“C’è Edipo?”
“No, è a Colono”
(Achille Campanile, Tragedie in due battute)
Ci voleva Sarkozy per farmi venire in Francia, argomenta Campanellino precisissima all’altro capo del binario nel momento in cui l’eurostar Londra-Parigi arriva alla Gare du Nord. Ora, dovete sapere che domenica scorsa, tanto in Francia quanto in Inghilterra, era la festa del papà: e con questo abbiamo terminato l’elenco delle caratteristiche in comune fra le due nazioni. Un’altra c’è, a dire il vero, ed è esattamente l’eurostar Londra-Parigi di cui sopra: se non che si tratta di un collegamento che più che unire divide, e quello che i Francesi chiamano EuroTunnel (forse perché è costato un sacco di soldi) secondo loro attraversa la Manche, secondo gli inglesi, più privatisticamente, attraversa the English Channel così che non vedono l’eurostar Londra-Parigi come la maniglia per aprire il portone sull’Europa (ci siamo svegliati metaforici, stamattina) quanto come un tizio che entri ex abrupto in casa dalla finestra.
Che poi, rimanga fra noi, è terrificante. Non tanto il viaggio in sé, che si fa col massimo comfort e dura un tempo irragionevolmente breve (due ore e tre quarti, mai un minuto di ritardo cascasse il mondo), quanto l’idea del viaggio in sé. Mettetevi nei miei panni e immaginatevi la sera prima della partenza, soli soletti nella vostra (mia) camera a Oxford: non solo dovete realizzare che il collegamento fra Oxford e Londra dura più di quello fra Londra e Parigi (rinfocolando il sospetto, più volte accarezzato, che Oxford sia, in termini che Gabriele d’Annunzio non esiterebbe a definire icastici, vagamente e grossomodo una chiavica), non solo dovete calcolare il miglior percorso districandovi fra le quattrocento linee del metrò ognuna di diverso colore (voi che come me, per ipotesi, siete discromici e fra un po’ non sapete distinguere il viola dal marrone), non solo dovete telefonare ogni due minuti a Campanellino per chiederle se non ha cambiato idea e se vi vuole ancora bene e se desidera ancora ospitarvi a casa sua per tre notti (la donna è mobile, ma Campanellino è flessibile) – non solo, ma anche dovete sudare freddo all’idea di un treno che, più o meno a metà del tragitto, si butta a mare.
(Fra parentesi, a Londra il metrò costa quattro sterline, sei euri abbondanti, e tanto ho pagato la corsa di tre fermate che mi serviva per arrivare alla stazione, salvo poi apprendere che l’ultima fermata era chiusa e che quindi dovevo attraversare il Tamigi a piedi - per fortuna hanno costruito dei ponti, prevedendo le disfunzioni sotterranee. A Parigi il metrò costa un euro e quaranta, e mi ha consentito di partire in ritardo da Chateau Rouge per arrivare in anticipo a Créteil, dall’altra parte della città, dove mi attendevano due giorni di convegno. Ma non si può non riconoscere agli inglesi la genialità del sarcasmo di far partire tutti i treni per la Francia, fra tutte quelle che ci sono a Londra, dalla stazione Waterloo. Chiusa parentesi.)
Dunque la notte precedente la partenza viene trascorsa in preda ad ambasce che si possono sintetizzare nel terrore della mezz’ora di buio e silenzio subacqueo, di più, nel timore di sentirsi oppressi dagli ettolitri di acqua marina che circonda la galleria, di più, nell’orrore all’idea di poter morire a mezza strada (anzi a mezz’acqua) fra una nazione protestante e una nazione laica (ché non so cosa sia peggio), di più, nel sospetto che navigando in fondo al mar d’improvviso l’eurostar possa scontrarsi, poniamo, col mostro di Lochness. Secondo me ci hanno pensato anche i signori dell’eurostar, visto che in qualsiasi direzione si vada, Londra o Parigi, si viaggia sempre con le spalle rivolte alla destinazione: in maniera tale (nelle loro belle speranze) di rilassarsi leggendo un buon libro o prendendo un buon caffé (ma in Inghilterra ci sono molti buoni libri e molto pochi buoni caffé) e di non pensarci più finché la Manica (sorry: the English Channel) non è bella che superata e si riemerge in Francia, possibilmente asciutti come prima della cura. Se non che, nella triste realtà dei fatti, viaggiare di spalle al mare sapendo che prima o poi ci si butterà dentro porta il viaggiatore (cioè me) o all’osservazione compulsiva del retrostante, con conseguente sguardo di rimprovero della signora inglese che teme che mi sia innamorata di lei (puah!), ma soprattutto nel terrore panico ogni volta che si entra in una galleria e si fa buio intorno, con le mani strette ai braccioli del sedile e le labbra a ripetere come un rosario o un karma: “Siamo sotto, siamo sotto, siamo sotto.”
Posso comunque testimoniare che, alla fine, in Francia ci si arriva; e posso anche controtestimoniare che, facendo il percorso inverso, in Inghilterra ci si torna. (Ponderavo sognante ieri in aereo, sorvolando il confine equoreo fra l’Inghilterra e l’Europa: ma da dove cazzo sarò passato io, in tutto quel blu dipinto di blu?). Quando sono tornato a Oxford, anzi, ho assicurato alla mia vicina di camera americana, che andrà a Parigi a inizio luglio a fare la turista, che si tratta di una città che crea alta dipendenza e che, una volta tornata pure lei a Oxford, passerà il resto dell’estate a piangere e a parlarsi in francese da sola.
Perché Parigi, sant’Iddio, è bella. Diranno a questo punto tutti i miei lettori, cioè mia madre: la scoperta dell’acqua calda (potrei controbattere che non si è mai del tutto scoperta l’acqua calda finché non s’è preso un caffé in Inghilterra, ma non mi va di sparare sulla croce rossa) (mamma, la bandiera dell’Inghilterra è una croce rossa su fondo bianco). Io però ritengo che la bellezza sia nel dettaglio e che quindi va bene, a essere una bella città per Notre Dame o per la fontana di Saint Michel o per il quartiere latino, etc., sono buoni tutti; la cosa impressionante è che perfino il quartiere dove abita Campanellino (la quale si distingue facilmente perché è l’unica bianca) (oltre che l’unica veneta, ça va sans dire), quartiere nel quale non si trova nessun oggetto di rilevante interesse artistico a parte Campanellino stessa (mi ha tenuto gratis tre giorni in casa sua, glielo dovevo), dicevo perfino lì si respira un’aria di bellezza rilassata, al mattino nel mercato del pesce, alla sera fra una puttana e l’altra, di notte non lo so perché ronfavo saporitamente impedendo a Campanellino, che già è insonne di suo, di godere del riposo del giusto.
Campanellino si vergogna e quindi me l’ha scritto via mail, invece di dichiararlo pubblicamente nei commenti qui di sotto: lei ne La Porcheria, lo stemma delle Olimpiadi londinesi che vorrebbe aprire nuove frontiere d’arte e che invece dovrebbe scrivere nuove pagine di codice penale, vede testualmente una signorina di profilo a figura intera, ma senza testa, con le braccia protese e appoggiate a qualcosa e il culetto sporgente all’indietro; mentre nella metà destra un giovanotto stilizzato che si fa concavo dove la signorina è convessa, e viceversa, ritratto nell’atto di fare fisicamente alla signorina ciò che l’autore de La Porcheria ha metaforicamente fatto ai finanziatori che l’hanno pagato l’ira di dio per vedersi recapitare la fotografia degli effetti di uno starnuto. Si vede che Parigi è la città dell’amore.
Se Parigi non fosse la città dell’amore, peraltro, Campanellino mi avrebbe buttato sotto un tram invece di accontentarmi immantinente quando, dopo che aveva lavorato tutto il giorno, le ho chiesto di portarmi a vedere la Torre Eiffel. Tornando infatti al discorso sulla bellezza di Parigi, la Torre Eiffel è una cosa che spiazza il senso estetico di chiunque, perfino di chi come me ha dei criteri piuttosto rigidi in proposito (sintetizzabili nell’enunciato cardine: “qualsiasi oggetto, per essere bello, deve somigliare a Isabella Rossellini”). Maupassant odiava la Torre Eiffel tanto che, pur di non vederla, andava ogni giorno a pranzarci sopra. Io, che non sono Maupassant (se non ci credete favorisco i documenti) ho avuto l’impressione di scorgervi, guardando verso l’alto, un simbolo fallico poco equivocabile, guardando verso il basso, una donna a gambe aperte come nel celebre quadro del celebre pittore belga un po’ maiale (si vede che Parigi è la città dell’amore). Soprattutto, mentre Campanellino faceva pipì, seduto a una panchina fra il pilone ovest e il pilone sud mi sono reso conto che un uomo di corporatura media come me (peraltro belloccio) non sarebbe in grado di abbracciare il più piccolo dei segmenti che intrecciandosi formano una delle quattro basi. Per questo vedersi sovrastati da una cosa enorme, dalla forma non immediatamente intuibile e al contempo talmente famosa da poter essere disegnata a occhi chiusi, ci si commuove non soltanto allontanandosi verso il Trocadéro e vedendola restare enorme mentre i turisti diventano vieppiù piccini, ma anche a vederla in molteplice copia minuta nelle mani del solito indiano che cerca di venderci i portachiavi/souvenir. È il sentimento del sublime, del quale sono state date varie definizioni a partire dallo Pseudo-Longino per continuare con Edmund Burke e Immanuel Kant, fino a un amico di Campanellino che era venuto a trovarla e che, guardando da sotto la cavità enorme che la contraddistingue, estasiato ha arguito: “Pensa se scoreggia…”
Dopo di che, per festeggiare la mia prima Torre Eiffel, Campanellino ha deciso di portarmi a cena al Marais, il quartiere ebraico. Era sabato.
(“Campanellino?” “Eh?” “Scusa se ti sveglio...” “Figurati, sono sveglia da tre giorni.” “Stavo pensando che siamo giovani…” “Parla per te.” “Siamo un maschietto e una femminuccia…” “Spero.” “Abbiamo preso un aperitivo alla Sorbona, abbiamo passeggiato nel quartiere latino, siamo andati sotto la Torre Eiffel, siamo andati a cena insieme…” “Grazie, lo sapevo già.” “…e ora è sabato notte, siamo soli e coricati nella stessa stanza.” “E come se non bastasse siamo a Parigi, che è la città dell’amore.” “Quindi io mi sento in dovere di provarci, però sinceramente non ho voglia.” “Io sono stanca.” “Io domani devo alzarmi presto per prendere il treno.” “Poi sinceramente la cena araba m’è rimasta un po’ sullo stomaco.” “Sì, e io non riesco a pensare ad altro che alla Torre Eiffel.” “Poi giovani quantunque stiamo ciò nondimeno invecchiando.” “Parla per te.” “E poi ormai siamo come fratellini.” “Esatto, però devi capire che il senso del dovere…” “Posso immaginare.” “Però veramente a me non va nemmeno di mettere un alluce fuori dal materasso, figurati fare acrobazie.” “Eh, io ho un cerchio alla testa…” “La cena araba. Diciamo che s’è trattato di un attentato terroristico su scala limitata.” “Insomma io non riuscirei nemmeno a spostarmi dalla posizione in cui mi trovo.” “Io al solo pensiero che devo tornare a Oxford mi rattrappisco.” “Quindi direi che è meglio lasciar perdere…” “Esatto. Allora dormiamo?” “Dormiamo. Però non diciamolo a nessuno.”)