La consueta diffidenza che mi assale di fronte alle uscite antologiche si squaglia quando mi trovo di fronte Sporco al Sole, dell’editore Besa. Primo perché conosco i tre curatori – Gaetano Cappelli, Michele Trecca ed Enzo Verrengia – e da loro comprerei macchine usate a bizzeffe, figurarsi nove racconti assortiti. Secondo perché spogliano il libro della sovraccoperta impressa quest’anno (come numero 142 della collana Lune Nuove) si rivela la sottocoperta del 1998, quando (come numero 3 della collana Books Brothers) era stata pubblicata la prima edizione della incontestabilmente prima antologia di narratori meridionali under 25 (“o quasi”, come recita il sottotitolo). E poi perché quest’antologia ha oggettivamente segnato una strada, stante che di lì a poco l’Einaudi niente meno (versante Stile Libero) pubblicò Disertori che altro non faceva che ampliare l’intuizione ascrivibile ai tre curatori di Sporco al Sole, firmatari dell’accorato appello – ritrasmesso dalla Gazzetta del Mezzogiorno come da Radionorba e da un ammirevole elenco di mass media volenterosi – al sommerso dei giovani autori meridionali, così riassumibile in tre domande: “Esistete davvero? Scrivete sul serio? Perché non pubblicate?”.
E, con esiti miracolosi per simili operazioni di censimento che solitamente lasciano il tempo che trovano, si scoprì che i giovani giovanissimi autori meridionali esistevano davvero, scrivevano sul serio, potevano pubblicare. Mi pare furba la scelta dell’editore Besa che non ha tanto pensato a rifare il libro quanto semplicemente a riproporlo con una giacca nova – addirittura con l’attuale recapito leccese (di Nardò, nello specifico, altrimenti Livio Romano mi mangia) appiccicato in semitrasparenza sul vecchio indirizzo barese (via Jatta, se non mi sbaglio). L’operazione non è peregrina poiché intende fornire un come eravamo, retrospettiva significativa nel momento in cui diventa specularmente un come siamo diventati nel frattempo. I curatori, innanzitutto: Michele Trecca nel 2004 ha edificato L’Albergo delle Storie, calendario di narrativa contemporanea che aiuta non poco ad orientarsi in ciò che è troppo vicino per essere ben distinto (sono un critico presbite, io); Enzo Verrengia si è visto ripubblicare La Notte degli Stramurti Viventi e ora è autore riconosciutamene nero e sanguinario per Avagliano (Divora il Prossimo Tuo e Complottario); Gaetano Cappelli, be’, è Gaetano Cappelli: allora aveva appena esordito con Marsilio (Floppy Disk), ora si gode la gloria della Storia Controversa dell’Inarrestabile Fortuna del Vino Aglianico del Mondo (l’altro giorno era dalla Dandini, nientemeno) dopo due romanzi destinati a non essere dimenticati tanto facilmente come Parenti Lontani (Mondadori) e Il Primo (Marsilio).
La scommessa vera, però, era nella scoperta e selezione degli autori. All’epoca Livio Romano era il più grandicello, avendo trent’anni (sono sempre stato dell’idea che i limiti di età per i concorsi letterari debbano essere malleabili; e a trent’anni Livio Romano quanto a verve sperimentale era più under 25 di molti adolescenti smorti d’oggidì), e quello destinato ad avere più successo immediato, con l’immediata inclusione in Disertori (nel 2000), con la successiva ripubblicazione dei tre racconti pubblicati da Besa, insieme ad altri, nella raccolta mono-romanica Mistandivò (Einaudi, 2001) e poi con la digressione impegnata Porto di Mare (Sironi, 2002) che lo ha portato adesso, dopo un congruo silenzio narrativo, a conseguire i riconoscimenti mica da ridere di Niente da Ridere (Marsilio, 2007). Ora ha quasi quarant’anni.
Un anno in meno di Romano, ventinove all’epoca, aveva Ottavio Cappellani che nell’antologia è il prosatore più raffinato, che avvolge la pagina in volute quasi snob di prosa svogliata, lenta, calibrata; e che con lo stesso ritmo lento e consapevole collabora al Foglio (che è il quotidiano meglio scritto d’Italia, quindi contrariamente al solito collaborarvi per uno scrittore è un merito) producendo nel frattempo due romanzi di fascino come Chi è Lou Sciortino? (nel 2004 per Neri Pozza, che è a mio avviso l’editore che più di ogni altro sta attento a tenere alta l’asticella della selezione in base ai ritmi della prosa) e all’inizio di quest’anno il conto mitopoietico Sicilian Tragedi (si legga tragedài) per Mondadori, mica pizza e fichi.
Annalucia Lomunno aveva venticinque anni e non era ancora sposata. Rosa Sospirosa fa la sua prima comparsa in Sporco al Sole, con circa trenta pagine fitte di abissi dialettizzanti e picchi latineggianti, come se l’autrice fosse una pianista che si esercita a fare le scale (suonava davvero il pianoforte, all’epoca, si vede che ogni arte trasmette qualcosa a un’altra). Dal punto di vista strettamente semantico, il suo racconto è il più – interessante è dir poco, il più – dirompente di tutta l’antologia, in quanto porta avanti la miscela di alti e bassi soppesando la paratassi, i dialoghi, le singole sillabe con sorprendente saggezza: e difatti Rosa Sospirosa, allungato e reso romanzo compiuto, venne pubblicato nel 2001 da Piemme, che due anni dopo le pubblicò anche Nero Sud. Da che sono quattro anni che attendo il terzo romanzo di Annalucia Lomunno, pronto a comprarlo trenta secondi dopo la stampa della prima bozza, avendo dovuto a malincuore rinunziare a sposarla.
Non conoscevo Francesco Dezio, nella mia somma ignoranza; ed è di Altamura, a dodici chilometri da casa mia (ribadisco che sono letterariamente presbite, lince da lontano e talpa da vicino). Apprendo dalla tuttologia internettiana che nei dieci anni intercorsi ha pubblicato un solo romanzo per una grande casa editrice (Nicola Rubino è entrato in Fabbrica, Feltrinelli, 2004), il quale dev’essermi sfuggito per conclamata allergia feltrinellesca. Eppure il suo racconto, che la mia stessa somma ignoranza mi ha permesso di leggere senza il filtro del tempo, come se oggi avesse ancora i ventott’anni di allora, ha le stesse corde della Lomunno nell’altalena semantica, stavolta particolarmente vivace e quasi cruenta, fra dialetto e lingua nazionale (come scrive lui stesso, “Parla tricolore!”). Un romanzo in più anche per Giovanni Di Iacovo (Sushi Bar Sarajevo, Palomar 2005), il cui racconto per Sporco al Sole è una distopia surreale con qualche colpo di genio che ai tempi nostri può procurargli gloria di lungimirante (come l’ipotizzazione – e si balza sulla sedia a leggerlo dieci anni dopo – di un grande “Partito Apolitico Democratico”). Da quel che ho capito Francesca Forleo, il cui racconto apre l’antologia di Besa, nel corso di questi dieci anni è diventata giornalista per il Secolo XIX, e questo potrebbe sorprendere: ma il Secolo XIX non è di Genova? E infatti la Forleo, essendo di Genova, aveva potuto partecipare all’antologia in quanto sangue misto, come rivendica fieramente nel suo curriculum riprodotto in quarta di copertina, e forse anche perché Genova è una città del Sud capitata un po’ troppo in alto.
Infine c’è Luigi Biamonte, del quale non ho altre notizie se non l’età precisa, ventisei – quasi ventisette – anni adesso, come me. Il che mi fa pensare (e, eliminando una consonante, mi fa pure penare): se già allora, visto che esistevo davvero e scrivevo sul serio e volevo pubblicare, avessi mandato alla premiata ditta Cappelli-Trecca-Verrengia un racconto di quand’ero maturando e ragionevolmente felice, un brano di quando solevo scrivere a mano su enormi quaderni a quadretti religiosamente conservati e mai più riaperti, un estratto di un romanzo magari che andavo scrivendo con periodi ininterrotti e ipotattici sempre più lunghi fino al confine estremo delle venti pagine filate per un solo punto interrogativo finale, l’antologia pubblicata nel 1998 e riedita quest’anno sarebbe stata di una dozzina di pagine più lunga?
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