Permettete un momento. Vado a vedere la tigre.
(Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore)
(Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore)
Maschio Adulto Solitario (di Cosimo Argentina, Manni editore) funziona sin dal titolo. Anzi, a dire il vero il titolo ha iniziato a funzionare indipendentemente dal romanzo quando mi era stato rivelato con congruo anticipo sull’uscita e, forse, anche su parte della definitiva stesura. Mi piace metricamente, da cadenzato e soldatesco ottonario qual è, ma anche per l’acronimo altrettanto militare (MAS) che in sé racchiude, e soprattutto perché con un sol colpo d’occhio consente al lettore di capire al volo tutto ciò che potrà trovare nel romanzo, sfaccettando con tre parole l’essenza del protagonista, senza che siano necessarie pagine e pagine per afferrarla. Menzione d’onore anche per la copertina nera, opera di Vittorio Contaldo, che ritrae nell’angolo basso un moribondo omino della Playmobil. L’insieme è di tale impatto estetico da poter agevolmente ispirare una maglietta alla moda: nera, con la scritta MAS al centro, l’omino giù a sinistra e le tre parole Maschio Adulto Solitario scandite sulla schiena. Venderebbe un sacco.
Venderà, mi auguro, anche il libro. Dopo lunga e non facile gestazione, Cosimo Argentina ha partorito un romanzo all’altezza del titolo che aveva escogitato, sorprendente tanto per la trama quanto per la prosa. Chi ha già letto i suoi romanzi precedenti può trovare in Maschio Adulto Solitario un Argentina all’ennesima potenza, che ripesca in grande stile la verve narrativa che aveva caratterizzato i suoi primi prodotti (e in particolare l’epico Bar Blu Seves, nel 2002) rinunciando ad alcuni manierismi para-giovanilistici o a un certo compiacimento nel racconto nero. MAS infatti è una storia nera, nerissima; ma il turbinio quasi parossistico dell’incrocio fra sangue e sesso ha una ragion d’essere superiore che gli deriva dal contesto, in cui ogni tassello va al posto preordinato e nemmeno i particolari più scabrosi o sconvolgenti risultano eccessivi.
Tutto sta nel contesto, dunque. La maggior debolezza di alcuni dei precedenti tentativi di Argentina risedeva nelle improvvise accelerazioni narrative, che da un lato conservavano una notevole spontaneità al testo ma dall’altro creavano una certa discontinuità, che alla lunga poteva irritare il lettore, non lasciandolo mai tranquillo a cullarsi al ritmo del romanzo. MAS invece è una corda tesa, che dalla prima all’ultima parola consente al lettore di interrompersi solo per causa di forza maggiore; il suo ritmo è forsennato, un crescendo rossiniano di abiezione e turpitudine addolcito soltanto dall’umanissimo sguardo dell’autore, che pian pianino va staccandosi (spero) dall’evoluzione del personaggio. MAS è un romanzo borderline, e su questa sottile linea divisoria fra logica e follia Cosimo Argentina fa l’equilibrista mentre osserva precipitare nel nulla il protagonista sdrucciolo, Dànilo Colombia.
Tempo fa, chiacchierando, Cosimo Argentina mi dette un prezioso consiglio sulla tecnica narrativa. Proprio in quanto tecnica, mi spiegò, la narrativa spesso risulta artefatta e, in particolare, i personaggi suonano inverosimili al cuore del lettore. Si tende a caricare i personaggi di troppe caratteristiche positive o negative, cadendo spesso nel realismo o nello psicologismo fine a se stessi. Quando si scrive di un personaggio, c’è il rischio concreto di fare del personaggismo astratto; e invece perché un protagonista funzioni, continuava Cosimo, non si deve aver paura di fargli esprimere il meraviglioso e il sordido, bisogna innamorarsi con lui e accompagnarlo a puttane.
Con Dànilo Colombia, Argentina ha fatto esattamente così. Ho come l’impressione che si sia seduto davanti al computer e, prima di iniziare a far danzare i polpastrelli sulla tastiera, abbia tirato un lungo sospiro – durante il quale ha insufflato nel nuovo protagonista l’anima di tutti quelli che, nel corso degli anni e dei romanzi, l’avevano preceduto. Non a caso vediamo comparire all’improvviso, davanti a un crepuscolare Colombia, un’immaginaria Trimurti tarentina composta da Leonida Ciocri (Il Cadetto, 1999), Dagoberto Roio (Bar Blu Seves, 2002) e Camillo Marlo (Cuore di Cuoio, 2004): tutti i loro pregi (narrativi) si ritrovano nel nuovo protagonista, scevri alfine dei maculati difetti che potevano qua e là destabilizzare il lettore. E, quanto al giochino dell’autobiografia che piace tanto ai lettori dei viventi, più che indicativa mi sembra l’autoparodizzazione del cognome, da Argentina a Colombia.
MAS vive di questo sarcasmo, ora tra le righe ora sopra di esse. È una storia paradossale, una sorta di parabola all’incontrario, che segna la decennale ma inarrestabile discesa agli inferi di Dànilo Colombia. Tutto sta nel contesto, e lo scopo di Argentina consiste nel lasciare che il lettore si affezioni a un protagonista così inumano, così bestiale, vedendolo immerso in una giungla di personaggi ripugnanti e grotteschi, fra i quali Dànilo spicca per coerenza e dignità. Più di tutti colpisce il continuo dualismo fra il protagonista e i vari superiori o antagonisti che gli si parano innanzi, accomunati da cognomi omologhi: Corva, Carva, Corve e Corvo (in assonanza con corvée), quattro cavalieri di una personale apocalisse che culminano nella sfuggente e viscida figura di Vorca, l’antipadre, l’uomo che ruba a Dànilo sua madre e gli offre, al culmine della degenerazione, l’occasione per diventare definitivamente adulto con un gesto estremo e avverso alla legge naturale.
Non migliore figura fanno le donne del romanzo: dei grotteschi personaggi delineati da Argentina, loro sono quelle che ci rimettono di più, in quanto colpite da una deformità fisica o morale che le abbatte proprio lì dove una donna dovrebbe eccellere, nella bellezza e nel sentimento. Le donne di MAS sono vecchie, laide, ninfomani, volgari, abbandonate; si muovono fra gli estremi della vecchia madre repellente (che pare scappata dalle pagine di Pirandello sull’umorismo) e la giovane amante suicida senza apparente motivo. Cosimo Argentina, che già nelle sue opere precedenti aveva dato sempre particolare attenzione al corpo, particolare risalto alle sue funzioni e ai suoi umori, in MAS si supera e rende il corpo dei personaggi estrema incarnazione del destino al quale sono incatenati.
Così avviene con la lingua scritta, che è il corpo del romanzo. Come mai gli era riuscito prima, Argentina miscela saggiamente l’italiano e il tarentino in una comune cadenza meridionale avvitata su perifrasi che costituiscono una sorta di leitmotiv epico (come l’esplicativo “fa’ che”). Le offese più truculente sono sempre ironicamente barocche. L’aggettivazione non è mai banale, e non c’è una sola frase della quale si possa intuire in anticipo come vada a finire. All’eccesso del contenuto si accompagna l’eccesso linguistico: vanno di pari passo, inscindibilmente, e il lettore si trova catapultato dall’uno all’altro senza voler lui stesso staccarsene mai.
Dedico l’ultima considerazione alla protagonista occulta del romanzo, la tigre rinchiusa in un cortile di Taranto con la quale Dànilo ha un rapporto di comunicazione privilegiata, condividendone gli istinti belluini e volendo diventare tutt’uno con lei. La tigre in questione ha la stessa funzione dell’orca assassina nei Canti di Maldoror di Lautréamont, con i quali MAS condivide la vibrante sanguinarietà espressiva. In Lautréamont la fusione avveniva tramite un lungo corteggiamento muto prima e poi tramite l’effettivo, mostruoso accoppiamento fra la fiera e l’uomo in riva al mare; in Argentina la fusione avviene con l’offerta definitiva di Dànilo Colombia alle fauci dell’animale, conseguenza estrema ma ragionevole delle premesse via via imbastite dalla indiavolata trama. Questa tigre nel cortile è la bestia che custodiamo dentro di noi, ignorandola per di più, e talvolta sentendola ruggire. Lo scrittore è quello che ha il coraggio di avvicinarsi alla gabbia; se è coraggioso abbastanza da aprirne il cancello, è un bravo scrittore; se decide di fare punto e a capo e lasciarsi sbranare senza ritegno, estrae dal cilindro un capolavoro.
Maschio Adulto Solitario è il capolavoro di Cosimo Argentina, la maturazione definitiva della sua consapevolezza letteraria. Segna un punto di non ritorno nella sua produzione e, poiché ogni autore è un uomo, presumibilmente anche nella sua crescita personale. Mi ha fatto ridere e piangere e capire perché siamo amici. Onore all’editore Manni, unico a capirlo.
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