Vuole la leggenda che i Beatles avessero finito di registrare poco dopo l’alba – e stiamo parlando dell’alba inglese, che a giugno è già decisamente prematura. Poiché in una nazione che non ha tapparelle né persiane (ma soltanto tendine per lo più trasparenti) evitare di svegliarsi insieme al sole è pressoché impossibile, a meno di essere notevolmente ubriachi e felici, pur essendo le sei di mattina i Beatles decisero di andare a casa di una zia di Ringo Starr, che evidentemente viveva dalle parti degli studi EMI. Vuole la stessa leggenda che la zia fosse già sveglia e tutt’altro che infastidita dalla visita intempestiva, e che per lei i Beatles altro non fossero che suo nipote e tre amici; al che, come avrebbe fatto qualsiasi donna inglese a qualsiasi ora del giorno, mise su l’acqua e cinque minuti dopo servì il tè agli ospiti. Vuole ancora la leggenda che i Beatles, con estrema educazione britannica, bevvero il tè e quindi chiesero alla zia di Ringo Starr se volesse ascoltare l’album che avevano appena finito di registrare; anzi, poiché a loro sembrava di aver fatto un lavoro più che discreto, si dissero che era il caso di aprire le finestre (per certi versi era quasi estate, per certi versi faceva quasi caldo) e rivolgere le casse verso il mondo esterno. Vuole infine la leggenda che estrassero la copia di prova del vinile, la misero sul giradischi, sistemarono la puntina e si ascoltarono suonare; dalle casse uscì rumore di sedie che si disponevano e di strumenti che si accordavano, e poi la voce ritmata di Paul McCartney: It was twenty years ago today / Sgt Pepper taught the band to play, e così via per circa tre quarti d’ora. Vuole insomma la leggenda che così si ascoltarono i Beatles, li ascoltò la zia, e li ascoltò un pezzo di Londra preparandosi per andare al lavoro, giovedì primo giugno 1967. Nessuno protestò per il volume alto.
Ovviamente la leggenda è falsa, anzi in gran parte me la sono inventata, soprattutto la data finale, che coincide con il giorno del lancio del disco mentre invece l’episodio, stando alla storiografia beatlesiana, dovrebbe risalire piuttosto all’aprile precedente. Ma insomma, queste cose chiedetele a Mark Lewisohn e non a me; ché ritengo uno scrittore (ehm) debba innanzitutto imparare a mentire con classe, come d’altronde qualsiasi maschietto che si rispetti. Non è molto più bello immaginare che l’uscita dell’album nei negozi specializzati sia coincisa col vagito lanciato dalla finestra della casa della zia di Ringo Starr?
Fatto sta che quarant’anni fa esatti esatti la storia della musica è cambiata; lo so perfino io che ho la stessa cultura musicale di un cavernicolo. Il primo album dei Beatles, Please Please Me, era stato registrato nel 1963 su un’unica traccia, tutto di seguito, e per finirlo ci volle la bellezza di tredici ore; i Beatles avevano prenotato lo studio per dodici ore ma, visto che alla fine mancava l’ultima canzone, erano riusciti a ottenere una proroga – durante la quale cantarono Twist and Shout, in cui si sente distintamente la voce di John Lennon venire meno per la stanchezza. Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band, invece, era il loro ottavo album (mi riferisco alle uscite nel Regno Unito) e la sua registrazione aveva preso grossomodo sei mesi, limando e limando materiale accumulato già dall’estate del 1966, come a dire un anno intero di lavorazione prima di poterlo sentire trasmesso dalla casa della zia di Ringo Starr. Che le cose lente vengano meglio di quelle fatte in fretta è arcinoto; meno persone invece sanno che, l’anno prima, i Beatles sentirono l’album appena pubblicato dai Beach Boys, ossia Pet Sounds, e si dissero – questa è roba ottima, vediamo se riusciamo a fare qualcosa del genere. O piuttosto: questa è roba ottima, vediamo se riusciamo a fare qualcosa di meglio.
Decisamente, l’hanno fatto. Poiché il capolavoro è nel dettaglio, bisogna ricordare che Sgt Pepper’s fu il primo album nella storia ad includere nel libretto i testi delle canzoni; come tale dava un’importanza senza precedenti al contenuto verbale delle stesse, tant’è vero che perfino io (che ho la sensibilità musicale di un orango) prima di ascoltarlo ho ritenuto opportuno leggere non solo i testi ma anche qualche più o meno approfondita guida specifica, un po’ come prima di leggere Proust, tanto per dire. Inoltre la copertina è, cosa rara a quei tempi, un prodotto di arte postmoderna e, se fosse uscita senza il disco dentro, comunque sarebbe stata artisticamente notevole; inoltre la scelta dei personaggi ritratti nella copertina dimostra che quello che l’acquirente aveva per le mani non era solo un album musicale ma una specie di manifesto artistico, politico e filosofico (già, filosofico); inoltre la presenza di due versioni dei Beatles sulla stessa copertina, sia vestiti da membri della fantomatica Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band sia in versione manichini di cera (l’anno prima Lennon aveva detto che ai concerti i fan urlavano talmente tanto che sarebbe stato lo stesso mandare in tournée i manichini) segna forse il più schizofrenico distacco che un artista (e ancor più un gruppo di artisti) abbia voluto intraprendere dalla sua produzione precedente.
Poiché il capolavoro è nel dettaglio, giova ricordare anche che il contenuto (sia musicale sia testuale) di Sgt Pepper’s è talmente pieno di rimandi, (auto)citazioni, trucchetti, furberie, ammicchi e così via da non solo richiedere, cosa rara per un album pop, studi specifici al riguardo, ma addirittura da tracciare una linea e indicare che, se un album musicale in futuro voleva avere status di opera d’arte, doveva innanzitutto sottostare a questo enorme studio preventivo da parte dei suoi stessi autori, esecutori e produttori. Quarant’anni fa, grazie anche alla zia di Ringo Starr, la musica è cambiata perché i Beatles hanno raccolto e portato avanti la qualità dell’arte fine a sé stessa; ovvero ciò che progressivamente, dopo il modernismo, buona parte degli scrittori e degli editori ha trascuratamente lasciato cadere, per non sentir zavorra.
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