giovedì 21 giugno 2007

Fucking merde, ovvero: Parlez-vous Franglais?

“C’è Edipo?”
“No, è a Colono”
(Achille Campanile, Tragedie in due battute)
Ci voleva Sarkozy per farmi venire in Francia, argomenta Campanellino precisissima all’altro capo del binario nel momento in cui l’eurostar Londra-Parigi arriva alla Gare du Nord. Ora, dovete sapere che domenica scorsa, tanto in Francia quanto in Inghilterra, era la festa del papà: e con questo abbiamo terminato l’elenco delle caratteristiche in comune fra le due nazioni. Un’altra c’è, a dire il vero, ed è esattamente l’eurostar Londra-Parigi di cui sopra: se non che si tratta di un collegamento che più che unire divide, e quello che i Francesi chiamano EuroTunnel (forse perché è costato un sacco di soldi) secondo loro attraversa la Manche, secondo gli inglesi, più privatisticamente, attraversa the English Channel così che non vedono l’eurostar Londra-Parigi come la maniglia per aprire il portone sull’Europa (ci siamo svegliati metaforici, stamattina) quanto come un tizio che entri ex abrupto in casa dalla finestra.

Che poi, rimanga fra noi, è terrificante. Non tanto il viaggio in sé, che si fa col massimo comfort e dura un tempo irragionevolmente breve (due ore e tre quarti, mai un minuto di ritardo cascasse il mondo), quanto l’idea del viaggio in sé. Mettetevi nei miei panni e immaginatevi la sera prima della partenza, soli soletti nella vostra (mia) camera a Oxford: non solo dovete realizzare che il collegamento fra Oxford e Londra dura più di quello fra Londra e Parigi (rinfocolando il sospetto, più volte accarezzato, che Oxford sia, in termini che Gabriele d’Annunzio non esiterebbe a definire icastici, vagamente e grossomodo una chiavica), non solo dovete calcolare il miglior percorso districandovi fra le quattrocento linee del metrò ognuna di diverso colore (voi che come me, per ipotesi, siete discromici e fra un po’ non sapete distinguere il viola dal marrone), non solo dovete telefonare ogni due minuti a Campanellino per chiederle se non ha cambiato idea e se vi vuole ancora bene e se desidera ancora ospitarvi a casa sua per tre notti (la donna è mobile, ma Campanellino è flessibile) – non solo, ma anche dovete sudare freddo all’idea di un treno che, più o meno a metà del tragitto, si butta a mare.
(Fra parentesi, a Londra il metrò costa quattro sterline, sei euri abbondanti, e tanto ho pagato la corsa di tre fermate che mi serviva per arrivare alla stazione, salvo poi apprendere che l’ultima fermata era chiusa e che quindi dovevo attraversare il Tamigi a piedi - per fortuna hanno costruito dei ponti, prevedendo le disfunzioni sotterranee. A Parigi il metrò costa un euro e quaranta, e mi ha consentito di partire in ritardo da Chateau Rouge per arrivare in anticipo a Créteil, dall’altra parte della città, dove mi attendevano due giorni di convegno. Ma non si può non riconoscere agli inglesi la genialità del sarcasmo di far partire tutti i treni per la Francia, fra tutte quelle che ci sono a Londra, dalla stazione Waterloo. Chiusa parentesi.)
Dunque la notte precedente la partenza viene trascorsa in preda ad ambasce che si possono sintetizzare nel terrore della mezz’ora di buio e silenzio subacqueo, di più, nel timore di sentirsi oppressi dagli ettolitri di acqua marina che circonda la galleria, di più, nell’orrore all’idea di poter morire a mezza strada (anzi a mezz’acqua) fra una nazione protestante e una nazione laica (ché non so cosa sia peggio), di più, nel sospetto che navigando in fondo al mar d’improvviso l’eurostar possa scontrarsi, poniamo, col mostro di Lochness. Secondo me ci hanno pensato anche i signori dell’eurostar, visto che in qualsiasi direzione si vada, Londra o Parigi, si viaggia sempre con le spalle rivolte alla destinazione: in maniera tale (nelle loro belle speranze) di rilassarsi leggendo un buon libro o prendendo un buon caffé (ma in Inghilterra ci sono molti buoni libri e molto pochi buoni caffé) e di non pensarci più finché la Manica (sorry: the English Channel) non è bella che superata e si riemerge in Francia, possibilmente asciutti come prima della cura. Se non che, nella triste realtà dei fatti, viaggiare di spalle al mare sapendo che prima o poi ci si butterà dentro porta il viaggiatore (cioè me) o all’osservazione compulsiva del retrostante, con conseguente sguardo di rimprovero della signora inglese che teme che mi sia innamorata di lei (puah!), ma soprattutto nel terrore panico ogni volta che si entra in una galleria e si fa buio intorno, con le mani strette ai braccioli del sedile e le labbra a ripetere come un rosario o un karma: “Siamo sotto, siamo sotto, siamo sotto.”
Posso comunque testimoniare che, alla fine, in Francia ci si arriva; e posso anche controtestimoniare che, facendo il percorso inverso, in Inghilterra ci si torna. (Ponderavo sognante ieri in aereo, sorvolando il confine equoreo fra l’Inghilterra e l’Europa: ma da dove cazzo sarò passato io, in tutto quel blu dipinto di blu?). Quando sono tornato a Oxford, anzi, ho assicurato alla mia vicina di camera americana, che andrà a Parigi a inizio luglio a fare la turista, che si tratta di una città che crea alta dipendenza e che, una volta tornata pure lei a Oxford, passerà il resto dell’estate a piangere e a parlarsi in francese da sola.
Perché Parigi, sant’Iddio, è bella. Diranno a questo punto tutti i miei lettori, cioè mia madre: la scoperta dell’acqua calda (potrei controbattere che non si è mai del tutto scoperta l’acqua calda finché non s’è preso un caffé in Inghilterra, ma non mi va di sparare sulla croce rossa) (mamma, la bandiera dell’Inghilterra è una croce rossa su fondo bianco). Io però ritengo che la bellezza sia nel dettaglio e che quindi va bene, a essere una bella città per Notre Dame o per la fontana di Saint Michel o per il quartiere latino, etc., sono buoni tutti; la cosa impressionante è che perfino il quartiere dove abita Campanellino (la quale si distingue facilmente perché è l’unica bianca) (oltre che l’unica veneta, ça va sans dire), quartiere nel quale non si trova nessun oggetto di rilevante interesse artistico a parte Campanellino stessa (mi ha tenuto gratis tre giorni in casa sua, glielo dovevo), dicevo perfino lì si respira un’aria di bellezza rilassata, al mattino nel mercato del pesce, alla sera fra una puttana e l’altra, di notte non lo so perché ronfavo saporitamente impedendo a Campanellino, che già è insonne di suo, di godere del riposo del giusto.
Campanellino si vergogna e quindi me l’ha scritto via mail, invece di dichiararlo pubblicamente nei commenti qui di sotto: lei ne La Porcheria, lo stemma delle Olimpiadi londinesi che vorrebbe aprire nuove frontiere d’arte e che invece dovrebbe scrivere nuove pagine di codice penale, vede testualmente una signorina di profilo a figura intera, ma senza testa, con le braccia protese e appoggiate a qualcosa e il culetto sporgente all’indietro; mentre nella metà destra un giovanotto stilizzato che si fa concavo dove la signorina è convessa, e viceversa, ritratto nell’atto di fare fisicamente alla signorina ciò che l’autore de La Porcheria ha metaforicamente fatto ai finanziatori che l’hanno pagato l’ira di dio per vedersi recapitare la fotografia degli effetti di uno starnuto. Si vede che Parigi è la città dell’amore.
Se Parigi non fosse la città dell’amore, peraltro, Campanellino mi avrebbe buttato sotto un tram invece di accontentarmi immantinente quando, dopo che aveva lavorato tutto il giorno, le ho chiesto di portarmi a vedere la Torre Eiffel. Tornando infatti al discorso sulla bellezza di Parigi, la Torre Eiffel è una cosa che spiazza il senso estetico di chiunque, perfino di chi come me ha dei criteri piuttosto rigidi in proposito (sintetizzabili nell’enunciato cardine: “qualsiasi oggetto, per essere bello, deve somigliare a Isabella Rossellini”). Maupassant odiava la Torre Eiffel tanto che, pur di non vederla, andava ogni giorno a pranzarci sopra. Io, che non sono Maupassant (se non ci credete favorisco i documenti) ho avuto l’impressione di scorgervi, guardando verso l’alto, un simbolo fallico poco equivocabile, guardando verso il basso, una donna a gambe aperte come nel celebre quadro del celebre pittore belga un po’ maiale (si vede che Parigi è la città dell’amore). Soprattutto, mentre Campanellino faceva pipì, seduto a una panchina fra il pilone ovest e il pilone sud mi sono reso conto che un uomo di corporatura media come me (peraltro belloccio) non sarebbe in grado di abbracciare il più piccolo dei segmenti che intrecciandosi formano una delle quattro basi. Per questo vedersi sovrastati da una cosa enorme, dalla forma non immediatamente intuibile e al contempo talmente famosa da poter essere disegnata a occhi chiusi, ci si commuove non soltanto allontanandosi verso il Trocadéro e vedendola restare enorme mentre i turisti diventano vieppiù piccini, ma anche a vederla in molteplice copia minuta nelle mani del solito indiano che cerca di venderci i portachiavi/souvenir. È il sentimento del sublime, del quale sono state date varie definizioni a partire dallo Pseudo-Longino per continuare con Edmund Burke e Immanuel Kant, fino a un amico di Campanellino che era venuto a trovarla e che, guardando da sotto la cavità enorme che la contraddistingue, estasiato ha arguito: “Pensa se scoreggia…”
Dopo di che, per festeggiare la mia prima Torre Eiffel, Campanellino ha deciso di portarmi a cena al Marais, il quartiere ebraico. Era sabato.
(“Campanellino?” “Eh?” “Scusa se ti sveglio...” “Figurati, sono sveglia da tre giorni.” “Stavo pensando che siamo giovani…” “Parla per te.” “Siamo un maschietto e una femminuccia…” “Spero.” “Abbiamo preso un aperitivo alla Sorbona, abbiamo passeggiato nel quartiere latino, siamo andati sotto la Torre Eiffel, siamo andati a cena insieme…” “Grazie, lo sapevo già.” “…e ora è sabato notte, siamo soli e coricati nella stessa stanza.” “E come se non bastasse siamo a Parigi, che è la città dell’amore.” “Quindi io mi sento in dovere di provarci, però sinceramente non ho voglia.” “Io sono stanca.” “Io domani devo alzarmi presto per prendere il treno.” “Poi sinceramente la cena araba m’è rimasta un po’ sullo stomaco.” “Sì, e io non riesco a pensare ad altro che alla Torre Eiffel.” “Poi giovani quantunque stiamo ciò nondimeno invecchiando.” “Parla per te.” “E poi ormai siamo come fratellini.” “Esatto, però devi capire che il senso del dovere…” “Posso immaginare.” “Però veramente a me non va nemmeno di mettere un alluce fuori dal materasso, figurati fare acrobazie.” “Eh, io ho un cerchio alla testa…” “La cena araba. Diciamo che s’è trattato di un attentato terroristico su scala limitata.” “Insomma io non riuscirei nemmeno a spostarmi dalla posizione in cui mi trovo.” “Io al solo pensiero che devo tornare a Oxford mi rattrappisco.” “Quindi direi che è meglio lasciar perdere…” “Esatto. Allora dormiamo?” “Dormiamo. Però non diciamolo a nessuno.”)

domenica 17 giugno 2007

L'interesse nazionale

(Gurrado per Il Resto del Pallone)

Se mi consentite una metafora extracalcistica (ed evidentemente svincolata dall’attualità) immaginate di essere un grande partito di opposizione in uno Stato governato da un più grande partito di maggioranza che di tanto in tanto, per beghe interne alla coalizione che lo sostiene, ha bisogno dei vostri voti su questioni fondamentali. Cosa fate? Ci sono due tipi di persone: quelli che si allineano a votare insieme al partito di maggioranza, pur con tutti i distinguo del caso, in nome del più alto e comune interesse nazionale; quelli che al contrario ritengono che l’interesse nazionale sia meglio protetto facendo cadere il governo, andando a nuove elezioni, possibilmente vincendole e dando così allo Stato un nuovo governo più stabile.

Entrambe queste opzioni hanno, a mio avviso, pari dignità; ma quando si tratta dell’Italia io appoggio decisamente la seconda. Ho tragicamente dimenticato di dire che la metafora extracalcistica è finita col capoverso precedente, quindi parlando dell’Italia mi riferisco alla Nazionale allenata da Donadoni. Io ho ricordi palpitanti dell’ex giocatore: ero bambino milanista quando ci dava una mano e mezza a vincere trofei su trofei; almeno una volta al mese mi guardo con immutata commozione il suo goal al Real Madrid nel 1989; l’anno dopo avrei voluto essere con altri cinquanta milioni di persone dietro di lui a soffiare per deviare il suo rigore dalle mani protese di Goycochea, per evitare l’epopea tutta italiana delle notti tragiche – e così via, quindi tirate le debite somme. Allo stesso modo stimo l’allenatore (sebbene con la tipica riluttanza a rassegnarsi all’invecchiamento, tipica di chiunque veda un giorno sedersi in panchina colui che ai tempi d’oro sgambettava in campo), concordo che abbia ottenuto risultati sorprendenti al Livorno e penso che con l’esperienza possa diventare eccellente.

Con l’esperienza, però. Mi rincresce dire che a partire dal tremebondo esordio con la Croazia più di una volta Donadoni mi ha ricordato ciò che Gianni Brera disse di Valcareggi, commentando Italia-Germania 4-3 ai Mondiali del 1970: ossia che per allenare la Nazionale bisogna guidarla con mano forte e spirito indomito, non limitarsi a osservarla terrorizzati dalla panchina. La prima volta che ho visto Donadoni spaurito, circondato da fotografi a bizzeffe, con l’aria di chi voleva scusarsi a bassa voce per star iniziando a fare il mestiere che tutti gli altri Italiani (me compreso) esercitano quotidianamente in linea teorica – be’, mi è venuta in mente l’espressione di Arrigo Sacchi quindici anni prima, dopo l’insignificante pareggio d’esordio con la Norvegia.
Rileggete cosa ho scritto poco fa sulla mia infanzia milanista e immaginate quanto sforzo debba essermi costato, nel tempo, iniziare a tifare contro di lui e per estensione contro la Nazionale, soprattutto negli inguardabili progressi tattici dopo i Mondiali del 1994 (l’ultimo con Donadoni in campo, peraltro). Ogni partita della Nazionale era una preghiera acciocché con un dolore improvviso cessasse lo stillicidio di continua sofferenza: ma tempo ce ne volle, poiché a illuminare la Federcalcio non bastò un pareggio con la Slovenia, né una sconfitta con la Croazia, come nemmeno era bastata la sconfitta – e chi se la dimentica? – nell’amichevole contro il Pontedera. Bisognò perdere 2-1 con la Bosnia perché Sacchi tornasse al Milan (scombiccherandolo anziché no, ma non per questo gli voglio meno bene) e la Nazionale passasse in altre, più adatte, mani. Fu il piccolo male per un gran bene. Fu la provvida sventura. Fu il secondo modo di tutelare l’interesse nazionale.

Lo stesso ho pensato di Donadoni, il Signore l’abbia in gloria. Dopo i balbettii a Napoli contro la Lituania, l’allegra giostra dei calci-in-culo a Saint-Denis contro la Francia e così via, mi sono chiesto se non fosse il caso di sospendere il sostegno al (torna la metafora) governo e fare opposizione sporca per il bene dell’Italia. Il pensiero s’è fatto strada in maniera strisciante, diventando manifesto e irreprimibile a seguito del sorriso soddisfatto con cui ho salutato il goal dei volenterosi (nonché surreali) carpentieri delle Far Oer, e lasciando che una piccola parte di me accarezzasse il sogno del pareggio. Allora mi sono reso persuaso che tanto valeva uscire allo scoperto, sperare nel pareggio (o magari nella sconfitta) mercoledì in Lituania, levarsi il dente e passare a miglior vita (miglior vita calcistica, ci mancherebbe).

Solo che non avevo fatto i conti con l’evenienza che mi trovavo in Inghilterra, che l’unica maniera di sapere della partita sarebbe stata aggrapparsi alla malferma trasmissione della radiocronaca via internet, ma soprattutto che la distanza muta la prospettiva e che i battiti del cuore non seguono il ritmo delle volizioni cerebrali. Perché il problema cari miei è che, dai tempi in cui ero alto quanto il mio attuale ginocchio, quando vedo la maglia azzurra con lo stemma tricolore non capisco più niente né intendo sentir ragione: infatti il mio impegno nel tutelare l’interesse nazionale è tramontato nel momento in cui ho sentito descrivere il secondo goal di Quagliarella e mi sono trovato a ballare il trenino da solo in camera, senza accorgermi di star festeggiando (è una metafora, ripeto) perché mercoledì scorso il governo aveva retto.

martedì 12 giugno 2007

Cinque libri che mi hanno cambiato la vita

(Gurrado per Ore Piccole)
Il fico fa bene alla vista
Gli uccelli ne mangian quintali
E quasi nessuno ha gli occhiali.
(Francesco Guccini, I Fichi)

Più passa il tempo più mi rendo conto che a nessuno piace leggere. Nel senso: a nessuno piace veramente leggere su scala assoluta, nessuno abbandonerebbe un’attività più piacevole per prendere in mano un libro. Vi immaginate voi, che ne so, di essere a cena con Claudia Schiffer – no, meglio una più giovane – a cena con Maria Sharapova, Jennifer Aniston e Scarlett Johansson tutte insieme e di dire prima ancora che arrivi il dessert: “Scusate tesore, ma devo abbandonarvi poiché sento l’insopprimibile bisogno di andare a leggere Brucia Troia, dove Brucia Troia non ha niente di personale con nessuna di voi ma è il titolo dell’ultimo romanzo di Sandro Veronesi”? Oppure vi è mai saltato in mente, mentre tutti intorno a voi ululano per la finale di Champions League, di richiedere silenzio perché non riuscite a concentrarvi su Il Libro Nero dell’Agricoltura Italiana: cinque anni di politica agraria italiana, europea e internazionale (editore Franco Angeli, 2007)? Uscite allo scoperto, sono sicuro che al contrario avete più di una volta messo giù Guerra e Pace perché non potevate fare a meno di guardare la tv, oppure che all’ultimo gruppo di studio cui avete partecipato siete finiti a torturare i margini del manuale di Diritto Civile nell’attesa che arrivasse il vostro turno di giocare con la playstation. Per questo motivo – ritenendo che i libri in fin dei conti non siano che dei riempitivi o peggio ancora dei palliativi per la solitudine o la delusione o la noia o quant’altro – ho una certa remora ad accettare l’idea che addirittura i libri possano cambiare la vita; ma poiché un amico mi ha esplicitamente chiesto di selezionarne cinque proprio secondo questo criterio, ed io essendo una persona talmente educata da non potergli rispondere che i libri semmai cambiano la vita in peggio (e ne leggo almeno dieci al mese, quindi ne saprò qualcosa), dopo svariate notti insonni sono arrivato al significativo elenco che riporto di seguito e che tenterò di giustificare – seguendo l’ordine di apparizione nella mia vita con conseguente cambiamento.

1. Almanacco Illustrato del Calcio 1989 [a cura di Arrigo Beltrami, Panini, Modena 1988] Per un libro, essere sulla mia scrivania non è un complimento molto indicativo, visto che la scrivania è stata esautorata del proprio compito originario per fungere da scaffale aggiunto dell’insufficiente libreria, ospitando dunque libri a centinaia, uno sull’altro. Però fatto sta che dopo quasi vent’anni l’Almanacco è ancora là: la copertina (che ritrae Franco Baresi in maglia azzurra velleitariamente inseguito da un tizio che mi figuravo appartenesse alla temibile nazionale maltese) è quasi venuta via, le pagine si stanno sfaldando, i contenuti sono – manco a dirlo – obsoleti. Di tanto in tanto, tuttavia, non posso trattenermi dal tornare a darvi una sbirciata, e controllare ad esempio l’avversaria del Verona nei trentaduesimi di coppa UEFA (il Pogon Stettino, 1-1 in trasferta e 3-1 in casa, ormai lo so a memoria). Ammetto che l’utilità pratica di tale gesto possa sfuggire ai più; ma mi serve come atto proustiano, per ritrovare memorie sepolte dalla crescita; il bello dell’Almanacco del 1989 è che mi ha non solo consentito di scoprire come si trasforma il dinamismo (ossia la motilità del calcio e le sue alterne vicende) in staticità (ossia i risultati fissati nel tempo, eternamente, e il complesso sistema di cause e conseguenze che ordina e incastra le diverse competizioni dell’universo pallonaio) – ma soprattutto di sapere, lasciando scorrere gli occhi sulle nude statistiche, dove acciuffare le emozioni passate, svelandomi così all’età di otto anni quasi compiuti che parole (e cifre) stampate su carta non camminano mai da sole nella testa del lettore.

2. Ulisse, di James Joyce [nella traduzione di Guido De Angelis, Oscar Mondadori, Milano 1994] Se mai mi capiterà d’incontrarlo, possibilmente nell’altro mondo, la prima cosa che chiederò a Joyce sarà: “Ma lo sa che la mia prima copia dell’Ulisse l’ho comprata dal giornalaio?”; al che lui con ogni probabilità risponderà, se non è ubriaco: “Pensi che anche il libro che mi ha ispirato l’Ulisse l’ho trovato nell’edicola di una stazione”. La folgorazione con l’Ulisse, quando avevo 15 anni, secondo me va ricercata proprio nella sua inattesa manifestazione (dal giornalaio; di domenica mattina, dopo messa e prima del pranzo con gli zii); se fossi andato a cercarmelo in una libreria, o peggio ancora in una biblioteca, il momento precedente la lettura si sarebbe caricato di troppe aspettative e/o pretese intellettualistiche, mentre al contrario è stato come se lui avesse cercato me, tendendomi un agguato con la tacita complicità di Berardo (il giornalaio, appunto). Costava sedicimila lire, che allora ero tutto ciò che avevo nel portafoglio, e rompermici la testa per i mesi successivi, leggerlo e rileggerlo negli anni, comprare l’originale inglese e la traduzione francese, affratellarlo con tante copie di edizioni differenti, sommergerlo di seconda letteratura talvolta costosissima – insomma tutto questo, iniziando dal fortuito incontro dal giornalaio, mi ha insegnato due cose uguali e contrarie, volendo sintetizzare all’estremo: che tutti gli avvenimenti possibili possono essere narrati, e che ogni avvenimento ha infinite maniere per poter essere narrato. Ragion per cui lo scrittore deve saper coprire con un solo sguardo tutto il mondo e riscriverlo meglio. (Fra parentesi, il libro trovato nell’edicola della stazione che ha cambiato la vita a Joyce è I Lauri Senza Fronde di Edouard Dujardin).

3. Voltaire, di Alfred J. Ayer [Il Mulino, Bologna 1990] Sia chiaro per prima cosa che non è un gran che. Si tratta di un breve saggio biografico, con l’evidenziazione di qualche filone teorico, che peraltro ho una pericolosa tendenza a confondere con il volume gemello (Introduzione a Voltaire) opera di Paolo Alatri e pubblicato l’anno prima da Laterza. D’altra parte in vita sua Alfred J(ules) Ayer s’è occupato di ben altro (tanto per dare un’idea, ha scritto Linguaggio, Verità e Logica come se niente fosse), così che la sua biografia di Voltaire non ha né la densità narrativa della biografia di Theodore Besterman (Voltaire, Feltrinelli, la bellezza di 565 pagine) né la profondità concettuale del monumento di Peter Gay (Voltaire Politico, Il Mulino). Però è stato il primo dei cinque testi specifici che nella tarda estate del 2000, con un occhio alle Olimpiadi di Sidney – ricordo di averlo lanciato in aria per salutare l’oro di Antonella Bellutti nel ciclismo su pista, a futuro scorno dei bibliotecari dell’università di Pavia –, ho iniziato a leggere per preparare la tesi di laurea (Voltaire e gli ebrei, discussa due anni dopo) dalla quale è poi scaturita la tesi di dottorato (Voltaire e qualcos’altro in cui c’entrano comunque gli ebrei, non ancora discussa né tampoco rilegata). Così che l’agile libretto di Ayer è diventato il giro di boa nei miei studi e l’unità di misura della conoscenza di (indovinate chi?) Voltaire, ora che sono alla vigilia del mio primo convegno parigino su (manco a dirlo) Voltaire, nel quale vedrò trasformarsi in persone in carne e ossa i nomi stampati i cui saggi su (come forse avrete intuito) Voltaire che hanno scandito i miei ultimi sette anni; rincresce apprendere che in tale circostanza non avrò l’onore di conoscere AJ Ayer, il quale era già morto quando Il Mulino pubblicava la sua biografia di – eh già, di Voltaire.

4. La Preghiera del Mattino e della Sera [imprimatur di † Vincenzo Zarri, Edizioni Dehoniane Bologna, curiosamente Cuneo, 2002] Ovvero il salterio, o meglio ancora la liturgia delle ore. A beneficio soprattutto della mia migliore amica che non sa nemmeno chi è Frate Indovino, si tratta di una raccolta di salmi e cantici dalla Bibbia divisi per quattro momenti al dì (Lodi al mattino, Ora Media al pomeriggio, Vespri alla sera e Compieta di notte, grossomodo) e strutturati a cicli di quattro settimane (ossia un mese), che a loro volta intersecano le quattro fasi principali del calendario liturgico (tempo di Avvento, tempo di Natale, tempo di Quaresima, tempo di Pasqua; fra i quali fa da collante il tempo ordinario) – col mirabile effetto che in un libricino di, un attimo che controllo, 733 pagine sottilissime, si trova compagnia indefettibile per tutto il resto della propria vita al modico prezzo di tre euri virgola sessantadue (una birra costa di più e dura di meno). Ovviamente, va usato e va usato bene, come cerco di fare da un paio d’anni (prima no, si è troppo giovani): le Lodi è bene recitarle prima di colazione, ché le preghiere a panza piena precipitano subito; la scelta dell’Ora Media (le nove, le dodici o le quindici) è la guardia montata alla giornata lavorativa (è difficile fermarsi a pregare durante un’attività disonesta, o svolta non a dovere); i Vespri possono diventare la retrospettiva sul male quotidiano, così che sono l’ora che il più delle volte si lascia di recitarli per non provare vergogna; e devo cedere la voce a Cristina Campo riguardo alla Compieta, “che contiene tutto, assolutamente tutto quanto occorre per affrontare la notte”. Su un piano privato, dunque, la liturgia delle ore è uno sguardo verso il basso, un’occhio gettato sulla vita di ognuno; su un piano pubblico, invece, la diffusione capillare del volumetto, insieme agli effetti del fuso orario e alla necessità per ciascuno di anticipare o posticipare un poco le preghiere per via degli impegni personali fa sì che da qualche parte nel mondo ci sia sempre qualcuno che sta pregando, e che per pregare legge.

5. Il Romanzaccione, di Antonio Gurrado [non so come né dove né quando] Nel tempo libero che non dedico a seguire la liturgia delle ore, a scrivere la seconda tesi di fila su Voltaire, a comprare sempre nuove edizioni dell’Ulisse e soprattutto a non memorizzare il risultato di qualsiasi partita di calcio avvenuta sotto il cielo, scrivo. E questo comporta una grave sofferenza, poiché le altre attività sono comunque tutte correlate all’atto di leggere e di scrivere, e per chi non lo sapesse scrivere un romanzo (anche quando non è il primo) rende necessario leggerne a bizzeffe (anche quando non ne varrebbe la pena), e non ha solo a che fare con l’agitare scompostamente i polpastrelli sulla tastiera. Finisce dunque che la parte di giornata non in ostaggio di qualche libro altrui resta ugualmente prigioniera del libro mio: quando lo scrivo perché sto scrivendo, quando non lo scrivo perché mi viene il rimorso, quando mi faccio la doccia perché ci penso e quando vado a coricarmi perché temo di morire prima di finirlo. Il risultato di tutto ciò è che ci vedo sempre meno, come ben sa il mio oculista [cfr. Dante Alighieri, Inferno, canto V, verso 123: “e ciò sa ’l tuo dottore”; ma anche James Joyce, Finnegans Wake, libro II, capitolo 2, righe 25-26: “and that’s what your doctor knows”].

sabato 9 giugno 2007

Apologia di reato

L’Inghilterra – la Gran Bretagna, va’ – è un’isola che sta affondando. Si sa che il 27 giugno diventerà un paese stalinista grazie all’ingresso di Gordon Brown al 10 di Downing Street. Per non farsi mancare niente, il primo luglio diventerà un paese nazista grazie allo smoking ban, il divieto di fumare in qualsiasi locale pubblico (chiese comprese). Ora, io non fumo ma riconosco agli altri la libertà di farlo, così come pretendo che loro riconoscano il mio diritto a chiedere loro di non fumare, se la cosa mi dà fastidio. Esattamente come ritenni un paio d’anni fa quando questa follia venne messa in pratica dal governo Berlusconi (e chissà che non gli sia costata i ventiquattromila voti per cui ha perso le politiche del 2006), tutto deve risolversi nel gentlemen agreement fra i fumatori e i non fumatori presenti in una sala; i primi devono sentirsi in dovere di chiedere: “Dà fastidio se fumo?”; i secondi devono sentirsi in dovere di non scassare la minchia all’universo mondo e di capire che se si trovano direttamente investiti dal fumo di una sigaretta distratta possono: a) chiedere cortesemente, e magari sorridendo, al fumatore di turno di spegnerla; b) spostarsi dove il fumo non arriva; c) decidere di iniziare a fumare.

(A proposito, ricordate la barzelletta resa immortale da Walter Chiari? Un nano e un energumeno si ritrovano soli nello scompartimento di un treno. Dopo un po’ di silenzio, l’energumeno si accende una sigaretta. Il nano tossisce vistosamente. L’energumeno si preoccupa e indaga: “Le dà fastidio la sigaretta?” Il nano annuisce tossendo vieppiù. L’energumeno si acciglia e gli chiede: “Vuole che la butti dal finestrino?” Il nano lo implora per pietà. L’energumeno si alza, apre il finestrino, afferra il nano, lo getta fuori, si risiede e fuma la sigaretta in santa pace. Che meraviglia i pronomi!)

Lo smoking ban, invece, parte dal presupposto che lo Stato abbia il dovere di garantire la salute dei cittadini. Dove per salute si intende, ovviamente, una salute spicciola e superficiale, fatta per venire incontro a maggioranze ipocrite o a minoranze chiassose. Al contrario, noi sappiamo che lo Stato ha il dovere di garantire i diritti e la libertà dei cittadini, e che debba consentire loro di scegliere se fumare una sigaretta, o un sigaro, o una pipa (non altro, mascalzoni) sia per loro stessi un bene o un male. Continuare a mettere sui pacchetti le scritte “nuoce gravemente alla salute”, una volta che chiunque sa che fumare fa male ai polmoni e fuma ciò nondimeno, è da cretini come scrivere sulle magliette dell’Inter “tifarmi fa male al cuore ed è causa di sofferenze innumerevoli”. Il fumo, Cesare Pavese lo definiva “il vizio assurdo”; e come tutti gli altri vizi è una bilancia che su un piatto ha il piacere e sull’altra il danno, e sta al singolo scegliere fra l’uno e l’altro e stabilire il confine fra bene e male. Sicuramente non sta a Gordon Brown arrivare con una forbice e tagliare la brace alla sigaretta di un povero malcapitato, dicendogli: “Scusi, sa, lo faccio per il suo bene, anzi, per il bene della Nazione, anzi, per il bene del Partito”. Quindi ogni sera, prima di coricarmi, prego che dal primo luglio il numero dei fumatori inglesi aumenti esponenzialmente e che al suo primo discorso pubblico Gordon Brown venga soffocato da nerissime e peccaminose volute.

Questo è niente, però. L’altra sera pare che nel corso dell’edizione inglese del Grande Fratello, mentre si ballava si rideva e si scherzava, una concorrente che se non ricordo male si chiamava Tizia ha dato della negra (nigger) a un’altra concorrente che stando a ricerche approfondite dovrebbe chiamarsi Caia. Ha detto una cosa tipo “Spostati, negra!”, mentre ballava felicemente con lei. Nel giro di un minuto, Caia ha iniziato a iniziato a inveire su Tizia, a dirle che aveva fatto il passo più lungo della gamba, a spiegarle che si trovava in un guaio più grande di lei e sostanzialmente a minacciarla; nel giro di cinque minuti, immancabilmente, il Grande Fratello che tutto vede e tutto decide ha sbattuto Tizia fuori dalla casa. Applausi inevitabili delle fondazioni antirazzistiche.

Ma se rivediamo il tutto alla moviola, noteremo che: 1. Tizia ha detto “negra” in maniera per così dire preterintenzionale, diciamo che le è sfuggito, e soprattutto in una circostanza di allegria generalizzata e diffuso scarso autocontrollo; 2. Caia ha investito Tizia con una violenza inaudita che le derivava dritta dritta dalla consapevolezza di far parte di una minoranza, mentre Tizia no e quindi era senza alcuna possibile protezione; 3. il Grande Fratello è stronzo. Il Grande Fratello è stronzo perché s’è gettato anima e cuore nella nuova linea stalinista-nazista-gordonbrownista che caratterizzerà (e probabilmente finirà) Inghilterra e Gran Bretagna a partire da quest’estate; perché ha deciso a priori che chi dice una parola senza pensarci troppo è un criminale (nel mondo invertito del Grande Fratello i reclusi sono i buoni, e chi è colpevole viene sbattuto fuori) mentre chi con piena avvertenza e deliberato consenso investe l’altro di improperi e minacce, invece di chiudere un occhio e capire che tutt’al più l’interlocutore è un po’ scemo, è una vittima e un eroe. Una delle cose che mi lascia più perplesso è che non si possa più dire la parola “negro” in alcun contesto, e che vada sostituita per lo meno da “nero” facendo cadere tutta la colpevolezza del termine sulla povera “g” mediana. Eppure viene dal latino, che suona “niger”, da cui deriva anche l’inglese “nigger” usato dalla sbadata Tizia; e mi pare che un’etimologia latina dia a una parola sufficientemente dignità e che ne consenta l’utilizzo. Una persona ragionevole distinguerebbe che è disdicevole dire “negro” (o “terrone”, o “crucco”, o “ricchione”, etc.) in un contesto volutamente offensivo e aggressivo (“sporco negro”, “terrone di merda”, “crucco del cazzo”, “ricchione sfondato”, e per oggi siamo a posto); al contrario, poiché come diceva Casanova l’alfabeto è di tutti e di nessuno, si ha piena libertà di usare qualsiasi parola nel contesto giusto, ossia pacifico, magari ironico, sebbene eventualmente a tinte forti. Tutte le mie telefonate con un amico spagnolo iniziano con un reciproco “Ciao cabrón” (“ciao, stronzo”) e nessuno dei due ha mai pensato di offendersi e riferire al Grande Fratello Universale.

D’altronde in una nazione che tollera, anzi protegge, anzi favorisce i vegetariani c’è da attendersi questo e altro. Cosa ancora più sconvolgente per chi, come me, sa che la carne di cavallo è l’alimento più buono sotto il cielo e ne mangia a quintali (vabbe’, quintali diluiti negli anni); e, come me, si trova a leggere da tre mesi ogni giorno sui giornali inglesi che mangiare carne di cavallo è un’usanza barbara e inaccettabile. Ora, io ad esempio non mangerei mai un cagnolino (sui gatti sono più possibilista) non tanto perché mi commuova l’idea dei suoi occhioni scintillanti quanto perché a quanto pare la carne di cane non è affatto prelibata (come d’altronde buona parte della roba che costituisce la cucina orientale); il cavallo invece è buono e me lo mangio con enormi soddisfazione e gradimento. Al contrario, gli inglesi carnivori fanno il ragionamento che il cavallo è un animale di dignità superiore e che pertanto, buono quantunque, non vada mangiato; alla stessa maniera i vegetariani estendono il questo ragionamento equino a tutti gli altri animali, e non contenti di praticarlo per sé stessi pretendono di estenderlo anche a tutti gli uomini, compreso me che quando vedo un cavallo correre in una prateria già immagino all’orizzonte un’enorme bocca spalancata e pronta a masticarlo con metodo e cura. I vegetariani, come il Grande Fratello, come i non fumatori, trasformano una questione estetica (nel senso greco del termine, cioè percettiva e quindi riguardante il piacere dei sensi) sul piano più schifosamente moralistico, stabilendo che chi mangia carne (peggio ancora se di cavallo) è un criminale, così come chi fuma per i non fumatori. I vegetariani militanti (e gli accaniti non fumatori) sono persone che kantianamente fanno della propria massima (ossia il principio su cui regolano, stando a una libera scelta, la propria vita privata) un imperativo categorico (ossia il principio necessario su cui chiunque deve necessariamente regolare la propria esistenza). Se al ristorante io ordino del cavallo non pretendo che lo mangino anche gli altri, anche se lo consiglio vivamente; se uno è vegetariano pretende che io non mangi carne, perché è male. Che si impicchino.

Tutto questo accade mentre qualche intelligente di cui non ricordo il nome ha proposto che in tutta l’Inghilterra ogni bottiglia di vino rechi l’etichetta: “può indurre all’ubriachezza”. È evidente che una frase del genere, da sola, basta a evitare che tutta l’Inghilterra si ubriachi a ogni weekend, come invece soleva fare prima che il genio in questione non avesse avuto la bella pensata. È allo studio la proposta di attaccare su ogni automobile l’etichetta: “può schiantarsi in un incidente”, su ogni biglietto della lotteria “può non risultare vincente”, su ogni vetro “può rompersi ed eventualmente ferirti”, su ogni piccione “può fare la cacca e sporcarti la camicia”, su ogni laurea in filosofia “può non essere sufficiente a trovare un lavoro”, su ogni elenco telefonico “può sembrare ripetitivo”, su ogni ragazzo “può portarti a letto e poi svanire nel nulla”, su ogni ragazza “può ingrassare smodatamente”; mentre sta incontrando impreviste difficoltà il progetto di scrivere sul sole: “può causare scottature”. Eppure, se per ovviare all’intelligenza di quest’intelligente basterebbe attaccargli sul braccio la scritta: “può dire talvolta cazzate”, come ci comporteremmo col dottore che, sempre in Inghilterra e sempre in questi tristi giorni, ha proposto una legge che obblighi i medici a rifiutare le cure ai fumatori – e sia chiaro, stiamo parlando di qualsiasi tipo di cura, non solo di quelle relative al sistema respiratorio? Infilargli la testa in un cesso e tirare lo scarico può non essere abbastanza indicativo dei sentimenti che proviamo per questo benefattore dell’umanità.

Qui si scherza ma la situazione è seria. Si sta facendo avanti un’orda di vacui salutisti del corpo e della mente che pretende di imporre le proprie idee al mondo intero, facendosi schermo della tolleranza e del rispetto nei loro confronti per imporre la propria intolleranza e il sistematico calpestamento nei confronti di chi li circonda. Lo sapete che Hitler, quando era agli esordi, diceva di agire per il bene dell’uomo e veniva applaudito; sapete anche che in nome di un principio etico a capocchia (ossia svincolato da ogni riferimento divino) si inizia con il proibire le sigarette, poi si passa a proibire la carne, il vino, le parole fraintendibili, e si finisce col proibire, che ne so, di vedere le repliche di Drive In (una lacrimuccia per Beppe Recchia, fra parentesi) o di svegliarsi alle dieci del mattino o di dire che un cretino è un cretino o di non fare ginnastica ogni giorno o di comprare Topolino invece che MicroMega o di avere una fidanzata bella se prima non se ne è avuta almeno una brutta. Lo fanno per il nostro bene, sia chiaro: sono gli apostoli di un’etica innovativa, ossia la privazione della libertà di scelta, della possibilità di errore, del piacere del vizio e, conseguentemente, della capacità di redenzione, di crescita e di automiglioramento. Sono i difensori delle ragioni giuste. Sono i trombettieri della felicità obbligatoria. Noi invece siamo dei criminali, e crediamo che il senso della vita consista nel bere vino durante i pasti, fumarsi mezzo sigaro dopo cena, cuocere cavalli in varie guise, usare come meglio possiamo tutte le parole che esistono e lasciare che l’Inghilterra – la Gran Bretagna, va’ – affondi come meglio crede, purché noi stiamo a galla.

giovedì 7 giugno 2007

Ciao vs. La Porcheria

Premesso che ieri non è accaduto ciò che avevamo sperato per tutta la giornata e creduto possibile per quasi cinque minuti; premesso anzi che col loro gran minacciare e far la voce grossa (per quanto in un italiano piuttosto stentato) i separatisti altoatesini alla fine si sono rivelati per ciò che sono, ossia pecore mannare, confermando una volta di più a chi ne avesse ancora bisogno che dalla loro provincia non è mai venuto nulla di buono a parte lo yogurt – dicevo, premesso tutto questo, parliamo d’altro.

Parliamo ad esempio del quattordicesimo risultato da segnare sulla schedina del totocalcio col quale gli Italiani, alla fine dei dorati anni ottanta, vennero chiamati a esprimersi sul nome da dare alla mascotte dei Mondiali di calcio che avremmo di lì a poco ospitati. Non ricordo quale fosse con precisione, ma ricordo grossomodo che al momento dell’attesissima schedina finale l’alternativa al nome vincitore sonava talmente imbarazzante e cacofonica che il risultato fu un plebiscito. Venne così fuori che l’omino stilizzato dalle propaggini tricolori e la testa di pallone si chiamava con la parola che ieri nove italiani su sei (è una stima approssimativa, arrotondata per difetto) avrebbero voluto dire a Prodi, ovverosia Vaff… - sorry, ovverosia Ciao.



Era Ciao, come potete vedere, niente di particolare però aveva due vantaggi: era facilmente riconoscibile e dava l’idea che, se avesse potuto parlare, sarebbe stato simpatico. Perfino io, all’epoca novenne ma già refrattario al mercatino dei gadget multiformi, me ne feci comprare una copia dai miei genitori nel negozio di Bari dove scegliemmo le bomboniere per la prima comunione (a proposito, comunicazione di servizio – mamma e papà, visto che ormai siete gli unici che continuano a leggere quello che scrivo, non è che avete una mezza idea di dove possa essere seppellito quel fasullo Ciao grande come il palmo della mia mano e semovente, non di propria volontà ma a seguito della pressione sul pulsante alla base?). Italia ’90 è passata (e, tragicamente, stava quasi per vincere di nuovo Maradona), nel giro di poco tempo gli stadi costruiti apposta vennero giù a pezzi (nel 1993, durante un Bari-Reggiana, nel prato del San Nicola si aprì una falla grande abbastanza da metterci dentro Matarrese, che peraltro adoro e sta bene dove sta), Vialli ha perso i capelli e Schillaci ha perso i piedi, ma in tutto ciò Ciao è rimasto – invecchiato, magari, con la testa un po’ sgonfia e le propaggini tricolori un po’ slavate – a vegliare nella nostra memoria collettiva come un simpatico omino fatto solo per il calcio (coincidendo in ciò con gran parte dei suoi connazionali, me compreso); e la notte dello scorso nove luglio, mentre compravo il secondo gadget della mia vita (una maglietta azzurra con un enorme Coppa del Mondo sopra), me lo sono immaginato, Ciao, andare in giro mezzo ammaccato per le strade d’Italia, festeggiare (alzando al cielo le braccia prive di mani) il proprio trionfo con sedici anni di ritardo sul programma, venire riconosciuto dai passanti euforici che si davano di gomito e lo indicavano: “Guarda, Sacchi in incognito!” (se ci pensate, si rassomigliano davvero). Per me Ciao regna sovrano su tutta una pletora di mascotte mondiali, europee e olimpiche, fiocchi di neve e lepri in mutande, gemellini siamesi e galletti rossoblu; ma da un paio di giorni la sua leadership icastica è severamente minacciata dalla roboante forza d' urto de La Porcheria.

Certo, Ciao ricordava in maniera inquietante all’impiccato dell’omonimo gioco; ma non restava impresso per questo lugubre aspetto. Quanto a La Porcheria, invece, ha tre giorni di vita e già è passata alla storia (precoce in ciò quanto il dio Hermes, del quale si dice che nello stesso lasso di tempo rubò le mandrie di Apollo, uccise una tartaruga per trasformarla in un banjo e, già che c’era, pizzicò il culo ad Afrodite Pandemia). La sua immagine è indelebile nella retina di ogni inglese. Dodici persone, al solo vederla, sono state colte da crisi epilettica (e vi giuro che rimpiango che questa sia una notizia vera, rimpiango di non essermela inventata, rimpiango che in Inghilterra la vita altrui superi la mia fantasia). Cinquantamila contribuenti hanno chiesto indietro i (tanti) soldi pubblici spesi per finanziare questo scarabocchio malcacato. Al confronto il referendum/totocalcio sul nome da dare a Ciao, temporaneamente Coso, perde ogni fascino di mobilitazione popolare.

Col disvelamento del suo simbolo, Londra 2012 non solo è già iniziata, ma di fatto ha già stancato la nazione ospitante (escluso ovviamente il comitato organizzatore), cosa che per le Olimpiadi di solito accade un paio d’anni prima, non cinque. Personalmente, ho visto La Porcheria per la prima volta l’altro giorno alle otto di mattina, facendo colazione e sbirciando il Daily Telegraph, e nonostante la mia rimarcabile conoscenza dell’inglese scritto ho compreso che si trattava dello stemma per le Olimpiadi solo dopo aver chiuso il giornale e digerito la colazione. Verso mezzogiorno e un quarto, ho intuito che le quattro macchie da cui è costituito stilizzano le cifre 2 0 1 2. Alle cinque del pomeriggio ho realizzato che, se l’avessi visto su The Independent, non ci avrei creduto come a tutto il resto. Al mattino dopo, leggendo sul Guardian che un inglese su sei (è una stima ottimistica, arrotondata per difetto) soffre di problemi con l’alcol, mi sono chiesto perché affidare la composizione dello stemma olimpico proprio a lui.

E sì che, come emerso dalla protesta montante, gli stemmi presentati in alternativa erano tutti inevitabilmente più belli (anche quelli in cui l’artista, soffrendo di problemi con l’alcol, si era limitato a vomitare sulla tela), ma soprattutto più significativi. Sapete cosa significa, significativo? Che ha un significato. Ad esempio, il mio preferito riproduceva semplicemente i cinque cerchi olimpici sovrapponendo a quello rosso lo stemma della metropolitana. Semplice, conciso, ma geniale – e significativo. Rendeva l’idea di cos’è l’Inghilterra e dell’idea che ne hanno gli inglesi. Poiché però l’Inghilterra non è l’Italia, Londra non è Roma e Gordon Brown non è Padoa Schioppa (per favore smettetela di ridere, sono entrambe persone serie) (e rispettabili) (ho detto smettetela), mi sono fatto persuaso che una ragione per scegliere La Porcheria a discapito di qualsiasi altro possibile stemma olimpico doveva esserci. E allora solo oggi a pranzo, con due abbondanti giorni di ritardo, ho capito perché La Porcheria è significativa.

Se non vi siete già addormentati vi ricorderete che secondo me Ciao, con la testa nel pallone, era un ironico ritratto dell’Italiano medio (benché effettivamente più magro); se avete presente lo stemma di Atene 2004, ricorderete che era una corona di alloro (tipicamente greca), mentre Sidney 2000 comprendeva un boomerang (tipicamente australiano) e che, sebbene sorprendentemente quello di Atlanta 1996 non contemplasse una bottiglia di Coca Cola né la scritta Pepsi Merda, quello di Barcelona 1992 stilizzava, sant’Iddio, i colori della bandiera non spagnola ma catalana. Insomma praticamente ogni stemma delle precedenti Olimpiadi aveva a che fare con, anzi si fondava su, la forza l’identità locale, rendendola trampolino per l’accoglienza degli ospiti stranieri.

A questa luce analizziamo pertanto La Porcheria. Essa si compone di quattro sputazzi che, visti da soli, non significano niente, mentre visti contestualmente significano che le Olimpiadi si terranno nel 2012. Cosa peraltro che gran parte degli esseri umani sapeva già, prima che La Porcheria venisse concepita. Notate come dunque il significato dello stemma sia stata spostato dal luogo ospitante all’anno accidentale, ossia se preferite dallo spazio al tempo. Sapete perché? No, e secondo me non lo sa nemmeno chi l’ha fatto. Allora ve lo spiego e glielo spiego io: perché concependo La Porcheria egli ha scartato mentalmente ogni simbolo di appartenenza geografica che potesse offendere i mussulmani, gli indiani, i pakistani, i centrafricani, gli italiani di passaggio, i polacchi appena arrivati, gli spagnoli che si sono persi, gli americani che preferiscono Londra, gli scozzesi che preferiscono Edinburgo, e chiunque avesse dalla sua – nel meraviglioso calderone di razze e di lingue che Londra ha deciso di diventare – il diritto di protestare contro il sentirsi messo da parte da un simbolo che rivendicasse una forte appartenenza geografica, un’identità stabilita. Quindi, scarta questo che scarta questo, l’artista incaricato non ha potuto che produrre una porcheria, anzi, La Porcheria par excellence; questi quattro numeri spastici che esprimono una sola certezza: le Olimpiadi si terranno nel 2012, ma potrebbero essere state organizzate a Londra come a Samarcanda senza che nulla cambiasse. La Porcheria segna il definitivo passaggio di Londra da capitale dell’Inghilterra a città cosmopolita, in cui si può continuare tranquillamente a vivere come se si fosse a casa propria, e qualsiasi casa propria; e quindi il significato de La Porcheria consiste esattamente in ciò che costituisce l’identità comune dell’ideale società multiculturale, cioè niente.

mercoledì 6 giugno 2007

Dialogo a Oxford

Gli inglesi non lo capiranno mai. Se a pranzo qualcuno avesse avuto l’ardire di fermarmi e di chiedermi perché avevo passato la mattinata a controllare ogni trentacinque secondi il sito del Corriere, a ponderare per ore e ore immutabili schemi rossi e blu, a fare somme e differenze, a fare calcoli complicatissimi sul fuso orario, a provare e riprovare il funzionamento dei video streaming sul mio portatile, ad appuntarmi sull’agendina robe tipo “h18:40 GMT min. fin.”, e sostanzialmente perché da stamattina, pur avendo una cascata di fatti miei da tener d’occhio, io mi sia svegliato non pensando ad altro che all’attesa delle nove di stasera, le dieci in Italia – ecco, tutt’al più avrei potuto rispondere: “Perché oggi c’è il Senato”, e l’eventuale inglese non avrebbe capito.

Se non fossero timidi, gli inglesi potrebbero chiedermi perché di tanto in tanto “c’è il Senato”, e soprattutto perché questo costituisca un motivo di entusiasmo apparentemente ingiustificabile, e in subordine se questo Senato non ce l’abbiamo tutti i giorni, e quindi perché gioirne soltanto, poniamo, di mercoledì. Non potranno mai capire che dal giorno dell’insediamento del nuovo parlamento io (con me tutta l’Italia) mi sono sistemato panza all’aria davanti alla tv per sottopormi in sostanza alla continua visione di una reiterata conta. Esempio primordiale, l’elezione del Presidente del Senato, ossia vicepresidente della Repubblica, con un candidato per la maggioranza e uno per l’opposizione.

“Tante grazie”, direbbe l’ipotetico inglese, “ma si suppone che la maggioranza, in quanto maggioranza, disponga di più voti dell’opposizione, in quanto opposizione.” “Tante grazie”, risponderei io, “ma si dà il caso che siamo in Italia.” “E quindi?” “E quindi la maggioranza ha tre seggi di vantaggio.” “E quindi?” “Il Presidente del Senato, eletto da loro stessi, non vota.” “Ne restano due.” “Il senatore Di Gregorio, eletto con la maggioranza, suole votare con l’opposizione.” “Ne consegue che sono pari, quindi non c’è maggioranza né opposizione.” “Il senatore Follini, eletto con l’opposizione, si trova più comodo a votare con la maggioranza.” “Quindi la maggioranza ha due senatore di vantaggio. Ma come mai la maggioranza ha un margine così esiguo?” “Perché alle elezioni ha preso duecentomila voti in meno dell’opposizione.”

Se a questo punto l’ipotetico inglese non è svenuto, porto avanti il carico da novanta: “Meno male che ci sono i senatori a vita?” “Chi sono i senatori avvita, please?” “A vita. Sono gli araldi della democrazia: non sono eletti da nessuno e solo la morte può privarli del diritto di voto.” “Quanti sono?” “Sette, di cui almeno quattro votano sempre per la maggioranza.” “Questo significa che la maggioranza ha sempre e comunque minimo due voti di vantaggio.” “Sì ma non sempre. I senatori a vita sono vecchi.” “E quindi?” “Inciampano, si sentono male, hanno il raffreddore.” “E quindi?” “Può capitare che i senatori a vita che votano con l’opposizione godano di migliore salute di quelli che votano con la maggioranza.” “Capita spesso?” “Quasi mai. Votare per il governo, a quanto pare, allunga la vita e migliora la salute.” “Quindi coi suoi quattro senatori a vita sicuri, la maggioranza ha un margine anche di sei voti più dell’opposizione?” “Alle volte.” “E l’opposizione che fa?” “Fischia.” “Perché fischia?” “Perché quelli stanno bene.”

L’Inghilterra (la Gran Bretagna, va’) è la patria della logica – Duns Scoto, John Locke, Bertrand Russell – e, a seguito di un rapido calcolo, l’ipotetico inglese ha chiaro in mente che in Italia sono stati eletti 315 senatori, 159 di maggioranza e 156 di opposizione; da questi va levato il Presidente del Senato (maggioranza), così da essere sul 158 a 156; uno della maggioranza passa con l’opposizione, 157 a 157; uno dell’opposizione passa con la maggioranza, 158 a 156; quattro senatori a vita votano con la maggioranza e tre con l’opposizione, 162 a 159 e buonanotte. L’inglese ipotetico ne deduce il trionfo definitivo della maggioranza e la navigazione tranquilla fino a fine legislatura. Io gli spiego che solo Prodi ragiona così.

Innanzitutto perché i tre senatori di maggioranza hanno un nome e un cognome, anzi, hanno tre nomi e tre cognomi e appartengono all’UDEUR. “And what the hell is the UDEUR?” “It is il partito del ministro della giustizia.” “È un partito molto grosso?” “Non supera il due per cento.” “E quindi?” “E quindi è decisivo, perché se l’UDEUR decide di togliere l’appoggio al governo i suoi tre senatori passano all’opposizione e la maggioranza si ritrova sotto 159 a 162, pur contando i senatori a vita.” “Oh my God.” “E questo è niente, perché in fin dei conti l’UDEUR parla parla ma mai se ne va; pensa però che bastano non tre ma due senatori qualsiasi a far cadere il governo, il che significa che uno qualsiasi dei partiti di maggioranza in ogni momento può decidere di votare con l’opposizione e polverizzare ciò che resta di Prodi.” “Uno qualsiasi dei due partiti di maggioranza?” “Sono di più.” “Dei tre partiti di maggioranza?” “Di più.” “Quattro?” “Oltre all’UDEUR, ci sono: Italiani in Sud America; Italia di Mezzo; Italia dei Valori; Per le Autonomie; Verdi; Partito dei Comunisti Italiani; Rifondazione Comunista; Ulivo, che a sua volta è composto da Democratici di Sinistra e Margherita, che a sua volta è composta da prodiani e rutelliani, che a sua volta sono composti da…” “Basta così, penso di avere afferrato.” “Ora, una volta che ipoteticamente a tutti e sette i senatori a vita viene il raffreddore, basta che un partito composto da un solo senatore ritiri la fiducia al governo per farlo cadere” “…” “Ragion per cui a ogni voto in Senato il governo ha 158 possibili diversi mal di pancia.”

Argomenta allora il combattivo, benché ipotetico, inglese: “Però resta il fatto che alla fine si ricompattano, per quanto in maniera pittorescamente italiana, e contribuiscono alla stabilità del governo per tutta la legislatura.” “Può darsi. Ma sono già andati sotto una volta, all’inizio della scorsa quaresima.” “E che è successo?” “L’inevitabile: come nella via crucis, Prodi cade per la prima volta.” “Si era dimesso? Ma non è ancora Presidente del Consiglio?” “S’è dimesso di mercoledì sera e gli è stato ridato l’incarico di sabato mattina.” “Avrà cambiato molti ministri.” “Nemmeno uno.” “E cos’è cambiato?” “Follini.” “E chi è?” “Ma stai attento quando parlo? Una pagina e mezzo fa avevo detto che il senatore Follini si trova più comodo a votare con la maggioranza.” “Ah, sì scusa. Quindi hanno dovuto cambiare il programma di governo?” “Macchè.” “E allora perché il senatore Follini prima votava con l’opposizione e poi ha iniziato a votare per la maggioranza?” “Perché vuole rompere i coglioni pure lui; non ora, però, quando si troverà comodo.”

“Quindi forse oggi l’UDEUR voterà contro il governo?” “Assolutamente no.” “Il senatore Follini voterà forse contro?” “Assolutamente no.” “Qualche esponente degli svariati partiti comunisti che difendono la democrazia in Italia voterà forse contro?” “Assolutamente no.” “E allora perché ti agiti tanto? Non vedi che anche oggi il governo Prodi è al sicuro?” “Assolutamente no.” “La politica italiana non la capisco, ci rinuncio.” “Infatti stavolta non si tratta di politica strettamente italiana.” “Si vota su un caso di politica estera?” “No, di politica interna.” “…” “Però un voto decisivo contro il governo potrebbe venire da…” “Il partito per gli Italiani all’estero!” “No, quello stavolta sta tranquillo. Il pericolo viene dalla Sudtiroler Volkspartei, il partito degli stranieri in Italia.” “Cos’è la Sood Teer Hole Hervaulkes Pur Tie?” “Un partito che fa parte del gruppo Per le Autonomie e che rappresenta il Sudtirolo.” “E che cos’è?” “La parte di Italia in cui tutti parlano tedesco e sognano di essere austriaci coi soldi degli altri italiani.” “Ma prende molti voti in Italia, questo caratteristico partito tedesco?” “In Italia nessuno, in Sudtirolo tantissimi, ragion per cui il governo più traballante della storia della Repubblica per governare ha bisogno anche dei suoi senatori, e li ha tirati dentro.” “Come si chiamano questi senatori?” “Manfred Pinzger e Helga Thauler Ausserhofer.” “’Sta minchia”, considera l’ipotetico inglese, “e voteranno contro?” “Può darsi.” “Perché?” “Perché si sono resi conto di avere nomi difficili e vogliono che i giornali parlino di loro più spesso; o perché vogliono che tutti gli altri partiti della maggioranza si vestano con abiti tipici tirolesi e cantino lo yodel; o perché come tutti i mitteleuropei sono dei mattacchioni e vogliono fare uno scherzo; o perché, meno probabilmente, all’improvviso e per la prima volta in vita loro vogliono fare qualcosa di utile per l’Italia, forse.” “E quindi oggi il governo cadrà grazie agli eroici Helmut Strunzer e Sberla Panzer Cazzerhofer?” “Macché, tutto fiato sprecato.”

Così che alla fine l’ipotetico inglese se ne torna da dove è venuto, senza più lamentarsi di avere al momento un Primo Ministro in carica che s’è già dimesso da un mese, e un Primo Ministro che lo sostituirà fra qualche settimana e che sta facendo campagna elettorale, pur non avendo alcun avversario, deprecando la politica del suo predecessore al governo, di cui lui era ministro delle finanze.

lunedì 4 giugno 2007

Il diritto all'errore

Voi forse non sapete che Boris Johnson è un membro del parlamento inglese (MP) e che i suoi fan (ha veramente un club organizzato di ammiratori) lo definiscono l’Adone conservatore. Questo non lo sapevo neanch’io, se devo proprio dire la verità., e l’ho scoperto soltanto due minuti or sono cercando notizie precise al riguardo (riguardo all’identità di Boris Johnson, non riguardo all’identità di un eventuale Adone conservatore). Invece stamattina, dando una scorsa a The Independent, ho scoperto che Boris Johnson si definisce “assolutamente illiberale” riguardo all’utilizzo della droga e che Boris Johnson ha sniffato cocaina; se ne deduce – non se ne deduce niente, almeno per il momento, perché ho sbagliato l’attacco. Scusate. Rifacciamo.

Voi forse non sapete che The Independent è con ogni probabilità l’organo stampa del demonio, sebbene presumo che il demonio si affretterà a smentire questa notizia e a querelarmi per diffamazione. The Independent, infatti, si basa su tre pilastri del giornalismo: dare le notizie da un punto di vista parziale, darsi ragione da sola, fare errori marchiani. Non ci credete? L’altro giorno hanno messo in ultima pagina (che, per le leggi del giornalismo inglese, coincide con la prima pagina di sport) un titolo enorme in cui il nome di Beckham era scritto Beckam (un po’ come se noi parlassimo a caratteri cubitali di Toti e Inzagi). La cosa non mi ha stupito perché sono talmente accecati dalla consapevolezza di avere sempre ragione da non rendersi conto che di tanto in tanto scrivono cazzate (un po’ come l’Inter, che era tanto presa dal trovare nuovi aggettivi per lo scudetto dell’onestà, dell’amore universale e della Gerusalemme Celeste da farsi sfuggire che sulla maglietta celebrativa avevano scritto “nerazzurro” con una erre di meno) (un po’ come quel giornale che si chiama come un dialogo di Platone, che il giorno dopo l’elezione del Papa illustrò con disegnino e didascalia che lo stemma di Ratzinger consisteva in due chiavi tenute insieme da una fune; presumibilmente, cinque minuti dopo la fumata bianca, erano andati sul sito del Vaticano e avevano fatto copia e incolla con lo stemma che si trovava sulla homepage, mancando di notare che la didascalia del sito spiegava espressamente: sede apostolica vacante. Ma è noto che il giornale che si chiama come un dialogo di Platone ha sempre talmente ragione che il Papa ha già umilmente deciso di adeguarsi cambiando il proprio stemma). Sia chiaro che non comprerei mai The Independent perché non voglio che nemmeno un quinto di mezza sterlina dei miei risibili guadagni finanzi robaccia simile, ma per assurdo oggi avrei potuto farlo al solo scopo di gettare tutto il resto e conservare solo pagina 19, dove campeggiava un enorme avviso pubblicitario che invitava il lettore ad organizzare per tempo il proprio funerale. Purtroppo la copia che ho fatto finta di leggere era pubblica, pertanto non ho potuto strappare il ritaglio per tradurvelo. Fate conto che, in scrittura fittissima, l’enorme pubblicità esordiva spiegando che quando pensiamo ai nostri cari, l’ultima cosa che vorremmo è essere loro di peso dopo la nostra morte, e di seguito proponendo una sorta di mutuo rivolto a qualsiasi inglese di età compresa fra i cinquanta e gli ottant’anni, specificando inoltre – e qui stavo veramente per compiere l’insano gesto di andare in edicola a comprare The Independent, così da verificare se fosse scritto davvero su ogni copia – di tener presente che il costo del funerale aumentava con il passare degli anni, così che per ottimizzare i costi era necessario non morire più tardi di due anni dopo aver iniziato a pagare; fermo restando che, specificava ancora l’annuncio, in caso di morte antecedente ai due anni sarebbe stata applicata una piccola ma comprensibile sovrattassa. Ma ho divagato di nuovo e questo non c’entra nulla con quello che volevo scrivere, quindi devo ricominciare da capo.

Voi forse non sapete che quando voglio spegnere il cervello ascolto RDS; che RDS ti insegue ovunque perché è possibile ascoltarla ventiquattr’ore su ventiquattro via internet, anche se si è in Lapponia, a Kuala Lumpur e perfino a Oxford; che RDS ha l’esclusiva italiana per non so quale concerto contro il surriscaldamento del pianeta, che com’è noto ha una pronta tendenza a raffreddarsi quando sente cantare Madonna e/o Biagio Antonacci; che di conseguenza i dj di RDS, incuranti del mio desiderio di spegnere il cervello, da un po’ di giorni non parlano quasi d’altro che di questo surriscaldamento e come madre nobile e fonte autorevole citano, non c’è scampo, The Independent, la quale riguardo surriscaldamento del pianeta sta facendo un notevolissimo sforzo editoriale per creare allarmismo, vendere più copie e far sì che non resti un solo inglese che non sappia che non sanno come si scrive Beckham. Così oggi pomeriggio tento di spegnere il cervello e invece niente, arriva il dj di RDS che se n’esce con The Independent, col surriscaldamento del pianeta e con questo benedetto concerto che, assicura, coinvolgerà artisti di sette continenti. Resto perplesso. Se ne deduce che o RDS e The Independent contano i continenti come se stessero giocando a Risiko (l’America Latina dà diritto a due carri armati, l’Europa se non sbaglio a cinque), oppure The Independent ha deciso che limitarsi a sensibilizzarne cinque non era sufficientemente etico e che pertanto bisognava comprarne altri due. Allora spengo il computer e vado a correre, nonostante che la caviglia destra mi faccia male come se nel weekend mi avessero crocifisso.

Qual è la sottile linea rossa che lega Boris Johnson MP al surriscaldamento del pianeta? O meglio, visto che si tratta di cocaina, qual è la sottile pista bianca? Questa: che The Independent è troppo concentrata sugli errori degli altri per accorgersi dei propri, e che è troppo abituata a darsi ragione da sola per ammettere che qualcun altro possa sbagliare impunemente. (Parentesi: sebbene sia teoricamente più corretto il genere maschile, parlo di The Independent al femminile perché è la perfetta incarnazione cartacea di una donna intellettuale, de sinistra, agnostica, ovviamente isterica e pure brutta. Oltre che vegetariana e interista.) Dunque, se Boris Johnson tempo fa ha sniffato cocaina (fra l’altro questo onorevole Johnson, sembra, s’è vantato che la cocaina non gli abbia fatto alcun effetto, ma a guardare la sua pettinatura mi sorge qualche dubbio), è evidente che per The Independent Boris Johnson non può sostenere che sniffare cocaina sia male e che la cocaina vada proibita. Se ne deduce, sottintende The Independent col metodo viscido e repellente che le è tipico, che sniffare cocaina è bene e che Boris Johnson è invece un mascalzone.

Lo stesso ragionamento soggiaceva alla messa in onda del documentario sui sacerdoti pedofili, che non per niente arrivava da queste latitudini: dimostrare in un sol botto che il Papa parla contro le unioni omosessuali e compagnia bella (premessa maggiore), che nella Chiesa ci sono stati sacerdoti omosessuali o peggio ancora pedofili (premessa minore) e che quindi la Chiesa deve tacere una buona volta e lasciare che ognuno faccia i comodacci propri. Se avessi un figlio, e se questi a quattro anni ragionasse così, lo riterrei irrimediabilmente immaturo e chiederei all’eventuale mamma se c’è qualcosa che non mi ha detto. Più in generale The Independent, il giornale che fa finta di essere un dialogo di Platone, l’Inter e le intellettuali isteriche fanno probabilmente parte di un complotto anticattolico e antiumano (oltre che anti Boris Johnson, poveraccio) che non intende concedere ad alcuno un margine di errore, né riconoscere che l’esperienza (sbagliata) possa portare a maggior consapevolezza e veridicità di una polifonia di tromboni scoreggianti. Al contrario il cattolicesimo, ogni uomo decente e in particolare Boris Johnson ritengono di avere diritto all’errore, anzi, di esservi a priori condannati e, proprio per ovviare a questa condanna, di avere la possibilità e il dovere di cercare sempre di migliorarsi, sbagliare di nuovo, emendarsi, inciampare, rialzarsi. Oltre che di rileggere per controllare se Beckham è scritto con o senza la mutina, consonante notoriamente irta d’insidie nascoste.

Questo grossomodo ho riferito l’altra sera a una signorina la quale, poiché sa l’Inglese molto meglio di me, l’ha sintetizzato con un trattino: self-righteousness, ossia il sentimento di chi si sente talmente nel giusto che gli basta notare di essere nel giusto per confermare di essere nel giusto (l’Italiano, a differenza dell’Inglese, non è una lingua sintetica). E a chi osa dire una sola parola in difesa di The Independent, risponderò chiedendo dove va in vacanza: perché nel 2003 l’autorevole quotidiano che ha sempre ragione pubblicò un articolo in cui il corrispondente da Roma illustrava inoppugnabilmente che gli Italiani si vantano per tutto l’anno di andare in vacanza nei posti più esotici, salvo poi quando arriva l’estate chiudersi per tre settimane nello scantinato ed evitare di far rumore per non far brutta figura coi vicini.

sabato 2 giugno 2007

venerdì 1 giugno 2007

It was forty years ago today

Vuole la leggenda che i Beatles avessero finito di registrare poco dopo l’alba – e stiamo parlando dell’alba inglese, che a giugno è già decisamente prematura. Poiché in una nazione che non ha tapparelle né persiane (ma soltanto tendine per lo più trasparenti) evitare di svegliarsi insieme al sole è pressoché impossibile, a meno di essere notevolmente ubriachi e felici, pur essendo le sei di mattina i Beatles decisero di andare a casa di una zia di Ringo Starr, che evidentemente viveva dalle parti degli studi EMI. Vuole la stessa leggenda che la zia fosse già sveglia e tutt’altro che infastidita dalla visita intempestiva, e che per lei i Beatles altro non fossero che suo nipote e tre amici; al che, come avrebbe fatto qualsiasi donna inglese a qualsiasi ora del giorno, mise su l’acqua e cinque minuti dopo servì il tè agli ospiti. Vuole ancora la leggenda che i Beatles, con estrema educazione britannica, bevvero il tè e quindi chiesero alla zia di Ringo Starr se volesse ascoltare l’album che avevano appena finito di registrare; anzi, poiché a loro sembrava di aver fatto un lavoro più che discreto, si dissero che era il caso di aprire le finestre (per certi versi era quasi estate, per certi versi faceva quasi caldo) e rivolgere le casse verso il mondo esterno. Vuole infine la leggenda che estrassero la copia di prova del vinile, la misero sul giradischi, sistemarono la puntina e si ascoltarono suonare; dalle casse uscì rumore di sedie che si disponevano e di strumenti che si accordavano, e poi la voce ritmata di Paul McCartney: It was twenty years ago today / Sgt Pepper taught the band to play, e così via per circa tre quarti d’ora. Vuole insomma la leggenda che così si ascoltarono i Beatles, li ascoltò la zia, e li ascoltò un pezzo di Londra preparandosi per andare al lavoro, giovedì primo giugno 1967. Nessuno protestò per il volume alto.


Ovviamente la leggenda è falsa, anzi in gran parte me la sono inventata, soprattutto la data finale, che coincide con il giorno del lancio del disco mentre invece l’episodio, stando alla storiografia beatlesiana, dovrebbe risalire piuttosto all’aprile precedente. Ma insomma, queste cose chiedetele a Mark Lewisohn e non a me; ché ritengo uno scrittore (ehm) debba innanzitutto imparare a mentire con classe, come d’altronde qualsiasi maschietto che si rispetti. Non è molto più bello immaginare che l’uscita dell’album nei negozi specializzati sia coincisa col vagito lanciato dalla finestra della casa della zia di Ringo Starr?


Fatto sta che quarant’anni fa esatti esatti la storia della musica è cambiata; lo so perfino io che ho la stessa cultura musicale di un cavernicolo. Il primo album dei Beatles, Please Please Me, era stato registrato nel 1963 su un’unica traccia, tutto di seguito, e per finirlo ci volle la bellezza di tredici ore; i Beatles avevano prenotato lo studio per dodici ore ma, visto che alla fine mancava l’ultima canzone, erano riusciti a ottenere una proroga – durante la quale cantarono Twist and Shout, in cui si sente distintamente la voce di John Lennon venire meno per la stanchezza. Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band, invece, era il loro ottavo album (mi riferisco alle uscite nel Regno Unito) e la sua registrazione aveva preso grossomodo sei mesi, limando e limando materiale accumulato già dall’estate del 1966, come a dire un anno intero di lavorazione prima di poterlo sentire trasmesso dalla casa della zia di Ringo Starr. Che le cose lente vengano meglio di quelle fatte in fretta è arcinoto; meno persone invece sanno che, l’anno prima, i Beatles sentirono l’album appena pubblicato dai Beach Boys, ossia Pet Sounds, e si dissero – questa è roba ottima, vediamo se riusciamo a fare qualcosa del genere. O piuttosto: questa è roba ottima, vediamo se riusciamo a fare qualcosa di meglio.


Decisamente, l’hanno fatto. Poiché il capolavoro è nel dettaglio, bisogna ricordare che Sgt Pepper’s fu il primo album nella storia ad includere nel libretto i testi delle canzoni; come tale dava un’importanza senza precedenti al contenuto verbale delle stesse, tant’è vero che perfino io (che ho la sensibilità musicale di un orango) prima di ascoltarlo ho ritenuto opportuno leggere non solo i testi ma anche qualche più o meno approfondita guida specifica, un po’ come prima di leggere Proust, tanto per dire. Inoltre la copertina è, cosa rara a quei tempi, un prodotto di arte postmoderna e, se fosse uscita senza il disco dentro, comunque sarebbe stata artisticamente notevole; inoltre la scelta dei personaggi ritratti nella copertina dimostra che quello che l’acquirente aveva per le mani non era solo un album musicale ma una specie di manifesto artistico, politico e filosofico (già, filosofico); inoltre la presenza di due versioni dei Beatles sulla stessa copertina, sia vestiti da membri della fantomatica Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band sia in versione manichini di cera (l’anno prima Lennon aveva detto che ai concerti i fan urlavano talmente tanto che sarebbe stato lo stesso mandare in tournée i manichini) segna forse il più schizofrenico distacco che un artista (e ancor più un gruppo di artisti) abbia voluto intraprendere dalla sua produzione precedente.


Poiché il capolavoro è nel dettaglio, giova ricordare anche che il contenuto (sia musicale sia testuale) di Sgt Pepper’s è talmente pieno di rimandi, (auto)citazioni, trucchetti, furberie, ammicchi e così via da non solo richiedere, cosa rara per un album pop, studi specifici al riguardo, ma addirittura da tracciare una linea e indicare che, se un album musicale in futuro voleva avere status di opera d’arte, doveva innanzitutto sottostare a questo enorme studio preventivo da parte dei suoi stessi autori, esecutori e produttori. Quarant’anni fa, grazie anche alla zia di Ringo Starr, la musica è cambiata perché i Beatles hanno raccolto e portato avanti la qualità dell’arte fine a sé stessa; ovvero ciò che progressivamente, dopo il modernismo, buona parte degli scrittori e degli editori ha trascuratamente lasciato cadere, per non sentir zavorra.