Quest'anno una preghiera per tutti i bambini
(Il blog riapre a gennaio.)
Avendo mangiato, avendo bevuto, posso darmi alla chiacchiera smodata, disinvolta, scombiccherata.
Ho mangiato e bevuto, lunedì a pranzo, presso il bar della Pro Loco di Spessa Po, a una ventina di minuti da Pavia, per commemorare il quindicesimo della morte di Gianni Brera; e già è indicativo del personaggio e del suo mito reso perpetuo l’evenienza che per commemorarlo degnamente siano stati serviti, nell’ordine: affettati misti con cipollotti in agrodolce, frittatine, cotechino caldo con purè (come antipasti); risotto con pasta di salame, ravioli in brodo (in qualità primi); ragò, bollito di manzo, testina e gallina (quali secondi); panettone con crema, spumante (verbigrazia dessert); caffé (ossia caffé). Non pianti, dunque, ma cachinni: dalla mezza alle cinque del pomeriggio.
L’unico liquido versato in abbondanza è stato quello dei vini bianchi e rossi dell’Oltrepo pavese; fra i quali ultimi spiccava la Ciurlina, produzione esclusiva di Angelo Roveda, cugino di Brera. Il mio vicino di desco mi ha informato della curiosa origine del suo nome. Ciurlina lombardamente è la pipì che scende lenta e insoddisfacente, una pioggerellina mesta che ripugna ma non sazia. Quando il Roveda gliela serviva, Brera protestava e gli chiedeva robusti vini piemontesi, “e basta con questa ciurlina”; ciò nondimeno la beveva in abbondanza, ragion per cui il Roveda la imbottiglia oggi con l’etichetta farlocca di Ciurlina doc, da bersi solo e soltanto alla salute di chi ci vuole male e in memoria di GioannBreraFuCarlo.
Sia chiaro che alle dodici e venticinque, lungi dal conoscerlo, il mio vicino di desco non me l’immaginavo nemmanco, esattamente come l’altra cinquantina di commensali, eccezion fatta per l’amico Gino Cervi, che mi ha invitato e accompagnato (sopperendo alla mia mancanza di automobile, patente, fiducia nel mezzo meccanico e in me stesso quale guidatore), e per un professore dell’Università, che conoscevo di (chiara) fama. Non per questo alle due e un quarto uno di questi cinquanta sconosciuti s’è trattenuto dal salutarmi più calorosamente di un figlio o di un nipote, andandosene verso altri improrogabili impegni; non tanto per via della Ciurlina (ma anche), quanto per il contenuto dell’intuizione che avevo espresso precedentemente riguardo al motivo fondante dell’incontro stesso, e cioè (ci vuole un nuovo capoverso per dirlo):
1) che Brera aveva rispolverato l’antica origine aggregativa della letteratura, facendo vivere i suoi scritti dagli incontri gastronomici con la miriade di amici a Spessa come altrove; 2) che Brera ha anzi fatto dell’aggregazione la ragion d’essere della letteratura sua, portando il linguaggio colloquiale, il vernacolo e l’apostrofe diretta al lettore a un livello di naturalezza sconosciuto al secondo dopoguerra letterario italiano, così intento a rimirarsi l’ombelico sporco; 3) che di conseguenza il lettore è posto sullo stesso livello dell’amico, e che anzi amico e lettore sono interscambiabili: ragion per cui, 4) al bar della Pro Loco di Spessa Po trovano posto parenti (come il Roveda), amici di vecchia data (che lo chiamano Giovanni), allievi giornalisti (quorum Claudio Gregori, che conquista raccontandomi una Torino-Hajduk Spalato di venticinque e rotti anni fa), calciatori (Mario Corso, sinistro di Dio), ammiratori che rimpiangono di essere nati troppo tardi (io medesimo) senza distinzione alcuna. Nessun paravento ideologico, nessun separè psicologico: ancora amici di Brera, con la differenza che è presente soltanto nelle decine e decine di foto sui muri.
(Parentesi e intermezzo di gratitudine: a un certo punto Gino Cervi è impazzito e, avendo saputo del mio morboso collezionismo joyciano che mi spinge da anni ad accumulare edizioni diverse dell’Ulisse di Joyce, me ne ha regalato sull’unghia una, maiuscola e critico-filologica, in tre volumi e con la riproduzione a fronte delle singole varianti e correzioni autografe sul dattiloscritto originale; quella Gabler sulla quale s’è basata poi la moderna traduzione Mondadori.)
Ne segue il corollario che non c’è differenza particolare fra gli scritti giornalistici, letterari, biografici e quant’altro di Brera: è sempre la stessa voce che parla, è sempre lo stesso orecchio che ascolta. Nella fattispecie, lunedì scorso, la voce è stata quella di Gian Felice Facchetti (figlio e attore), che ha letto fra antipasti primi e secondi sei passi breriani diversi di quarantacinque secondi ciascuno (ha tenuto a specificarlo il brerologo Andrea Maietti, quale dimostrazione che non servono tante parole ma poche e giuste; e dovrei tenerlo da conto, tanto più che ho appena scoperto che anni fa Maietti ha pubblicato per Limina un volume intero per il mio ciclista preferito di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le strade e di tutte le misure: Gianni Bugno).
Dai lineamenti di Facchetti junior emergono decisi quelli del padre, a ben guardare sotto i riccioli e la barbetta, e dopo due o tre bicchieri di Ciurlina (vabbe’ sette; otto, giuro, non uno di più) mi verrebbe quasi voglia di dirgli che suo padre, Facchetti Giacinto, l’ho visto una sola volta e mai allo stadio, ma solo attraversante la strada al centro di Milano; solo che lo faceva trasformando le strisce pedonali in fascia sinistra con un piglio, con una nobiltà, con un mento alto e fiero tale che perfino chi non capisse nulla di calcio (come mia madre, ad esempio, o certi giornalisti che so io) a vederlo in impermeabile e mani in tasca non avrebbe potuto che esclamare: “Ecco, quello è Facchetti!”.
Ma non l’ho fatto. Mi sono limitato ad avvicinarmi a Corso Mario per chiedergli un autografo, che ora impreziosisce l’invito/menu del bar della Pro Loco (lo stesso fa il signore che mi siede di fronte; e poi aggiunge che porterà menu e autografo in omaggio a suo padre, di cui Corso era la gioia, al cimitero); e a stupirmi quando, insieme al panettone, è comparso Paolo Brera, figlio, che a una certa s’è sistemato a parlare col Professore di cui sopra sotto una foto del padre con la pipa: e, sant’Iddio, erano uguali pure loro, il figlio e la foto. Commozione, viene quasi meno il rimpianto di non aver visto Brera vivo e operante (morì che io avevo dodici anni e dieci giorni; me ne informò mio padre al mio risveglio, esattamente come aveva fatto tre anni prima per Scirea; boia d’un mondo, va’ a vedere le coincidenze).
Ma si erano fatte le cinque, bisognava tornare agli ultimi scampoli del pomeriggio lombardo, ché da queste parti è già quasi ora di cena e un pranzo lungo è altrettanto vergognoso; cercando qualcuno che mi riaccompagnasse (Gino Cervi è andato verso Lodi con Maietti) la Ciurlina entrata in circolo mi ha permesso di godere di visionaria lucidità mnemonica; così da non rimpiangere più di non avere la patente anzi benedire addirittura i viaggi in treno, durante i quali si può leggere di più; come ad esempio quello da Pavia a Brescia che mi ero sobbarcato due giorni prima e che iniziava medias in res con l’acchito di Luciano Bianciardi:
Tutto sommato io darei ragione all’Adelung, perché se partiamo da un alto-tedesco Breite il passaggio a Braida è facile, e anche il resto: il dittongo che si contrae in una e apertissima, e poi la rotacizzazione della dentale intervocalica, che oggi grazie al cielo non è più un mistero per nessuno: sarebbe a dire che la più lombarda di tutte le parole, pensa te, suona Braida, Brèda, Brera.
Tanto per cominciare, la senatrice Anna Finocchiaro (Pd – ex Ulivo – ex Ds – ex Pds –ex Pci) ha accusato gli uomini tutti (nel senso di maschi, non nel senso di figli di Adamo) di essere giunti al capolinea, di essere ormai esausti, incapaci, isterici. È la vacca che dà del cornuto al ciuccio?
Giova ricordare che abbiamo corso il rischio che la non-esausta, non-incapace e non-isterica senatrice diventasse Presidente della Repubblica, com’era stato ventilato da voci di corridoio un anno e mezzo fa. Si sarebbe trattato di uno dei pochi casi in cui sarebbe stato addirittura meglio, che ne so, Napolitano.
Per non parlare di non so più che senatore di non so più quale partitino della Cosa Rossa che aveva proposto al Senato di votare un emendamento che condannava ad anni tre di reclusione chiunque utilizzasse il termine frocio (e derivati) in maniera palesemente spregiativa. Ora, a parte che non ho ben presente quali possano essere i casi in cui si possa utilizzare il termine frocio in maniera palesemente elogiativa, con un rapida sommatoria ho calcolato che ora come ora sarei già bello pronto per l’ergastolo. In ogni modo, una volta appurato che non si trattava di un pesce d’aprile (a dicembre?), il presidente Marini ha dato il via alla votazione. Non ho seguito la diretta, ma sarebbe stato stupendo se il presidente Marini, dichiarata conclusa la votazione, col suo sornione accento marsicano avesse sentenziato: “Il Senato respinge l’emendamento di quel frocio”.
Emendamento per emendamento, in Italia si pensa sempre a difendere gli omosessuali (perfino la Binetti, ieri, ha ammesso che costoro possono essere dei discreti stilisti, bontà sua) e non si difende quasi mai la dignità delle donne (perfino quella della Binetti andrebbe difesa di tanto in tanto, non è vero, compagni del Partito poco Democratico?). Quando faremo un bell’emendamento per proibire a non so più quale senatrice dei Verdi di aggredire non so più quale senatrice comunista perché sfoggia una pelliccia, manco fosse una signora che ha freddo? O per evitare che la Brambilla (e con lei la Carfagna, la Prestigiacomo, la Carlucci, la Santanché, la Mussolini, etc. etc.) venga sprezzantemente giudicata dalla medesima senatrice Finocchiaro secondo la quale i tempi della politica sono più lenti del tempo massimo che consente a una donna di mostrare le (belle) gambe? È la tipica frase di chi non le ha altrettanto belle e pertanto le ritiene superflue; come gli uomini quando dicono che in fondo in fondo le dimensioni non contano.
Dev’essere una vendetta divina questa che stare a sinistra progressivamente imbruttisce. Non so se l’avete notato, ma se vi infiltrate in un corteo di giovani sinistrorsi noterete che è pieno, sit venia verbo, di gnocca. Dopo di che non so cosa succeda ma quelle stesse signorine, man mano che fanno carriera, diventano la Finocchiaro, la Palermi, la Bindi, tutt’al più la Pollastrini. Perfino Giovanna Melandri (che il correttore automatico di microsoft word, maschilisticamente, prima che possa accorgermene corregge sempre in Meandri) da quando si è trasformata da icona a ministro s’è imbruttita notevolmente - forse perché temeva che la Finocchiaro la accusasse di non essere adeguata ai tempi lenti, o ai fianchi larghi, della buona politica?
A proposito della Brambilla, la notiziona di ieri è che intervenendo alla Tv della Libertà Berlusconi ha detto esplicitamente che: 1) il Partito del Popolo Italiano della Libertà non pone come pregiudiziale lo scioglimento degli altri partiti della crollata Casa della Libertà; 2) il sistema di voto proposto da Veltroni è applicabile solo nel caso di dichiarazione preliminare delle future alleanze governative; il che, tradotto, è esattamente quello che Fini chiedeva di dichiarare da tre settimane almeno. Per rincarare, Berlusconi ha aggiunto che con Gianfranco (sono così teneri quando si chiamano per nome) si sente per telefono e che i rapporti stanno tornando cordiali. Insomma, è la prima schiarita a destra e il possibile ritrovamento di una piattaforma comune di discussione fra il Pdpidl (Gesù, speriamo che cambi nome, l’idea è buona ma la sigla è improponibile) e An. Ragion per cui cosa succede? Berlusconi viene indagato a sorpresa per corruzione e la vera notizia politica viene bruciata, oscurata, nascosta.
Ah, la Brambilla! L’unica Cosa Rossa che mi piace è la sua.
(Fra parentesi, stamattina mezza pagina del Corriere della Sera spiegava che Fini e Veltroni vorrebbero farlo alla francese ma non possono. Spero che non sia una conseguenza della mancata approvazione dell’emendamento del frocio).
Vorrei far notare che sono pienamente consapevole di come i capoversi qui sopra siano estremamente volgari, offensivi, gratuiti; e me ne vergogno oltremodo. Sono altresì consapevole che se avessi parlato di Furio Colombo immerso in una vasca da bagno con Prodi e un trans procacciato da Sircana che gli pisciano addosso, il procuratore di Napoli che gli caca in bocca e la Finocchiaro in completo sadomaso che li frusta tutti quanti sarei diventato un eroe e un martire della libertà di parola.
Comunque consoliamoci e anzi rallegriamoci. Quando Berlusconi viene indagato vuol dire che le elezioni sono vicine.
Abrí la puerta de la entrada y pregunté: «¿va bien la pasta al ragú?»: mi è appena arrivato il file di prova contenente la traduzione di un mio racconto per una rivista spagnola. Invece di dilungarmi su come mai va a finire regolarmente che le riviste letterarie italiane, forse perché non le seguo mai con la morbosa regolarità che dedico al Guerin Sportivo, quelle due o tre volte che ho tentato di spedir loro dei miei racconti me li hanno sempre rispediti indietro variamente schifate – dicevo, inevce di tutto questo preferisco concentrarmi sulla meraviglia inevitabile di quando ci si legge in una lingua diversa, e per giunta non la si conosce. Ammetto candidamente che per me è la prima volta; e che i miei sforzi di controllare la traduzione, secondo la corretta richiesta dal traduttore, stanno naufragando fra i marosi della mia ignoranza linguistica. Uno crede di avere ben presente ciò che ha scritto, anzi, pensa che i suoi prodotti siano inscindibile parte di sé stesso; poi arriva un file di prova e si passa mezza mattinata ad arrovellarsi per cercare di capire ciò che si è scritto, inventandosi una lingua parallela le cui regole immaginarie valgano, con alterna verosimiglianza, esclusivamente all’interno delle poche pagine etero-tradotte. Accade in quel momento che il testo prenda vita propria, indipendente da chi l’ha scritto; e che l’autore non possa fare altro che restare ammirato a guardarlo, cercando di capirsi: come se dall’altro lato della pagina ci fosse un Gurrado che io ignoro ma che parla Spagnolo, e tentasse di insegnarmelo.
Sto leggendo un libro meraviglioso: per la prosa in cui è scritto, per l’apparato iconografico, per la relativa difficoltà a trovarlo in Italia (è stato pubblicato da Jonathan Cape nel 1970, e ripubblicato da Carroll & Graf nel 2002), nonché per l’autore (Anthony Burgess) e per l’argomento (Shakespeare: che scrivo in corsivo poiché è anche il titolo). Come si sa, il problema con Shakespeare è che ha lasciato molte più parole scritte di quante, scritte da altri, testimonino la sua effettiva vita, così che al pari di Omero il suo ruolo nella letteratura è talmente decisivo che potrebbe benissimo non essere mai esistito. Anthony Burgess è un romanziere (esageriamo: è il più grande romanziere del secondo dopoguerra. Non si accettano discussioni), e a Shakespeare ha dedicato anche un fantasioso resoconto romanzesco (Nothing Like the Sun, 1964), la sceneggiatura Will and Testament, nonché una cospicua parte di Enderby’s Dark Lady e un sottobosco di riferimenti in opere diverse sufficienti a riempire un’enciclopedia intera. La peculiarità dello Shakespeare di Burgess è che in questo caso il romanziere cede il passo al biografo, e consiste proprio nell’aggiungere parole verosimili alle poche parole vere che testimoniano l’esistenza del biografato (particolarmente sfuggente in questo caso). Spiega Burgess: “Ogni biografo anela a qualche nuovo gesto reale – un’unghia tagliata il 7 maggio del 1598, o un brutto raffreddore durante la prima spedizione guidata da Re Giacomo I – ma il gesto non si materializza mai”. Tutt’al più possono materializzarsi le parole, ed è questo che fa lo scrittore: ragion per cui viene un brivido a pensare al corto circuito letterario quando si manifestano le prime e pressoché uniche parole che traggono Shakespeare fuori dalla sua nube immaginaria, nella riproduzione fotografica dei registri parrocchiali di Stratford-upon-Avon che il 26 aprile 1564 riportano il battesimo di “Guglielmus filius Johannes Shakspere”. Segue la firma del padre: “XXX”.
Shakespeare potrebbe benissimo non essere mai esistito, però, e inquieta la somiglianza fra il suo ritratto e quello dell’altro grande commediografo elisabettiano, Christopher Marlowe. Non bisogna eccedere in buon senso per ritenere che lo Shakespeare calvo possa essere la versione matura del giovane Marlowe capellone; tanto più che questi è morto ucciso nel 1593, poco prima che iniziasse il celebrato “secondo periodo” di Shakespeare, con il Romeo e Giulietta del 1595. In Shakespeare in Love Tom Stoppard, che proprio fesso non è, fa sì che Shakespeare si cavi d’impaccio rispondendo brillantemente a uno scagnozzo che lo interrogava (con annesso coltellino) riguardo alla propria identità: “Io sono Christopher Marlowe”.
Noi conosciamo Rowan Atkinson soprattutto come Mr Bean, ma in Inghilterra è famoso soprattutto per la situation comedy storica Blackadder. La seconda serie (del 1986), ambientata durante l’età elisabettiana, prevede una puntata sull’invidia di lord Edmund Blackadder nei confronti di sir Walter Raleigh, impegnato a percorrere in lungo e largo i sette mari per portare regalini alla deliziosamente isterica regina Elisabetta. Per riguadagnarne i favori, Blackadder decide di salpare e in suo omaggio la Regina compone il poemetto Edmund: “When the night is dark / and the dogs go bark, / when the clouds are black / and the ducks go quack, / when the sky is blue / and the cows go mooo, / think of lovely Queenie / she will be thinking of you” (“Quando la notte è oscura / e i cani fanno bau, / quando le nuvole sono nere / e le anatre fanno quà, / quando il cielo è blu / e le mucche fanno muuu, / pensa alla cara Regina / e lei penserà a te”). Dopo di che ammette compiaciuta: “Shakespeare mi ha aiutato col titolo, ma il resto è tutta farina del mio sacco”.
Questo divertissement senza filo conduttore intende nel suo piccolo onorare la memoria di Liana Macellari, vedova di Anthony Burgess, morta a Sanremo lo scorso 3 dicembre.
La consueta diffidenza che mi assale di fronte alle uscite antologiche si squaglia quando mi trovo di fronte Sporco al Sole, dell’editore Besa. Primo perché conosco i tre curatori – Gaetano Cappelli, Michele Trecca ed Enzo Verrengia – e da loro comprerei macchine usate a bizzeffe, figurarsi nove racconti assortiti. Secondo perché spogliano il libro della sovraccoperta impressa quest’anno (come numero 142 della collana Lune Nuove) si rivela la sottocoperta del 1998, quando (come numero 3 della collana Books Brothers) era stata pubblicata la prima edizione della incontestabilmente prima antologia di narratori meridionali under 25 (“o quasi”, come recita il sottotitolo). E poi perché quest’antologia ha oggettivamente segnato una strada, stante che di lì a poco l’Einaudi niente meno (versante Stile Libero) pubblicò Disertori che altro non faceva che ampliare l’intuizione ascrivibile ai tre curatori di Sporco al Sole, firmatari dell’accorato appello – ritrasmesso dalla Gazzetta del Mezzogiorno come da Radionorba e da un ammirevole elenco di mass media volenterosi – al sommerso dei giovani autori meridionali, così riassumibile in tre domande: “Esistete davvero? Scrivete sul serio? Perché non pubblicate?”.
E, con esiti miracolosi per simili operazioni di censimento che solitamente lasciano il tempo che trovano, si scoprì che i giovani giovanissimi autori meridionali esistevano davvero, scrivevano sul serio, potevano pubblicare. Mi pare furba la scelta dell’editore Besa che non ha tanto pensato a rifare il libro quanto semplicemente a riproporlo con una giacca nova – addirittura con l’attuale recapito leccese (di Nardò, nello specifico, altrimenti Livio Romano mi mangia) appiccicato in semitrasparenza sul vecchio indirizzo barese (via Jatta, se non mi sbaglio). L’operazione non è peregrina poiché intende fornire un come eravamo, retrospettiva significativa nel momento in cui diventa specularmente un come siamo diventati nel frattempo. I curatori, innanzitutto: Michele Trecca nel 2004 ha edificato L’Albergo delle Storie, calendario di narrativa contemporanea che aiuta non poco ad orientarsi in ciò che è troppo vicino per essere ben distinto (sono un critico presbite, io); Enzo Verrengia si è visto ripubblicare La Notte degli Stramurti Viventi e ora è autore riconosciutamene nero e sanguinario per Avagliano (Divora il Prossimo Tuo e Complottario); Gaetano Cappelli, be’, è Gaetano Cappelli: allora aveva appena esordito con Marsilio (Floppy Disk), ora si gode la gloria della Storia Controversa dell’Inarrestabile Fortuna del Vino Aglianico del Mondo (l’altro giorno era dalla Dandini, nientemeno) dopo due romanzi destinati a non essere dimenticati tanto facilmente come Parenti Lontani (Mondadori) e Il Primo (Marsilio).
La scommessa vera, però, era nella scoperta e selezione degli autori. All’epoca Livio Romano era il più grandicello, avendo trent’anni (sono sempre stato dell’idea che i limiti di età per i concorsi letterari debbano essere malleabili; e a trent’anni Livio Romano quanto a verve sperimentale era più under 25 di molti adolescenti smorti d’oggidì), e quello destinato ad avere più successo immediato, con l’immediata inclusione in Disertori (nel 2000), con la successiva ripubblicazione dei tre racconti pubblicati da Besa, insieme ad altri, nella raccolta mono-romanica Mistandivò (Einaudi, 2001) e poi con la digressione impegnata Porto di Mare (Sironi, 2002) che lo ha portato adesso, dopo un congruo silenzio narrativo, a conseguire i riconoscimenti mica da ridere di Niente da Ridere (Marsilio, 2007). Ora ha quasi quarant’anni.
Un anno in meno di Romano, ventinove all’epoca, aveva Ottavio Cappellani che nell’antologia è il prosatore più raffinato, che avvolge la pagina in volute quasi snob di prosa svogliata, lenta, calibrata; e che con lo stesso ritmo lento e consapevole collabora al Foglio (che è il quotidiano meglio scritto d’Italia, quindi contrariamente al solito collaborarvi per uno scrittore è un merito) producendo nel frattempo due romanzi di fascino come Chi è Lou Sciortino? (nel 2004 per Neri Pozza, che è a mio avviso l’editore che più di ogni altro sta attento a tenere alta l’asticella della selezione in base ai ritmi della prosa) e all’inizio di quest’anno il conto mitopoietico Sicilian Tragedi (si legga tragedài) per Mondadori, mica pizza e fichi.
Annalucia Lomunno aveva venticinque anni e non era ancora sposata. Rosa Sospirosa fa la sua prima comparsa in Sporco al Sole, con circa trenta pagine fitte di abissi dialettizzanti e picchi latineggianti, come se l’autrice fosse una pianista che si esercita a fare le scale (suonava davvero il pianoforte, all’epoca, si vede che ogni arte trasmette qualcosa a un’altra). Dal punto di vista strettamente semantico, il suo racconto è il più – interessante è dir poco, il più – dirompente di tutta l’antologia, in quanto porta avanti la miscela di alti e bassi soppesando la paratassi, i dialoghi, le singole sillabe con sorprendente saggezza: e difatti Rosa Sospirosa, allungato e reso romanzo compiuto, venne pubblicato nel 2001 da Piemme, che due anni dopo le pubblicò anche Nero Sud. Da che sono quattro anni che attendo il terzo romanzo di Annalucia Lomunno, pronto a comprarlo trenta secondi dopo la stampa della prima bozza, avendo dovuto a malincuore rinunziare a sposarla.
Non conoscevo Francesco Dezio, nella mia somma ignoranza; ed è di Altamura, a dodici chilometri da casa mia (ribadisco che sono letterariamente presbite, lince da lontano e talpa da vicino). Apprendo dalla tuttologia internettiana che nei dieci anni intercorsi ha pubblicato un solo romanzo per una grande casa editrice (Nicola Rubino è entrato in Fabbrica, Feltrinelli, 2004), il quale dev’essermi sfuggito per conclamata allergia feltrinellesca. Eppure il suo racconto, che la mia stessa somma ignoranza mi ha permesso di leggere senza il filtro del tempo, come se oggi avesse ancora i ventott’anni di allora, ha le stesse corde della Lomunno nell’altalena semantica, stavolta particolarmente vivace e quasi cruenta, fra dialetto e lingua nazionale (come scrive lui stesso, “Parla tricolore!”). Un romanzo in più anche per Giovanni Di Iacovo (Sushi Bar Sarajevo, Palomar 2005), il cui racconto per Sporco al Sole è una distopia surreale con qualche colpo di genio che ai tempi nostri può procurargli gloria di lungimirante (come l’ipotizzazione – e si balza sulla sedia a leggerlo dieci anni dopo – di un grande “Partito Apolitico Democratico”). Da quel che ho capito Francesca Forleo, il cui racconto apre l’antologia di Besa, nel corso di questi dieci anni è diventata giornalista per il Secolo XIX, e questo potrebbe sorprendere: ma il Secolo XIX non è di Genova? E infatti la Forleo, essendo di Genova, aveva potuto partecipare all’antologia in quanto sangue misto, come rivendica fieramente nel suo curriculum riprodotto in quarta di copertina, e forse anche perché Genova è una città del Sud capitata un po’ troppo in alto.
Infine c’è Luigi Biamonte, del quale non ho altre notizie se non l’età precisa, ventisei – quasi ventisette – anni adesso, come me. Il che mi fa pensare (e, eliminando una consonante, mi fa pure penare): se già allora, visto che esistevo davvero e scrivevo sul serio e volevo pubblicare, avessi mandato alla premiata ditta Cappelli-Trecca-Verrengia un racconto di quand’ero maturando e ragionevolmente felice, un brano di quando solevo scrivere a mano su enormi quaderni a quadretti religiosamente conservati e mai più riaperti, un estratto di un romanzo magari che andavo scrivendo con periodi ininterrotti e ipotattici sempre più lunghi fino al confine estremo delle venti pagine filate per un solo punto interrogativo finale, l’antologia pubblicata nel 1998 e riedita quest’anno sarebbe stata di una dozzina di pagine più lunga?
[A che età si diventa grandi? È un po’ come chiedersi quanti granelli di sabbia sono sufficienti a fare un mucchio, quanti alberi fanno un bosco (cento: se sono novantanove si tratta di un arboreto) o quanti terzini destri argentini debbano ancora essere comprati dall’Inter. I decreti delegati, che hanno introdotto nella scuola la democrazia e con essa la rovina irreversibile, obbligano di anno in anno una classe liceale a scegliere al proprio interno i due membri più autorevoli, più alfabetizzati, più verosimili – in una parola più adulti – per rendere conto delle comuni malefatte nel consiglio di classe. Ammantati dalla nobiltà che deriva dall’ingresso nella scuola al pomeriggio, quasi fosse un vero luogo di lavoro, i rappresentanti di classe si presentano vestiti bene e magari con un quotidiano in tasca per darsi un’aria più cresciuta di fronte ai professori; finché non si rendono conto che questi stessi professori, una volta lasciati a sé stessi senza il controllo di una ventina di adolescenti, l’età adulta non l’hanno ancora raggiunta del tutto. Sarà perché la scuola mantiene giovani?]
Gurrado, si è solitamente abituati a trovare dall’altra parte della cattedra un solo insegnante, un singolo e solitario individuo, che pure ha potere di vita e di morte su tutte le decine di alunni che siedono dietro ai banchi. Il manico del coltello è dalla sua parte [Nota di Gurrado: sarà che il manico ce l’ha lui, ma in alcune scuole che conosco io il coltello ce l’hanno gli alunni, sul serio], o meglio, è dalla sua parte il famigerato registro scolastico, arma molto più potente e temuta. Eppure, come si suol dire, è l’unione a fare la forza: l’idea di essere in tanti contro uno solo può alleggerire la frustrazione degli studenti, e placare un poco lo spirito, sadico per natura, dei professori.
La situazione acquista però una tinta più fosca quando i ruoli si invertono, e cioè quando gli studenti diventano improvvisamente un’esigua minoranza, in opposizione al gran numero di insegnanti dietro la cattedra: ciò avviene durante il Consiglio di Classe. Alla mia collega Eleonora F e a me è stato assegnato l’ingrato compito di rappresentare la Terzaddì in sede di consiglio [NdG: devo trarre indebite conclusioni? Ai miei tempi, in quarta ginnasio, avevamo frainteso il senso dell’elezione e avevamo nominato rappresentanti Lucia e Annarita, sull’esclusiva base della considerazione che si trattava, ehm, delle due più gnocche], e di varcare quindi le porte di un’aula dove i nostri professori hanno appena terminato lo scrutinio per le pagelle di metà quadrimestre, nonché discusso sui numerosi e svariati problemi riguardanti la nostra sezione. Il clima generale non è dunque tra i più distesi, e risuonano ancora nell’aria tutte le velate imprecazioni [NdG: si noti la raffinatezza stilistica di Silvia G la quale, probabilmente senz’accorgersene nemmeno, ha lasciato cadere dal proprio inconscio letterario nelle “velate imprecazioni” il riferimento del Foscolo all’ “Amore in Grecia nudo e nudo in Roma / d’un velo candidissimo adornando”, etc. etc.] e i coloriti insulti pronunciati dagli insegnanti fino a un attimo fa. Entrando, noto infatti che le loro gote sono alquanto arrossate, forse a causa della temperatura decisamente eccessiva dei caloriferi, o più probabilmente per via del disperato impeto che hanno messo nel dare sfogo ai loro sentimenti di sconforto.
Saluto con garbo e mi siedo. Davanti a me, un quadretto che ricorda vagamente L’ultima cena di Leonardo: una lunga tavolata composta da alcuni banchi uniti, imbandita di agende, registri e scartoffie varie, dietro la quale siedono, solenni e severi, tutti i docenti, pronti a pronunciare il loro grave giudizio conclusivo. Al centro, la già citata professoressa Fiorello, insegnante di latino e greco, coordinatrice di classe, nonché portavoce ufficiale del malcontento generale; accanto a lei, la professoressa Selli, che insegna chimica e geografia astronomica, donna apparentemente innocua che nasconde però un profondo risentimento nei confronti di tutti gli studenti di sesso maschile, in quanto si mormora che il fidanzato l’avesse abbandonata a un passo dall’altare in gioventù, trasformandola, da fanciulla ingenua e accomodante, in una femminista attiva, nonché in un’autentica zitella [NdG: succede sempre così; ragion per cui amo le donne maschiliste]; procedendo, ecco la professoressa Pedro, personaggio obeso, ambiguo e annoiato, grande amante del caffè e dei cioccolatini, a cui sono affidate la matematica e la fisica; alla sua sinistra, la professoressa Arcangelo, insegnate [ndG: presumibilmente "insegnante", ma come di consueto opto per la lectio difficilior, grazie alla quale Silvia G mette in risalto l'insegnamento patito dall'insegnante insegnata dagli imparanti imparati, manco fosse Heidegger] irrisolta e senza speranza, che tenta con tutta la buona volontà di rendere interessanti le sue lezioni di storia e filosofia, ottenendo però penosi risultati; si procede con la professoressa Gatto, una delle tante insegnati [ndG: idem come sopra, con l'aggravante dell'ambiguità sessuale, ma la professoressa Gatto evidentemente non è una professoressa Gatta] di ginnastica convinte che la loro materia abbia lo stesso valore e la stessa importanza delle altre; di fianco a lei, la professoressa Allori, già predisposta alla pazzia fin dalla nascita, esplosa però nel più drammatico delirio solo dopo l’abbandono del marito, la quale dovrebbe insegnare storia dell’arte, anche se fondamentalmente vaneggia [NdG: si vede che è dadaista]; alla sua sinistra, la professoressa Ivani, docente d’inglese frustrata dalla competizione tra le lingue vive e le lingue morte, nonché lunatica zitella; infine [NdG: rendetevi conto, ignoranti che non siete altro, che mentre voi perdete tempo su internet e cascate qui per caso dopo aver morbosamente cercato “giovani liceali” o “professoresse severe” su Google, motore immobile del male assoluto, la piccola Silvia G ha già tanta cultura entro il proprio perimetro corporeo da utilizzare con disinvolta scioltezza la teichoscopia come tecnica narrativa; e se non sapete che minchia è mai questa teichoscopia, rileggetevi il terzo canto dell’Iliade in cui le forze armate mirmidoni vengono mostrate con una carrellata dalle Mura di Troia, roba che Baricco se la sogna], a ricoprire il ruolo di un benefico Giuda è il professor Boni, insegnante di letteratura, che non solo tradisce questo cenacolo di stravaganti donnette essendo uomo, ma che si differenzia da loro per la garbatezza dei modi, l’eccellente professionalità, la piacevolezza delle lezioni, la straordinaria competenza e la generale amabilità che lo contraddistinguono. Costui è inoltre l’unico tra i professori a non manifestare alcuna ostilità nei nostri confronti, poiché tutti i suoi studenti lo stimano e lo adorano, e nessuno si permetterebbe mai di turbare una sua lezione, o anche solo di distrarsi. Conscia della mia piccolezza e della mia impotenza di fronte a tante e tali autorità, chino il capo e mi preparo al peggio: il verdetto che la professoressa Fiorello si accinge a pronunciare mi pioverà addosso come una travolgente cascata, e i miei argomenti di difesa saranno poveri e drammaticamente insuf- [NdG: quale sarà il verdetto della professoressa Fiorello? Riuscirà Silvia G a sopravvivere a cotanta furia? Il testo si interrompe all’ultimo rigo, bisognerebbe girare la pagina ma, nel foglio a quadretti che ho strappato dal quaderno di Silvia G, il retro è costituito da delle considerazioni sintetiche ma piuttosto entusiastiche riguardo a personaggi presumibilmente famosi la cui identità mi è ignota. Procurerò di sottrarle questa settimana la pagina successiva col resto del resoconto, ma per ora non ci sono santi e il manoscritto si interrompe qui.]
Buongiorno Giobbe, amico mio.
(Voltaire)
Evviva Gioele Dix! Perché mi ha salvato dall’ennesimo sabato sera trascorso a guardare impotente l’Inter che sconfigge avversari inadeguati come l’Atalanta (che palle, e poi dicono che alla fine il bene vince sempre…). Il bello dell’abbonamento a Sky, infatti, è che uno lo fa pensando di ammazzarsi di partite di calcio, poi va a finire che si annoia e cambia canale in continuazione; così gli capita di scoprire che su Canal Jimmy, invece della consueta marea di scemenze, sta andando in onda un’estrema difesa del patto fra uomo e Dio. E pure divertente.
La Bibbia ha (quasi) sempre ragione è il one man show con cui Gioele Dix (che quand’ero bambino faceva fortuna col personaggio dell’automobilista sempre, costantemente incazzato; e che qualche venerdì fa mi è capitato di sbirciare in Zelig nel personaggio dell’automobilista nuovamente, costantemente incazzato) si libera della maschera che il tempo e il pubblico gli hanno cucito addosso (l’imitazione di Alberto Tomba o di Fabrizio Ravanelli ai tempi di Mai Dire Gol) e dà briglia sciolta alla propria capacità di comico intelligente, colto, profondo, nella miglior tradizione (soprattutto ebraica) degli stand-up comedians.
“In principio”, inizia citando Genesi 1,1 – e lo fa pronunziandolo come un’unica parola, così come l’ebraico Bereshith, a sé stante e avulsa dal resto del testo biblico, la parola che segna l’inizio del tempo ed è quindi parola creatrice, unica, irripetibile – “In principio”, inizia Gioele Dix e il pubblico si aspetta, se non lo conosce, la solita parodia ritrita della Bibbia, della fede, della religione; una spruzzata di anticlericalismo, magari. Ma subito Gioele Dix spiazza, e inizia il commento alla Creazione spiegando che Dio gli è simpatico perché un po’ gli somiglia (ed è una cosa seria, poiché c’è scritto lì: “facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”). Se non che il pubblico non se ne accorge, parte l’applauso facile, si ride sguaiatamente, non si suppone nemmeno che in questa somiglianza originaria risieda il senso di due ore di spettacolo. E invece.
La parte su Giacobbe, ad esempio, è teatro immortale. Lo è dal versante comico, con Giacobbe che vede Rachele, se ne innamora e subito rimuove un gigantesco masso dalla bocca di un pozzo, “così, per fare il brillante con la cuginetta gnocca”. Dal versante umano, con Giacobbe costretto a scappare da Labano, con impermeabile e valige, che dorme scomodo come un attore in tournée con la pizza sullo stomaco, con un sasso come cuscino, ma in tutto ciò che cosa sogna? Una scala dalla quale salgono e scendono gli angeli, e lassù in cima il Signore in persona, luminoso, consolatore, fermo immobile e a portata di mano. Dal versante satirico, infine, quando lo show che il pubblico s’immagina rivolto contro la Bibbia all’improvviso si rivolta e si ritorce contro il pubblico stesso, portandolo a scegliere fra Giacobbe che attende sette anni più altri sette per avere in sposa Rachele e i giorni in cui dopo due ore del primo appuntamento, si chiede preoccupati a una ragazza: “Ti ho offerto la cena, perché non me la dai?”.
La dirompenza di Gioele Dix risiede nell’assoluta mancanza di moralismo e ipocrisia; presenta una Bibbia per uomini che vivono, mangiano, scopano, soffrono e inevitabilmente prima o poi contravvengono ai comandamenti. Il paradosso, nel quale risiede la grandezza della rivelazione giudaico-cristiana, è che non per questo la Bibbia è distante dagli uomini che più o meno volutamente si allontanano dai suoi precetti. Anzi. L’ultimo episodio, la lettura dal Qoelet, fa accapponare la pelle, travolge ogni confine prestabilito fra comicità, sacra rappresentazione, satira ed esegesi.
“Parola di Salomone, figlio di David, re di Gerusalemme”, ricomincia – e il pubblico tace assorto, non sa più se sia il caso di ridere come preventivava a inizio spettacolo. “Vanità delle vanità”, ripete, “vanità delle vanità, tutto è vanità”. Racconta la storia del re potente, longevo, sapiente, pacifico, ricchissimo, mangione, amante del gentil sesso (settecento mogli e trecento amanti – frèchete!, direbbero a Pescara); che dopo quarant’anni di gloria e bagordi si chiede “quale utilità ricavi l’uomo da tutto l’affanno per cui fatica sotto il sole”. E racconta, al contempo, il peso vuoto che ogni uomo si porta dentro, sia re o attore comico, la forza gravitazionale diretta verso il cielo che rende insufficiente il benché piacevole accumulo di beni materiali; perché insomma – e qui si chiude il cerchio con la Creazione – tutti quanti somigliamo a Dio, anche gli atei.
Grandioso, Gioele Dix prosegue e rincara. Si scopre incontestabilmente che la risata, la satira, l’incazzatura dell’esegeta non sono rivolte contro la Bibbia, ma contro chi se l’è dimenticata. Alla fine, sopraffatto da tanta incontestabile verità, il pubblico esita per un poco, lì per lì quasi non applaude: l’attimo di silenzio è la testimonianza che il pubblico è smarrito, che l’attore ha vinto la sua battaglia. Evviva Gioele Dix!
[Una delle etimologie più significative della storia è quella che risale al termine latino classis, che si riferisce alla rigida stratificazione sociale presso gli antichi Romani (non che presso i Romani moderni la stratificazione sia meno rigida, però si evita di parlarne) e che dovendo all’inizio indicare ogni singola (appunto) classe sociale ha finito per identificare tout court la prima, la più ricca e, cose che al tempo andavano a braccetto, la più colta e moralmente superiore. Donde l’aggettivo classico, che colorava tutto quanto si riferisse a questa prima classe (se mi si perdona la metafora ferroviaria), secondo due direttrici: una temporale, che rimandava nei secoli a un passato che si presumeva migliore e irrimediabilmente perduto (musica classica, un testo classico, un vestito classico, una ragazza classica); una spaziale, che sanciva la superiorità di questo o quello rispetto a un mondo che via via si adeguava volgarmente alle mode e alle esigenze dei tempi correnti. Ma classico, così come aggettivo sostantivato, ormai è rimasto a identificare soprattutto la scuola che guarda indietro (verso il tempo perduto) e che contemporaneamente guarda in basso (verso la bolgia di licei e istituti di rango inferiore, in cui si crede comunemente che la partenogenesi non abbia nulla a che vedere con la verginità delle parthenoi ma che sia detta così perché coinvolge solo parte dell’organismo – così ho sentito giurare una professoressa di scienze, dieci anni fa). E insomma, quale altra scuola poteva mai frequentare una come Silvia G?]
Gurrado, ogni scuola superiore ha le sue caratteristiche e le sue materie d’indirizzo: esistono i licei scientifici, che prediligono lo studio della matematica e delle scienze in generale, gli istituti tecnici, che invece focalizzano l’attenzione sulla prospettiva e sul disegno geometrico, i licei artistici, dove si studiano la pittura, le proporzioni e si impara a modellare la creta [nota di Gurrado: nella speranza di trovare un giorno lavoro come protagonista nel remake di Ghost]. Ogni materia acquista maggiore o minore importanza a seconda del tipo di scuola in cui è inserita, e così mutano le gerarchie fra i professori che la insegnano.
Il Liceo Voltaire essendo un classico, assoluta precedenza va data alla presentazione della docente di latino e greco, la professoressa Fiorello. Caratteristica principale di questa irrinunziabile insegnante è il suo radicato e viscerale amore per le materie che le competono: mai creatura umana viva provò probabilmente una così profonda adorazione per le lingue morte, mai ci si commosse tanto nello studiarle e nel tradurle [ndG: solo per ricordare le mie versioni di Greco, perigliosi viaggi che partivano senza una rotta e terminavano in un punto creativamente diverso da quello in cui Senofonte o Tucidide aveva intenzione di portarmi; o, più spesso, terminavano nel nulla, risucchiate da gorghi abissali che non mi avrebbero mai fatto rinunziare a una partita di calcio in tv per scoprire cosa fosse mai un ottativo], mai nessuno dedicò così larga parte del proprio tempo e delle proprie energie alla diffusione e alla salvaguardia della cultura classica ad esse legata.
Di origini calabresi, trasferitasi nell’estremo nord per studio e per lavoro, la professoressa Fiorello corre talvolta col pensiero alla patria lontana, ch’ella non chiama mai sud Italia, bensì Magna Grecia [ndG: come tutti i terroni, d’altronde]. La sua massima manifestazione d’affetto consiste nel tramandare al prossimo parte dell’eredità culturale acquisita con anni di sudati sacrifici, durante i quali la professoressa Fiorello si è consumata i polpastrelli componendo tesi, trattati, articoli e volumi intorno alle figure di Pericle, Tucidide, Cicerone e Seneca.
Come il Machiavelli, ogni sera questa donna straordinaria si immerge nel suo studio, coperta con una sontuosa vestaglia, cercando la compagnia e il conforto dei grandi classici [ndG: Disney?]; e preferirebbe, in caso di incendio, bruciare in mezzo a tutte le sue carte, piuttosto che condurre una vita misera e infelice senza di esse, come ogni buon capitano di marina desidera colare a picco con la nave, qualora essa affondi. A suo parere, infatti, la specie umana avrebbe potuto tranquillamente estinguersi appena prima del medioevo, età sciagurata [ndG: che dura tuttora] in cui il latino perse la sua meravigliosa purezza e andò a mischiarsi con quelle barbare lingue germaniche e anglosassoni che tanto le disgusta sentir pronunciare oggidì. Se ammette, o per meglio dire tollera, l’idea che possano essere esistiti grandi letterati anche dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, la professoressa Fiorello considera però degni della sua attenzione solo quegli autori che fanno uso di un volgare italiano il più possibile simile alla lingua latina [ndG: di’ la verità, Silvia G, fra questi pochi ci sei tu?]. Perciò i suoi studenti, che lei ama teneramente e che quindi tortura con impensabili pretese contenutistiche e puntigliosissime regole grammaticali, sono costretti a studiare le letterature latina e greca non su comuni libri di testo, bensì sopra enormi e antichissimi saggi, opera dei più grandi studiosi della materia. Ed è una fortuna che questi grandi studiosi, vissuti in un passato remoto, si siano ormai estinti da tempo, perché più di uno studente della professoressa Fiorello, in un delirio di disperazione, ha minacciato sanguinose vendette contro di loro, a causa del linguaggio pressoché incomprensibile che li caratterizza, e delle frasi prolisse e articolatissime che riempiono le pagine dei loro scritti.
Capita spesso di incontrare la professoressa Fiorello in giro per i corridoi [ndG: sempre in vestaglia?], intenta a trasferire da una classe all’altra svariate copie dei suoi amati “testi scolastici”, curva sotto il loro peso e oppressa dalla loro mole; non è raro che qualche giovanotto suo studente, un po’ per dare buona impressione, un po’ per autentica compassione, si offra di aiutare la povera donna (che va ormai per i cinquantatré [ndG: Silva G, Silvia G, prima di scrivere parentesi così cattive pensa che anche tu fra trentacinque anni avrai bisogno di qualcuno che ti aiuti a spostare libri inutili]) nel trasporto di tutti quei volumi, ma ella non acconsente mai, perché ritiene che quello sforzo e quella sofferenza siano sacrifici indispensabili, e che l’estremo gesto non faccia che nobilitare ed elevare i suoi sentimenti d’amore sincero per la classicità. Ragion per cui la docente ha sviluppato con gli anni una notevole forma di cifosi.
La professoressa Fiorello, la quale afferma di non essere mai stata sposata, tuttavia possiede un figlio, un ottimo ragazzo sui venticinque anni, che però rappresenta il principale dei suoi tormenti, avendo egli scelto di specializzarsi, finito il liceo, in quella branchia dello scibile umano [ndG: presumibilmente “branca dello scibile” ma, trattandosi di fogli di quaderno a quadretti fittamente scritti a mano, l’interpretazione è sempre ambigua e come ogni filologo che si rispetti opto nuovamente per la lectio difficilior; tanto più che, trattandosi di sapere scientifico, è presumibile che Silvia G abbia voluto inserire un sagace ammicco al celebre “organo respiratorio, filamentoso o lamellare, ricco di vasi sanguigni di solito situato ai lati della testa di pesci e altri animali acquatici”, stando a quanto riporta nel suo dizionario Tullio De Mauro, noto comunista all’asciutto d’Italiano] che sono le scienze naturali, rinunciando alle lettere classiche. Capita spesso che la povera donna si lagni e si disperi coi suoi stessi alunni di questa terribile sciagura, affermando con la voce rotta dal pianto che mai si sarebbe aspettata una tale presa di posizione da parte del figliolo, avendolo ella introdotto sin dalla più tenera infanzia agli studi umanistici, alla poesia di Omero, all’epicureismo lucreziano, all’esametro, al giambo e al distico elegiaco, e avendogli insegnato prima il paradigma di fero che ad andare in bicicletta [ndG: non ho mai imparato nessuna delle due faccende, io]. Come il ragazzo possa aver maturato negli anni una repulsione per la classicità tale da spingerlo ad iscriversi a scienze naturali rimane, per la Fiorello, il più impenetrabile mistero.
Nel tentativo di sopire il grande dolore che il figlio le ha dato, la professoressa tenta in ogni modo di rifarsi su coloro che considera la sua seconda famiglia, gli studenti appunto, e di persuaderli a portare avanti la nobile causa delle lingue morte:
“Non disprezzate il passato, signori! Il latino, il greco sono genitori della vostra lingua madre, sono antenati dell’italiano, e noi dovremmo dimostrarci degni rappresentanti del connubio tra l’indubbia superiorità della civiltà romana [ndG: rispetto, ad esempio, alla civiltà brianzola?] e la meravigliosa cultura dei greci antichi. Dare scorrette interpretazioni dei testi corrisponde ad una mancanza di rispetto nei confronti dei vostri stessi nonni! Ma cosa possono capire queste giovani generazioni? Cosa ne sapete del rispetto che noi tutti dobbiamo ai grandi classici? O tempora, o mores!”
Inutile dire che, almeno in Terzaddì, i semi del suo lavoro non hanno affatto attecchito, e la sezione rimane quella con le medie più basse della scuola sia in latino che in greco, con gran disperazione della povera professoressa Fiorello [ndG: Si noti come Silvia G ha il pregio, ormai rarissimo a trovarsi fra gli italiani d’età inferiore ai trentacinque, di chiamare i docenti per esteso, con tanto di suffisso femminile, e giammai prof, pro, pr, p] e, naturalmente, di tutti i [ndG: essendo suonata la campanella della ricreazione, il manoscritto si interrompe qui]
“Con la P: film del ’59 con Marlon Brando?”
“Pavia, stazione di Pavia.”
(Gerry Scotti e Damiano Latella a Passaparola)
La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.
Poniamo che voi siate me e dobbiate andare a Milano per una presentazione (che si rivelerà spettacolare, peraltro, con Franco Loi che commenta e Sandro Bajini che legge con inflessione sorniona alcuni poemetti di Carlo Porta dall’antologia Hoepli appena curata da Gino Cervi – accattateville, c’è pure il cd!). Poniamo che la presentazione sia alle 18 e che possiate prendere comodamente il regionale delle 17:03 che vi consente di essere in Stazione Centrale alle 17:37 e dopo di che recarvi con tutto comodo in Duomo via metrò itterico e di lì arrivare passeggiando in via Ulrico Hoepli dopo che i tre passanti interpellati sull’ubicazione vi avranno dato ciascuno una risposta differente.
La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.
Poiché siete persone puntuali e fuggite il ritardo come nulla mai, vi presentate in stazione venti minuti, no, un quarto d’ora, no, diciassette minuti e mezzo prima della partenza del treno, così da poter fare con estremo comodo il biglietto. Civilmente, vi mettete in coda e attendete. Attendete. Attendete.
La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.
Attendete ma la fila non avanza di un metro. La stazione di Pavia è dotata di quattro sportelli umani per l’emissione di biglietti, a cui si aggiungono due macchinette automatiche. Essendo degli umanisti, optate per gli sportelli umani; ma due dei quattro sono chiusi, e i restanti sono in possesso a persone più calme di un barcaiolo morto e pagato a ore. Tuttavia attendete il vostro turno con fiducia, tanto alla partenza del treno mancano ancora diciassette minuti, no, dodici, no, sette, no, due. Iniziate ad accettare scommesse sul vostro destino e a controllare nervosamente gli orari dei treni successivi i quali hanno due caratteristiche: essendo degli Intercity costano il doppio (pur impiegando esattamente lo stesso tempo di percorrenza, mistero della fede) e vi consentono di arrivare alla presentazione con un ritardo compreso fra i la mezz’ora e i due giorni.
La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.
Quando alla partenza del treno delle 17:03 manca talmente poco che già è stata annunziata la sua incombenza, con mossa sparigliatrice e berlusconiana decidete di abbandonare la fila, alcuni componenti della quale sono nel frattempo morti di vecchiaia, e di precipitarvi alle macchinette automatiche, che per fortuna sono entrambe libere. Troppo libere. Sospettosamente libere.
La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.
Una delle due macchinette, infatti, reca l’avviso mortuario: “Sportello Chiuso”. Manca il corollario: “cazzi vostri” ma poco male, visto che c’è l’altra. Chi non le abbia mai provate dovrebbe quanto prima: si ha davanti uno schermo al plasma toccando reiteratamente il quale ottenete risultati contrari a quelli che vi prefiggete; è possibile pagare con carta di credito, bancomat, assegni, preziosi, oro a 24 carati, porzioni varie del corpo umano e vaghe promesse di saldare il conto sabato prossimo – tutto insomma che non sia denaro contante, che la macchina rifiuta con nobiltà sconosciuta all’umano genere.
La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.
Io ho un naturale pudore economico che mi rende scettico di fronte agli acquisti virtuali, ossia a comprare ciò che non posso toccare pagando con soldi che non posso vedere; ma in onore di Carlo Porta, di Franco Loi, di Sandro Bajini e di Gino Cervi decido di estrarre dal portafoglio la carta di credito. Palpando lo schermo a casaccio seleziono fortuitamente la destinazione, l’orario, la tariffa; dopo di che la macchinetta infernale torna alla schermata d’esordio chiedendomi in che lingua desidero che mi parli. È il tilt.
La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.
Ma poiché di fronte a Carlo Porta, e a tutti i signori citati in precedenza, non potrei fermarmi di fronte a nulla, con gesto eroico decido di salire sul treno senza biglietto; ma poiché si ha un bel dire che in Italia i servizi non funzionano se poi si viaggia nascosti per mezz’ora nei cessi onde evitare il controllore, dritto come un fulmine mentre la locomotiva si rimette in modo vago fra gli scompartimenti alla ricerca del capotreno, finché non trovo qualcuno che gli assomigli.
La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.
Al che gli spiego che sono appena salito, a Pavia, dove le persone in fila sono state trasformate in stalagmiti e dove le macchinette automatiche devono essere d’ascendenza francese poiché in sciopero generale. Il capotreno risponde che è evidentemente colpa mia. Protesto che io ho passato metà pomeriggio a tentare di comprare un biglietto per Milano, e che avendo fallito ciò nondimeno una volta sul treno sono corso a cercarlo immantinente per regolarizzare la mia posizione di fronte alla giustizia umana e divina. Pondero se infilare come captatio benevolentiae geografica pure un discorso d’elogio per Carlo Porta, Franco Loi, Sandro Bajini e Gino Cervi, ma scarto l’ipotesi in quanto mi suona ridondante.
La Lombardia è la regione più efficiente d’Italia.
Il capotreno come da regolamento emette il tagliando da Pavia a Milano al costo di due euro e novantacinque, ai quali aggiunge cinque euro di ricotta per il servizio di biglietteria sul vagone. Io pago e ammiro l’efficienza lombarda, che escogita il blocco delle file e lo scassamento delle macchinette per estorcere a chiunque abbia degli impegni (e quindi degli orari da rispettare, e quindi qualcosa da fare nella vita che non sia la coda agli sportelli della stazione di Pavia) il triplo di quello che avrebbero pagato se le file si fossero mosse, se le macchinette avessero funzionato. Dopo di che mi sistemo in prima classe e quando, due minuti dopo, il capotreno passa a mo’ di controllore e sta per dirmi che il biglietto da lui emesso è valido per la seconda classe e non per la lussuosissima in cui sono assiso, si trattiene dal farlo e resta con la bocca mezza aperta solo perché legge nel mio sguardo un bagliore luciferino: che con l’occhio destro rimugina come gli abbia appena dato sedicimila lire per un tragitto di trenta chilometri in una caffettiera sfrigolante, e con l’occhio sinistro gli augura vivamente che finiscano tutte spese in medicine.
(Nonostante l’enciclopedica cultura dell’amico Damiano, il film con Marlon Brando del 1959 è Pelle di Serpente.)
[“Io mi chiamo G”, esordiva Giorgio Gaber ai tempi del bianco e nero; al che un altro Giorgio Gaber, nella metà di schermo lasciata libera, repentinamente replicava rincarando: “Anch’io mi chiamo G” – e via allora con tutta una serie di differenze e dissonanze fra le vite dei due G speculari che avevano in comune tanto il nome quanto il sembiante.
Per certi versi, anch’io mi chiamo G, e per certi versi neanch’io sono l’unico. Me ne sono reso conto appieno nel momento in cui ho realizzato – con la nostalgia tipica di chi sta inevitabilmente, precocemente invecchiando – che sono trascorsi dieci anni esatti dall’inizio dell’anno scolastico che mi condusse alla maturità; e al contempo mi sono interrogato su cosa sia cambiato nella vita quotidiana (e cosa sia invece rimasto immutabile per saecula) nella repubblica dei registri, nel sotterraneo Stato dei Licei che accomuna gli adolescenti d’Italia da Vipiteno a Lampedusa.
Io mi chiamo G e mi sarei interrogato a vuoto in eterno, temo, se non fosse sorta nell’altra metà dello schermo immaginario un’altra vocina che mi ha risposto: “Anch’io mi chiamo G”. Di chi si tratta? Silvia G a quanto pare non fa parte della “generazione degenerata” della quale si torna periodicamente a parlare (vedi Panorama di ieri); non suole comparire ubriaca su YouTube né sniffa colla Bostik né compie esperienze sessuali estreme da sola o in compagnia; fa parte della maggioranza silenziosa di liceali che va a scuola tutti i giorni e non finisce mai in un telegiornale. Silvia G è la parte sommersa dell’iceberg; ciò nondimeno è convinta che anche quando non hanno niente di cui vergognarsi i licei d’Italia abbiano comunque adeguate storie da raccontare, pregevoli cubetti di ghiaccio. Ragion per cui Silvia G è la spia perfetta che ho intrufolato nello Stato dei Licei, dove io non potrò più mettere piede se non, auspicabilmente o malauguratamente, come professore prima o poi; e ora che l’anno scolastico ha ingranato, con il superamento delle occupazioni-autogestioni-cogestioni e l’avvicinarsi delle prime verifiche serie sotto Natale, mi spedisce regolari dispacci e l’accompagnerò commentando fra parentesi quadre da qui alla maturità. Silvia G ha diciott’anni e una dolce ironia; scrive bene, promette meglio e per questo merita di venire letta, a partire dal rigo qui sotto:]
Gurrado, il mondo del lavoro, in quest’epoca sovraffollata, è sempre soggetto a una dura selezione più o meno naturale, che tende a scartare con discreta leggerezza tutti gli elementi deboli o sfortunati, e a mettere in dura competizione quegli individui che invece riescono a tenersi a galla e a sopravvivere. Ogni giovane volenteroso che decida di non accontentarsi del diploma di licenza media, e di iscriversi conseguentemente a una scuola superiore, è consapevole che più avanza più dovrà brillare per distinguersi dagli altri e ambire prima o poi a cariche di rilievo. Per questo motivo si ritiene che più una scuola dimostra scrupolo nella selezione dei suoi iscritti, miglio è [nota di Gurrado: presumibilmente “meglio è” ma, trattandosi di fogli di quaderno a quadretti fittamente scritti a mano, l’interpretazione è sempre ambigua e come ogni filologo che si rispetti opto regolarmente per la lectio difficilior]: disciplina, diligenza, metodo e amore per lo studio, ecco quali sono sempre state le qualità richieste a tutti i bravi studenti, in ogni liceo che si rispetti.
Nel liceo che frequento, l’istituto più selettivo (o presunto tale) di *** [ndG: per evitare che Silvia G venga espulsa da tutti i licei del regno, ho ritenuto opportuno occultare il nome del luogo, ma sono pronto a rivelarlo a qualsiasi dirigente scolastico lo desideri dietro congruo pagamento in contanti], la presidenza e i docenti in generale tengono moltissimo a rimarcare questo concetto: senza sacrificio non c’è soddisfazione, senza impegno non ci sono risultati, e senza risultati, purtroppo, non si può andare avanti. Non per nulla il liceo Voltaire [ndG: sfido chiunque a trovare un Liceo Voltaire in Italia. Se esiste, sappia che non stiamo parlando di lui] vanta il più alto numero di ammissioni alle più prestigiose università d’Italia da parte degli studenti giudicati maturi, le più alte medie nei sondaggi a livello regionale, la più alta fama tra i mortali e tra gli immortali e, di conseguenza, il più basso numero di iscritti alle IV ginnasio (non tutta la gioventù locale, infatti, è del parere che si sia al mondo solo per soffrire, e finisce per far domanda altrove).
Varcando le porte del Liceo Voltaire, ogni visitatore avrà il piacere di incedere attraverso ampi e luminosi corridoi, di soffermarsi ad ammirare i busti in marmo dei più prestigiosi studenti del tempo che fu, di penetrare in aule spaziose [NdG: rincresce riconoscere che Silvia G non abbia trovato un verbo meno ambiguo], colme di fresche e vivaci testoline ordinatamente disposte a coppie, in bancate regolari e allineate. Il clima è insomma armonioso e idilliaco, e nel respirare quest’aria impregnata di diligenza, erudizione e buoni sentimenti, il cuore del suddetto visitatore guizzerà nel petto dalla delizia, gli occhi gli si riempiranno di commosse lacrime, ed egli penserà che istituti come quello sono senz’altro l’orgoglio di tutta l’istruzione pubblica italiana.
Tuttavia, ogni famiglia ha la sua pecora nera, e così ogni liceo; la mela marcia del Voltaire è la sventurata Terzaddì [ndG: si noti l’implicita citazione manzoniana, dal capitolo X dei Promessi, segno tangibile che finché si studia a scuola si riesce ancora a imparare qualcosa, magari senza accorgersene]. Sezione dal passato travagliato, ricco di ritiri, bocciature e fughe ardimentose, non ha mai mantenuto lo stesso numero di alunni per due anni di seguito: se in IV ginnasio se ne contavano ben venticinque membri, essi erano diventati già diciannove in V, diciotto in I, sedici in II, e il numero sarebbe disceso ancora se non fosse stato per l’aggiunta di tre studentesse provenienti da una classe parallela in III liceo. Sono dunque diciotto giovani virgulti; tuttavia, a detta degli insegnanti, procurano di sembrare molti di più. Per quanto l’intelligenza di alcuni tra loro superi di gran lunga la media dei coetanei [ndG: media invero bassina], la singolare predisposizione all’eccesso, allo sprezzo delle regole e del pericolo, all’umorismo sagace e impertinente, allo smodato amore per il vin brulé e il Passito di Pantelleria, alla mordacità e alla vita spericolata in generale che li caratterizza, fa di questi alunni una stonatura fastidiosa in un ambiente tanto ordinato ed etereo. La situazione è inoltre aggravata dal fatto che alla Terzaddì, a questo manipolo di debosciati, a questa manica di barbari rinciviliti, sia stato assegnato un cospicuo gruppetto di professoresse zitelle e discretamente bigotte, profondamente vergognose di aver macchiato la loro ordinaria carriera con una cattedra nella classe famigeratamente trascurabile e, quando non se ne lagnano tra di loro, tentano di nascondere ai colleghi e al resto del mondo gli inenarrabili scandali che avvengono tra le quattro mura dell’aula [ndG: noi, ai tempi, solevamo lanciare festosamente nell’aere i calzini rientrando dall’ora di educazione fisica; rinchiuderci segretamente in un armadio e periodicamente aprirlo per ruttare a mo’ di orologio a cucù, invero volgarotto; giocare a Shangai durante le ore di Greco; chiedere alla professoressa di Geografia Astronomica di spiegare a bassa voce perché stavamo studiando Filosofia; eccetera eccetera eccetera; le professoresse di Silvia G ne sarebbero morte, le nostre avevano senso dell’umorismo e pertanto le ricordo con piacere]. È quindi speranza del sommo dirigente scolastico che si salvaguardi l’apparente perfezione, e che l’ignaro visitatore del liceo Voltaire., tutto concentrato sulla maestosa bellezza architettonica dell’edificio e sul clima idilliaco che trasuda da ogni parete, non si accorga che oltre la seconda porta a destra del primo piano, sotto la luce intermittente di neon difettosi e sibilanti, si combatte ogni mattina una guerra di trincea tra giovanotti vispi ma annoiati e insegnanti ormai prive di speranza, ma certo non disposte a [ndG: la pagina è strappata, il manoscritto si interrompe qui]