle due di notte senza rimbambirmi un giorno intero, la famosa citazione dalle Lettere persiane mi ha attraversato la mente mentre stavo pensando a tutt’altro: in realtà, guardando la moscia partita pomeridiana, cogitavo errabondo sul fascino dei nomi di battesimo degli ecuadoregni. C’è un Jefferson, c’è un Edison (dall’ortografia corretta, mica come Cavani), ci sono addirittura un Frickson e un Oswaldo. Presto mi sono accorto però che il vero esotismo stava dove non me lo sarei aspettato, nei cognomi degli svizzeri. Chissà da quale cantone arriva, chissà se dall’Appenzello interno o dalla Turgovia, se dal Vaud o dal Giura, gente che si chiama Burki, Djorou, Rodriguez, Fernandes, Shaquiri, Xhaka, Mehmedi. Pensate al trio di centrocampisti svizzeri del Napoli: i loro nomi di battesimo sono Valon, Blerim e Gökhan. Saranno dell’Uri, dello Schwyz o dell’Unterwalden? Mentre m’interrogavo su cotali misteri Stephan Lichtsteiner, l’unico che in questo barnum multiculti conservi pervicacemente una faccia da montanaro incattivito, aveva rilasciato un’intervista alla Gazzetta dello Sport in cui auspicava una finale Italia-Svizzera. Diamogliela per buona: facciamo che la Svizzera si qualifica eliminando Ecuador e Honduras e poi fa fuori nell’ordine l’Argentina agli ottavi, il Portogallo ai quarti e l’Olanda in semifinale. Non è difficile. Il pronostico di Lichtsteiner prevede però che o la Svizzera arrivi prima nel girone davanti alla Francia o l’Italia arrivi seconda dietro a questo punto la Costa Rica, altrimenti il tabellone incrocerebbe noi buoni confinanti già in semifinale, per forza. Insomma, c’è questa finalissima e si schiudono due opzioni. O l’Italia vince e allora si scatena il finimondo, la gente festeggia gettandosi nelle fontane, guidando nuda, tingendosi interamente di azzurro, stando in piedi tutta la notte sperando che il sole non sorga mai. Oppure vince la Svizzera. A quel punto in Italia si scatena comunque il finimondo (la nazionale viene accolta a pomodorate in aeroporto, il Pil sprofonda, il governo cade, la Rai chiude, Napolitano muore in un incidente di go kart e Beppe Grillo sposa Casaleggio nel municipio di Livorno) mentre in Svizzera… In Svizzera i festeggiamenti sono incontenibili. Per salvaguardare le fontane viene concesso agli abitanti della fiorente repubblica di scatenare la propria gioia immergendo entrambi i gomiti nei propri lavandini. Caroselli di auto festanti sono ammessi fino a 40 decibel, senza con ciò sforare il limite degli 80 chilometri orari. I bambini sono liberi di infilare le dita nei buchi del groviera. La benzina rincara. Vengono sospese per eccesso di rialzo le azioni di cioccolato fondente e orologi a cucù. A quel punto gli italiani arrivano in Svizzera a sorpresa guidando nudi, balzano nelle fontane sporcando le acque di tinta azzurra e, nel giro di una sola notte insonne, sfasciano tutto pure lì. Niente di tutto questo verosimilmente accadrà in quanto su una punizione noiosa indisturbato salta a segnare Valencia, che di nome fa Enner, mentre i difensori sono lì a domandarsi inani: comment peut-on être suisse?

domenica 15 giugno 2014

Le tournée iniziano sempre da casa propria. Domani lunedì 16 giugno prima presentazione di Ho visto Maradona alla Nuova Libreria Il Delfino di Pavia, in piazza Cavagneria 10, alle 18. Contemporaneamente si parlerà anche de Il fuorigioco sta antipatico ai bambini di Francesco Savio: due presentazioni al prezzo di una, cioè gratis. Intervengono Gino Cervi (editor) e Gianni Sacco (costituzionalista).

sabato 14 giugno 2014

Maracanazo
da Pavia, Spagna-Olanda

Sul Corriere della Sera di oggi Antonella Baccaro scrive - nella rubrica dedicata ai single che leggo sempre con attenzione per sapere cosa le donne pensano che io pensi - che noialtri della paludosa età di mezzo bisognerebbe presentarsi dichiarando la propria età percepita. Tanto per fare un esempio: "Piacere, sono Alberto, 18", "E io Martina, 44". In questo modo si capisce a priori se c'è compatibilità di vita più che di sentimenti e si evitano conclusioni tragiche in cui magari lui la lascia perché non si mette i bigodini o lei lo lascia perché non le permette di usare il pongo. Idem coi Mondiali. Tutte le squadre partecipanti hanno un'età immaginaria e, fino alla prima partita del girone, si presentano sicure di essere ancora ferme a un'edizione precedente; il risveglio può risultare più o meno doloroso. Ieri sera i capitani di Spagna e Olanda si sono presentati a centrocampo dichiarando rispettivamente: "Piacere, Casillas, 2010", "E io Van Persie, 1974". La Spagna era rimasta incastrata nella finale del 2010, con le lancette ferme alla serata di Johannesburg che fu faccenda fra cattolici e ugonotti, convinta di una superiorità ormai cristallizzata ed espletabile nel compitino favorito dal rigore inaugurale. L'Olanda invece si era presentata sotto mentite spoglie. Finta erede del calcio totale del 1974, nasconde fra le pieghe dei propri schemi intenzioni bellicose rese note soltanto alle viste più aguzze nel momento in cui King Kong De Jong, presto a lanciarsi su un'innocua palla a centrocampo, preferisce a metà del balzo negligere il pallone e dirottarsi verso destra sull'accorrente mediano spagnolo, travolgendolo senza fargli gran male ma ricordandogli che quando si gioca sul serio la sfera di cuoio è un inutile orpello. Lì la Spagna inizia a sospettare che non dell'Olanda del '74 si tratti, non di una squadra tutta costruita su una fitta rete di passaggi in velocità e corsa arrembante ma alla lunga soccombente; bensì di una compagine sbrigativa, che va per le spicce senza badare alle decorazioni. Il tiki-taka è tradito dalla presenza in avanti di Diego Costa, un brasiliano riuscito male, naturalizzato nonostante che la sua stazza a mo' di terminale delle azioni veneziane dei centrocampisti spagnoli faccia la stessa figura di una candidatura di Cicciolina nelle fila della Democrazia Cristiana; la Spagna si perde dunque nello sforzo di riprodurre la partita di quattro anni prima e cade vittima dei propri stessi innumerevoli tentativi d'imitazione. Mentre gli iberici naufragano nel passato nobiliare, l'Olanda è qui e ora; ha la sola priorità di buttarla dentro e contro ogni legge dell'estetica proprio questa foga concreta garantisce gli sprazzi di bellezza. Se De Vrij segna accartocciandosi su un calcio d'angolo, se Robben se ne fotte di farsi deviare un tiro purché entri dopo essersi prodotto nello stop più disinvolto della settimana, Robin Van Persie nel primo tempo vede giungere questo profondissimo lancio un po' incosciente di Daley Blind (che io, abbandonandomi al passatismo, tendo sempre a confondere con suo padre Danny: piacere, Antonio, 49) e deduce che c'è un solo punto di tutto il campo in cui deve incocciare la palla per segnare. Allora vola: ma la sua priorità non è il volo d'angelo né l'obiettivo dei fotografi che eterneranno quest'istante di calcio antigravitazionale bensì essere esattamente lì nel momento che non è né il passato degli antichi maestri né il futuro delle speranze ardite. Il colpo di testa di Van Persie è l'urgenza del presente mentre il povero Iker Casillas si trova nell'unico punto dell'area di rigore a confronto del quale il paradosso di Zenone è una bagatella: troppo fuori dai pali ma non abbastanza. La palla è in fondo alla rete, l'olandese corre a esultare, lo spagnolo resta coi guanti sui fianchi a interpretare il ruolo del portiere depresso, del nobile decaduto, del duro d'orecchi timoroso che Van Persie si fosse presentato dicendo non "1974" ma "2014".

[Ogni giorno su Quasi Rete, blog letterario della Gazzetta dello Sport, c'è Maracanazo: i mondiali raccontati a targhe alterne da me e da Francesco Savio.]

venerdì 13 giugno 2014

Sant'Antonio, in teoria ho una lista di cose pronte da chiederti oggi in virtù del nostro rapporto di grande confidenza:

- soldi, non necessariamente lavorando ma, se proprio è necessario, sono anche disposto;
- che mi passi la sciatica, anche a patto di farmela tornare così come oggi quando avrò un'età più confacente;
- che nessuno mi tratti mai come l'arbitro Nishimura ha trattato la Croazia;
- una cosa che non posso dire perché è frivola, se non zozza, e temo che non ricada sotto la tua giurisdizione;
- di tornare a essere più dinamico, come ai tempi in cui il 13 giugno per farti piacere pigliavo il treno e andavo appositamente a Padova a guardare la processione del Santo, mentre ora già attraversare la strada o mi stanca o mi annoia.

Oggi non chiederò in grazia niente di tutto ciò. Guardando la tua statua mi è venuto in mente che la tradizionale iconografia ti consegna fra le braccia Gesù Bambino e questo viene tradizionalmente interpretato come una ricompensa, un premio: sei talmente santo da meritare di accudire Cristo nel momento in cui è più indifeso. Mi sono ricordato però di Etty Hillesum che nel campo di concentramento di Westerbork, mentre tutti pregavano Dio di non abbandonarli, si arrabbiava e cercava di convincerli che erano piuttosto loro a non dover abbandonare Dio - tanto che nel momento di partire per Auschwitz scrisse una lettera assicurando agli amici: "Dio è in buone mani". Ho quindi dedotto, poiché ragiono pure davanti alla tua statua, che per te il procedimento è stato contrario rispetto a quanto comunemente si crede: essendo stato capace di accudire Cristo nel momento in cui era più indifeso, allora hai meritato di essere talmente santo. Noi quindi preghiamo i santi perché ci mettano sotto la protezione di Dio, mentre dovremmo pregarli di renderci in grado di proteggerlo. Amen.

giovedì 12 giugno 2014

Maracanazo
da Pavia, la vigilia

Il giorno prima dei Mondiali dura quattro anni: poi tutto precipita e la vaghezza diventa cruda determinazione di fatti irresistibili, l'immaginazione diventa diretta via satellite, i pronostici diventano sfottimenti: io accetto però il rischio e dico che alla fine vincerà l'Uruguay, squadra zingaresca di cagnacci infingardi, nazione con la più alta proporzione di trofei vinti per chilometro quadro e di campioni per abitante. Ieri guardavo la guida del Foglio ai Mondiali - una lenzuolata in cui presentava le trentadue nazioni, un paragrafo ciascuna, illustrando caso per caso la geopolitica dell'ultimo quadriennio - e ricordavo che la stessa griglia era stata utilizzata nel 2010 e probabilmente tornerà domani, nel 2018. Sportweek ha invece cambiato tutto nel quadriennio intercorso: il patinato ha ceduto alla cartaccia e per presentare le trentadue nazionali, una pagina ciascuna, sono stati commissionati omini del subbuteo dipinti a mano appositamente per fotografarli e stamparli con la maglia della squadra in questione. Il Guerin Sportivo ha optato per un inserto speciale che contiene foto di esseri umani, scelta innovativa, e articoli a lunghezza variabile: due pagine per un'Australia, tre per una Francia, quattro per un'Italia. Mi spinge a comperare e conservare sacralmente tutto ciò non tanto la smania del collezionista cartaceo, monocolo nella terra caecorum del virtuale, quanto la speranza, ogni volta che vado in edicola, di trovare la riproposizione contemporanea delle guide ai Mondiali d'antan che ancora mi ricordo. Eppure qualcosa nel frattempo dev'essere cambiato senza che io me ne rendessi conto. Dov'è la minuziosità enciclopedica dell'almanacco dei Mondiali fatto dal Guerino per Spagna '82? Dov'è l'essenzialità della guida a Mexico '86 del Tv Radiocorriere, che nel breve volgere delle due pagine garantite a ciascuna nazionale riusciva a infilarne la rosa, la storia, l'allenatore, la formazione, una foto dell'undici titolare e pure un commento tecnico? Dov'è il barocco mastodontico dei settimanali fascicoli al centro del Guerino man mano che si avvicinava Italia '90, che dedicavano ad esempio agli Emirati Arabi Uniti sedici pagine di foto, informazioni, statistiche, disegni, commenti, foto segnaletiche dei calciatori ed elementi di geografia e storia, ossia più di quanto sia mai stato complessivamente dedicato al calcio negli Emirati stessi? Dov'è la guida pocket a Usa '94, ideale per adolescenti paninari? Io continuo ad andare in edicola e ad acquistare fedelmente nella speranza che i Mondiali mi rassicurino nella nozione che di quattro anni in quattro anni qualcosa resta uguale. Vedo però che dietro di noi esiste un filo; noi ci voltiamo e lo tiriamo sperando di indietreggiare ma restiamo fermi mentre è il filo che va avanti e diventa sempre più lungo. Ogni volta torno dall'edicola consapevole che non c'è più il passato di una volta.

[Maracanazo è la nuova rubrica mia e di Francesco Savio su Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport. Un giorno io e un giorno lui da oggi alla finalissima.]

mercoledì 11 giugno 2014

“Il cambiamento continua”, “Cambiamo davvero”, “Cambiamo sul serio” erano gli slogan dei vari candidati. Pavia però è refrattaria agli stravolgimenti, è una città la cui via principale si chiama Strada Nuova dal 1359; da dove è nata allora la sorprendente rimonta del centrosinistra ai danni di Alessandro Cattaneo, formattatore del Pdl, fulgida promessa del centrodestra, già incoronato sindaco più amato d’Italia? Massimo Depaoli ha vinto il ballottaggio dopo essere partito dal 36%; al primo turno aveva quattromila voti in meno di Cattaneo ma al secondo duemila in più. La rimonta era tanto inimmaginabile che Daniele Bosone, presidente della provincia e senatore Pd, aveva pubblicamente promesso di tingersi i capelli di blu in caso di vittoria.

Bosone non ha considerato che a Pavia si vince con pochi voti. La stessa candidatura di Depaoli era sorta coinvolgendo uno spicchio infinitesimale di popolazione: alle primarie di febbraio si erano presentati ai gazebo solo ottocento dei circa ottomila abituali elettori del Pd; in provincia, alle primarie di Cava Manara, su seimila abitanti avevano votato in mille. Depaoli aveva ottenuto una percentuale schiacciante sul suo rivale – Luigi Furini, giornalista, interista, blogger del Fatto – ma partiva comunque da settecento voti. Per diventare sindaco gliene sono bastati 17.000, meno di uno su tre aventi diritto. Al primo turno Cattaneo ne aveva ricevuti 18.000.

Potenzialmente azzoppata in partenza, a primavera la candidatura di Depaoli è stata trasformata da individuale in collettiva. “Più che di spostare voti si trattava di mobilitare energie”, mi dice Daniela Bonanni: maestra in pensione, originaria di Casarsa come Pasolini, militante svincolata dai partiti, è stata l’anima martellante benché schiva di questa campagna elettorale. Spiega che Depaoli insegna lettere al liceo scientifico (la mattina dopo il ballottaggio stava facendo gli scrutini) e quindi, pur essendo consigliere comunale, pativa lo svantaggio di non essere noto al di fuori del ristretto ambiente dell’istruzione e della cultura pavesi. Allora lei ha pensato al cartonato. Il Pd aveva stampato una foto di Depaoli a grandezza naturale; lei ha avuto l’idea di metterla sotto un gazebo in piazza e far scattare ai passanti un selfie con l’icona del candidato meno celebre. Il messaggio da veicolare era che pochi conoscevano Depaoli ma chi lo conosceva lo avrebbe votato. I selfie, virali su facebook, hanno coinvolto studenti e perfino professori, cosa di non poco conto in una piccola città dall’Università enorme. È riuscita anche la campagna delle facce: sui manifesti di Cattaneo c’era solo lui mentre quelli di Depaoli erano un collage di sostenitori, esponenti della società civile e dell’intellighenzia locale, grandi ciascuno quanto un francobollo ma col proprio nome sotto. Alla fine erano in centonovantadue.

Il Pd ha fatto la sua parte; Debora Serracchiani è venuta a Pavia ben due volte. “La vittoria però non è solo del Pd”, continua la Bonanni. “È stata vincente la loro idea del camper che si aggirava per le periferie, ma adesso che la campagna elettorale è finita deve continuare a circolare, ad ascoltare la gente proprio perché questa vittoria ha un valore collettivo”. Di là dal merito di Depaoli, i voti di Cattaneo sono smottati. È stata solo colpa della domenica di sole e caldo, che la borghesia pavese tradizionalmente trascorre al mare? “Cattaneo mi ha dato l’impressione di essere stato lasciato solo dal partito”, azzarda, “e ha perso perché è tracimato. Era presente ovunque: pubblicità su taxi e autobus, addirittura una comparsata alla Messa di Rai 1 trasmessa domenica da Pavia”. L’ultimo atto di Cattaneo da sindaco, sabato sera, è stato una cena sul ponte che varca il Ticino, in occasione del Palio: controllava nervosamente il cellulare mentre attorno a lui figuranti in armatura medievale si sfidavano a gran colpi di spadone. “Una scena da film di Sorrentino, no? La nostra campagna invece è stata all’insegna dell’ironia, dell’allegria.”. Ma è vero che ha tenuto nella borsetta uno spray per tingere subito i capelli di Bosone? “Certamente. Adesso è blu”.

martedì 10 giugno 2014

Ricordate Finalmente domenica? Da giovedì...
"No."
No cosa?
"No, non ricordiamo Finalmente domenica. Che cos'era? Una trasmissione pomeridiana di Telemontecarlo?"
Finalmente domenica, santo cielo, era la rubrica settimanale che l'anno scorso Francesco Savio e io tenevamo su Quasi Rete, il diario con cui seguivamo giornata per giornata la serie A dei fatti nostri.
"Ah, sì, I Fatti Vostri. Su Rai 2."
Macché Rai 2, su Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport. Esiste veramente, basta cliccare qui.
"Ma quindi è in esclusiva su Sky?"
Uffa, è su internet, quindi si trova ovunque e in nessun luogo. Adesso, per favore, lasciatemi finire le cose serie che stavo dicendo. Ricordate Finalmente domenica? Da giovedì finalmente inizia il Mondiale e quindi parte la nuova rubrica mia e di Francesco Savio su Quasi Rete: ogni giorno un giorno per uno raccontiamo la Coppa del Mondo da inviati speciali a casa nostra, anzi, di questi tempi è meglio specificare, inviati speciali ognuno a casa propria.
"Ma non lo aveva già fatto qualcuno?"
Sì che lo aveva già fatto qualcuno;  il mondo è pieno di cose già fatte che ciò nondimeno si continua a fare. Se è per questo lo avevamo già fatto anche noi stessi nel 2010, lui da Brescia e io da Oxford.
"Sì, nel 2010 i Mondiali non erano in Sudafrica?"
Ecco: lo sapevo che accadeva questo se si lascia commentare al pubblico gli articoli. Lasciate perdere i dettagli e ricordatevi, da giovedì, ogni giorno su Quasi Rete, la nuova rubrica mondiale di Antonio Gurrado e Francesco Savio: Maracanazo.
"Ahahahaahahah"
Che c'è da ridere?
"Bella lì, mi fa ridere la rima sconcia. Maracanazzo. Ahahahaha. Come a dire Mondiali del..."
Nessuna rima sconcia, mica siamo in un film degli anni Ottanta né a capo di un movimento politico fortemente radicato sul territorio. Maracanazo con una zeta sola. Fu quando agli scorsi Mondiali in Brasile, nel 1950, l'Uruguay vinse contro ogni pronostico sottraendo genialmente il titolo ai padroni di casa.
"Ma quindi voi tifate per l'Uruguay?"
Maracanazo. Da giovedì, ogni giorno su Quasi Rete. Passo e chiudo.
"Scusate, ma perché non tifate per l'Italia?"


domenica 8 giugno 2014

I più attenti di voi si saranno resi conto che fa caldo. Allora tuffiamoci in un'Italia che non c'è più leggendo la recensione a Ho visto Maradona uscita su Tempi in edicola questa settimana.

venerdì 6 giugno 2014

Ho detto e ripetuto che non risiedendovi non posso votare al ballottaggio per il sindaco di Pavia ma questo blog, che è apolide, se messo alle strette domenica voterebbe Alessandro Cattaneo per tre motivi dettati dalla ragione.

Dopo molti anni di assenza sono tornato a vivere a Pavia a metà del mandato di Cattaneo e mi è parso che la città fosse ben amministrata, anzi meglio rispetto a quando l'avevo lasciata. Quanto meno il sindaco non ha fatto commissariare il comune come il suo predecessore. Non ho insomma visto nulla che giustificasse la smania di cambiamento tanto per cambiare che è stata la cifra di questa campagna elettorale. Sostituire un sindaco dopo il primo mandato implica un giudizio talmente negativo sul suo operato da preferire qualsiasi cosa alla sua riconferma. Nel caso specifico, mi sembrerebbe un eccesso pregiudiziale e ingiustificato.

Non so in periferia ma in centro il principale guaio mi sembra un certo disordine prodotto soprattutto da due figure tipiche se non pittoresche: gli studenti che, privi di un alloggio decente a causa del turbocapitalismo, si vedono costretti a fare pipì in piazza Duomo e gli immigrati i quali, presumo per mancanza di luoghi adeguati alla loro ricreazione, onde passare qualche serata in allegria si dedicano a organizzare di tanto in tanto vigorose risse nei principali luoghi d'interesse storico e artistico. Prima di entrare nella cabina elettorale specchiatevi nella coscienza e domandatevi se abitualmente un'amministrazione di sinistra in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo (a Milano, a Bologna, a casa vostra) tenda a risolvere o ad aggravare problemi simili.

So che i pavesi sono modesti ma, considerato il panorama politico, è giunto il tempo delle grandi cose. Se vogliono che un domani Pavia conti di più su scala nazionale mi sembra evidente che debbano sostenere Cattaneo il quale è noto nel resto d'Italia, ha un suo peso ed è giovane abbastanza da poter coltivare in futuro ambizioni smisurate, per citare le recenti parole di un sindaco toscano poi chiamato ad altro incarico.

Infine, lo so che il problema dei ballottaggi è che bisogna pur sceglierne uno; ciò non significa che verso l'altro si covi ostilità o astio o disprezzo. Al netto dello scivolone supercilioso e potenzialmente autolesionistico sulla legalità nelle piccole cose, Massimo Depaoli è un'ottima persona ma il mandato politico che ha ricevuto è un po' flebile. Ha vinto le primarie del centrosinistra col 90% dei voti perché a votare si sono presentate 800 persone all'incirca - avete letto bene, non ho saltato uno zero, ho proprio scritto ottocento - le quali hanno ritenuto il suo sfidante talmente inadatto alla politica da non fargli raggranellare nemmeno cento votarelli. Depaoli è un insegnante dedito al proprio lavoro, affezionato all'ambiente e alla bicicletta, ben supportato dall'intellighenzia pavese che sta forse un po' esagerando nel trasformare la sua candidatura, portata avanti con modestia, in guerra di liberazione da non si capisce bene cosa. Sarebbe un ottimo assessore alla cultura o all'ambiente in una giunta Cattaneo, se fossimo in un Paese avvezzo a riconoscere statura dignitosa agli avversari migliori cercando di includere la loro rappresentanza anziché isolarla; ma non lo siamo (proprio il tono di superiorità assunto negli ultimi giorni da alcuni sostenitori di Depaoli lo dimostra) e quindi temo che resterà lettera morta.

giovedì 5 giugno 2014

Si avvicina il ballottaggio per il comune di Pavia e continuo a venire fermato per strada da persone che mi chiedono di votare per Massimo Depaoli, candidato di centrosinistra. Quando poi spiego che non risiedo a Pavia e quindi non voto, mi viene chiesto di convincere altre persone a votare per lui facendo leva su alcuni fattori essenziali: conosco Depaoli, so che è una brava persona, è competente e mi sta pure simpatico. Qualcuno - non farò nomi - ha aggiunto che lo si può votare perché è espressione di Legambiente anziché del PD.

Non avevo motivi specifici (residenza a parte) per declinare la proposta che mi veniva avanzata; fino a che, scartabellando su facebook fra i profili ufficiali dei candidati, non scopro che grossomodo verso le 11 di ieri Depaoli ha pubblicato una foto di un manifesto pubblicitario del suo rivale Cattaneo affisso nei pressi del Ticino, su un supporto non meglio identificato che a quanto pare non era destinato alla campagna elettorale. Capita, si è sempre fatto in tutti i comuni con tutti i colori e inutilmente, in quanto presumo che ciò non abbia mai spostato un voto; Depaoli però ha commentato la foto sostenendo che dispiace vedere manifesti del sindaco in carica su spazi non idonei poiché "la legalità parte dalle piccole cose, soprattutto per quello che riguarda le istituzioni che sono credibili solo se danno il buon esempio".

Saranno i primi caldi, sarà la lunga campagna elettorale che si avvicina alla stretta decisiva, fatto sta che questa mossa al termine di una brillante propaganda mi sembra controproducente per tre motivi.

1) La legalità non parte dalle piccole cose ma dalle grandi. San Tommaso diceva che piccoli peccati servono a evitarne di maggiori; i sindaci inoltre dovrebbero concentrarsi sulle grandi cose, perché poi il tempo inevitabilmente ridimensiona l'efficacia della loro azione politica e quindi, se partono dalle minuzie, finiscono nell'insignificanza.

2) Appunto perché le istituzioni devono dare il buon esempio è meglio evitare che venga tracciata una linea netta fra ciò che si può e non si può fare. Così ci si perde in distinzioni millesimali fra bene e male degne del miglior protestantesimo quando invece la zona grigia è necessaria: ci sono cose che non si devono fare, cose che è meglio non fare, cose che sarebbe il caso di fare, cose che è necessario fare e cose francamente indifferenti. Chiudere un occhio sul meno serve a concentrarsi sul più. Un luogo in cui tutto è pubblicamente vietato finisce per essere un luogo in cui tutto è permesso di nascosto.

3) Ho ragione di credere che non sia il sindaco in carica ad andare nottetempo ad attaccare i propri manifesti lì dove non si può; la critica di Depaoli confonde candidato e sostenitori anzi fa di peggio, sottintende che chi è con lui sia bravo, legale, pulito e chi è contro di lui sia un gaglioffo, un delinquente, un brigante che appena vede un muro cede all'istinto belluino di affiggerci un manifesto pro-Cattaneo. Grave errore strategico. Se ho ben interpretato il risultato delle Europee, Renzi ha fatto finalmente vincere il PD proprio perché ha rinunciato al tradizionale slogan della sinistra, che recitava "Noi, gnè gnè gnè, siamo migliori di voi".

mercoledì 4 giugno 2014

Quando mi hanno consigliato Le inutili vergogne di Eduardo Savarese, mi avevano avvertito che avrei potuto scandalizzarmi per l'intensità delle scene omoerotiche associate alla tensione spirituale del protagonista. L'ho letto con attenzione e non mi sono affatto scandalizzato per questo, che anzi ho trovato ben trovato e rispondente a contraddizioni simili che albergano in ognuno di noi; mi ha mandato in crisi un personaggio secondario, un prete profondista secondo il quale servire Dio significa essere come si è. Allora ho scritto un pezzo per chiedermi se oggi un romanziere debba seguire più il modello Manzoni o più il modello Michela Marzano. In edicola sul Foglio di oggi.
Oggi compio cinque anni che scrivo sul Foglio, che ritenevo il giornale più bello del mondo quando lo leggevo e basta, e che tale è rimasto nonostante me. Avevo iniziato così, il 4 giugno 2009, con una cordiale stretta di mano al luogo dove m'ero trasferito a vivere poche settimane prima.

---

La Noemi d’Inghilterra si chiama Ruth Padel: non vince concorsi di bellezza ma scrive poesie, e anzi può vantarsi di essere stata la prima donna a occupare la cattedra di Poesia a Oxford. Per quasi due settimane. Dopo di che è stata invitata a dimettersi per aver favorito con qualche mail delatoria il ritiro dalla competizione del suo più accreditato rivale, il Nobel Derek Walcott. Pochi giorni prima dell’assegnazione della cattedra qualcuno aveva improvvisamente ricordato che una ventina d’anni fa Walcott avrebbe molestato delle sue alunne, anche se non s’è ben capito quante, come e soprattutto chi. Fatto fuori il primo a metà maggio, fatta fuori la seconda l’altro giorno, ora la cattedra fluttua verso l’indiano Arvind Mehrotra, persona noiosissima che a quanto pare non ha mai molestato né diffamato nessuno. Il tutto a conferma che Oxford è un’accademia trasparente e democratica, e che quindi facciamo bene a invidiarla; quando invece ogni elemento dello scandalo dimostra che non dovremmo affatto.

Innanzitutto l’esistenza di una cattedra di Poesia, con l’iniziale maiuscola, è aberrante. Ricorda i grafici cartesiani atti a misurare la grandezza di un’opera ne L’Attimo Fuggente; richiama un’istintiva assonanza col ministero dell’Amore in 1984. Oxford patrocina un’idea di eugenetica culturale per cui tutto può essere insegnabile, smontabile, riproducibile; tutto dev’essere infilato nel tritacarne accademico per uscirne riassunto, codificato, omologato. Senza contare che suona ridicolo che un premio Nobel debba mettersi in fila per una cattedra nel suo campo, e magari perdere, in nome di un egualitarismo prudente e parossistico. Ci si è basati sull’assunto che fosse l’istituzione a dar gloria all’individuo quando è l’esatto contrario. Oxford avrebbe dovuto implorare Walcott per ottenerne l’onore di concedergli la cattedra. Walcott avrebbe dovuto rinunciare nobilmente dicendo che certe cose sono troppo importanti e belle per essere insegnate.

E poi, le molestie. Gli Inglesi godono del vizio vittoriano-protestante di valutare una persona in base a quello che combina in camera da letto. Nel 2004 un buon ministro come David Blunkett fu rimosso perché aveva fatto non so cosa con non so chi, caso che non aveva niente a che vedere col bene della nazione, così come le eventuali molestie di Walcott non avrebbero niente a che vedere col suo talento poetico. Oxford è una perfetta cassa di risonanza per questo moralismo da tre lire, con la sua morbosa lista di cose consentite e vietate che opprime ogni studente o ricercatore; per ottenere accesso alla biblioteca Bodleiana bisogna ancora certificare esplicitamente la propria intenzione di non dar fuoco agli incunaboli. Sull’ottusità del luogo ha scritto passi memorabili gente come Oscar Wilde o Martin Amis, quindi è inutile tornare sull’argomento.

In generale il confine delle molestie inglesi si è allargato a dismisura: nei pub si appendono predicozzi sulla sconvenienza di attaccare bottone con sconosciute; in ufficio bisogna presentarsi con la cintura di castità perché ogni atto può essere frainteso e ogni contatto potrebbe valere una denuncia. Non sto parlando di pacche sul didietro, bensì di portare a una collega un cioccolatino assieme al caffè. Magari un giorno verrà fuori che vent’anni fa Walcott ha lasciato cadere complimenti innocui. Magari è solo un vecchio porco maldestro, e se non altro ciò lo renderebbe più simpatico.

Infine l’atteggiamento degli intellettuali. La più rappresentativa di tutte è stata Jeanette Winterson, la quale non s’è l’è fatto dire due volte e ha dichiarato che Oxford è un “piccolo cesso maschilista”. Non ha considerato che Oxford non è piccola affatto e soprattutto che la principale vittima di questo scandalo provinciale è un maschio. Non ha capito che grazie a gente come lei la nazione intera sta venendo immobilizzata dall’isteria per il politically correct. Se si chiede a un africano di rispettare la fila per l’autobus, è razzismo. Se non si concede la strada principale ai predicatori musulmani, è discriminazione religiosa. Se in metrò si cede la seggiola a una signora è sessismo, se si offre aiuto a una nonnina che deve attraversare la strada è ageism – un reato che in Italia scopriremo fra qualche tempo e tradurremo con “vecchismo”. Guai a sorridere a un bambino. Guai a calciare un pallone al di fuori delle zone e degli orari previsti.

In tutto questo emerge un solo aspetto positivo. Grazie alle sue mail delatorie, Ruth Padel ha finalmente scritto qualcosa per cui varrà la pena di ricordarla.

martedì 3 giugno 2014

Scusate, ma è proprio necessario cambiare? Io non risiedo a Pavia quindi non posso votare alle comunali; fatto sta che vivo qui dunque di tanto in tanto faccio due passi e m'imbatto nelle pubblicità elettorali. Ha iniziato presumo il sindaco in carica, Alessandro Cattaneo, scegliendo come slogan "Il cambiamento continua": come a dire che i pavesi avevano già cambiato eleggendolo cinque anni fa e che adesso, trovandosi avanti col programma, per garantire il cambiamento devono evitare di cambiarlo di nuovo. Lo ha inseguito il rivale, Massimo De Paoli, che ha rilanciato con un "Cambiamo davvero" che suona poco originale se non un po' piccato: come a dire che i pavesi credono di avere iniziato a cambiare eleggendo il sindaco cinque anni fa ma potranno cambiare davvero solo se adesso lo cambiano con un altro che è più cambiatore di lui: mi domando se per eccesso di zelo finirà per cambiare i versi dei sensi unici, il corso del Ticino, l'utilizzo delle chiese, i nomi dei collegi, l'attività dell'Università. "Cambiamo sul serio" è stato invece lo slogan lievemente minaccioso del candidato sindaco di Scelta Civica, movimento noto per fare della mestizia la propria ragion d'essere: come a dire che, se anche i pavesi decidessero di cambiare il cambiatore cambiandolo con uno più cambiatore di lui, rischierebbero di cambiare in senso ridanciano e non si assicurerebbero un cambiamento sobrio, professionale, accigliato, con il divieto di accedere all'Università per gli studenti, la trasformazione dei collegi in alberghi a tre stelle, la chiusura delle chiese se non per dire Messa, il congelamento del corso del Ticino e la trasformazione dei sensi unici in piazzole di sosta. Comunque vada, domenica si cambia. Tutto questo in una città in cui la via più importante si chiama Strada Nuova perché è stata costruita nel 1359.