sabato 31 maggio 2008

La lunga estate (fresca, per ora)

Sto facendo una cosa, indi per cui mi vedo costretto a trascurare un po' il blog per i mesi estivi (che, nonostante l'acqua piovana prometta malaccio, sono pur sempre giugno luglio e agosto). Finora vi ho viziati al ritmo di un articolo, di un sermone, di una qualsivoglia stronzata al dì fatta eccezione per la domenica e per qualche sabato a caso. Tuttavia, onde evitare il suicidio delle pletore di gurradomani sparsi per l'universo mondo, sottoscriviamo un compromesso grazie al quale nei prossimi tre mesi sul blog appariranno con costanza:

- le recensioni di novità librarie che scrivo per Books Brothers;

- gli interventi a scadenza mensile della rubrica Tutti i libri che non ho letto, che curo sempre per BB;

- le interviste agli autori e le recensioni tecnico-istituzionali che curo per il nuovo mensile di Gianni Bonina, Il Sottoscritto, che ha preso il posto del deceduto Stilos;

- gli articoli sportivi o parasportivi che compilo con estrema soddisfazione fisica e morale per Quasi Rete/Em Bycicleta, il blog della Gazzetta dello Sport;

- gli strilli e i lanci delle varie iniziative nelle quali sono nevroticamente coinvolto (Pavia Città di Lettori, il Premio Nazionale di Narrativa under 30 Valerio Gentile, etc.);

- gli interventi de Lo Stato dei Licei fino a che Silvia G non consegua il meritato diploma di maturità classica (e quindi, se necessario, anche fino all'estate del 2009);

- qualsiasi altro mio intervento o intervista o quello che capita su qualsiasi altra testata giornalistica, non giornalistica, realmente esistente o plausibilmente immaginaria;

Nonostante la mia latenza il dialogo con le tre persone che mi leggono, esclusa mia madre, sarà continuo e ininterrotto poiché continuerò a rispondere stabilmente ai vostri commenti, che come sempre potranno riguardare qualsiasi argomento, senza che sia necessario un particolare riferimento a ciò che scrivo.

Tante belle cose.

giovedì 29 maggio 2008

RadioGurrado

Non tutti hanno un amico spagnolo. Non tutti hanno un amico spagnolo filosofo. Non tutti hanno un amico spagnolo filosofo intelligente (raramente le due ultime cose s'accompagnano, peraltro).

Io sì, io ho Nacho Duque Garcia, che tiene periodicamente una rubrica di filosofia (e tutt'altro) su una radio spagnola. Poiché parla desde Padova, Nacho Duque Garcia è stato interpellato quale massimo esperto a disposizione sulla faccenda dei rifiuti a Napoli.

Per ascoltarlo, cliccate qui, cercate alla fine della pagina il riquadro dov'è scritto Escuchanos Ahora e selezionate Filosofia 27 de Mayo. Basura en Napoles. Dopo di che tacete, parla lui.

Non si capisce una mazza, però la sigla è bellissima.

mercoledì 28 maggio 2008

A cercar la bella morte


C'era una volta un editore modenese di sette cotte, e perciò italiano sette volte, che risiedeva a Roma. Quando gli dissero: tu non sei italiano, egli volle dimostrare di essere modenese di sette cotte e perciò sette volte italiano, buttandosi dall'alto della sua Ghirlandina. Ma era stato scritto di lui che aveva la testa molto dura, ed infatti precipitando a capo fitto la testa si frantumò in tre grosse schegge senza dare una goccia di sangue. (Oh le leggende!).

Angelo Fortunato Formiggini (1878-1938), editore modenese in Roma, non era pregiudizialmente avverso al Fascismo. Lo era divenuto nel momento in cui erano state emanate le leggi razziali, che criticava severamente tanto nel merito (gli ebrei non costituiscono affatto una razza: sono il risultato di innumeri incroci avvenuti durante la diaspora) quanto nel metodo (il razzismo coloniale non ha niente a che fare col tuo antisemitismo di marca tedesca). Soprattutto, Formiggini non tollerava che con le leggi razziali Mussolini si fosse svenduto a Hitler e ai tedeschi in genere (il vizio tedesco ha ghermito anche te) e che così facendo avesse rinnegato lo stesso fondamento ideale e vitalistico del Fascismo: lo hai detto chiaro e tondo anche tu, che il razzismo è una grande sciocchezza e che l'antisemitismo è sinonimo di pederastia, mentre il Fascismo era in origine un ristabilimento energico dell'ordine sociale che era stato scosso e un elemento di forza a servizio del diritto. Agli antifascisti anzi Formiggini moveva una velenosa critica: anche questi tuoi avversari si macchiano della tua stessa ingiustizia: vorrebbero che una data categoria di cittadini avesse un pensiero politico coatto. Vale a dire che li vorrebbero rinchiudere in una specie di ghetto psicologico.

Il sigillo razziale dell'alleanza con Hitler aveva invece portato Mussolini a trasformarsi nell'Anticrsito preconizzato dal libello menagramico, un Anticristo a due teste come l'aquila bicipite che fu il bau bau della nostra balda, gaia e generosa giovinezza. Ebreo quantunque, Formiggini parteggiava invece per il povero Gesù e riteneva che, dato il mio temperamento, se fossi stato suo contemporaneo ci saremmo intesi ed affiatati così tanto che la conclusione della mia vita possa, con un poco di buona volontà e di compatimento, essere riconosciuta come una abbastanza interessante "imitazione del Cristo". E ancora: Mi permetto di far notare che la mia croce me la sono eretta da me stesso, che mi sono fatto il processo e che mi sono condannato da me stesso, che ho preso volontariamente il posto che spettava a Barabba e che sono stato io stesso il mio esecutore dell'"alta" opera. Gesù e Formiggini erano differenti in quanto Egli non conosceva né la radio né il telegrafo senza fili. Non immaginava nemmeno che i libri si sarebbero potuti stampare, mentre io ne ho stampati tanti, anche troppi, sebbene con un risultato finale così abominevole. Gesù e Formiggini sono accomunati da una sostanziale affinità che si palesa in un identico amore per il prossimo e in una identica volontà di martirio per il prossimo fino a farlo divenire felicità suprema, aspirazione massima, estrema dell'anima umana, oltre la quale non c'è nulla, non ci può essere nulla.

Morire, ma come? La risposta è nel simbolico abbandono di Roma e conseguente ritorno a Modena, mediante acquisto di un biglietto di sola andata: una gentile leggenda fiorisce intorno alla mia Torre: un bimbo precipitò dall'alto e S. Geminiano con miracolosa prontezza lo acciuffò al volo e lo salvò. Spero che il Santo non avrà il tempo di salvare anche me.

Nell'ambito della sua privata lotta fra Cristo e Anticristo, Formiggini pianifica alla perfezione il suo martirio/suicidio/esecuzione. Mi sembra che quando salirò ansimando i pesanti gradini della mia Ghirlandina dalla quale dovrò discendere a volo e senza paracadute, nessuno potrà sentirsi più di me vicino a Gesù. Se anche sembrerà che nel discendere io mi allontani dal cielo, spiritualmente mi ci avvicinerò e raggiungerò la più alta quota quando il mio corpo avrà toccato la quota zero. Man mano che la data si avvicina, Formiggini scrive alla moglie (grazie della buona compagnia che mi hai fatto), ai Modenesi (il piccolo spazio che c'è fra la Ghirlandina e il monumento al Tassoni lo chiamerete "al tvajol ed Furmajin", per indicare la limitatezza dello spazio; non direte "sudario" perché "tvajol" è parola più allegra e simposiale), agli Italiani tutti (la vita non vale più nulla se non si può lavorare, se non si può più amare ed essere amati), al Papa (accordategli la Vostra benedizione; consentitegli di ricambiarla umilmente e di cuore), al Re (è proprio vero che non potete far nulla per salvare l'Italia?), al Duce (il tuo genio proteiforme possa suggerirti la via per rimediare al triste errore).

Nel frattempo Formiggini va componendo sin dall'estate epigrafi poetiche di dubbia riuscita ma di sicuro impatto:
Ghirlandéina dam un còcc / pr'ajutèrme a fèr al bocc
!
Crepare / è il solo diritto che sia rispettato: / sarebbe peccato / non ne approfittare
.
I libri miei tutti / i belli ed i brutti / acquistano pregio: / ormai me ne fregio.
Fior tricolore / tramontano le stelle in mezzo al mare / e s'è spento il sorriso nel mio cuore.

L'ultimo giorno, il 27 novembre 1938, scrive alla moglie: Viaggio triste ieri per averti lasciato per sempre (...). Ma ieri sera tanto di cotoletta con tartufi e di lambrusco. Sono andato allo Storchi. (...) Dopo il primo atto sono andato a letto senza aver capito di cosa si trattasse. Ho dormito meglio del solito (...). Nelle ore di veglia una calma ed una serenità assolute (...). Finora è stato proprio come bere un uomo e spero ormai che sarà così fino alla fine imminentissima. Ecco: me ne vado. (...) Estrema raccomandazione: siate rassegnati alla mia sorte, non fate recriminazioni. Non guastatemi le uova nel paniere!

Scritto questo, Formiggini sale sulla torre Ghirlandina ed ecco: con estremo atto di disciplina elevo il mio bravo saluto al Duce e poi lancio dall'alto il mio grido: Italia! Italia! Italia! E lancio dall'alto anche me stesso: bumf!

[I corsivi sono tutti tratti da Angelo Fortunato Formiggini, Parole in Libertà, Edizioni Roma, 1945]

martedì 27 maggio 2008

Pavia città di lettori (come prima, più di prima)

Domani mercoledì 28 maggio, alle 21 nel Salone San Pio del Collegio Ghislieri di Pavia, nuovo appuntamento con la rassegna Pavia Città di Lettori, organizzata dalla Libreria Delfino e dal Collegio Ghislieri.



Nello specifico, Marcello Simonetta presenterà il suo nuovo libro L'Enigma Montefeltro (Rizzoli).



Peraltro non c'è nemmeno la finale di Champions League.

lunedì 26 maggio 2008

Lo Stato dei Licei, 19: il sentimento del contrario

[Mancano ventidue giorni agli esami di maturità. Gurrado si guarda il Giro d'Italia. Silvia G piglia e scrive:]

Gurrado, da qualche tempo in Terzaddì aleggia un’atmosfera surreale e un po’ inquietante, carica di tensione e nervosismo; ciò è presumibilmente dovuto al fatto che gli alunni, come ridestatisi da un sonno durato circa cinque anni, hanno d’un tratto preso coscienza che mancano pochissime settimane all’inizio degli Esami, e sono stati dunque pervasi da un sentimento talmente angosciante da tramutarsi per assurdo in euforica allegria. Capita piuttosto di frequente ch’essi si ritrovino a ridere delle loro stesse disgrazie.
Capita, ad esempio, che l’alunno Ruggero F, nel tentativo di recuperare la merendina che i compagni hanno nascosto per burla, si alzi in piedi sopra il banco nel bel mezzo della lezione di latino e minacci di compiere uno sproposito se la suddetta merendina non gli viene immediatamente riconsegnata, prendendo come ostaggio il quaderno di Chiara P, come in preda ad una crisi di follia. Capita che quale immediata reazione la professoressa Fiorello, una volta riavutasi dallo shock, intimi a Ruggero F di scendere immediatamente dal banco, pena la sospensione. Capita che l’alunno simuli un improvviso calo di zuccheri, costringendo la professoressa a cercare personalmente il corpo del reato, ovvero la merendina, e a svuotare gli zaini di tutti i presenti. Capita che la merendina venga rinvenuta nella borsa di Eleonora F, la quale giura di non c’entrare nulla e di essere stata incastrata. Capita che la professoressa Fiorello, rendendosi conto che la situazione sta sconfinando nell’assurdo, annunci che, in quanto coordinatrice di classe, proporrà il famigerato 7 in condotta per tutta la Terzaddì. Capita che gli alunni, nell’udire ciò, inspiegabilmente applaudano.
Capita altresì che la stessa professoressa Fiorello, in seguito a questo curioso episodio, decida di vendicarsi consegnando i risultati dell’ultimo compito di greco (una versione tratta dall’Antidosi, qualsiasi cosa sia, di Isocrate, chiunque sia). La tensione è palpabile, in quanto tutti gli alunni della Terzaddì sono perfettamente consapevoli di non aver tradotto in maniera sufficiente nemmeno una riga del testo. Vi è dunque un inaspettato colpo di scena: non un alunno su diciannove ha superato il 5, e sulla maggior parte dei fogli protocollo compare scritto, con un tratto rabbioso di penna rossa, quello che tutti considerano il numero perfetto, esclusi naturalmente gli studenti liceali: il 3. Dopo una rapida consultazione, le rappresentanti della Terzaddì annunciano con il sorriso sulle labbra che la media di classe ha toccato con quest’ultimo compito il 3,81, primato assoluto, mai sfiorato da nessuna sezione precedente. L’alunno Alberto I estrae dunque dallo zainetto una bottiglia di spumante, che aveva precedentemente acquistato per festeggiare il conseguimento della sua patente di guida, e la stappa davanti agli occhi impotenti e rassegnati della professoressa Fiorello; la quale, avendo ormai perduto definitivamente il controllo della classe, accetta di brindare con gli alunni al tragico record. In fin dei conti, lei stessa è stata decisiva per stabilirlo.
La Terzaddì sorride delle proprie disgrazie, rovesciando così il principio cardine esposto da Pirandello nel suo saggio L'Umorismo: se si riflette oltre l’apparenza per guardare nell’interiorità di una situazione buffa, il riso si dovrebbe trasformare inevitabilmente in pianto, e la commedia in tragedia. Ma quando la situazione non è affatto buffa, e la tragedia risulta più che evidente, è necessario distaccarsi dalla realtà e tentare di osservare superficialmente lo sfacelo; ne conseguirà un sentimento di inebriante sollazzo, nonché un ineluttabile desiderio di rid[Silvia G scoppia in lacrime senza ragione apparente, il manoscritto termina qui]

sabato 24 maggio 2008

Ombre Russe

(Gurrado per Quasi Rete/Em Bycicleta)

Michel Platini è un uomo di ottimo gusto e notevole sense of humour, qualità che, mescolate, sovente si traducono in genio. Ha dimostrato ottimo gusto nel bandire l’orrenda premiazione con coriandoli e palchetto al centro del campo alla fine di ogni Coppa Europea, ritornando alla più dignitosa e storica ascesa sui gradini dello stadio fra due ali di pubblico osannante o lacrimoso. Ha dimostrato sense of humour nel momento in cui, mercoledì scorso, ha accolto sul palco d’onore lo Zenit San Pietroburgo che aveva appena vinto la Coppa Uefa e, vedendo che Arshavin e compagni si presentavano all’appuntamento col figlioletto in braccio, non ha battuto ciglio e ha infilato la medaglia al collo dei piccoli innocenti.

Il genio è qualcosa che talvolta arriva di là dalle intenzioni del suo portatore sano, foss’anche notoriamente consapevole come il re Platini. Col gesto un po’ svagato e un po’ paterno di premiare come vincitori della Coppa Uefa dei bambini di tre o quattro anni, Platini ha rappresentato plasticamente l’indissolubile continuità del calcio russo. Mi è parso che volesse dire ai coraggiosi demolitori del Bayern Monaco (che i Rangers, Fiorentina nonostante, non ci vuol molto a demolirli): “Questo premio per i vostri meriti infilato al collo dei vostri figli onora la gloria dei vostri padri”.

Quand’ero ragazzino io, le squadre russe erano sempre un problema. Per quanto non abbiano mai vinto la Coppa dei Campioni, ricordo una Coppa delle Coppe della Dinamo Kiev di Lobanovskij, nel 1987, buona terza dopo quelle della stessa Dinamo nel ’75 e della Dinamo Tbilisi nell’81. Durante i sorteggi di Coppa amavo i loro nomi estremi, che richiedevano uno sforzo mnemonico, intellettivo e linguistico impari per ricordarli e raccontarli: Spartak e Cska e Lokomotiv e Torpedo e Ararat e Dnipro. Fino allo Zenit, in tutti i sensi, che al momento galleggia penultimo in campionato davanti alla Luch Energia Vladivostok: solo leggere nomi così significava e significa viaggiare per ore senza spostarsi di un millimetro.

Per non parlare della Nazionale, facilissima a distinguersi agli occhi una bambino appena appena alfabetizzato, grazie al capitale acronimo CCCP spalmato sul fiero petto e un nome, Urss, che sembrava un ruggito belluino, promessa di lotta senza quartiere. Agli Europei del 1988, in Germania, la giovine Italia di Azeglio Vicini sbatté contro l’Urss in semifinale; convintasi di essere un po’ più forte e un po’ più matura di quel che era dopo aver addomesticato i soliti crucchi (che da noialtri si lasciano addomesticare troppo facilmente, la storia canta), durante i lunghi e tirati novanta minuti di Stoccarda la Nazionale dovette ricredersi con qualche rimpianto. All’Urss bastarono cinque minuti per aver ragione: prima con una sabolgia di Mikhailichenko rimbalzata sul piedino malizioso di Litovchenko, quel tanto che bastava a coglionare Zenga; quindi Oleg Protassov chiuse la pratica con la stessa disinvoltura con cui rispose a un giornalista italiano che indagava sulla corretta grafia del suo cognome: “Si scrive con una o con due esse?” “Con tre: Protasssov”. La sera del 22 giugno 1988, per la prima volta nella mia vita, ebbi coscienza della sconfitta.

Mi sarei abituato, col tempo, in particolare dopo la tragica semifinale di Italia ’90 contro l’Argentina; cui fece seguito nell’autunno un imbarazzante doppio confronto di qualificazione (per gli Europei, di nuovo) contro la feroce Urss: due 0-0, uno a Roma e uno a Mosca, con la differenza che i due pareggi qualificavano l’Urss e non noi. Nel fango moscovita, all’ora dell’aperitivo, uno sconsiderato palo di Rizzitelli e la strenua difesa della retroguardia russa, pronta a incendiare il campo pur di non far passare gli Azzurri, chiusero di fatto la carriera di Vicini e consegnarono alla storia la sua ultima Italia invecchiata e imbolsita. L’Urss si qualificò per l’Europeo di Svezia ma, fra una cosa e l’altra, non poté giocarlo in quanto nel frattempo era arrivato il 1992. Venne sostituita dalla Csi (Confederazione Stati Indipendenti), che pur presentando gli stessi giocatori non andò da nessuna parte, giungendo al risibile eccesso di perdere 3-0 dalla Scozia: perché quando a una nazionale fortemente identitaria sostituisci il nome, ridisegni la maglia, assegni un inno d’ufficio e soprattutto cancelli la scritta CCCP, be’, il prodotto cambia e come.

I perditempo che hanno agio di consultare le statistiche noteranno come, di tutte le nazionali inciampate sulla strada nostra, l’Urss è quella con cui ce la siamo cavata peggio, finendo per essere l’unico avversario (nemico!) contro il quale il bilancio è in debito: due vinte, cinque patte, quattro perse. Penso che sia stata una questione più psicologica che storica. Sandro Mazzola raccontava di quando s’era trovato a dover tirare un rigore decisivo contro l’Urss, nei favolosi anni sessanta. In porta c’era Jascin. Mazzola era arrivato sul dischetto sicuro delle proprie capacità indiscusse, deciso a non guardar nemmeno il mitologico portiere e fulminarlo. Non lo guardò, ma la coda dell’occhio scorse un’enorme ombra nera che si espandeva fino a coprire l’intero specchio della porta. Mazzola tirò il rigore sapendo che sarebbe stato parato. Aveva vinto l’ombra russa, che si è allungata nelle menti dei nostri calciatori fino al definitivo arrugginirsi della cortina di ferro.

Oggi la Coppa delle Coppe non esiste più, l’Unione Sovietica nemmeno e le due Dinamo vittoriose giocano una nel campionato ucraino e l’altra in quello georgiano. Porcherie. Se fossi Platini passerei le giornate a telefonare alle federcalcio delle repubbliche sbriciolate per caldeggiare il ritorno del campionato sovietico (senza gli orpelli geopolitici d’antan, magari): una superfederazione che digerisca e rielabori i campionati russi, ucraini, georgiani, armeni, bielorussi, azeri, lituani, kazaki, uzbeki, moldavi, lettoni, tagiki, estoni, kirghizi e turkmeni, con annessa Internazionale che scelga fior da fiore e giri l’Europa a miracol mostrare. Allora tornerà a fiorir la Russia. Allora i figli di Arshavin, Timoshuk e Denisov vinceranno anche la Champions League.

venerdì 23 maggio 2008

GiraModena


Italia, Italia, Italia!

(Ultime parole di Angelo Fortunato Formiggini
nell'atto di percorrere la distanza che separa
la Torre Ghirlandina dal suolo acciottolato
il 29 novembre 1938)


Stamattina volevo fare un salto a Modena per vedere la partenza del Giro d'Italia dal Parco Novi Sad, ma improrogabili impegni mi trattengono in Lombardia.

Quindi mi sono limitato a guardare il passaggio di ieri in televisione. I corridori ciclisti hanno preso Modena da sotto, sono risaliti fino ai Viali (ossia la circonferenza il cui diametro è la Via Emilia), li hanno costeggiati per tre quarti, hanno circumpedalato il Giardino Ducale sbucando alle spalle dell'Accademia Militare, hanno curvato a sinistra in piazza Roma, hanno seguito corso Canalgrande passando davanti alla biblioteca Delfini (dove andavo ogni giorno) e al Teatro Comunale Pavarotti (dove non sono andato nemmeno quand'è venuta Ute Lemper), sono finiti in Via Emilia poco prima di largo Garibaldi ma hanno svoltato a destra fiancheggiando i portici del Collegio (del Collegio, in fin dei conti, dove ho vissuto tre anni), sono passati senza fermarsi davanti all'edicola dalla quale ogni giorno ho comprato Il Foglio, hanno tirato dritto davanti alla Ghirlandina (*vedi sotto) e al fianco destro del Duomo e al monumento ad Alessandro Tassoni (che a un occhio distratto potrebbe sembrare un d'Annunzio mascherato), sono usciti dal centro e hanno girato a destra verso Soliera e Ganaceto e quindi Carpi.

Dalla camera di Giulia si vede la Ghirlandina (*vedi sopra), che è un piacere sia quando si aprono le imposte per il buongiorno sia quando le si chiude per la buonanotte. Un giorno Giulia apre le imposte e scopre che la Ghirlandina non c'è più, ma al suo posto rinviene un enorme pacco regalo multicolore e postmoderno sotto il quale ieri i corridori ciclisti sono transitati e che Auro Bulbarelli, non potendo ahilui fare altrimenti, ha definito mirabile connubio di antico e moderno. Giulia invece mi ha spedito al riguardo uno stream of consciousness altrettanto postmoderno: è davvero troppo in linea con la scrivania per far finta di non vederla e dimenticarmi di descrivertela anche se non posso fare a meno di chiedermi perché mai il Comune si lamenti di non avere soldi e poi impacchetta per due anni la Ghirlandina con un telone del genere che dev'essere costato un'ira di dio e per fortuna io vedo solamente la metà superiore che però basta e avanza a ritrovarsi a invocare la nebbia ogni mattina indipendentemente dalla stagione in ogni modo come disegno è abbastanza semplice inquantoché consta di uno sfondo bianco su cui sono disegnate delle forme geometriche rosse gialle blu e nere prodotte con ogni probabilità a mezzo righello sbilenco tipo le forme incastrabili del tetris però sistemate in modo talmenet scombinato da non riuscire a incastrare un accidente ah e poi ci sono dei punti in cui il nero è talmente intenso da tendere miracolosamente al trasparente e far intravedere delle sagome abbastanza inquietanti che corrono su e giù per le impalcature come se il casino che fanno non fosse da solo sufficiente a ricordare a tutti e a me medesima la presenza di operai che lavorano urlando mentre io tento arditamente di studiare in silenzio se non che il meglio viene di sera perché se ti metti a guardare la Ghirlandina vedi tutti i ponteggi chiazzati qua e là di rosso e di blu perché le luci sono collocate sotto il telone che diventa una specie di sottana di Kim Basinger un vero schifo il telone non Kim Basinger e se non chiudessi le imposte ore e ore prima di andare a letto sarebbe l'ultima cosa che vedo prima di addormentarmi e se non le aprissi a mezzogiorno sarebbe la prima che vedo appena sveglia e si accettano ancora scommesse su cosa sistemeranno sulla punta che ancora è quasi scoperta probabilmente penso dei giganteschi pezzi di lego rosa e viola come suppongo io e anzi potrei addirittura proporlo all'ufficio tecnico così magari mi pagano e ho l'opportunità di conoscere personalmente l'idiota responsabile di questo casino che non è tanto il presunto artista postmoderno anche se io penso che l'opera sia più verosimilmente frutto dell'impegno dei bambini ritardati di un qualche asilo emiliano tanto decantato da Nanni Moretti quanto piuttosto chiunque abbia avuto il fegato di approvarlo e mah che altro dire mi limito a sperare che il restauro non faccia la fine di quello del Duomo di Milano che appena finito è ricominciato subito da capo anche se in tutta onestà devo ammettere che da camera mia si vede solo uno dei quattro lati della Ghirlandina e magari gli altri tre sono impeccabili ma non credo affatto l'unico vantaggio è che appena uno si mette alla finestra per perdere tempo al posto della Ghirlandina vede il telone e gli torna subito voglia di mettersi a studiare quindi è meglio approfittarne finché c'è

Fosse per me mi trasferirei a vivere a Modena, ma improrogabili impegni mi costringeranno a morire in Lombardia.

giovedì 22 maggio 2008

Meglio soli (ma con un'ombra)

Richard Mason ieri ha raccontato una cosa che mi ha sollevato. Il suo primo romanzo era stato pubblicato (e tradotto in tutto il mondo) quando lui aveva poco più di vent'anni, garantendogli un successo fuori dall'ordinario e, per quanto piacevole, difficilmente gestibile. Gli scrittori veri sono per lo più dei solitari che hanno bisogno di ampie cornici di silenzio; ma, una volta scritto un romanzo di successo, ottenere solitudine e silenzio gli era pressoché impossibile stante che doveva trotterellare per l'Europa, l'America e l'Africa, concedere quindici interviste quotidiane, tenere a bada gli assalti di mille ammiratrici innamorate e così via. Tutte cose che per un giorno fanno estremamente piacere ma che rendono impossibili una vita non appena trascorsa la prima settimana a questi ritmi.

Quand'era a Roma per promuovere il suo primo romanzo, Richard Mason era disperato: chiamava la mamma e piangeva al telefono, incurante di apprendere che il suo libro fosse stato appena comprato da, poniamo, un milione di tedeschi. Per questo aveva deciso che non avrebbe scritto mai più, e che si sarebbe trovato un lavoro vero: scrivere è bello ma faticoso, il successo è luccicante ma ingestibile, quindi meglio lasciar perdere. Tanto più che l'improvvisa fama comportava che sconosciuti di qualsiasi nazionalità si permettessero a rotazione di esprimere pareri e dare consigli su titoli, personaggi, dialoghi, tecniche narrative e copertine; promettendo peraltro di giudicare altrettanto insindacabilmente tutto ciò che Mason avrebbe prodotto di lì all'eternità. Meglio lasciar perdere.

Il milione di tedeschi, tuttavia, non aveva acquistato invano il suo primo romanzo. Coi soldi guadagnati dalla loro generosità, Mason ha deciso di comprarsi un antico pianoforte: qualcosa che fosse solo per sé e gli consentisse di canalizzare la propria creatività in qualcosa che nessuno avrebbe mai giudicato, non potendolo ascoltare. Questa valvola di sfogo ha fatto sì che maturasse dentro di lui la decisione di scrivere un secondo romanzo, e poi un terzo, e ora un quarto, così come suonava il pianoforte, di nascosto, solo per i suoi occhi. In fin dei conti le dita che picchiano sul portatile sono le stesse che ballano sui bemolli.

Così Richard Mason, dopo il successo del primo romanzo, ha deciso di smettere di scrivere e ha continuato.

(Ogni scrittore famoso ha un'ombra: l'addetto stampa del suo editore. Un autore si limita a scrivere il romanzo e sperare in bene. L'addetto stampa spedisce il libro, controlla le recensioni, coordina le presentazioni, implora le agenzie viaggi, scruta gli alberghi, compila i rimborsi-spese, accontenta tutti senza imporre nulla all'autore. Lo segue ovunque e ascolta cento volte lo stesso discorso, controllando con la coda dell'occhio le reazioni del pubblico. Parla in Inglese con gli Inglesi, in Francese coi Francesi, in Italiano con gli Italiani; riesce a non ridere dell'entusiasmo isterico di chi vede per la prima volta la stessa persona che lui invece accompagna da una settimana e che a lui si rivolge quando c'è da risolvere il problema di un improvviso mal di testa o dei calzini che si sono rotti. Soffre senza lamentarsi. Riesce a essere contemporaneamente in ufficio, su un treno e a un vernissage. Senza la dedizione ubiqua degli addetti stampa, nessuno scrittore sarebbe famoso. Dietro ogni scrittore interessante che ho incontrato c'era sempre un addetto stampa che meritava il suo successo, e che sono stato felice di conoscere.)

mercoledì 21 maggio 2008

Pavia città di lettori (tranne me)

Stasera alle 21, nel Salone San Pio del Collegio Ghislieri di Pavia, esordisce la stagione "Pavia città di lettori" organizzata dal medesimo Collegio Ghislieri e dalla Libreria Delfino (si tratta, tanto per dire, della stessa organizzazione che a marzo aveva portato a Pavia Abraham Yehoshua).



L'ospite di stasera sarà Richard Mason, il giovane sudafricano già autore di Anime alla Deriva e Noi, che presenterà il suo nuovo romanzo Le Stanze Illuminate (Einaudi).

Dialogheranno con lui Andrea Canobbio, editor di narrativa straniera dell'Einaudi, e Giorgio Scianna, scrittore indigeno.


Essendo l'ultima ruota dell'organizzazione sarò ovviamente presente, e facilmente distinguibile causa camicia bianca di Gianfranco Ferrè, anche se il mio cuore debole mi suggerirebbe di vedere piuttosto la finale di Champions League, ché il calcio inglese - temo - mi causerà vita natural durante più soddisfazioni dell'editoria italiana.

martedì 20 maggio 2008

Le parole che non vorrei scrivere


E 'l modo ancor m'offende
.
(Dante, Inferno V, 101)

L'Inter ha meritato di vincere lo scudetto. O meglio, l'Inter ha meritato di vincere uno scudetto vero per la prima volta in vent'anni (anzi diciannove): era dal 1989 che aspettavo di riconoscerle questo merito. Lo scudetto del 2007 era frutto di un campionato falsato con la frode e con l'inganno (proprio e altrui). Lo scudetto del 2006 esiste solo nella testa di Moratti. Lo scudetto del 1989 restava invece unico e vero baluardo di decenza, per me testimonianza infantile di un'Inter crucca che mai come prima era stata in grado di esprimere sul campo lo spirito terragno della sciagurata e ammirevole Lombardei.

L'Inter ha meritato di vincere lo scudetto con un girone d'andata stratosferico, principalmente frutto di un'incrollabile convinzione d'imbattibilità che si era trasmessa alle altre squadre, rivoltata come in uno specchio. Quando poi il peggior Liverpool degli ultimi anni s'è fatto beffe dei proclami europei di Mancini e compagnia, a una a una le avversarie italiane si sono rese conto che l'imbattibilità dell'Inter era di cartapesta, e nel girone di ritorno hanno iniziato a giocare contro di lei per vincere, non per non prenderle. L'Inter ha reagito come fece l'imperatore Claudio nell'Apokolocyntosis di Seneca: una volta visto il suo funerale, ha capito di esser morta.

L'Inter ha meritato di vincere lo scudetto quasi quanto ha meritato di perderlo, sbagliando tutte le partite decisive dell'anno tranne una, l'ultima, a Parma: è invece andata in malora contro il Liverpool, contro la Roma, contro la Juve, contro il Milan e contro il Siena. A Parma ha vinto grazie alla miracolosa riesumazione di Ibrahimovic, acquistato con spietato killeraggio dalla Juventus derelitta a bella posta (e quindi grazie, va rimarcato, all'onesta coglionaggine dell'alllora appena insediato consiglio d'amministrazione bianconero). Qualcosa vorrà pur dire.

L'Inter ha meritato di vincere lo scudetto ma ciò non significa che i suoi meriti vadano oltre, Moratti dovrebbe metterselo in testa. M'è parso odioso l'affondo giudiziario/giornalistico con le surreali intercettazioni paramafiose pubblicate a mezza settimana dalla giornata che decideva l'anno. Ho ritenuto altrettanto odiosa la presenza di tifosi interisti a Parma, nonostante che la trasferta fosse stata interdetta; ho seri dubbi che i signori che portavano in trionfo Javier Zanetti e simili fossero dei tifosi del Parma convertitisi sulla via del Tardini; ho qualche legittima perplessità apprendendo che quegli stessi signori abbiano assaltato un asilo per festeggiare lo scudetto, creando scompiglio in una città dove non avrebbero dovuto essere. Mi auguro che nessuno degli alunni dell'asilo sfasciato diventi interista: sarebbe una punizione più che adeguata per una squadra che, da qualche annetto, si ritiene l'unica depositaria della morale calcistica e si pone presuntuosa e tronfia al di là del bene e del male.

L'Inter ha meritato di vincere lo scudetto e la Roma, alla fine, no. Troppo spesso è mancata dove avrebbe invece dovuto uccidere. Svenevole contro la Juventus, balbettante contro il Livorno, ridicola con l'Empoli, imbarazzante a Siena: più di ogni cosa alla Roma rimprovero l'andata sconsiderata e rinunciataria con l'Inter (1-4 in casa!) e soprattutto il garibaldino ritorno a San Siro. Ha giocato dominando e trasmettendo la sensazione di aver nei piedi due o tre goal oltre a quello d'apertura di Totti. Li ha sprecati tutti. S'è fatta raggiungere al penultimo minuto. La Roma ha una notevole tradizione di scudetti gettati al vento per troppa bellezza; questo temo che non sarà l'ultimo.

L'Inter ha meritato di vincere lo scudetto ma se fossi Moratti eviterei di compiere lo stesso errore commesso dal Milan l'anno scorso: ossia credere che il finale salvataggio di una stagione traballante risolva tutti i problemi d'un botto. Non li aveva risolti al Milan la Coppa dei Campioni dello scorso anno, non li ha risolti all'Inter lo scudetto di avantieri. Fossi Moratti caccerei Mancini e rimodellerei parte della squadra, ringiovanendola anche a costo di dolorosi addii. Sul mercato inseguirei meno nomi di bella pronunzia e più piedi di buona sostanza. Mi ricorderei che a pancia piena ci si addormenta più facilmente. Ma per fortuna non sono Moratti, e soprattutto lui non è me: l'anno prossimo sarà difficile.

L'Inter ha meritato di vincere lo scudetto perché il livello della Serie A è scemato inarrestabilmente negli ultimi dieci anni, nonostante Sky avesse promesso e sbraitato, in preda alla calura estiva, che questa sarebbe stata l'annata migliore di sempre. Venti squadre sono troppe, e hanno consentito a una capolista ingolfata per tre mesi di vincere senza particolare affanno. Ho visto tante squadre indegne di calcare i verdi pascoli della Serie A, soltanto tre delle quali alla fine sono retrocesse. Pensate come sarebbe stato più bello un campionato con sedici squadre: Atalanta, Cagliari, Fiorentina, Genoa, Inter, Juventus, Lazio, Milan, Napoli, Palermo, Reggina, Roma, Sampdoria, Siena, Torino, Udinese. Ogni errore avrebbe potuto rivelarsi fatale, ogni partita decisiva, ogni avversario problematico. Invece l'ipertrofia dei giorni nostri garantisce ampi margini di recupero e distorce la prospettiva fino a far sembrare che Marco Borriello sia improvvisamente diventato Gunnar Nordahl. Fosse stato un campionato di vent'anni fa, l'Inter sarebbe stata costretta a restare sveglia per trenta giornate di fila; invece per vincere s'è limitata a dormicchiare tenendo sempre gli occhi ben aperti. (Fosse stato un campionato di vent'anni fa, fra parentesi, l'Inter avrebbe vinto lo scudetto, la Roma sarebbe andata in Coppa delle Coppe, Juventus, Fiorentina, Milan e Sampdoria in Coppa Uefa e Cagliari, Torino e Reggina in B: tutta un'altra cosa).

L'Inter ha meritato di vincere lo scudetto. Il Milan ha meritato di non qualificarsi per la Champions League. Pazienza.

lunedì 19 maggio 2008

Punto e a capo

(Gurrado per Books Brothers)

Permettete un momento. Vado a vedere la tigre.
(Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore)


Maschio Adulto Solitario (di Cosimo Argentina, Manni editore) funziona sin dal titolo. Anzi, a dire il vero il titolo ha iniziato a funzionare indipendentemente dal romanzo quando mi era stato rivelato con congruo anticipo sull’uscita e, forse, anche su parte della definitiva stesura. Mi piace metricamente, da cadenzato e soldatesco ottonario qual è, ma anche per l’acronimo altrettanto militare (MAS) che in sé racchiude, e soprattutto perché con un sol colpo d’occhio consente al lettore di capire al volo tutto ciò che potrà trovare nel romanzo, sfaccettando con tre parole l’essenza del protagonista, senza che siano necessarie pagine e pagine per afferrarla. Menzione d’onore anche per la copertina nera, opera di Vittorio Contaldo, che ritrae nell’angolo basso un moribondo omino della Playmobil. L’insieme è di tale impatto estetico da poter agevolmente ispirare una maglietta alla moda: nera, con la scritta MAS al centro, l’omino giù a sinistra e le tre parole Maschio Adulto Solitario scandite sulla schiena. Venderebbe un sacco.

Venderà, mi auguro, anche il libro. Dopo lunga e non facile gestazione, Cosimo Argentina ha partorito un romanzo all’altezza del titolo che aveva escogitato, sorprendente tanto per la trama quanto per la prosa. Chi ha già letto i suoi romanzi precedenti può trovare in Maschio Adulto Solitario un Argentina all’ennesima potenza, che ripesca in grande stile la verve narrativa che aveva caratterizzato i suoi primi prodotti (e in particolare l’epico Bar Blu Seves, nel 2002) rinunciando ad alcuni manierismi para-giovanilistici o a un certo compiacimento nel racconto nero. MAS infatti è una storia nera, nerissima; ma il turbinio quasi parossistico dell’incrocio fra sangue e sesso ha una ragion d’essere superiore che gli deriva dal contesto, in cui ogni tassello va al posto preordinato e nemmeno i particolari più scabrosi o sconvolgenti risultano eccessivi.

Tutto sta nel contesto, dunque. La maggior debolezza di alcuni dei precedenti tentativi di Argentina risedeva nelle improvvise accelerazioni narrative, che da un lato conservavano una notevole spontaneità al testo ma dall’altro creavano una certa discontinuità, che alla lunga poteva irritare il lettore, non lasciandolo mai tranquillo a cullarsi al ritmo del romanzo. MAS invece è una corda tesa, che dalla prima all’ultima parola consente al lettore di interrompersi solo per causa di forza maggiore; il suo ritmo è forsennato, un crescendo rossiniano di abiezione e turpitudine addolcito soltanto dall’umanissimo sguardo dell’autore, che pian pianino va staccandosi (spero) dall’evoluzione del personaggio. MAS è un romanzo borderline, e su questa sottile linea divisoria fra logica e follia Cosimo Argentina fa l’equilibrista mentre osserva precipitare nel nulla il protagonista sdrucciolo, Dànilo Colombia.

Tempo fa, chiacchierando, Cosimo Argentina mi dette un prezioso consiglio sulla tecnica narrativa. Proprio in quanto tecnica, mi spiegò, la narrativa spesso risulta artefatta e, in particolare, i personaggi suonano inverosimili al cuore del lettore. Si tende a caricare i personaggi di troppe caratteristiche positive o negative, cadendo spesso nel realismo o nello psicologismo fine a se stessi. Quando si scrive di un personaggio, c’è il rischio concreto di fare del personaggismo astratto; e invece perché un protagonista funzioni, continuava Cosimo, non si deve aver paura di fargli esprimere il meraviglioso e il sordido, bisogna innamorarsi con lui e accompagnarlo a puttane.

Con Dànilo Colombia, Argentina ha fatto esattamente così. Ho come l’impressione che si sia seduto davanti al computer e, prima di iniziare a far danzare i polpastrelli sulla tastiera, abbia tirato un lungo sospiro – durante il quale ha insufflato nel nuovo protagonista l’anima di tutti quelli che, nel corso degli anni e dei romanzi, l’avevano preceduto. Non a caso vediamo comparire all’improvviso, davanti a un crepuscolare Colombia, un’immaginaria Trimurti tarentina composta da Leonida Ciocri (Il Cadetto, 1999), Dagoberto Roio (Bar Blu Seves, 2002) e Camillo Marlo (Cuore di Cuoio, 2004): tutti i loro pregi (narrativi) si ritrovano nel nuovo protagonista, scevri alfine dei maculati difetti che potevano qua e là destabilizzare il lettore. E, quanto al giochino dell’autobiografia che piace tanto ai lettori dei viventi, più che indicativa mi sembra l’autoparodizzazione del cognome, da Argentina a Colombia.

MAS vive di questo sarcasmo, ora tra le righe ora sopra di esse. È una storia paradossale, una sorta di parabola all’incontrario, che segna la decennale ma inarrestabile discesa agli inferi di Dànilo Colombia. Tutto sta nel contesto, e lo scopo di Argentina consiste nel lasciare che il lettore si affezioni a un protagonista così inumano, così bestiale, vedendolo immerso in una giungla di personaggi ripugnanti e grotteschi, fra i quali Dànilo spicca per coerenza e dignità. Più di tutti colpisce il continuo dualismo fra il protagonista e i vari superiori o antagonisti che gli si parano innanzi, accomunati da cognomi omologhi: Corva, Carva, Corve e Corvo (in assonanza con corvée), quattro cavalieri di una personale apocalisse che culminano nella sfuggente e viscida figura di Vorca, l’antipadre, l’uomo che ruba a Dànilo sua madre e gli offre, al culmine della degenerazione, l’occasione per diventare definitivamente adulto con un gesto estremo e avverso alla legge naturale.

Non migliore figura fanno le donne del romanzo: dei grotteschi personaggi delineati da Argentina, loro sono quelle che ci rimettono di più, in quanto colpite da una deformità fisica o morale che le abbatte proprio lì dove una donna dovrebbe eccellere, nella bellezza e nel sentimento. Le donne di MAS sono vecchie, laide, ninfomani, volgari, abbandonate; si muovono fra gli estremi della vecchia madre repellente (che pare scappata dalle pagine di Pirandello sull’umorismo) e la giovane amante suicida senza apparente motivo. Cosimo Argentina, che già nelle sue opere precedenti aveva dato sempre particolare attenzione al corpo, particolare risalto alle sue funzioni e ai suoi umori, in MAS si supera e rende il corpo dei personaggi estrema incarnazione del destino al quale sono incatenati.

Così avviene con la lingua scritta, che è il corpo del romanzo. Come mai gli era riuscito prima, Argentina miscela saggiamente l’italiano e il tarentino in una comune cadenza meridionale avvitata su perifrasi che costituiscono una sorta di leitmotiv epico (come l’esplicativo “fa’ che”). Le offese più truculente sono sempre ironicamente barocche. L’aggettivazione non è mai banale, e non c’è una sola frase della quale si possa intuire in anticipo come vada a finire. All’eccesso del contenuto si accompagna l’eccesso linguistico: vanno di pari passo, inscindibilmente, e il lettore si trova catapultato dall’uno all’altro senza voler lui stesso staccarsene mai.

Dedico l’ultima considerazione alla protagonista occulta del romanzo, la tigre rinchiusa in un cortile di Taranto con la quale Dànilo ha un rapporto di comunicazione privilegiata, condividendone gli istinti belluini e volendo diventare tutt’uno con lei. La tigre in questione ha la stessa funzione dell’orca assassina nei Canti di Maldoror di Lautréamont, con i quali MAS condivide la vibrante sanguinarietà espressiva. In Lautréamont la fusione avveniva tramite un lungo corteggiamento muto prima e poi tramite l’effettivo, mostruoso accoppiamento fra la fiera e l’uomo in riva al mare; in Argentina la fusione avviene con l’offerta definitiva di Dànilo Colombia alle fauci dell’animale, conseguenza estrema ma ragionevole delle premesse via via imbastite dalla indiavolata trama. Questa tigre nel cortile è la bestia che custodiamo dentro di noi, ignorandola per di più, e talvolta sentendola ruggire. Lo scrittore è quello che ha il coraggio di avvicinarsi alla gabbia; se è coraggioso abbastanza da aprirne il cancello, è un bravo scrittore; se decide di fare punto e a capo e lasciarsi sbranare senza ritegno, estrae dal cilindro un capolavoro.

Maschio Adulto Solitario è il capolavoro di Cosimo Argentina, la maturazione definitiva della sua consapevolezza letteraria. Segna un punto di non ritorno nella sua produzione e, poiché ogni autore è un uomo, presumibilmente anche nella sua crescita personale. Mi ha fatto ridere e piangere e capire perché siamo amici. Onore all’editore Manni, unico a capirlo.

venerdì 16 maggio 2008

Cos'ho nel portafoglio: un'indagine autopsicosociologica

Se apro il mio portafoglio trovo:

- due banconote da venti, una da dieci e una da cinque euri;

- la ricevuta di una ricarica Vodafone da 25 euri emessa via terminale stamattina alle 11:56 (e 55 secondi) e che, visto che ho ricevuto la conferma telematica, potrei anche gettar via anzi getto immantinente;

- un biglietto ferroviario a fascia chilometrica (40km) obliterato alla stazione di Milano centrale in data e orario inintellegibili;

- un altro biglietto ferroviario a fascia chilometrica (sempre 40 km, sono abitudinario) obliterato alla stazione di Pavia il 14-05-2008 alle h14:55;

- il promemoria di un prelievo Postamat (importo: € 100,00), con annessa pubblicità del Grande Concorso Postepay che naivemente promette tanti premi per te;

- la ricevuta dell'accettazione di una raccomandata con avviso di ritorno inviata il 28 febbraio 2008 alla cortese attenzione della Fondazione Collegio San Carlo - Via San Carlo 5 - 41100 Modena, senza che possa minimamente ricordarne il motivo;

- un'altra ricevuta di un'altra accettazione di un'altra raccomandata con un altro avviso di altro ritorno inviata il 27 dicembre 2007 alla cortese attenzione del Ministero dell'Università e della Ricerca - Piazzale Kennedy 20 - 00144 Roma, a conferma del mio sospetto che sotto le feste comandate finisco sempre per compiere spropositi;

- l'indirizzo mail, incomprensibile, di una persona il cui nome, incomprensibile, è indicato sotto l'indirizzo fra parentesi quadre, sul retro di un biglietto da visita della casa editrice Vita e Pensiero, con la dicitura "Omaggio dell'autore", sintetica dedica, incomprensibile, e sigla autografa, incomprensibile;

- l'appunto per una presentazione del 22 febbraio alla quale non ho potuto partecipare per eccessiva distanza geografica, sotto l'indirizzo mail di un celebre nonché estremamente simpatico giornalista italiano;

- una serie di indirizzi di uffici stampa afferenti di riffa o di raffa al Popolo della Libertà;

- la carta BancoPosta;

- il regolamento della carta BancoPosta, giammai consultato ma conservato con religioso ardore;

- una microscopica riproduzione (2,5 x 4 cm) della locandina di Borat: Cultural Learnings of America for Make Benefit Glorious Nation of Kazakhstan, di Larry Charles (2007) con Sacha Baron Cohen e Ken Davitian;

- l'imbarazzante nuovo modello della tessera sanitaria nel quale la bandiera europea copre e sovrasta il Tricolore, evenienza più che sufficiente ad agognare l'espatrio;

- la tessera 2008 di socio ordinario (n.63378) dell'Archeoclub d'Italia, sede di Gravina in Puglia;

- la tessera vitalizia (CL 936) della biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo di Modena, per accedere alla quale risulta necessario presentarsi muniti di questa tessera, e l'uso della medesima è strettamente personale;

- una foto formato scheda telefonica della sacra persona di Benedetto XVI, sul retro della quale è riportato il nome secolare del Pontefice (Joseph Ratzinger), la data d'elezione (19 aprile 2005) e il testo integrale della Benedizione Apostolica Urbi et Orbi impartita dalla Loggia, che non riproduco per ragioni di spazio;

- il biglietto da visita della ditta Arte&Foto di Franco Lagreca - via Bari 10 - Gravina (BA), specializzata in reportage di nozze (non si sa mai, bisogna saper fronteggiare le urgenze);

- il biglietto da visita della libreria Il Delfino - piazza Vittoria 11 - 27100 Pavia, col bordo destro pervicacemente spiegazzato;

- un santino di Sant'Antonio da Padova, acquistato presso la locale Basilica del Santo, dietro il quale è riportata la seguente citazione dai Sermoni del Medesimo: Quanto più da lontano ritorna il peccatore al Padre suo, tanto più amorevolmente viene da Lui accolto;

- una tessera/abbonamento della yogurteria-creperia-gaufreria Le Delizie di Hansel e Gretel - piazza della Vittoria 10a - 27100 Pavia (è esattamente di fianco alla libreria di cui sopra), con quattro obliterazioni a forma di stellina, altre sei delle quali mi darebbero diritto a un'undicesima crepe alla Nutella gratis et amore Dei.

giovedì 15 maggio 2008

Il libro ostile

Non recensirò giammai L'uomo e il suo amore di Alcide Pierantozzi né tanto meno provvederò a leggerlo, nonostante mi incuriosiscano sia la trama sia la mole (cinquecento e rotte pagine), solo e soltanto perché è stato pubblicato da Rizzoli.

Pierantozzi ha 23 anni e la sola visione del suo libro sugli scaffali, anzi, la sola idea che sia stato pubblicato da Rizzoli è sufficiente a rendermi ingrata l'idea di essere nato scrittore, a farmi provare fastidio di fronte alla progressiva mole di libri che mi restano da leggere, e a privarmi del minimo piacere all'idea di poter tornare a scrivere un romanzo.

Se Pierantozzi risultasse più bravo di me, e il suo romanzo Rizzoli migliore del mio che da ottobre sto inutilmente tentando di piazzare a destra e a manca, evidentemente c'è da chiudere baracca e burattini perché io ho già dato il meglio di me e contro uno di cinque anni più giovane, con ulteriori margini di crescita, c'è ben poco da fare se non considerare che forse si è sbagliato qualcosa a dedicare la propria vita alla lettura e alla scrittura, a privarsi del minimo tempo libero necessario, a infognarsi a Pavia per studiare filosofia a tempo di record rischiando la disoccupazione perenne al solo scopo di non faticar troppo per dedicarsi a faccende più importanti nel mentre che mi laureavo.

Se Pierantozzi risultasse meno bravo di me, e il suo romanzo Rizzoli peggiore del mio che da ottobre sta venendo rifiutato da ogni dove, avrei la prova provata di essere stato ingenuo a sacrificare anni e salute ed equilibrio alla ricerca di uno stile progressivamente migliore quando invece sarebbe stato meglio imbastire arrampicate editoriali, e l'unico e ultimo pensiero consolatorio che potrebbe restarmi è che la giustizia non è di questo mondo, ma dell'altro, e si può solo sperare che faccia in fretta.

Nell'un caso c'è da spararsi, nell'altro da impiccarsi. Meglio fingere che non esista.

mercoledì 14 maggio 2008

Io sto con Materazzi

Riassunto della puntata precedente a beneficio degli acalcistici: domenica scorsa, alle tre del pomeriggio, l'Inter ospitava a San Siro il Siena, squadra mediocre e senza particolari pretese, battendo la quale avrebbe matematicamente vinto lo scudetto. Decine di migliaia di tifosi hanno affollato lo stadio mentre tutti gli altri interisti lombardi erano pronti a riversarsi in piazza Duomo per festeggiare. Unico dettaglio, unico fastidio, bisognava aspettare le cinque perché arrivasse la notizia che l'Inter aveva vinto, partita e campionato. L'Inter ha pareggiato.

A una decina di minuti dalla fine, sul 2-2, l'Inter beneficia di un rigore neanche troppo generoso, contrariamente all'andazzo: Riganò, attaccante del Siena temporaneamente in difesa, abbraccia con ardore Materazzi, difensore dell'Inter temporaneamente in attacco, e se lo trascina sul materasso verde in piena area. L'arbitro fischia. André Cruz, attaccante per contratto e rigorista designato, piglia la palla e si avvia verso il dischetto. Macché, arriva Materazzi e con sacra furia gli strappa il pallone dalle mani, respinge la legittima protesta di Cruz, si fa largo fra interisti e senesi parimenti increduli e posiziona la palla pronto a tirare. Se segna, Materazzi sa che l'Inter vincerà partita e scudetto. L'arbitro fischia. Materazzi sbaglia.

Saranno state le cinque meno venti, meno un quarto tutt'al più. Da allora è partito il dagli a Materazzi, dagli al bullo, dagli al presuntuoso, dagli all'uomo-che-ci-fa-perdere-lo-scudetto. L'allenatore l'ha sgridato, il presidente l'ha maledetto, la curva l'ha fischiato, i giornalisti non ne parliamo. Sarò l'unico in Italia ma io difendo Materazzi, per quattro motivi.

Primo, perché in una situazione delicata non è da tutti strappare il pallone dalle mani di chi di dovere e dire: "Lascia, tiro io". Il rigore, da che il calcio è stato inventato oltremanica, è il momento in cui la distinzione fra bravo e non bravo coincide e incarna quella fra coraggioso e pavido. A segnare un rigore son buoni tutti, a tirarlo mica tanto.

Secondo, perché non ha preso il pallone da primo che passava. Erano anni, era dal 2001 che Materazzi non sbagliava un rigore. Aveva ben ragione di credere che avrebbe segnato anche domenica. Se non ha segnato, è stato solo un caso.

Terzo, perché lo stesso identico Materazzi, con lo stesso identico coraggio un po' guascone, non più tardi di due anni fa ha fatto vincere il Mondiale all'Italia intera. Avremmo perso se, contro la Repubblica Ceca, avesse pensato che in fin dei conti non valesse la pena di andare in attacco sui calci d'angolo, e che tanto ci avrebbe pensato qualcun altro. Avremmo perso se contro l'Australia, per timore di venire espulso, non avesse fatto fallo sul tizio biondo che si avviava felice verso la nostra porta mal difesa. Avremmo perso se contro la Francia non avesse voluto rimediare in prima persona all'errore sesquipedale che lui stesso aveva commesso dieci minuti prima, avremmo perso se non avesse avuto coraggio, temerarietà e incoscienza sufficienti a tirare e segnare un rigore nottetempo. Per questo gli si deve perdonare un rigore sbagliato di pomeriggio.

Quarto, perché gli Italiani sono pecore mannare: se l'austroungarico portiere del Siena avesse deciso di tuffarsi dall'altra parte, se il rigore di Materazzi fosse finito in rete come tutti i suoi rigori negli ultimi sette anni, gli stessi che oggi gli danno del mentecatto lo starebbero candidando al Pallone d'Oro, vantandone coraggio e freddezza. Gli Italiani che oggi danno addosso a Materazzi sono gli stessi che non tirerebbero mai un rigore.

martedì 13 maggio 2008

Febbre al 90'

(Gurrado per Quasi Rete/Em Bycicleta)

Il calcio inglese è un’eternità composta di infiniti minuti secondi. Non sembra avere inizio, perché per quanto io mi sforzi di rimontare indietro c’è sempre un prima: prima di Zidane c’era Maradona, prima di Maradona c’era Platini, e prima c’era Sivori, prima ancora Bacigalupo eccetera, e prima il Bologna che tremare il mondo faceva, e prima nientemeno Casale e Pro Vercelli, e prima di tutto il Genoa Cricket and Athletic Club vestito a strisce bianche e blu. E prima del Genoa? Be’, prima del Genoa c’erano gli Inglesi, che si perdono nella notte dei tempi, gli Inglesi che giocavano a pallone quando gli Italiani ancora pensavano ad annettersi Roma.

Né il calcio inglese sembra avere fine: a giudicare dalla Champions League di quest’anno, il sistema lassù scoppia di salute e camperà oggi è cent’anni, duecento, mille. Il calcio inglese è un’eternità e di tutti gli infiniti secondi che la compongono il più importante è l’ultimo, quello che appena te ne accorgi è già passato, quello che strozza in gola all’arbitro i tre soffi nel fischietto.

Prendete il Liverpool. Martedì 8 aprile, anno del Signore 2008, il Liverpool era un mite Mardocheo da condurre al macello, l’Arsenal un pingue re Assuero seduto sulla propria botte di ferro: 2-2 in trasferta a sette minuti dalla fine (andata 1-1). Martedì 8 aprile 2008 il Liverpool s’è inventato la propria festa di Purim ribaltando le sorti che rotolavano verso la sconfitta, inesorabili e placide come la palla che Adebayor aveva appena accompagnato in porta, esultando poi in sconsiderata guisa, dimèntico degli ultimi sette minuti. Ne mancano cinque, e il Liverpool segna; manca l’ultimo scampolo di recupero e il Liverpool risegna. Non per questo è sazio: all’ultimissimo secondo, dall’estrema sinistra del centrocampo, qualcuno troppo rapido perché io possa riconoscerlo tenta il pallonetto costringendo Almunia, poverino, a catapultarsi sotto la traversa per evitare il quinto schiaffo. Il troppo storpia, ma per una squadra inglese i minuti sono novanta e rotti, e ogni momento è buono per segnare, e conta sempre e solo l’ultimo secondo.

Lo spadaccino sulla fascia sinistra non era, ho ragione di credere, John Arne Riise. Ma il destino è iniquo e, tempo giorni quattordici, decide di far ricadere sul danesone la hybris altrui. Martedì 22 aprile, fine del recupero di Liverpool-Chelsea: rossi in vantaggio per 1-0 e blu alla perplessa ricerca del pareggio. Ultima azione: rimessa d’attacco per il Chelsea. Ultimo assalto: palla lunga sulla fascia e cross in mezzo per chi capita. Ultimo secondo: capita Riise, professione difensore centrale, maglietta rossa e meno di mezz’ora nelle gambe; capita Riise il quale, intimorito dalla svogliata sagoma di Anelka alle calcagna, non trova di meglio che accartocciarsi piombando sulle pallide ginocchia e inzuccare il cross disperato dando alla palla un giro che, fosse stato in attacco, mai gli sarebbe riuscito. Autogol. Contrappasso. Fischio finale.

Il Liverpool è la squadra più inglese di tutte perché, in un modo o nell’altro, l’ultimo secondo è sempre il suo. Nel 2006 era in finale di FA Cup, vulgo Coppa d’Inghilterra, e sbadatamente perdeva 3-2 contro il West Ham. La lancetta dei minuti scatta per l’ultima volta, il pubblico rumoreggia, da Wembley la Coppa s’incammina verso il nordest di Londra . La palla trotterella sulla tre quarti, dopo una mezza respinta degli Hammers in sollucchero, Steven Gerrard arriva e senza troppa impressione di fatica tira una cosa per la quale in Italiano non è ancora stato inventato un termine atto a rendere l’idea (e per esprimere la quale il cronista inglese conia in presa diretta il termine “Uaoooàààh”, tuttora esulante dall’Oxford Dictionary). Il cronometro segna minuti 90 e secondi 08: dopo è una corsa pazza verso l’abbraccio dei compagni, verso i supplementari, i rigori e la vittoria – la quale, di fatto, era arrivata pareggiando in articulo mortis, tutto il resto essendo mera statistica.

Tutto questo per significare che, se le squadre inglesi smettono di tirar calci solo e soltanto dopo che l’arbitro s’è avviato verso le docce, il merito è della nonna FA Cup, che quando la Champions League era ancora in mente Dei già abituava frotte d’Inglesi al sadico rito della partita secca. Noi siamo gente da girone all’Italiana; sappiamo che il pareggio di oggi può tornare utile domani e che se si è perso il derby niente male, domenica prossima lo stesso scudetto può essere vinto contro il Siena [Nota di Gurrado: il pezzo era stato scritto il 5 maggio, data significativa, e la redazione del blog della Gazzetta ha deciso di pubblicarlo dopo il pareggio fra Inter e Siena, data altrettanto significativa]. I Francesi hanno inventato la ghigliottina, gli Inglesi l’eliminazione diretta – e sono stati molto più crudeli. La FA Cup, prima e inimitabile incarnazione dell’eliminazione diretta, dimostra more geometrico come ogni singolo secondo sia un palpito di calcio. Soprattutto l’ultimo.

Mercoledì 21 maggio, anno del Signore 2008, per la prima volta nella storia due squadre inglesi si litigheranno la Coppa dei Campioni fino all’istante in cui uno dei due capitani non ci avrà messo le zampe addosso. Non ci sarà il Liverpool stavolta ma, tanto per dire, c’è lo United che nove anni fa provvide a sfilare il trofeo al Bayern Monaco nei minuti spiccioli durante i quali i crucchi già stavano pensando a cosa cantare negli spogliatoi.

È la certificazione definitiva della superiorità del calcio inglese, già nota da decenni e indipendente dai risultati, mai come quest’anno eloquenti: United e Chelsea in finale, Liverpool in semifinale, Arsenal ai quarti. Però (c’è un però), se le attuali finaliste di Champions l’anno scorso erano a Wembley per la vecchia, prestigiosa, santa FA Cup, quest’anno non una delle semifinaliste in Coppa patria ha calcato i luminosi pascoli europei, anzi: solo il Portsmouth giocava in Premiership, le altre tre (West Bromwich Albilon, Cardiff e Barnsley) arrivavano dallo scantinato, la Championship, dove oggi sono rispettivamente seconda, tredicesima e sedicesima. Niente male.

Mercoledì 21 maggio ci sarà pure United-Chelsea, ma sabato 17 Cardiff e Portsmouth si giocano la FA Cup, il trofeo più antico del mondo, che dal 1872 segue il suo rituale consumato, immutabile, intrinsecamente e crudelmente inglese: una partita ciascuno e chi perde leva il disturbo. In questi giorni Manchester e Chelsea si stanno giocando Inghilterra ed Europa, mentre il Portsmouth dondola pericolosamente ai bordi della zona Uefa e il Cardiff galleggia in seconda divisione: non per questo la partita del sabato è meno importante di quella del mercoledì. Prima della Champions League, prima di Tévez e Drogba, prima di Gerrard e Ian Rush, prima dell’Aston Villa e del Nottingham Forest, prima dell’Inter di Herrera e del Milan di Rocco, addirittura prima del quintuplo inenarrabile Real Madrid - prima di tutto c’è la FA Cup.

giovedì 8 maggio 2008

Tutti i libri che non ho letto (4)

(Gurrado per Books Brothers)

Non dimentico mai una faccia,

ma nel suo caso farò un’eccezione.
(Groucho Marx)


Da dove inizia un libro? Non già dalla prima frase, né dalla prima parola. Forse dal titolo? Più verosimile, ma nemmeno. Un libro, proprio in quanto libro, inizia dalla copertina.

Un po’ come un discorso inizia dalla faccia di chi lo pronuncia: alcuni dei miei amici più colti conoscevano già la poesia superficialmente attribuita a Neruda, figlia in realtà di chissà quale poetessa sudamericana, che iniziava: Lentamente muore… C’è chi la riteneva struggente, chi romantica, chi semplicemente patetica (come buona parte dei prodotti dei poeti o, più in generale, dei sudamericani). Nel momento in cui la medesima poesia, con le stesse identiche parole, è stata pubblicamente recitata dal faccione di Mastella la prospettiva è cambiata, e con essa è cambiato il senso della poesia: non più struggente, non più romantica, nemmeno più patetica.

Un libro inizia dalla copertina perché, banalmente, è la prima cosa che vediamo. E non possiamo farne a meno: per quanto io sia un tipo che si annoia piuttosto, e per quanto come tutti i tipi annoiati io sia solito frequentare biblioteche e librerie a extragettito, e per quanto abbia visitato biblioteche e librerie a svariate latitudini e non solo entro i patri confini, e per quanto ogni biblioteca o libreria tenti con alterno successo di differenziarsi in meglio o in peggio da un’altra biblioteca o libreria – per quanto tutto questo, non m’è mai capitato di imbattermi nella biblioteca o nella libreria che esponesse i libri con la copertina aperta e pinzata dietro il fondo del volume, a mostrare la prima pagina per consentire di leggere l’incipit e giudicare. Macchè. In biblioteca, in libreria, tutti sono tacitamente d’accordo che i libri inizino dalla copertina, quindi che per scoprire capire e scegliere un libro basti guardarla.

Una copertina determina il contesto e, se riuscita, restituisce il senso di un libro; se la copertina non riesce, si può legittimamente sospettare dell’editore e trarre di conseguenza pessimi auspici sulla qualità dei contenuti. La Penguin, non per niente la casa editrice inglese di maggior diffusione, qualche anno fa aveva stabilito che le nuove edizioni dei classici contemporanei avrebbero raffigurato su fondo neutro un oggetto materiale di capitale importanza per comprendere il romanzo in questione. Per Arancia Meccanica, un innocuo bicchiere di latte. Per Herzog, un foglio scritto e appallottolato.

Se la copertina dà il senso di un libro, non ho avuto mai il rimorso di non aver mai letto Il Giovane Holden: ha la copertina bianca e vuota, figuriamoci come dev’essere dentro. Al contrario, sin dalla tarda infanzia mi sono innamorato della vecchia edizione Bur de Il Male Oscuro, raffigurante un signore perplesso entro un infinito labirinto; per anni ho tentato con l’astuzia e con la frode di sottrarre il volume alla libreria di mia madre, la quale mi ripeteva a ragione che non era adatto a me; alla fine ci sono riuscito, anche perché cresciutello, e le volute descritte dalle insistenti virgole e dai marmorei capoversi mi rivelarono che il romanzo era un capolavoro, addirittura all’altezza della copertina.

Alla fine dello scorso anno ho recato il mio corpo mortale alla Feltrinelli di Pavia per eleggere fra me e me la copertina più brutta del 2007, tanto per passare il tempo (non potevo farlo che andando alla Feltrinelli in quanto, per eleggere una copertina brutta, c’è bisogno di una libreria brutta). Essendo antidemocratica, l’elezione prevede un regolamento semplice: si cammina a casaccio su e giù per la libreria e si segna su un blocchetto il titolo del libro la cui copertina causa un improvviso arrestarsi, eventualmente a bocca aperta, eventualmente con conseguente conato di vomito o infarto fulminante. Se un libro appare talmente brutto da causare morte subitanea, si aggiudica incontestabilmente la palma (è bene, a questo scopo, procedere all’elezione accompagnati da un amico fidato il quale, una volta constatato il vostro pronto decesso, provveda a intentare causa all’editore assassino). Se nessun libro uccide, vince quello davanti al quale ci si spinge – sit venia verbo – a vomitare senza ritegno (tuttavia tale reazione poco signorile non conta se è ascrivibile ad altra causa, ad esempio la visione di una commessa analfabeta benché laureata ovvero la notazione che Per Olov Enquist ha pubblicato un nuovo romanzo). Se dopo tre giri di libreria non si verificano eventi lesivi della salute dell’elettore, si controlla sul blocchetto quale libro abbia causato immoto sgomento per un maggior numero di secondi, oppure minuti, eventualmente ore.

Il blocchetto l’ho perduto, ma a quattro mesi di distanza ricordo con netta chiarezza i risultati dell’elezione. Al terzo posto (avendomi causato diciotto buoni secondi di barcollamento, seguiti dall’ipotesi che si trattasse di uno scherzo, subito fugata dalla presenza di una decina di copie tutte uguali) s’è piazzata La Pecora Rossa di Enrica Bonaccorti (sì, lei); la copertina presenta su fondo bianco un’ossuta ragazza dai capelli fulvi (Rossa) che le coprono interamente il volto, tutta nuda e prostrata in una posizione ben nota ai più (Pecora), in una prospettiva tale da far venire il desiderio di prendere il libro solamente per girarlo e vedere cosa si nasconde dietro.

Al secondo posto (avendomi causato eruzioni cutanee senza precedenti e il dubbio, per un atroce attimo, di essere diventato scemo) s’è collocata Figlie dell’Islam di Lilli Gruber (sì, lei); la copertina mostra in primo piano i profili di due donne velate, una di bianco e una di nero, e sullo sfondo sproporzionatissima la medesima autrice, senza l’usbergo di velo alcuno, che tenta col corpo di impedire che si scorga il disegno di pessimo gusto della porta istoriata davanti alla quale s’è fatta ritrarre, in una prospettiva tale da far venire il desiderio di prendere il libro e rispedirlo nella mezzaluna fertile.

Al primo posto (avendomi causato l’istinto di far fare alla Feltrinelli la stessa fine del suo fondatore) s’è inerpicato Cara Cronica, di Edoardo Montolli. Qui viene superato il labile confine fra brutto e impossibile, tanto che ancor oggi mi chiedo se la copertina (che riproduce le copertine dozzinali di Cronaca Vera, e sulla quale campeggia quindi in bianco e nero una donnina di profilo in costume da bagno, con bordi vermigli e inserti esplosivi giallo shocking) sia un omaggio o una parodia – probabilmente entrambi. Detto questo, non posso esimermi dal rimarcare che nel 2005, quando l’editore mi ha mandato il pacchetto con le copie del mio ultimo romanzo stampato di fresco, ho guardato la copertina e ho concluso che un libro del genere non l’avrei letto giammai: non è dunque senza peccato che scaglio la mia pietra.

Oscar Wilde poteva avere mille difetti, ma gli si deve riconoscere una perspicua teologia. Per tutta la vita ripeté che il Cattolicesimo non lo convinceva, ma in punto di morte si convertì; quando gli fu chiesto perché allora non si facesse protestante, rispose scandalizzato: “Per carità, Lutero portava delle cravatte orribili.” Parole sante, e così valga per i libri: liberiamoci dalle ipocrisie, giudichiamo dalle apparenze!

Gurrado a fumetti

(Opera della testa di Silvia G e delle mani di Vernella
per il blog Ora di Filosofia)

mercoledì 7 maggio 2008

Lo Stato dei Licei, 18: la gita scolastica

[Oggi Gurrado va, per la prima volta in vita sua, in gita a Bèrghem. Mah. Ragion per cui c'è Silvia G:]

Gurrado, alla fine de I Promessi Sposi, Manzoni mette in bocca a Lucia Mondella le seguenti parole: “Io non sono andata a cercare i guai: sono loro che sono venuti a cercar me”. Da un certo punto di vista, anche i membri della Terzaddì possono dire lo stesso, almeno valutando la serie di fatalità che si sono riversate nel breve arco di quarantott’ore su di loro e sui loro infelici accompagnatori, il professor Boni e il professor Furgio, durante la gita scolastica a Monaco di Baviera.

Trascurando le condizioni atmosferiche, che certo avrebbero potuto essere migliori, i guai cominciano appena arrivati in albergo, quando la sottoscritta Silvia G, presumibilmente assorta in qualche improcrastinabile elucubrazione metafisica, va a sbattere il naso contro la porta a vetro della hall, convinta che si tratti di una porta aperta. Essa era invece chiusa. Ne consegue copiosa perdita di sangue dal naso, nonché ironiche e giustificabili battute da parte dei compagni di classe. Lo stesso portiere tedesco, avendo assistito alla scena da lontano, commenta col professor Boni che i vetri dell’albergo devono essere davvero puliti se sfuggono addirittura alla vista delle giovani studentesse italiane. Si sospetta l’infrazione del setto nasale della sottoscritta, la quale però è troppo mortificata per lagnarsene e decide stoicamente di non rallentare la tabella di marcia e di non recarsi al pronto soccorso.

Dunque, inzuppata da una pioggia violenta, che promette di tramutarsi a breve in diluvio universale e fine del mondo, la classe Terzaddì trascorre la giornata in giro per la città, visitando chiese e musei sotto l’esperta guida del professor Boni.

La sera giunge, i piedi dolgono e lo stomaco manifesta prepotentemente il proprio appetito, ragion per cui la classe, sempre guidata dal professor Boni, si reca in una nota birreria del luogo per consumare la cena, a base di wurstel, crauti e birra. Il clima, nel locale, è piuttosto goliardico, e i membri della sezione non ci mettono molto a fraternizzare con un gruppo di giovani tedeschi, al punto che sia io che la mia compagna Eleonora F ci rechiamo fuori per fumare in compagnia delle nostre nuove conoscenze. Tirata qualche boccata alla sua sigaretta, Eleonora F fa per passarla ad un biondo germanico decisamente attraente in segno di amicizia, quand’ecco sopraggiungere dal buio due oscuri figuri armati, i quali, presumibilmente insospettiti dal vestiario e dalla pettinatura della mia compagna (Eleonora F indossa infatti un giubbotto di pelle pieno di borchie, ha le scarpe di tela bucate e perfino una ciocca di capelli rasta), la bloccano e le strappano di mano il mozzicone, esclamando: “Polizei!”. I tedeschi sono certo un popolo evoluto, talmente evoluto da avere con ogni probabilità modificato i geni dei poliziotti bavaresi in laboratorio, unendoli a quelli dei loro cani ed ottenendone un temibile ibrido in grado di distinguere col solo uso dell’olfatto le sostanze stupefacenti. Il poliziotto bavarese in questione, difatti, ha preso ad annusare rumorosamente la sigaretta di Eleonora F, tentando grazie alla sua mirabile sensibilità olfattiva di capire se si tratta di semplice tabacco oppure no. Il suo fiuto studia il mozzicone scrupolosamente, le narici si dilatano ed egli contrae i lineamenti germanici in una smorfia severa e accigliata. Passa poi il reperto alla collega, suo corrispettivo femminile, la quale compie la medesima procedura, annusando smaniosa. Comincio a sospettare che si tratti di due tossicodipendenti in piena crisi d’astinenza, tale è la foga che mettono nel fiutare la sigaretta bruciacchiata della mia compagna. Sarei quasi tentata di domandar loro un distintivo o una tessera di riconoscimento, dal momento che finora non hanno mostrato nulla all’infuori della pistola portata alla vita, e non sembrano neanche in uniforme. Interviene però il professor Boni, il quale ha notato in lontananza che una sua alunna è in procinto di farsi arrestare; padroneggiando abilmente la barbara lingua dei due bestioni, pare convincerli della nostra innocenza. Essi si accaniscono dunque sul gruppo di loro giovani connazionali, mentre Boni trascina me ed Eleonora F lontano dai guai, riconducendo la classe in albergo.

Per quel che riguarda la nottata, lascerò ampi margini immaginatavi all’eventuale lettore e non mi dilungherò nella descrizione delle “marachelle” compiute dai membri della Terzaddì, precisando solo che la quantità delle stesse è indirettamente proporzionale al numero di ore che i giovani hanno dedicato al sonno (invero pochine).

Il mattino seguente, dopo aver visitato l’università e la Pinakothek der Moderne, e soprattutto dopo essersi saziata di nuovi wurstel e nuovi crauti, la classe viene lasciata libera di dedicarsi alle compere. Il caso vuole che, presumibilmente per l’emozione, l’alunna Greta C caschi svenuta in un germanico negozio di scarpe, sotto gli occhi attoniti della sua amica Caterina R. Nel tentativo di rianimarla, un commesso tedesco agguanta una calzatura in vendita e fa per schiaffeggiare la ragazza con la suola, ma interviene provvidenzialmente il pronto soccorso locale, che rimette in piedi Greta C e informa Boni dell’accaduto.

Dopo aver rischiato di perdere il treno e di rimanere quindi bloccati in Baviera, prolungando la disgraziatissima gita scolastica, gli alunni della Terzaddì riescono a prendere posto nel loro scompartimento, e possono dunque fare un bilancio dei danni subìti: si contano un naso ammaccato e sanguinante, un tentativo d’arresto per spaccio di droga, i postumi di svariate sbornie notturne e una perdita di coscienza improvvisa e apparentemente immotivata.

Il giorno successivo, solo pochi temerari osano presentarsi in classe per riprendere le lezioni, e in alcune giustificazioni portate in seguito gli alunni hanno scritto: assente per convalescenza post gita sc[Contrordine: Gurrado non deve più andare a Bèrghem, il manoscritto termina qui]

martedì 6 maggio 2008

Un due Trento

1) Noialtri, da queste parti, non possiamo che essere contenti dell'elezione di Boris Johnson a sindaco di Londra. Fosse soltanto perché è conservatore, il nostro entusiasmo sarebbe contenuto; invece gongoliamo senza ritegno perché Boris Johnson è la prova vivente della coincindentia oppositorum: giornalista di enorme successo che inventava dal nulla delle citazioni per darsi ragione, direttore dello Spectator che (si) consegnava i propri pezzi con ritardi clamorosi e giustificazioni inaccettabili, amante del buon cibo in una terra di vegetariani, amante del buon vino in una terra di ubriaconi, allievo della scuola più esclusiva d'Inghilterra che non ha l'aria di un secchione, sposato e risposato, Boris Johnson raggiunge l'apice della mia ammirazione nel momento in cui apprendo che arrivò in ritardo al proprio matrimonio. Qui sotto potete osservarlo in un alacre momento di lavoro:


(Si noti che è quello al centro). Noialtri riteniamo che si possa essere seri senza risultare lamentosi, che si possa sbagliare una volta senza venir crocifissi, che si possa godere con moderazione del cibo e delle donne senza diventarne schiavi. Esattamente undici mesi or sono, come ricorderanno i gurradomani dotati di calendario, durante il mio ultimo soggiorno oxoniense avevo introdotto il personaggio Boris Johnson così esordendo: Voi forse non sapete che Boris Johnson è un membro del parlamento inglese (MP) e che i suoi fan (ha veramente un club organizzato di ammiratori) lo definiscono l’Adone conservatore. Questo non lo sapevo neanch’io, se devo proprio dire la verità., e l’ho scoperto soltanto due minuti or sono cercando notizie precise al riguardo (riguardo all’identità di Boris Johnson, non riguardo all’identità di un eventuale Adone conservatore). Invece stamattina, dando una scorsa a The Independent, ho scoperto che Boris Johnson si definisce “assolutamente illiberale” riguardo all’utilizzo della droga e che Boris Johnson ha sniffato cocaina; se ne deduce – non se ne deduce niente, almeno per il momento, perché ho sbagliato l’attacco. Scusate. Rifacciamo.

Boris Johnson è il nostro padrino, e con la sua aria sperduta saprà insegnare alla Londra decaduta negli ultimi decenni how to behave, come comportarsi.

2) Alla fine ieri sono riuscito ad ascoltare Cosimo Argentina in diretta su Fahrenheit, pur non possedendo un apparecchio radiofonico, grazie a un'ardimentosa manovra sul sito di Radio3. Dovessi spiegarvi come ho fatto, non saprei dirvelo; fatto sta che miracolosamente lo streaming via internet che non ha mai funzionato improvvisamente ieri mi ha consentito di ascoltare mezz'ora di Argentina. Dopo di che un tizio che suppongo essere Marino Sinibaldi ha dato la linea a non so chi, e lo streaming ha cessato di funzionare. Poco male.

Nel frattempo avevo avuto tempo e ritempo di leggermi con comodo Maschio Adulto Solitario, che provvederò a recensire quanto prima, e sul quale mi sono fatta un'idea precisa. L'ho iniziato sabato mattina, sul treno che da Milano mi portava a Verona, dopo aver scritto a Cosimo: L'ho guardato: il titolo è perfetto, non solo metricamente ma anche graficamente; la copertina è azzeccata; ora devo solo leggerlo ma mai come questa volta mi sento sicuro. L'ho continuato domenica pomeriggio, sul treno che da Trento mi riportava a Milano, e ho riscritto a Cosimo: Sto su un treno a leggere MAS, sono a pagina 143 e si profila il capolavoro. L'ho finito ieri pomeriggio nell'umida Pavia e ho scritto a Cosimo per la terza volta: Ho appena finito MAS e fa' che è un capolavoro; mi ha fatto ridere e piangere e capire perché siamo amici.

Le risposte di Cosimo le tengo per me.

3) Avrei gradito possedere un apparecchio radiofonico anche domenica scorsa, mentre io passeggiavo per Trento e il Milan passeggiava sull'Inter, ristabilendo l'ordine costituito per il quale noi vinciamo e loro perdono. Vinceranno tuttavia lo scudetto, un po' a caso, e potranno sistemarlo insieme a quello dell'anno scorso, secondo i nostri preteriti suggerimenti. Tuttavia la mia signorina fidanzata è tridentina, ragion per cui potrebbe essere valsa la pena di non vedere il derby e passeggiare per Trento, che mi ha fatto quasi passare il mio decennale terrore per la montagna. I monti circostanti, se non altro, non incombono sulla città e non incutono subitanea voglia di fuggire nella prima pianura che si riesca ad acchiappare (cioè a Modena).

Fermo restando che dal momento in cui ho messo piede in stazione, sabato a mezzodì, ogni singolo bulbo pilifero del mio corpo s'è dilatato urlando: "Concilio, Concilio!". Passeggiando per Trento, il Concilio non è mai finito; non è finito di fronte alle innumerevoli aquile (una delle quali si morde un'ala sopra una fontana), né di fronte all'asimmetrica facciata del Duomo (con un campanile fatto e l'altro no), né soprattutto di fronte al trionfante baldacchino che ammanta l'altare maggiore del Duomo stesso. Anzi, nel momento in cui si sente il celebrante - domenica mattina alle 10 - dire testualmente che "anche ai preti capita d'invecchiare, grazie a Dio, se non muoiono prima", be', allora viene voglia di indirne un altro, di Concilio.

E poi a Trento, come a Napoli e forse in ogni città d'Italia esclusa la Lombardia, i libri usati costano poco. Da una bancarella ho comprato due romanzi praticamente nuovi, pubblicati non prima di un anno fa e ancora in edizione hardback, in perfetto stato e al costo di 5 euri. Complessivamente, non ciascuno; e il rivenditore mi ha pure ringraziato per il furto che stavo perpetrando a suo danno. Due giorni prima sono andato da un remainder di Pavia: ho gironzolato per gli scaffali, ho diviso adeguatamente i volumi in due insiemi (roba scadente da un lato, dall'altro roba scadente che costava troppo), finché non ho trovato un'edizione dal dorso spaccato di Max e i fagociti bianchi (Henry Miller, ignoranti!). Ho deciso di comprarlo. Ho sbirciato il prezzo. Venti euri: ho riposto il volume nello scaffale, e con quei soldi me ne sono andato a Trento, dove ne è valsa la pena.

lunedì 5 maggio 2008

Con i se e con i ma

Se possedessi un apparecchio radiofonico, questo pomeriggio alle 16:30 mi sintonizzerei su Radio3 per ascoltare Cosimo Argentina che, ospite di Fahrenheit, parla del suo nuovo romanzo Maschio Adulto Solitario (Manni).

Non possedendo alcun apparecchio radiofonico, approfitterò del silenzio per finire di leggere il medesimo romanzo in questione, così poi ve lo recensisco in varie guise.

venerdì 2 maggio 2008

Me ne fregio


Questa foto del Corriere sembra al mio cuore più significativa di quel che sembri. Ve la spiego.

Fini è di spalle: più che arrivare, se ne va. I maligni diranno che è un riferimento al triste destino che è recentemente toccato ai Presidenti della Camera (Casini fuori dalla maggioranza, Bertinotti fuori dal Parlamento, la Pivetti su Italia1 con Platinette e Violante non pervenuto); i più maligni ancora diranno che si tratta dell'unica prospettiva dalla quale non far scorgere l'ottimistica cravatta rosa. Dissento. Fini è di spalle perché se ne va l'ultimo residuo di ghetto, diventa sempre più flebile la vocina radical-chic che ancor oggi si lamenta, senza trovare più nessun'eco: "Però, un fascista alla Camera... un fascista in Campidoglio... dove andremo a finire, dove andremo a finire...". Un giorno, questa vocina non si sentirà più; e tutti quelli che esistono solo per ripetere "fascista" di qua e "fascista" di là smetteranno di esistere. Allora, probabilmente, il Manifesto uscirà senza articoli.

Il calendario è significativo. Grazie a Dio il tempo è misurabile e ciò rende la nostra vita non solo accettabile, ma anche comprensibile. I giorni durano tutti alla stessa maniera ma non sono tutti uguali. Il 30 aprile di Fini è stato il giorno diverso da tutti gli altri; è stato l'ultimo della serie precedente e il primo della successiva; è stato il giorno che ha dato senso agli ultimi sette, quindici, vent'anni. E sono stati anni di giorni tutti uguali, in cui veniva di volta in volta rosicchiato un tassello a chi voleva il ghetto, a chi chiudeva l'arco costituzionale, a chi sibilava "fascista" per professione nonché unica capacità; anni con sette, quindici, venti 30 aprile uno diverso dall'altro e tutti, sommati, incapaci di rendere l'idea della tremarella storica del loro omonimo del 2008.

(Allocuzione autobiografica: presidente Fini, lei non sa che quando facevo la quarta ginnasio scelsi arditamente, per il primo tema d'Italiano, la traccia di politica. Scrissi quello che pensavo e, perbacco, capitava essere lo stesso che pensava lei, talvolta con le stesse identiche parole sentite in televisione a partire dalla tarda infanzia. Purtroppo la professoressa d'Italiano non la pensava alla stessa maniera e così, corretto il compito, vi rinvenne degli invisibili errori di grammatica per affibbiarmi un 4 e mezzo. Pazienza: fui vendicato nel marzo successivo, quando il Polo della Libertà e del Buongoverno vinse le elezioni del 1994 contro l'allegra macchina da guerra del triste baffo di Occhetto. Il giorno dopo lo scrutinio avevo nuovamente un tema d'Italiano ma scelsi argutamente di evitare la traccia di politica. Scrissi di stornelli e fior di giaggiolo, ma poco importa: la professoressa d'Italiano vi rinvenne degli invisibili errori di sintassi e mi affibbiò un altro 4 e mezzo - la vendetta del progressista. Presidente Fini, mentre la Camera dei Deputati si alzava tutt'una in piedi al suo ingresso in Aula, mi alzavo anch'io dalla mia poltrona e mi sembrava di portare sul petto il 4 e mezzo come una medaglia.)

Per chi segue e ama Fini dalle origini ai giorni nostri, il 30 aprile 2008 è stata una data storica perché, per la prima volta a memoria d'uomo (cioè mia), Fini ha letto un discorso. Fino al giorno prima, l'ho sempre visto parlare a braccio. Non credo che sia stato il primo passo verso l'imbalsamazione istituzionale; il motivo era, presumibilmente, che vedendolo leggere nessuno avrebbe avuto dubbi che il nome di Scalfaro gli fosse passato di mente per caso. E' stato un discorso istituzionale e politico, profondo e spigoloso. Berlusconi ha detto coram populo "Sei stato molto bravo", e non mi risulta l'abbia detto nemmeno ad Arrigo Sacchi quando vinceva Coppe dei Campioni a ripetizione. Dalle 11:58 alle 12:14 del 30 aprile 2008, Gianfranco Fini ha richiuso dietro di sé la porta del ghetto parlando da Capo di Stato; idea non peregrina, se si pensa che sono stati Presidenti della Camera e poi della Repubblica, in successione, Gronchi, Leone, Pertini, Scalfaro (chi?) e Napolitano. Da Terza a Prima Carica non è una lunga distanza.

(Allocuzione autobiografica - bis: presidente Fini, sa che c'è gente che l'ha seguita e ammirata per tutti gli anni del liceo, fino agli anni dell'università? Sa che queste persone giravano col Secolo d'Italia sotto braccio, quand'erano arrabbiate? Sa che convocavano contro-collettivi quando le assemblee erano una faccenda da comunisti? Sa che queste stesse persone si sono vendute alla sinistra non appena hanno sentito odore di laurea, per far carriera in università? Sa che alcune non ci sono nemmeno riuscite? Presidente Fini, di fronte a costoro si comporti come me, guardi e passi. Guardi, passi e faccia i complimenti ai ragazzi di Azione Studentesca, che per le prossime elezioni universitarie si sono inventati lo slogan più geniale del bigoncio: La sinistra del 68 vs la destra del 69: scegli la tua posizione.)

Non era il tempo né era il luogo di farlo, forse, e per questo Fini non l'ha fatto. Mi permetto io di chiosare il suo discorso citando le tre G iniziali alle quali rivolgere un irrituale saluto, come al Papa e alla Bandiera. Giorgio Almirante, che scelse Fini quando ancora aveva gli occhiali quadri ma che, soprattutto, insegnò che si poteva far politica parlando a braccio, appassionandosi senza spettinarsi, seducendo invece che circuendo. Giuseppe (Pinuccio) Tatarella, che dalla metà degli anni Novanta diceva che bisognava andare oltre il MSI, oltre AN, oltre il Polo della Libertà, per convincere gli Italiani della bontà delle proprie idee e creare un'appartenenza dei cervelli oltre che dei cuori - il tutto mentre un oscuro ministro belga rifiutava di stringergli la mano perché fascista (Tatarella, non il ministro belga). Giorgia Meloni, che è giovane e vibrante e viene da un quartiere di sinistra, la Garbatella, che domenica scorsa ha finito per preferire Alemanno: durante la scorsa legislatura era Vicepresidente della Camera, magari può dare qualche consiglio.

Conclusione aritmetica: presidente Fini, eravamo in pochi, ora siamo tanti - grazie a lei.