venerdì 20 maggio 2011

Vittorio Sgarbi ha fatto ciò che facevo io quando m’interrogavano ed ero impreparato: improvvisavo, deviavo, parlavo ininterrottamente per non dare scampo al professore, lasciavo intuire barlumi di genio che si schiudevano su temi diversi dai contenuti dell’interrogazione, e alla fine il professore mi metteva comunque 7 perché in fondo ero Gurrado. Ciò non toglie che fossi impreparato e che lui se ne fosse accorto, secondo la fortunata formula dell’“è bravo ma non si applica”. Solo che dopo dieci minuti mi rimandava a posto mentre Ci Tocca Anche Vittorio Sgarbi è durata un paio d’ore. Ma in fondo era Sgarbi.

(A sua discolpa devo riconoscere che, negli anni in cui ero impegnato a non farmi acchiappare dalle interrogazioni al liceo, ogni giorno tornavo a casa e all’ora di pranzo trovavo ad accogliermi Sgarbi Quotidiani, che andava ascoltata in religioso silenzio – a casa mia il religioso silenzio consistendo in mio padre che urla perché mia madre parla e non lo lascia ascoltare, mia madre che strilla perché mio padre non la lascia parlare, e io che grido a entrambi perché non si capiva cos’avesse da urlare Sgarbi. Insomma se con gli anni ho sviluppato la capacità non sufficientemente ammirata di montare una polemica al giorno lo devo anche alla prematura sovraesposizione a Vittorio Sgarbi.)

Ci sono due parole inglesi che possono definire ciò che è andato in onda mercoledì sera su Rai1: “rambling” ed “erratic”. “To ramble” significa “parlare a vanvera” e in realtà non è ciò che Sgarbi ha effettivamente fatto, in quanto evidentemente stava seguendo anzi inseguendo il filo di un discorso, per quanto senza raggiungerlo se non in pochi felici momenti: il discorso sul progressivo inarrestabile deturpamento del paesaggio italico; le citazioni da Pasolini, Ceronetti, Petrini e soprattutto Longanesi; l’intervento del mio compatriota Carlo Vulpio; l’omelia del vescovo di non ricordo più dove con le pertinenti domande di Sgarbi sulla paternità e maternità di Dio; soprattutto il video di Martinez in cui Dio veniva paragonato a un bambino lasciato solo a giocare accanto a un guardaroba e che nel suo irrefrenabile trasformismo rivela che i giovani non esistono, non esistono i vecchi, non esiste Shakespeare né Stratford-upon-Avon né il 1564 e nemmeno la primavera, ma esiste soltanto Dio. (Al riguardo è stato ottimo il momento in cui il vescovo di non so dove, tenuto colpevolmente in piedi e muto sul palco per i primi venti minuti di trasmissione, ha avuto il coraggio di dire ciò che penso, ossia che la redenzione operata da Cristo non è un dato di fatto solo per chi crede, perché, anche se uno non ci crede, trattandosi di un dato di fatto, così è e basta). Forse “erratic”, che il dizionario Oxford Paravia traduce con “irregolare, diseguale” in specifico riferimento a una performance, rende meglio l’idea. Che c’entrava la testa mozzata simil-Cattelan? (Non protesto contro la testa in sé, mi chiedo quale fosse il suo compito nell’ingranaggio, come si inserisse nel contesto, tanto più che la regia non trovava il complementare sfondo con il David di Caravaggio che brandisce la capoccia di Golia). Che c’entrava il coro di bambini alla fine? E Fausto Leali, se già c’era Morgan che era abbastanza di troppo? Perché è stato inquadrato ripetutamente Tatti Sanguineti se gli si sono lasciate dire tre parole? Perché Gavino Ledda – va bene che va in tv da quarant’anni a dire le stesse cose – è stato inoculato nella trasmissione senza presentazione alcuna? Perfino il dialogo a tre fra Sgarbi senior (padre), Sgarbi junior (figlio) e Sgarbi Sgarbi (spirito santo?), potenzialmente interessantissimo, si è tinto di colori à la Uomini E Donne, concessione all’italianesco culminata nella presenza di due vallette/copresentatrici inutili, mimetizzate fra il pubblico, che a quanto pare dovevano fare un sacco di cose e non hanno potuto farne mezza e tutto ciò senza che Sgarbi abbia saputo (o potuto) giocare sulla reiterazione ironica, se volessimo fare i colti potremmo dire ioneschiana, del rinvio dei loro interventi dall’inizio del programma: “Parlerà Tizio!” - Tizio viene inquadrato - Tizio non parla mai ma a scadenze regolari il presentatore continua ad assicurare il pubblico col suo “Parlerà Tizio!”.

(A sua discolpa devo ricordare l’estate ai Giardini Ducali di Modena, ma devo stare attento ché se me la ricordo troppo poi mollo il computer a metà di questa frase e me ne torno lì a piedi e a nuoto. Un’estate Vittorio Sgarbi doveva parlare d’arte insieme a Philippe Daverio nel corso dell’annuale ciclo di incontri organizzati dal Comune di Modena e dalla locale Cassa di Risparmio fra le fronde dei Giardini Ducali, quelli dietro l’Accademia. Il palco è montato, le due sedie sono pronte, i più fortunati in prima fila possono intravvedere Sgarbi che si aggira dietro le quinte, l’ora è arrivata ma nessuno inizia. Passano dieci minuti, ne passano quindici, passa una mezz’ora e finalmente Sgarbi sale i gradini del palco e si palesa a tutto il pubblico. Esordisce con una frase da far raggelare il sangue: “Ci sono due sedie ma un solo relatore”. Tutti si aspettano che abbia furiosamente litigato con Daverio dietro le quinte e che questi se ne sia andato sdegnato. Sgarbi non spiega nulla dell’assenza di Daverio: intraprende un giro di parole vertiginoso su argomenti del tutto estranei a ciò di cui doveva parlare, riesce a includervi una segretaria di redazione convinta che Cosmé Tura si chiamasse Cosma Turà nonché le mestruazioni di una sua ex fidanzata. Parla per quasi quaranta minuti che sembrano cinque, finché dalle quinte si vede spuntare la brace accesa del sigaro, poiché siamo all’aperto, di Philippe Daverio, che era rimasto bloccato nel traffico in autostrada e aveva chiesto a Sgarbi di salvare la serata intrattenendo il pubblico fino a che lui raggiungeva il casello. Poi sono andati avanti fino a mezzanotte.)

Insomma Sgarbi è caduto nell’errore comune a molti uomini di genio, che hanno una percezione istintiva delle proprie idee (benché potenzialmente confuse) talmente chiara da non riuscire a spiegarle a un pubblico collocato al di fuori del proprio cervello; anzi, talmente cristallina da non ritenere nemmeno necessario lo sforzo di presentarle impacchettate a dovere piegandosi ai bisogni del pubblico che, a parte me, non necessariamente intende seguirlo sulla strada della vocazione alla genialità.

mercoledì 18 maggio 2011

Dalla tornata elettorale amministrativa ho ricavato tre impressioni indelebili, tutte emerse dalla visione approfondita della puntata speciale di Porta a Porta. Al terzo posto si piazza il momento in cui Alessandro Sallusti ha fatto notare che a Torino la lista Fli aveva conseguito l’1,39%, grossomodo quanto la lista Consumatori per Fassino, e Italo Bocchino ha vivacemente protestato esordendo con queste parole: “Sì, però a Gallarate…”. Al secondo posto si piazza Giovanni Sartori, che prima ha dato addosso al centrodestra e poi, scorgendo la faccia giubilante di Enrico Letta, ha aggiunto a mo’ di corollario che il centrosinistra fa ridere e racconta solo balle. Mi è stato fatto notare che Sartori risulta avere abbracciato questa posizione ormai da tempo; se non che, argomento, un tempo avrebbe usato i termini “non riesce a far presa sull’elettorato” e “manca di credibilità”. Fatto sta che alla fine del sermoncino di Sartori la faccia di Enrico Letta non è stata inquadrata più. Al primo posto si piazza tuttavia incontrastato il momento in cui il ministro dell’agricoltura Francesco Saverio Romano ha protestato vibratamente contro il direttore dell’Ipr perché il suo partito, pur avendo conseguito il 3,5% a Napoli, è stato escluso dal confronto con le comunali del 2006 – del tutto incurante del caso che cinque anni prima il suo partito non esistesse. Ciò fa sorgere alcune domande spontanee:
- ma il ministro dell’agricoltura non era Galan?
- in generale, non era meglio tenersi Zaia?
- e poi il ministro nuovo non si chiamava Romani?
- soprattutto, quale partito?
- tre virgola cinque per cento?

lunedì 16 maggio 2011

Se fossi di Milano voterei Letizia Moratti (nonostante la campagna elettorale traballante), se fossi di Torino voterei Piero Fassino, se fossi di Bologna voterei Manes Bernardini, se fossi di Napoli voterei Clemente Mastella. D’altronde sono di Gravina in Puglia e vivo a Oxford (contrasto notevolissimo, chissà se il contrario è peggio) quindi non posso nessuno dei quattro.

A Oxford quest’anno non si vota, e anche se fosse non voterei comunque in quanto all’inizio della mia permanenza britannica, pur avendone diritto, ho declinato l’invito a rientrare nelle liste elettorali perché – be’, insomma, altro che Clemente Mastella e Piero Fassino, in Inghilterra l’unico partito lievemente votabile è composto da hooligans che scendono in piazza a urlare “Ing-h-land! Ing-h-land!” e il cui leader è stato in galera per i motivi più diversi. I partiti principali sono improponibili per i motivi più disparati. I conservatori si son fatti troppo progressisti e fino a qualche mese fa non sembravano voler porre alcun serio freno alla degenerazione sociale britannica; hanno peraltro osato lì dove nessun partito sedicente di destra dovrebbe avventurarsi, ossia l’aumento delle tasse, ergo non meritano alcun voto. I laburisti hanno un leader ragionevolmente simpatico e sono l’unico partito vagamente religioso (fu fondato da un gruppo metodista), ma sono laburisti quindi ritengono che, per contrastare l’operazione di ingiustizia sociale messa in atto da David Cameron, le tasse dovrebbero essere aumentate ancora di più – tranne quelle universitarie, vai a capirli. I liberal democratici hanno cercato di sostituire al sistema elettorale corrente, semplice ma ingiusto (l’uninominale maggioritario), un sistema elettorale altrettanto ingiusto però complicatissimo. E non ci sono nemmeno riusciti.

Le amministrative britanniche per i luoghi indicati si sono tenute a inizio maggio e hanno segnato l’estinzione dei liberal-democratici, la sconfitta dei laburisti e la tenuta dei conservatori, fermo restando che si tratta di vittoria mutilata a seguito dell’esito delle consultazioni scozzesi, dove il partito nazionalista di Alex Salmond, già primo ministro devoluto, ha guadagnato una maggioranza sufficiente a fargli indire nel giro di un paio d’anni un referendum ad alto tasso di successo per l’indipendenza della Scozia da Londra. Quando mi ero trasferito a Oxford mi sono sentito schiacciare dalla netta percezione che questo posto mi avrebbe ucciso e il plurisecolare Regno Unito sarebbe durato più di me. Da qualche giorno grazie ad Alex Salmond – per il quale tuttavia non potrei mai votare in quanto mi rifiuto di passeggiare in kilt – inizio a nutrire la sensazione inversa.

Non si vota nemmeno a Gravina e non è un male. Gravina è ingovernabile. Bisognerebbe portarci in gita d’istruzione i liberal-democratici britannici; apprenderebbero che indipendentemente dal sistema elettorale i risultati sono stabilmente i seguenti: su quarantacinquemila abitanti, non tutti aventi diritto al voto, si presenta un numero indiscriminato di candidati sindaci diversamente sostenuti da grossomodo seicento candidati consiglieri comunali, con una media di un candidato ogni cinquanta elettori; una coalizione di cinque-sei partiti consegue sì la maggioranza dei voti ma non sufficienti a evitare il secondo turno; per il ballottaggio la coalizione si allarga a dieci-dodici partiti e vince; dopo di che si brinda, il sindaco si insedia e alcuni consiglieri comunali, eletti in un qualsiasi partito della maggioranza, decidono di passare all’opposizione più o meno alla prima seduta del consiglio comunale; la giunta eletta con ampio margine diventa giunta di minoranza o di maggioranza risicatissima e il sindaco è costretto a distribuire assessorati a destra e a sinistra, uno per ciascun partito di coalizione; poiché di partiti (soprattutto le dannatissime liste civiche) ce n’è a iosa ma gli assessorati sono disponibili in numero limitato, ne viene danneggiato il partito portante della coalizione che magari ha guadagnato metà dei voti complessivi ma ha a disposizione un quarto degli assessorati; ciò porta al prematuro rimpasto; segue un momento di caos in cui o il sindaco deve telefonare agli assessori o gli assessori devono telefonare al sindaco per rinfrescarsi la memoria sulla distribuzione delle deleghe; la cittadinanza si disorienta; le liti infuriano; la giunta cade; il paese viene commissariato; il commissario scopre che il bilancio comunale è dissestato dai tempi dell’introduzione delle cifre arabe; si passa un annetto tranquillo e poi si indicono nuove elezioni alle quali si presenta il doppio dei candidati sindaci diversamente sostenuti da settecento, ottocento, mille candidati consiglieri comunali in quella che i miei amici de sinistra definirebbero una grande festa della democrazia.

Ora, resti fra noi ma se la democrazia inflitta su scala locale deve portare a questi risultati ben venga il commissariamento perpetuo.