giovedì 31 dicembre 2009
Te Deum
Laura e Lucia
mercoledì 30 dicembre 2009
Chi è la persona dell'anno?
martedì 29 dicembre 2009
Autorevolezza sul campo
venerdì 25 dicembre 2009
Natale con i buoi
giovedì 24 dicembre 2009
Buon Natale 2009
mercoledì 23 dicembre 2009
Letterine
Il Berlusconi immaginario
lunedì 21 dicembre 2009
Domenica sprint (2)
Operetta morale
- Contribuenti fiscali.
giovedì 17 dicembre 2009
Un bastimento carico di F
mercoledì 16 dicembre 2009
Spiegatemi bene
lunedì 14 dicembre 2009
Arretrati
lunedì 7 dicembre 2009
Un giorno sulla Prospettiva Nevski
1) muoio assiderato;
2) torno e parlo in cirillico;
3) il blog riapre il 14 dicembre.
domenica 6 dicembre 2009
Domenica sprint
In quest'ancor più rara testimonianza filmata, viene dimostrato che l'Inter ha battuto la Juventus per 2-1 con pieno merito, come comprovato dagli autorevoli pareri di Pelé e Franco Zuccalà:
giovedì 3 dicembre 2009
La patria della tolleranza
Sanzionami questo
lo so che ti piace
ma non te lo do
(Motivetto in voga al tempo
dei Patti Lateranensi)
mercoledì 2 dicembre 2009
Non vedo, non sento, ma parlo
martedì 1 dicembre 2009
Guerin mensile
[aggiornamento] Segnalo il commovente pezzo di addio al Guerin normale pubblicato dallo stesso Savio sul suo blog, nel quale viene peraltro resa nota una notizia completamente falsa sul mio conto.
giovedì 26 novembre 2009
Destra divina che è dentro di noi
lunedì 23 novembre 2009
Banana football league
venerdì 20 novembre 2009
Una soluzione per tutto
Il lato giusto del Rio de la Plata
(Gurrado per Quasi Rete)
C’è dunque quest’usanza meridionale di approfittare dell’onomastico dei figli per far visita ai genitori. Il 13 giugno 1990 avevo dieci anni e toccava a me, solo che la lenta sfilza pomeridiana di amici di famiglia con profferte di regali e dolcetti non riusciva a distogliermi dall’intento di restare barricato in cucina. Non era una protesta, non l’avevo su né coi miei né coi loro amici né tampoco con Sant’Antonio; è che era pieno mondiale d’Italia e c’era Uruguay-Spagna, prima partita del gruppo E: io mi sentivo parte in causa.
C’è anche questa tendenza tutta italiana a cercare corrispondenze e quasi parentele anche dove non si dovrebbe. Il Sudamerica, per esempio, ha una mappatura psicologica che corrisponde alla coscienza europea: gli argentini sono i nostri cugini, incazzosi per strada, raffazzonati sul lavoro e repentinamente poetici, poi lacrimogeni, poi entusiasti senza ragionevole causa scatenante. Non per niente Maradona ha fatto quel che ha fatto a Napoli, mica a San Pietroburgo. I brasiliani mi hanno sempre dato l’idea dei francesi, schiavi della propria grandeur, morbosi nella ricerca dell’eccesso, sfregiati dall’allegria del naufrago. Gli inglesi – be’, degli inglesi valga il giudizio espresso da Guglielmo da Baskerville ne Il nome della rosa: “Gli uomini delle mie isole sono tutti un po’ matti”. Gli inglesi del Sudamerica sono gli uruguagi.
C’è infatti questa parola figlia di Gianni Brera che stenta a entrare nel lessico comune così come stenta a uscire da quello sportivo. Non vi so dire il fascino dell’esotica y che diventa g dolce ammarando nella fonetica patria dell’aggettivo inconsueto. Uruguaiani, o peggio ancora uruguayani, mi fa lo stesso effetto di quelli che dicono giunior, di quelli che vestono naik, di quelli che pagano in iuro. Se un giorno potessi realizzare un mio sogno bambinesco, metterei di fronte due squadre immaginarie: da un lato tutti gli uruguagi, che questo computer codino continua a sottolineare in rosso, dall’altro tutti gli uruguaiani. Secondo voi chi vincerebbe?
C’è anche la storia che ha detto la sua in maniera insindacabile. Ogni quattro anni cambiano gli ultimi campioni del mondo, ma dal 1930 i primi sono sempre gli stessi, mutande nere e camicia celeste. Padroni di casa della prima edizione, gli uruguagi fecero disputare tutte le partite a Montevideo – non sorprende, considerato che il loro esotico campionato ha sempre consentito l’iscrizione alle sole squadre della capitale ragion per cui ogni partita è derby. La finale fu nello Stadio Centenario, costruito appositamente per i Mondiali e per celebrare il secolo trascorso non dall’indipendenza (1825) ma dalla costituzione (1830). Fu 4-2 sull’Argentina fu anche l’unica finale, che io sappia, in cui abbia fatto goal un handicappato: Hector Castro, falegname di nascita, aveva dimenticato la mano destra sotto una sega elettrica e perciò era detto “el manco”.
C’è perfino una parola che non è una parola vera e propria, essendo stata composta da un complemento di stato in luogo e un suffisso di disperazione ed esagerazione. Maracanazo in Italiano potrebbe tradursi maracanazzo, tanto per rendere l’idea dell’atmosfera fra i centomila, centoventimila, chissà forse duecentomila tifosi brasiliani accalcati sugli spalti del nuovo stadio di Rio de Janeiro per la finale dei Mondiali 1950. Non è una finale stricto sensu visto che per aumentare partite e incassi (e proteggere il Brasile dalle già allora tradizionali inciampate nell’eliminazione diretta) era stato escogitato un girone conclusivo con quattro squadre. Alla vigilia di Brasile-Uruguay la classifica era tale che ai padroni di casa, in maglia candida, bastava pareggiare. Il Brasile s’era fatto strada fino a lì a suon di goleade e sull’1-0 si proclama campione, ignorando di non star fronteggiando dei mediocri uruguayani ma dei sublimi uruguagi. Il capitano della celeste armata era Obdulio Varela, uno che con un nome del genere meritava d’essere inventato da García Marquez; dopo il vantaggio brasiliano aveva avuto l’ottima pensata di raccogliere il pallone dal fondo del sacco e avanzare tenendolo in mano verso il centrocampo, a passi tardi e lenti come il vecchierel canuto e bianco, tanto che alla moltitudine assiepata sugli spalti (trecentomila? mezzo milione?) venne l’angina alla sola idea che stesse per protestare per un fuorigioco, un fallo di mano, qualsiasi cosa potesse far tornare lo 0-0 iniziale. Invece Obdulio Varela vendeva saggezza. Rimise la palla a centrocampo e l’Uruguay vinse 1-2 con la premiata ditta Schiaffino & Ghiggia.
C’è stato poi Mazurkiewicz, il portiere dal nome ostrogoto che nel ’70 venne dribblato da Pelé senza che nessuno dei due toccasse palla; c’è stato Ruben Sosa, c’è stato Recoba, c’è stato anche Zalayeta. C’era soprattutto questo spareggio contro la Costarica, che da ogni parte si insiste a chiamare “il Costarica” come quelli che vogliono fare gli intellettuali e dicono “il Genesi” (ma poi, fra parentesi, direbbero mai “il Ricerca del tempo perduto”? direbbero mai “il Costa d’Avorio”?). Quattro anni fa gli uruguagi per qualificarsi erano stati sottoposti a simili forche caudine e avevano perduto contro – non ricordo bene se Trinidad & Tobago o Mogol & Battisti o Salmoiraghi & Viganò. C’era questo spareggio contro la Costa & Rica, mercoledì, e altri quattro anni senza vedere camicie celesti e mutande nere sarebbero stati insostenibili come la replica della Corazzata Potemkin. Però alla fine l’Uruguay ha vinto, il Mondiale è salvo, poesia e storia pure.
giovedì 19 novembre 2009
Il Travaglio quotidiano
mercoledì 18 novembre 2009
Chiacchiere vacanti: Cosimo Argentina
(Gurrado per Books Brothers)
Gurrado: Cosimo, ho appena finito di parlare con Michela Murgia la quale mi diceva che alla fin fine per una scrittrice non cambia gran che fra essere single o sposata. Per ribadire il concetto s'è sposata e ha continuato a scrivere come se niente fosse. Ora, l'altro giorno stavo leggendo Beata ignoranza (con un anno di ritardo sull'uscita, ma che cos'è in confronto all'eternità?) e ho notato che tu invece insisti molto sul tuo essere sposato e padre di due figli. Ovviamente lì stavi facendo i conti in tasca all'Argentina professore e non allo scrittore, ma ogni tanto non pensi che la tua produzione avrebbe potuto essere diversa se sfortunatamente non ti fossi sposato? (Dico sfortunatamente perché conosco la tua famiglia). Fai conto che la mia reazione più consueta a chi mi sottopone un elogio della prosa di Philip Roth è: "Bella forza, vive solo".
Argentina: Visto che citi Roth rilancio con Hrabal che diceva che nella sua vita i figli e i libri erano le priorità assolute. Lui aveva realizzato una delle priorità. La domanda però immagino vada ben oltre questa considerazione. Ogni scrittore ha bisogno di altro altrimenti il suo cervello va in pappa. Chi studia volente o nolente Voltaire, chi scopa un numero impressionante di vergini, chi gioca ai cavalli, chi tifa Milan (che sofferenza quest’anno) e chi ha nella famiglia un (il) momento in cui la scrittura non esiste. L’unico momento della mia vita in cui non penso al romanzo a cui sto lavorando è quando Milena mi salta in braccio o Francesco mi chiede un mio commento all’ultimo Batman. I figli in pratica hanno segnato la mia scrittura in senso positivo. Mi hanno tolto spazio, è vero, ma mi hanno permesso di vivere oltre la pagina. Io sarei diventato un recluso del pc. Mi alzo la mattina e sino alla sera, lavoro escluso, me ne starei davanti al computer a scrivere, rileggere, sistemare, un blog qua, un commento là, una virgola, un punto esclamativo. Con due figli di 6 e 2 anni non è possibile. Tu vivi e poi scrivi. Lo scrittore di professione non lo sopporto. Non mi piace. Non mi sorprende, non mi emoziona. Il pazzo che verga i suoi fogli nel disordine alla Dickens, uno alla Joyce che ubriaco canta in cucina e nel frattempo pensa all’eternità, questo mi piace. Francesco e Milena inoltre creano casino in casa sicché io non posso prendermi sul serio e pensare per un solo attimo che sono uno scrittore. Ho troppo rispetto e soggezione per la parola scrittore per incollarmela addosso. Ah, per concludere, non uso i figli a scopi letterari. Una cosa che non sopporto è il fatto che soprattutto le nostre scrittrici, una volta superato il parto, debbano sentirsi in obbligo di raccontarci che cosa dolorosa, fantastica e terribile sia la maternità. Non mi interessa.
G: Premetto che non conosco nessuno scrittore che tifi Milan, studi Voltaire e sia al contempo uno spulzellatore seriale. In compenso mi vengono in mente parecchie scrittrici - solo che sono stanco e non ricordo i nomi, tanto più che tendenzialmente scrivono tutte uguale - che hanno una spasmodica attenzione per la corporeità, prima ancora che per maternità e gravidanza. Valeria Parrella emerge come esempio positivo, Lo Spazio Bianco mi è parso un libro riuscito anche se forse meno ambizioso di quanto avrebbe potuto. Seguono infinite epigoni, anche giovani e impubblicate, che rientrano nel solito cliché di scrittrice tanto caruccia, linda e pinta, che punta a sconvolgere con un tema scioccante (il parto in diretta, la deformità grottesca, la violenza, l'incesto, il tifo per l'Ambrosiana Inter, etc.). Specifico: non con un romanzo che tocca questi temi scioccanti, ma con un romanzo che si regge su di loro come uniche sue ragion d'essere. Un tempo io facevo il liceo classico e sapevo mille cose, ormai tutte inevitabilmente dimenticate grazie alla progressiva cultura accademica; un tizio che non ricordo, per offenderne un altro che ricordo ancor meno, se ne uscì in un suo scritto greco definendolo omphalotemnes, tagliatore di ombelichi. Voleva sottolineare il fatto che lui era scrittore per formazione ed estrazione, mentre il polemizzato di notte scriveva ma di giorno faceva l'ostetrico. Ecco, queste signore e signorine di oggi mi sembrano altrettante tagliatrici di ombelichi, sovente del proprio. Dici che sono sessista?
A: No, Antonio, non è una questione di sessismo. Noi li vogliamo bravi. Stanco delle solite discussioni tra scrittori di destra e di sinistra, femmine maschi e omosessuali – anche se questi ultimi detengono una cospicua fetta del mondo editoriale – mancini o destrorsi. Noi li vogliamo bravi. Uno legge un libro e il fatto di aver dedicato mettiamo 5 ore a quella lettura deve avere un senso. D’accordo con te, Antonio, sul fatto che ci sono libri che si appoggiano a un tema, ma in realtà sono piscio di gatto. La Parrella… io è meglio che non parlo ché mi ha ciulato un premio sotto gli occhi; io partecipavo con MAS e lei con Lo spazio bianco e al primo andavano soldi e una Montblanc extralusso. Soffro ancora per la Montblanc. In sintesi, al di là dei simpatizzanti dell’Ambrosiana – nome appartenuto anche alla madre di tutte le banche fallite – per gli altri vogliamo le carte (per gli interisti vogliamo l’iscrizione al campionato del Ghana). Se sono bravi va bene tutto, se sono scarsi che non se ne parli più.
G: I premi, già - io non ho sviluppato un pensiero preciso al riguardo per due motivi, ossia che non ho mai organizzato un premio e che non ho nemmeno mai partecipato a uno. O meglio, ho partecipato solo da manoscritto, e vincere è stata la maniera (l'unica temo) di farmi pubblicare. Personalmente qualcosa mi sfugge nel meccanismo e nel senso dell'assegnazione di premi a libri editi. Insomma, il premio per un libro dovrebbe consistere nella tiratura, nella gloria letteraria e no, negli eventuali passaggi in tv o sui manuali per licei, nel fatto che uno sconosciuto si ricordi all'improvviso una tua frase che ha letto anni prima. E i criteri di assegnazione mi danno lo stesso senso di smarrimento di fronte alla profusione di numeretti in una gara di tuffi. Forse bisognerebbe limitarsi a premi con criteri oggettivi - il libro più lungo, il libro più corto, il libro stampato più largo, il libro più venduto e il libro più prestato dalle biblioteche. Oppure trasformare il premio in un win-for-life per esordienti, in cui chi dimostra entro una certa (giovane) età di avere stoffa per scrivere un buon romanzo ottiene uno stipendio di mille euri mensili per un anno, così può non lavorare e concentrarsi sulla scrittura giorno dopo giorno. Se gli si desse di più non scriverebbe affatto. E se non scrivesse bisognerebbe costringerlo a restituire i dodicimila euri sull'unghia. Ecco, l'idea me la sto facendo qui in diretta ed è che forse più che agli scrittori i premi si danno ai cavalli. Detto questo, se da grande ne vincerò qualcuno accetterò con convinzione soldi e Montblanc.
A: Ahi ahi ahi… questione premi letterari. Tu, amico mio, nel tuo candore fai considerazioni ovvie, letterariamente scontate. Ma i premi muovono un mondo di mezzecartucce che neanche ti immagini. Ci si premia a vicenda. Ci sono intellettuali che vivono (e campano) girando da un premio all’altro quali giurati. Alcuni premiano per essere a loro volta premiati. Premiare vuol dire alberghi di lusso, sponsor, rappresentanti comunali che non capendo un cazzo di letteratura danno carta bianca ai soliti noti per organizzare, mangiare e omaggiare la provincia, regione o comune attraverso una manifestazione di cui si poteva fare tranquillamente a meno. Ma la cosa importante l’ha detta l’altra sera Andrea De Carlo all’Era glaciale, ovvero quando gli è stato chiesto perché si sia dimesso da giurato dello Strega lui ha risposto perché la gente compra i libri pensando che un premio ne certifichi la qualità. E invece siccome i premi sono truccati – TUTTI, aggiungo io – io come intellettuale non me la sento di partecipare alla truffa. Ora, si può apprezzare De Carlo o non apprezzarlo, considerarlo un intellettuale o meno. Ma le sue parole restano. I premi sono truffe. Un buon libro ha le stesse possibilità di vincere di una cagata mostruosa. Sono altri i fattori che ne determinano la vittoria. Ci sono i figli e i figliocci; ci sono ordini di scuderia; ci sono gli acquisti ovvero i voti comprati, ci sono le vendette, le scopate, le leccate, i clan eccetera eccetera. Ho conosciuto molti giurati e un paio di volte anch’io mi sono cimentato in quest’orribile farsa. Lasciamo perdere, dunque.
G: Proprio ieri in Inghilterra è stato assegnato il Man Booker Prize. Ha vinto un onesto romanzo storico, di cui ho letto solo un ammontare di recensioni superiore al numero complessivo di pagine del volume. Mi hanno scioccato le motivazioni della giuria, che intendevano esaltare il libro enumerandone caratteristiche che però non lo distinguevano da qualsiasi altro romanzo medio. L'idea che m'è venuta - e che potrebbe essere confermata solo e se leggerò il libro - è che ormai l'editoria tenda a premiare non la differenza ma la copia conforme, e che come in Orwell (citazione abusata) il privilegio arrida a chi è più uguale degli altri.
A: Ma resta il fatto che non c’è errore peggiore che scrivere per l’editoria. È l’editoria che deve venirti dietro e non il contrario. Questa mia presunzione deriva dalla considerazione che non campo dei miei libri e perciò sono un animale libero, allo stato brado. Non ho scadenze per le consegne, non ho avuto un agente per dieci anni, non ho temi argentiniani e come sorgono li abbatto io per primo. Non utilizzo neanche l’indotto del mondo della scrittura tipo corsi di scrittura (anzi, ne ho tenuto uno per pochi intimi, carino, ma non più riproposto). Non vinco premi e non faccio il giurato a premi letterari. Tutto questo impoverisce le mie tasche e mi preclude la possibilità di arrivare al grande pubblico dei lettori che comprano solo roba sponsorizzata in bella mostra alla GS, ma mi permette di scrivere al meglio delle mie possibilità. A volte per magia accade che mi riesca una pagina, a volte no. Ma quando ho pubblicato Il cadetto si trattò del primo romanzo sull’accademia di Modena scritto dall’interno. Quando fu la volta di Cuore di cuoio si disse che per la prima volta si parlava di Taranto in tarantino ma fuori da Taranto. E così via. Alla fine vendo poco, ma che importa? Non mi pubblica Einaudi, ma resistiamo, Antonio, resistiamo e quando le cose cambieranno non sarò così ipocrita da fingere di soffrire per questo, ma se mai accadrà avrò più di 46 anni e le spalle abbastanza larghe da capire come funziona per cui non c’è nessun motivo per montarsi la testa. A volte penso che i vari Giordano (che per me resta il centravanti della Lazio e in subordine il grande nolano) Saviano e Tamaro siano degli sfortunati. Il successo può essere ingestibile – vedi Ronaldinho – e come scrittore rischi di essere finito se le cose ti vanno fin troppo bene.
G: E se vinci il Nobel sei rovinato? Con tempismo cortesemente calibrato sulla nostra conversazione l'Accademia di Svezia ha assegnato il premio in tempo reale a tale Müller (purtroppo il bisonte brasileiro che fece retrocedere il Torino nell'89 né il ballerino di seconda fila che pestava i piedi a Beccalossi) la quale ha il principale merito di essere stata perseguitata da Ceaucescu. Non l'ho mai letta (e se non l'ho mai letta ci sarà un motivo) ma istintivamente credo che una scrittrice che ha scritto un libro sulle prugne debba necessariamente fare un po' cacare. Ma ormai per l'assegnazione dei Nobel non ci sono più motivazioni ma solo moventi, idem valga per quello per la pace a quel - vabbe', meglio che sto zitto.
A: Fino a oggi conoscevo giusto l’Herta Berlino che avevamo incontrato in Coppa dei Campioni (champions league? orrore!) e il ricordo non è manco tutto questo granché. Certo che vincere il Nobel… be’, lasciamo perdere. Temo che i ragazzi di Stoccolma si siano trasformati in una banda di burloni che ci gode un sacco a scioccare l’intellighenzia mondiale. Dopo Fo tutto è possibile, anche un Barack Hussein Obama che manda affanculo il Dalai Lama e che promette grappoli di bombe a grappolo, milioni di frammenti di bombe a frammentazione e mega accensioni di bombe a incandescenza ai persiani e a chi per loro e poi intasca l’assegno north pole (magari è un risarcimento per lo smacco olimpico di Lula). Ma tornando al Nobel per la letteratura io credo fermamente che i premi siano uno spezza gambe. Il narratore veramente libero per paradosso è quello che viene scoperto dopo morto. Ma al tempo stesso lo scrittore è un individualista ed egocentrico perciò vincere il premio Mungivacca o vincere il Nobel nobilita. Per quanto mi riguarda mi piacerebbe avere il palmares del Milan, ma al momento ho quello del Taranto Calcio, cioè zero, qualche retrocessione e un paio di promozioni decenti oltre una coppa Italia lega dilettanti. Robetta. Qui aspettiamo lo scudetto se non la coppa Intercontinentale (Toyota cup? Orrore!).
G: Su Dario Fo ho un'idea diversa. Penso che sia stato pienamente legittimo dargli il Nobel per la letteratura - intendo che sia stata pienamente legittima l'idea sottesa, ossia che Dario Fo sia letteratura - perché è possibile trovare le sue radici nei manuali di letteratura. Mi spiego. Quando ha vinto io ero in seconda liceo, ossia al quarto anno, e un mese prima avevamo studiato la Commedia dell'Arte con le sue formule fisse che però variavano di rappresentazione in rappresentazione. Se questo tipo di approccio testuale (ché poi di quello si trattava, di un approccio al testo finalizzato a negarne la fissità immortale) era ritenuto letteratura quando si trattava del 1648, altrettanto bisognava ritenerlo letteratura nel 1997, quindi nel caso passibile di Nobel. Io penso che ci vorrebbe un ritorno ai manuali, alle periodizzazioni, alle catalogazioni; ma anche alla scoperta dei contenuti secondari. I professori di Italiano devono rendersi conto che il manuale di letteratura può essere per gli alunni che vogliono scrivere la prima bussola per orientarsi nello sconfortante delirio di onnipotenza che prende di fronte a ogni foglio bianco, la prima miniera in cui scoprire le sperimentazioni più o meno riuscite (solo i manuali di letteratura si ricordano di Domenico di Giovanni, detto il Burchiello, dadaista del secolo XVI), la linea di galleggiamento da tener presente e l'orizzonte al quale tornare periodicamente se e quando si inizia ascrivere sul serio e non si fa più il liceo. Forse tu che insegni alle superiori, e non ti basi su un vago nostalgico irrimediabile ricordo di dieci anni fa, lo saprai meglio di me.
A: Non discuto il passo letterario di Dario Fo, ma dico che quando leggo Ibsen riesco ad apprezzarne un terzo della forza che si scatena sul palcoscenico. Le opere realizzate per essere rappresentate sono altro rispetto alle opere di letteratura scritte per essere lette e basta. Una commedia letta è di per sé un’opera amputata. Quindi all’innegabile valore letterario secondo me non corrisponde addirittura un valore da Nobel (tra l’altro mi viene in mente un unico romanzo di Fo, Il paese dei mezaràt o qualcosa del genere e devo dire che la forza narrativa era a mio avviso scadente). È come prendere il grande Milan dei tre olandesi e iscriverlo a un torneo di volley; rimane una grande squadra ma quella non è la sua collocazione. Come quando Michael Jordan decise di passare al baseball. Figuraccia. Quanto alla scuola i miei colleghi di italiano battono sentieri consueti. La scuola, evitando l’aggiornamento, ti porta a battere terreni noti. E per essere convincente invece dovresti investire i ragazzi di un entusiasmo che non puoi avere se ti sei andato a impaludare. La mappatura dell’universo letterario passa inoltre anche dagli ultimi trent’anni di scrittura e quella è zona franca dove nessuno se non gli appassionati può muoversi con disinvoltura. In più ci sono dei limiti come dire socio-strutturali. Un mio amico un anno decise di leggere in classe oltre all’Iliade alcuni scrittori dell’ultimo decennio non disdegnando l’Aldo Nove di Puerto Plata Market e Il senso della frase di Pinketts. Be’, in un collegio docenti è stato messo in croce alla Fantozzi e accusato di voler fare a tutti i costi l’alternativo. A scuola dunque se vuoi remar tranquillo è bene che tu faccia Fogazzaro e che dica che Guareschi è stato uno sceneggiatore di Gino Cervi. Quel Gino Cervi lì, per capirci.
G: Ognuno ha il Gino Cervi che si merita (questa mi sa che la capiranno in pochi, forse solo io e te). Ma più che a Michael Jordan che si mette a giocare a baseball o a golf o a spaccaquindici io mi rassomiglio a un nuotatore, di quelli controvoglia però, non a un fulmine come la Pellegrini che camperebbe sott'acqua ma più simile alla Filippi che sembra una pesciolona smaniosa di aria, di mettere la testa sotto per riemergere quanto prima e roteare la mano vicino all'orecchio. Quando ci siamo tuffati avevamo in mente un solo libro, da leggere o da scrivere che fosse; poi il primo libro letto ci ha istigato alla curiosità verso un altro libro da leggere, e il primo libro scritto ci ha fatto venire in mente che potevamo scriverne meglio un altro. A ogni libro s'è aggiunto un libro e ancor oggi, quando magari crediamo di star finendo, di star chiudendo il cerchio, passiamo davanti a una libreria e notiamo un classico che ci vergogniamo di non aver letto, o ci arriva da recensire un pacchettino con una novità che c'interessa, o nei momenti meno opportuni ci viene da mollare tutto perché siamo stati folgorati dall'idea per un nuovo romanzo che sarà meglio di tutti quelli che abbiamo scritto e perfino di quelli che non abbiamo scritto. È come una piscina in cui, a ogni ultima virata, qualcuno aggiunga altri cinquanta metri alla faccia nostra - finché non sappiamo più come respirare.
A: Il grande Nietzsche anelava a un mondo senza lettori. Mandava affanculo tutti i lettori (quindi anche te e me) e mostrava la vera forza del pensiero e della scrittura: non avere un interlocutore funzionale. Ognuno di noi scrive senza dubbio per se stesso, caro Antonio. Lo facciamo tutti chi più chi meno consapevolmente. Altrimenti la lettura sarebbe esaustiva sull’argomento. Ognuno nel leggere Memorie dal sottosuolo… lasciateci soli, senza i libri, e subito ci confonderemo, ci smarriremo eccetera eccetera non può non pensare “cazzo, questo è mio padre e io devo rendergli un centesimo di quello che lui ha dato a me, ORA”. Ma al di là di questi rari casi di pecorinesca sudditanza letteraria per il resto è… scrittura per tenere a bada i propri demoni, per salvarsi, per dare un senso a tutto, per non svegliarsi e capire che tutto è iniziato con un’anomalia interiore, tutto è iniziato da un cortocircuito che né tu né nessun altro potrà mai sanare. Tu ad esempio ricordi il momento in cui per la prima volta hai preso in mano la penna e hai pensato eccomi, ora scrivo una storia? No, immagino di no. Io almeno non lo ricordo. Ma c’è qualcosa dentro di me che non può non saperlo e non sia mai detto che questa creatura si azzardi a mettere fuori la testa. Per me sarebbe la fine. Io mi sento un cacciatore di taglie o meglio un tagliatore di teste. Scrivo e decapito per contratto. Il contratto l’ho firmato in bella grafia gotica un giorno, forse durante un sabba, ma non me lo ricordo più. La mia mediocrità umana era testimone mentre contraevo l’obbligo e il mio presunto talento avallava il dado accuratamente tratto. A volte mi verrebbe voglia di strappare i cavi del pc e scaraventare tutto dal terzo piano e vedere se funziona lo stesso, ma mi rendo conto che i condomini mi tratterebbero come Gigi Riva quando rifiutò la Juventus o come Ezio Vendrame quando si scopò la ragazza del suo allenatore Vinicio nei bagni del Sant’Elia. Però ti giuro che il magma c’è tutto e mi rendo anche conto di aver scantonato e che questa risposta non risponde a nulla di quello che hai scritto tu ma sono quasi certo di lasciarla così, visto che tra amici si può anche smarronare, tanto ci si perdona e ci si comprende come Rivera e Altafini quando ridicolizzammo Eusebio. Comunque detto tra noi è un bel po’ che non scrivo una recensione e non ne sento la mancanza e sai perché? Sono troppo timido e rispettoso del lavoro altrui (sì, anche delle cagate) per poterne parlar male. Piuttosto glielo dico a tu per tu. Che ci vuoi fare? Sono fatto male, lo so, lo so.
G: Vedo che ci viene naturale tirar fuori persone ed eventi di sport non solo perché il Guerin Sportivo è stato (ed è ancora, con tutti i limiti del caso) il nostro primo libro di lettura ma anche e soprattutto perché un evento sportivo coi fiocchi è ottima scuola di narrativa. Fornisce lumi prodigiosi sugli abissi insondabili dell'animo umano, insegna la resistenza e il sudore e la capacità di gestire le proprie forze e le motivazioni per risollevarsi dopo un'avversità. Una corsa di ciclismo è un romanzo intero: tre settimane di Tour sono Guerra e Pace, un giorno di Mondiale è Truman Capote. E in questi tempi di risposte immediate, massima comodità garantita e collegamenti iperveloci dell'animaccia loro, quando vedo un ciclista che arranca in salita al trentasettesimo posto mi sembra sempre di vedere uno scrittore che decide di scrivere tutto un romanzo a penna.
A: Hemingway paragonava la scrittura a un match di pugilato e si sentiva in grado di sfidare Tolstoj e Bukowski voleva combattere contro i grandi e faceva pesi di notte. Quando penso al genio oltre che a Joyce penso a Maradona; quando penso alla perseveranza di Alfieri vedo Aldo Maldera (III) che consumò la fascia sinistra… quando trovo in una pagina un colpo che vale il prezzo del libro penso anche a una punizione di Baggio o a una veronica di Marco Van Basten. C’è un legame stretto nella mia vita di narratore e calciatore. Ho giocato con Gregucci nelle giovanili del Taranto, ma lui è finito nella nazionale di Sacchi anche se solo una volta e io ho pubblicato dei libri. Mio padre lavorava all’Italsider e al tempo stesso leggeva i classici greci in originale. Lui amava l’Iliade che considerava il libro eppure l’ho visto commuoversi sino alle lacrime nel ricordo di Pepe Schiaffino e Dino Sani. Il ciclismo è nobile ma io sono per la rete che si gonfia. Vedere la grande Olanda degli anni settanta mi mette tutt’oggi i brividi. Quando leggo alcune pagine di Kafka resto smarrito davanti a una potenza così devastante, ma ti assicuro, amico mio, che quando s’è suicidato Agostino Di Bartolomei sono rimasto secco. Chi sono i miei parenti? Mia zia che non vedo e non sento mai e che non mi ha mai trasmesso amore ed emozione? No. I miei cari, i miei parenti sono Gabriel Garcia Màrquez, Orwell, Philip Dick, Louis Ferdinand Céline… e poi Enrico Albertosi, Pietro Maiellaro, il grande Johan Neeskens… ma anche degli oscuri calciatori che ho amato per una singola prodezza che ha senso forse solo per me così come ho amato scrittori per una pagina, un incipit… James Ellroy di La collina dei suicidi, Antonio Cassano contro l’Inter a San Siro, il Chuck Palahniuk di Fight Club, il Marius Kempes dell’Argentina ’78, il gol di Zinedine Zidane al Bayern Leverkusen nella finale di Champions… emozioni! Questo è quello che cerchiamo attraverso la narrazione di una storia o la visione di 90 minuti. Emozioni. Attraversiamo questa sporca vita un giorno dopo l’altro, ci svegliamo, andiamo a lavoro, mangiamo, tubiamo, ci ammaliamo eccetera eccetera ma a volte la luce si accende, Antonio… e si accende per una frase di Viaggio al termine della notte “la tristezza del mondo assale gli esseri come può, ma ad assalirli sembra che ci riesca quasi sempre” o la poesia di un vecchio filmato della farfalla granata che un incidente ha consegnato alla mitologia.
G: L'altra sera ho sentito Panatta lamentarsi del fatto che il tennis italiano è in crisi perché ci sono molti campi da tennis, molti club specializzati, molti maestri e molti allievi ai quali viene insegnato a giocare e non a vincere. "Vincere è uno sport diverso", ha detto. Io concordo e mi chiedo, anzi ti chiedo: secondo te stava sottilmente alludendo all'attuale generazione di scrittori italiani?
A: Sì, sono d’accordo con Panattone. Le scuole sono la rovina dell’arte. Lo sono state sul finire del 1700 per quanto riguarda la pittura. Prima pensavo che l’arte dovesse essere per tutti perché ognuno di noi ha diritto a una forma di espressione, ma negli ultimi anni ho cambiato parere. L’aspetto popolare si confonde con quello mercantile: ovunque è così. Se vuoi entrare nelle giovanili della Lazio devi essere alto almeno un metro e settantacinque e pagare un botto di soldi. Se vuoi entrare nella scuola Holden devi pagare. Ci viene detto che Carver è venuto fuori da corsi di scrittura creativa e Brett Easton Ellis anche. Ci viene detto che Moravia pagò per pubblicare il primo libro. Puttanate. Antonio, la verità è che su questo terreno tutto è insidioso e non ci sono regole precostituite, altrimenti uno come Manoel Francisco dos Santos, conosciuto col nomignolo di Garricha, non avrebbe mai giocato al calcio con la sua poliomielite. Solo il genio va assecondato. Gli altri è giusto che scrivano, per l’amor di Dio, ma se li tengano per sé i loro libri. L’arte a tutti anche attraverso scuole che forniscono patenti di scrittori è un delirio. Conosco ragazzi che dicono di fare gli scrittori con zero tituli all’attivo, solo una partecipazione a una antologia collettiva da quattro soldi. La scrittura è altro, secondo me. La scrittura è gestazione lenta e inesorabile dentro di te, è stalagmiti che sedimentano nel tuo cranio. Possibilmente fatti e circostanze negative, cose che ti hanno portato a chiuderti in te, a estraniarti da questo mondo, a non accettare i paradigmi universalmente riconosciuti. Scrivere è inadeguatezza di fronte al garzone del lattaio e questo viene dato a pochi. Scrivere è un mix di talento, perseveranza, pazzia, incoscienza, metastasi e passione. Non c’è scuola che possa darti un decimo di tutto questo. Non c’è insegnante che possa trasmettermi un millesimo del dolore necessario per far germogliare un fottutissimo rigo. IO AMO GLI SCRITTORI NON PROFESSIONISTI. Quando lo diventano cominciano a insegnare in corsi di scrittura, si ficcano nelle redazioni di una casa editrice, si danno alle pubbliche relazioni, ma di fatto hanno finito di scrivere nel vero senso della parola. Le cose migliori sono state scritte in uno stato di difficoltà. Joyce non se la passava bene; il primo Hemingway pagava dazio alla guerra; Edgar Allan Poe oggi andrebbe di corsa dal neurologo; il giovane Dante lo porteremmo al CIC; Leopardi nemmeno lo nomino perché sarebbe il coglione del villaggio; Céline era odiato persino da suo padre; Kafka, Campana, Van Gogh, il grandissimo Stig Dagerman… dei rovinati. Non avrebbero nemmeno saputo come ci si iscriveva a una scuola. Il grande bretone ha detto che hanno valore solo le storie per le quali si è pagato. Stephen King dice che l’unico requisito per diventare scrittore è la capacità di ricordare la storia di ciascuna cicatrice. Il mitico Robert Ervin Howard non resse e si ammazzò e lo stesso fece Virginia Woolf. John Kennedy Toole grazie a una madre opprimente andò in pezzi e non credo che avrebbe potuto scrivere un libro come Una banda di idioti se non avesse avuto la sua buona dose di depressione a sfondo sessuale legata a una madre che non gli permetteva di vedere nessuno a causa di una gelosia morbosa. E il corso di scrittura creativa a H.P. Lovecraft lo tenne la madre (sempre ’ste madri) chiudendolo nello studio e intimandogli di non uscire perché era così brutto che avrebbe creato problemi a tutti. E visto che siamo in tema di madri non credo che gli incubi narrativi di James Ellroy sarebbero stati così potenti ed efficaci da un punto di vista letterario se non si fosse trovato la madre – che passava i fine settimana a scopare con chi capitava – morta strangolata nel giardino di casa quando lui aveva appena otto anni o giù di lì. Altro che corsi di scrittura creativa! Quelli sono buoni per creare finti intellettuali. I narratori di razza, quelli alla Conrad, per capirci, portano addosso le stimmate e non venite a farmi esempi discordanti rispetto a questa mia teoria. Non credo agli esempi. Per un Tolstoj che ha vissuto bene (anche se ha visto morire 5 figli e lui stesso è morto lì, in quella piccola stazioncina abbandonata di Astapovo) c’è sempre un Dostoevskij che davanti al plotone di esecuzione deve aver appreso 101 lezioni di scrittura creativa tutte in un botto. Grazie per la splendida chiacchierata, magico Antonio Gurrado, Guru… per me semplicemente Guru.
G: Grazie a te, il paragone con Rivera e Altafini ’63 è stato commovente. Chissà se un giorno ci diranno che ci intendiamo come Ronaldinho e Huntelaar.
A: Temo di no.
martedì 17 novembre 2009
In galera
giovedì 12 novembre 2009
In cielo
mercoledì 11 novembre 2009
Omaggio ad AA
martedì 10 novembre 2009
Grazie mamma
lunedì 9 novembre 2009
Strategia politica
sabato 7 novembre 2009
Bang
venerdì 6 novembre 2009
RadioGurrado
giovedì 5 novembre 2009
Crociata
mercoledì 4 novembre 2009
Dio, patria e fantasia
martedì 3 novembre 2009
Umberto Garibossi
1) perché fra Renato Brunetta e Massimo d'Azeglio non passa veruna differenza;
2) perché Silvio Berlusconi ha fondato il proprio successo in politica su un canovaccio di Edmondo De Amicis;
3) perché l'unico partito italiano che difenda i valori del Risorgimento è la Lega Nord.
lunedì 2 novembre 2009
Cuore di legno
Per la prima volta nella mia vita ieri sera ho ringraziato Iddio di non avere un figlio mentre guardavo la fiction di Rai1 Pinocchio, tratta dal fortunato cartone animato di Walt Disney. Sarei altrimenti stato inchiodato alle seguenti domande ingenerate dalla confusione:
- Babbo, perché il Grillo Parlante ha le tette?
- Babbo, perché mastro Geppetto parla con la maestra di Cuore?
- Babbo, perché nel campo dei miracoli Pinocchio incontra le lucciole? La sceneggiatura è stata scritta da Pasolini?
- Babbo, perché la Fata dai Capelli Turchini ha i capelli rossi? E perché è uguale a Moana Pozzi?
sabato 31 ottobre 2009
Eventi piegati e braccia d'inchiostro
giovedì 29 ottobre 2009
Siam pronti alla morte?
mercoledì 28 ottobre 2009
Cinquanta di questi Cav.
Dieci piccoli indiani
Prodi
Fassino
Cofferati
Veltroni
Franceschini
Marino
Rutelli
Bersani
Bindi?
D’Alema?
martedì 27 ottobre 2009
Habemus copertinam
Chanson d'amour
(Matia Bazar, Souvenir)
Accade che Real-Milan sia sempre in differita, sia sempre la replica della finale del ’58 che avrebbe potuto uccidere il filotto delle cinque Coppe biancovestite e contribuì invece al mito dei semidivini Kopa, Di Stéfano e Gento. In un Heysel che ancora non era l’inferno il Real vinse la sua terza Coppa filata con un 3-2 ai supplementari. (Di quel Real, sono fiero di dirlo, Javier Marías mi mandò qualche anno fa la fotocopia delle figurine per ringraziarmi di una recensione). Iniziò allora la rincorsa del Milan, che impiegò trentun anni per compiersi: ché la terza Coppa del Milan arrivò ufficialmente nella finale contro
Mercoledì sera il Milan era al Bernabeu con gli stessi pantaloncini neri contro il candidissimo Real. Il calcio, si sa, è soprattutto una questione di maglie. Il 5 aprile 1989 un volo di Hugo Sanchez in coda al primo tempo aveva dato l’impressione che la buona volontà di Berlusconi e Sacchi non sarebbe stata ripagata e che l’arcaico mito del Real sarebbe rimasto inarrivabile grazie ai buoni uffici del Real vivo e concreto dell’epoca. Quella squadra non era mica male, d’altronde: era il Real della Quinta del Buitre (Butragueño, Michel, Sanchis, Martin Vazquez e Pardeza che non se lo ricorda mai nessuno); iniziava con la cantilena Buyo, Chendo, Solana; aveva vinto due Uefa di fila non più tardi di tre anni prima e alla stagione precedente aveva disinvoltamente estromesso al primo turno il volitivo Napule maradonesco. Quando Van Basten pareggiò – e 1-1 fu fino alla fine poiché vincere al Santiago Bernabeu era come minimo impossibile – si capì che per le due settimane fra andata e ritorno il destino sarebbe rimasto in bilico e
Ma il calcio, si sa, è soprattutto questione di maglie e a San Siro il Real fece l’errore di presentarsi in completo blu. Ora, ditemi voi, che credibilità può avere una sposa vestita di blu? Un Papa vestito di blu? Un Real vestito di blu non sortiva miglior figura. Quando sul tabellone apparve il risultato finale, c’era scritto un pertondo 5-0 ma doveva invece leggersi “punto di non ritorno della storia”. Le grandi d’Europa – in quell’Europa post-Heysel del beato embargo antibritannico – le grandi d’Europa erano due.
Forse non ricordate che l’attuale caravanserraglio della Coppa dei quasi Campioni, oggi accessibile anche ad arrivare quarti in Francia, iniziò col sorteggio malandrino che l’anno dopo ricollocò il Real sulla strada del Milan eurocampione. Lo collocò agli ottavi e non era una rivincita, era
Né mi pare un caso che Milan e Real abbiano nobilmente rifiutato di incrociarsi in Europa per vent’anni esatti, come a esprimere sdegno per questa Coppa extralarge che loro stessi hanno voluto ma che tradisce Di Stéfano e Schiaffino, Butragueño e Van Basten. Il calcio, si sa, è soprattutto una questione di maglie e quelle di Milan e Real non sono legate dallo sponsor accidentalmente uguale: sono state scambiate all’Heysel cinquantun anni fa come una promessa di eterna reciprocità, di amore forse.
Così Real-Milan è sempre in differita, fu sempre giocata con lo sguardo indietro e ora una ora l’altra squadra è stata di volta in volta Orfeo ed Euridice. Il primo Milan di Berlusconi voleva inseguire il mito dei blancos pentacampioni. Il Real delle ultime tre Coppe ad anni alterni voleva scacciare le ombre rossonere che si erano allungate sul continente a fine secolo.
Per questo il secondo tempo registrato, mercoledì scorso, viveva di vita propria e indipendente da Dida e Kakà, che vanno bene per le chiacchiere da lounge bar. Per questo i miei recenti vicini di casa, che mi sanno persona tranquilla e morigerata, si saranno fatti un’idea del tutto innovativa sui miei rapporti interpersonali dopo avermi sentito per tre quarti d’ora battere sul materasso e urlare attraverso muri di cartapesta: “Aaaah! Sì! All’improvviso!” (1-1 di Pirlo); “Sì! Sì! Ancora, così!” (1-2 di Pato); “No! Sacripante! Non farlo!” (2-2 di Drenthe); “[inintelligibile]” (2-3 di Pato). Io non volevo vedere i giocatori, io volevo vedere le maglie: quando ho notato il Real candidissimo e il Milan in calzoncini neri ho capito che non si giocava per il jingle della Coppa mastodontica, si giocava per finire l’opera che Van Basten aveva iniziato nel secondo tempo di vent’anni fa.