Per fugare ogni dubbio, occorre controllare il paginone centrale: se c’è una signorina piegata in tre – la pagina, non la signorina, anche se occasionalmente le due circostanze possono coesistere – avete indubbiamente in mano Playboy.
Playboy Italia compie quarant'anni e Tempi festeggia la ricorrenza ripescando la mia recensione al primo numero della nuova edizione italiana, l'ormai lontano gennaio 2009. Attendo di essere invitato alla festa di compleanno.
martedì 30 ottobre 2012
lunedì 29 ottobre 2012
Finalmente domenica!
Nona giornata, 28 ottobre 2012
Da ieri la mia vita è cambiata radicalmente perché, con mossa ardita e impreveduta, ho deciso di partecipare al concorso per la selezione di ben dodici professori di storia e filosofia a tempo indeterminato nei trienni dei licei lombardi. Iscriversi alla selezione è facilissimo, e infatti lo raccomando a chiunque sia in cerca di valido passatempo: anzitutto bisogna essere laureati da dieci anni, ma non da nove; dopo di che bisogna ricuperare la Gazzetta Ufficiale del 25 settembre 2012 nella quale si trovano tutte le istruzioni, comprensive di una trentina di pagine di allegati di varia risma; una volta tradotte tali istruzioni in italiano, bisogna accedere al sito del Ministero dell’Istruzione e richiedere di iscriversi alla presentazione di istanze online; effettuata questa richiesta, si riceve una mail con una password, un codice temporaneo diverso dalla password ma parimenti anti-intuitivo e un modulo da stampare; una volta stampato questo modulo bisogna compilarlo, accludervi fotocopia di carta d’identità e tessera sanitaria e presentarsi in un liceo per farsi riconoscere; a quel punto si riceve una nuova mail, in cui viene scritto che il vecchio codice temporaneo è scaduto e bisogna sostituirlo con un codice temporaneo nuovo; bisogna altresì giurare solennemente di non allontanarsi dal proprio computer ad accesso effettuato e di non utilizzare come password la parola “qwerty”. Una volta espletate queste formalità preliminari, si può iniziare a pensare a iscriversi al concorso per la selezione di ben dodici professori di storia e filosofia a tempo indeterminato nei trienni dei licei lombardi.
Un’ulteriore complicazione è data dalla compiuta informatizzazione della presentazione dell’istanza, tale che per garantire ai partecipanti di non perdere i propri dati virtuali il Ministero dell’Istruzione richiede loro di scegliere una domanda standard a risposta aperta da utilizzarsi come grimaldello per ottenere, qualora la si fosse smarrita, una nuova password – da non confondersi col codice temporaneo, sia esso quello vecchio o quello nuovo. È presumibile che, onde garantire la sicurezza degli iscritti al concorso (o, meglio, alle formalità preliminari per la presentazione delle istanze online eccetera eccetera), il Ministero dell’Istruzione abbia telefonato ai Servizi Segreti e abbia detto: “Servizi Segreti, come possiamo garantire la sicurezza degli iscritti alle formalità preliminari eccetera eccetera?”. Ecco il ponderato responso del Copasir: fra le opzioni per la scelta di tale domanda spiccano il cognome di vostra madre, il film che non smettereste mai di vedere e la data di nascita della vostra fidanzata. Questo è chiaramente discriminatorio nei confronti di chi non ha la fidanzata, oltre che di chi guarda solo film zozzi e non ricorda il cognome di sua madre. Sto trascorrendo infatti l’intera giornata odierna a telefonare alle amiche più dimenticate chiedendo come alle medie inferiori: “[Omissis], ti vuoi mettere con me? Mi serve per fare il concorso”. Una discreta percentuale di esse ha risposto di sì, pertanto ho chiesto loro di spedirmi una scansione della loro carta d’identità. In un caso mi è stato chiesto di fare lo stesso perché anche l’interlocutrice aveva necessità di iscriversi alle formalità eccetera eccetera per la selezione di eccetera eccetera dei licei lombardi.
Per fortuna il Ministero dell’Istruzione fornisce indicazioni estremamente dettagliate – su un file pdf scaricabile in parte prima di e in parte dopo avere presentato domanda per l’accesso alle istanze online – su come procedere al passaggio successivo: io infatti leggendo che, onde proseguire la registrazione della domanda per la presentazione di istanze online onde poter concludere l’iscrizione alle formalità preliminari di adesione alla partecipazione al concorso per la selezione di numero dodici professori di storia e filosofia a tempo indeterminato nei trienni delle scuole superiori della Lombardia, bisognava presentarsi in un liceo e farsi riconoscere, mi ero a stento trattenuto dall’andare al Liceo Classico [Omissis] di [Omissis] e toccare il culo alle minorenni, ruttare in faccia al preside e dichiarare sotto giuramento che se proprio non si può istituire la pena di morte bisogna quanto meno ripristinare i lavori forzati, non prima di avere cantato la canzoncina dei Wahha Put-hanga che ormai ascolto ogni giorno prima e dopo i pasti (nel mio caso, cinque). Invece si tratta più modestamente di presentarsi nella segreteria di una scuola statale, porgere il documento ricevuto nella mail di cui al primo paragrafo, debitamente compilato ma non firmato, consegnare la tessera sanitaria onde desumerne il codice fiscale, consegnare la carta d’identità, spiegare che non ho avuto il tempo di farmi la barba, spiegare che sono ingrassato perché colgo ogni occasione per mangiare pur di ascoltare prima e dopo i pasti la canzoncina dei Wahha Put-hanga, attendere che l’applicato di segreteria inoltri la certificazione virtuale al Ministero dell’Istruzione, trattenersi dal toccare il culo alle minorenni di passaggio, ricevere la mail di avvenuto riconoscimento virtuale, cambiare il vecchio codice provvisorio con il codice provvisorio nuovo, non scegliere “qwerty” come password, cominciare la procedura di autocertificazione dei titoli valutabili per l’iscrizione alla selezione eccetera eccetera nei trienni dei licei lombardi, non allontanarsi mai dal proprio computer acceso pena la squalifica, attendere fiducioso la data del concorso. Arriverò tredicesimo e mi consolerò con un bicchiere di Stock84.
[A grande richiesta si trova anche sul sito di Tempi, accompagnato da adeguato videoclip della canzoncina dei Wahha Put-hanga. Il resto della rubrica, opera di Francesco Savio, è reperibile come sempre su Quasi Rete]
Nona giornata, 28 ottobre 2012
Da ieri la mia vita è cambiata radicalmente perché, con mossa ardita e impreveduta, ho deciso di partecipare al concorso per la selezione di ben dodici professori di storia e filosofia a tempo indeterminato nei trienni dei licei lombardi. Iscriversi alla selezione è facilissimo, e infatti lo raccomando a chiunque sia in cerca di valido passatempo: anzitutto bisogna essere laureati da dieci anni, ma non da nove; dopo di che bisogna ricuperare la Gazzetta Ufficiale del 25 settembre 2012 nella quale si trovano tutte le istruzioni, comprensive di una trentina di pagine di allegati di varia risma; una volta tradotte tali istruzioni in italiano, bisogna accedere al sito del Ministero dell’Istruzione e richiedere di iscriversi alla presentazione di istanze online; effettuata questa richiesta, si riceve una mail con una password, un codice temporaneo diverso dalla password ma parimenti anti-intuitivo e un modulo da stampare; una volta stampato questo modulo bisogna compilarlo, accludervi fotocopia di carta d’identità e tessera sanitaria e presentarsi in un liceo per farsi riconoscere; a quel punto si riceve una nuova mail, in cui viene scritto che il vecchio codice temporaneo è scaduto e bisogna sostituirlo con un codice temporaneo nuovo; bisogna altresì giurare solennemente di non allontanarsi dal proprio computer ad accesso effettuato e di non utilizzare come password la parola “qwerty”. Una volta espletate queste formalità preliminari, si può iniziare a pensare a iscriversi al concorso per la selezione di ben dodici professori di storia e filosofia a tempo indeterminato nei trienni dei licei lombardi.
Un’ulteriore complicazione è data dalla compiuta informatizzazione della presentazione dell’istanza, tale che per garantire ai partecipanti di non perdere i propri dati virtuali il Ministero dell’Istruzione richiede loro di scegliere una domanda standard a risposta aperta da utilizzarsi come grimaldello per ottenere, qualora la si fosse smarrita, una nuova password – da non confondersi col codice temporaneo, sia esso quello vecchio o quello nuovo. È presumibile che, onde garantire la sicurezza degli iscritti al concorso (o, meglio, alle formalità preliminari per la presentazione delle istanze online eccetera eccetera), il Ministero dell’Istruzione abbia telefonato ai Servizi Segreti e abbia detto: “Servizi Segreti, come possiamo garantire la sicurezza degli iscritti alle formalità preliminari eccetera eccetera?”. Ecco il ponderato responso del Copasir: fra le opzioni per la scelta di tale domanda spiccano il cognome di vostra madre, il film che non smettereste mai di vedere e la data di nascita della vostra fidanzata. Questo è chiaramente discriminatorio nei confronti di chi non ha la fidanzata, oltre che di chi guarda solo film zozzi e non ricorda il cognome di sua madre. Sto trascorrendo infatti l’intera giornata odierna a telefonare alle amiche più dimenticate chiedendo come alle medie inferiori: “[Omissis], ti vuoi mettere con me? Mi serve per fare il concorso”. Una discreta percentuale di esse ha risposto di sì, pertanto ho chiesto loro di spedirmi una scansione della loro carta d’identità. In un caso mi è stato chiesto di fare lo stesso perché anche l’interlocutrice aveva necessità di iscriversi alle formalità eccetera eccetera per la selezione di eccetera eccetera dei licei lombardi.
Per fortuna il Ministero dell’Istruzione fornisce indicazioni estremamente dettagliate – su un file pdf scaricabile in parte prima di e in parte dopo avere presentato domanda per l’accesso alle istanze online – su come procedere al passaggio successivo: io infatti leggendo che, onde proseguire la registrazione della domanda per la presentazione di istanze online onde poter concludere l’iscrizione alle formalità preliminari di adesione alla partecipazione al concorso per la selezione di numero dodici professori di storia e filosofia a tempo indeterminato nei trienni delle scuole superiori della Lombardia, bisognava presentarsi in un liceo e farsi riconoscere, mi ero a stento trattenuto dall’andare al Liceo Classico [Omissis] di [Omissis] e toccare il culo alle minorenni, ruttare in faccia al preside e dichiarare sotto giuramento che se proprio non si può istituire la pena di morte bisogna quanto meno ripristinare i lavori forzati, non prima di avere cantato la canzoncina dei Wahha Put-hanga che ormai ascolto ogni giorno prima e dopo i pasti (nel mio caso, cinque). Invece si tratta più modestamente di presentarsi nella segreteria di una scuola statale, porgere il documento ricevuto nella mail di cui al primo paragrafo, debitamente compilato ma non firmato, consegnare la tessera sanitaria onde desumerne il codice fiscale, consegnare la carta d’identità, spiegare che non ho avuto il tempo di farmi la barba, spiegare che sono ingrassato perché colgo ogni occasione per mangiare pur di ascoltare prima e dopo i pasti la canzoncina dei Wahha Put-hanga, attendere che l’applicato di segreteria inoltri la certificazione virtuale al Ministero dell’Istruzione, trattenersi dal toccare il culo alle minorenni di passaggio, ricevere la mail di avvenuto riconoscimento virtuale, cambiare il vecchio codice provvisorio con il codice provvisorio nuovo, non scegliere “qwerty” come password, cominciare la procedura di autocertificazione dei titoli valutabili per l’iscrizione alla selezione eccetera eccetera nei trienni dei licei lombardi, non allontanarsi mai dal proprio computer acceso pena la squalifica, attendere fiducioso la data del concorso. Arriverò tredicesimo e mi consolerò con un bicchiere di Stock84.
[A grande richiesta si trova anche sul sito di Tempi, accompagnato da adeguato videoclip della canzoncina dei Wahha Put-hanga. Il resto della rubrica, opera di Francesco Savio, è reperibile come sempre su Quasi Rete]
lunedì 22 ottobre 2012
Finalmente domenica!
Ottava giornata, 21 ottobre 2012
Io continuerò a tenere al Milan anche l’anno prossimo in serie B quindi proprio non capisco il manipolo di grettoni che s’è fatto rimborsare l’abbonamento a San Siro dopo che la società aveva venduto Thiago Silva e Ibrahimovic. Me li vedo costoro al bar, stamattina, a pontificare che loro l’avevano detto e che era meglio se Galliani vendeva al Paris Saint-Germain anche i tifosi. Trent’anni fa, dico, in situazione analoga un atteggiamento del genere sarebbe parso improponibile, oggi è nell’ordine delle cose: ci siamo abituati a voler sfasciare tutto ciò che non funziona e non è un caso che oggidì riscuotano successo i Rottamatori di Renzi, i Formattatori di Cattaneo, gli Scassatori di Maroni e così via.
L’impeto più diffuso su scala nazionale è ora come ora l’azzeramento, che raggiunge vertici inattingibili nel non infrequente caso dei milanisti di destra, che sognano di sistemare le cose in cotal guisa: la Santanché al posto di Galliani, Galliani al posto di Maurizio Pistocchi, Sacchi premier di una grande coalizione che escluda l’Olympique Marsiglia, Sallusti direttore di Forza Milan, Pellegatti in galera, Pato al Grande Fratello (“Ma non lo trasmettono più!” “Appunto”), primarie a novembre per decidere il nuovo allenatore, ritorno alla lira e alla Coppa dei campioni aperta solo alle vincitrici di campionato ma con un’apposita wild card per tutte le squadre che siano state campioni d’Europa sette volte, fondate da un inglese e tifate da Beppe Viola.
A questo punto propongo anch’io una soluzione benché più moderata: lasciare il Milan così com’è (tanto continuerò a tifare anche fra due anni in Mitropa Cup – “Ma non la organizzano più!” “Appunto”) e concentrarmi sul centrodestra, il cui unico possibile leader mi sembra… “Oscar Giannino!”, diranno subito i miei piccoli lettori. No, avete sbagliato: Veronica Pivetti. L’altra sera infatti ero a teatro e c’era la Pivetti impegnata con Isa Danieli in un avanspettacolo fondamentalista che in sé non era gran cosa ma che mi ha fatto pensare quanto segue. Il problema della politica (come del calcio) in Italia è che negli ultimi vent’anni è diventata sempre più assertiva e sempre meno allusiva: questo ha portato a un progressivo inabissamento stilistico e a un inevitabile imbarbarimento della contrapposizione. Beppe Grillo è volgare perché pretende di dire le cose come stanno ed è ingannevole perché quasi mai la verità coincide col nudo elenco dei fatti; è sempre il contesto che dà senso al testo.
Io non lo sapevo ma invece la Pivetti è proprio brava nel tenere il palcoscenico quando si tratta di essere allusiva anziché assertiva: ovvero quando non deve comunicare un contenuto (cioè recitare) ma creare un’atmosfera che lo lasci intuire, com’è proprio dell’avanspettacolo. Grazie a questo talento riesce a cantare con disinvoltura e senza creare irritazione pezzi che affrontano argomenti scabrosi quali finire a San Vittore o cacarsi addosso a Montecarlo – risultando perfino più convincente di Isa Danieli che cantava in napoletano Vincenzina e la Fabbrica: “Zero a zero anche ieri ’stu Milàn ccà, ’stu Rivera che ormai nun me segna cchiù…”. Fieramente lombardocentrica (di questi tempi, poi) e capace di riscuotere il plauso delle tribù progressiste, la Pivetti mi sembra la persona più indicata a garantire l’equilibrio fra preminenza della macroregione settentrionale e indipendenza dallo straniero. In particolare la Pivetti l’ho trovata sublime nel ripescaggio di un pezzo di Walter Valdi, I Wahha Put-hanga, che in due minuti scarsi riesce a offendere mortalmente e gratuitamente i negher del menga, le donne (siano esse obese o bislunghe), gli impotenti e i cü.
In Inghilterra per una cosa del genere si va in galera, credo. Prima di diventare anche noi come gli inglesi e vivere nell’ossessione di dover far bella figura in salotto, magari potremmo tentare la strada di un avanspettacolo politico fondamentalista e allusivo, in cui non sia disdicevole esprimere in modo ironico ma fermo idee tradizionali politicamente scorrette, né essere consapevoli che non è possibile accontentare tutti né accontentarsi di tutto, né essere orgogliosi di tenere a una squadra che perde. Io, tanto per cominciare, anche se l’avanspettacolo della Pivetti sostituiva all’improvviso Il Dolore di Marguerite Duras con Mariangela Melato, mica ho chiesto indietro al teatro Fraschini i soldi dell’abbonamento.
[L'intervento gemello di Francesco Savio si trova come sempre su Quasi Rete.]
Ottava giornata, 21 ottobre 2012
Io continuerò a tenere al Milan anche l’anno prossimo in serie B quindi proprio non capisco il manipolo di grettoni che s’è fatto rimborsare l’abbonamento a San Siro dopo che la società aveva venduto Thiago Silva e Ibrahimovic. Me li vedo costoro al bar, stamattina, a pontificare che loro l’avevano detto e che era meglio se Galliani vendeva al Paris Saint-Germain anche i tifosi. Trent’anni fa, dico, in situazione analoga un atteggiamento del genere sarebbe parso improponibile, oggi è nell’ordine delle cose: ci siamo abituati a voler sfasciare tutto ciò che non funziona e non è un caso che oggidì riscuotano successo i Rottamatori di Renzi, i Formattatori di Cattaneo, gli Scassatori di Maroni e così via.
L’impeto più diffuso su scala nazionale è ora come ora l’azzeramento, che raggiunge vertici inattingibili nel non infrequente caso dei milanisti di destra, che sognano di sistemare le cose in cotal guisa: la Santanché al posto di Galliani, Galliani al posto di Maurizio Pistocchi, Sacchi premier di una grande coalizione che escluda l’Olympique Marsiglia, Sallusti direttore di Forza Milan, Pellegatti in galera, Pato al Grande Fratello (“Ma non lo trasmettono più!” “Appunto”), primarie a novembre per decidere il nuovo allenatore, ritorno alla lira e alla Coppa dei campioni aperta solo alle vincitrici di campionato ma con un’apposita wild card per tutte le squadre che siano state campioni d’Europa sette volte, fondate da un inglese e tifate da Beppe Viola.
A questo punto propongo anch’io una soluzione benché più moderata: lasciare il Milan così com’è (tanto continuerò a tifare anche fra due anni in Mitropa Cup – “Ma non la organizzano più!” “Appunto”) e concentrarmi sul centrodestra, il cui unico possibile leader mi sembra… “Oscar Giannino!”, diranno subito i miei piccoli lettori. No, avete sbagliato: Veronica Pivetti. L’altra sera infatti ero a teatro e c’era la Pivetti impegnata con Isa Danieli in un avanspettacolo fondamentalista che in sé non era gran cosa ma che mi ha fatto pensare quanto segue. Il problema della politica (come del calcio) in Italia è che negli ultimi vent’anni è diventata sempre più assertiva e sempre meno allusiva: questo ha portato a un progressivo inabissamento stilistico e a un inevitabile imbarbarimento della contrapposizione. Beppe Grillo è volgare perché pretende di dire le cose come stanno ed è ingannevole perché quasi mai la verità coincide col nudo elenco dei fatti; è sempre il contesto che dà senso al testo.
Io non lo sapevo ma invece la Pivetti è proprio brava nel tenere il palcoscenico quando si tratta di essere allusiva anziché assertiva: ovvero quando non deve comunicare un contenuto (cioè recitare) ma creare un’atmosfera che lo lasci intuire, com’è proprio dell’avanspettacolo. Grazie a questo talento riesce a cantare con disinvoltura e senza creare irritazione pezzi che affrontano argomenti scabrosi quali finire a San Vittore o cacarsi addosso a Montecarlo – risultando perfino più convincente di Isa Danieli che cantava in napoletano Vincenzina e la Fabbrica: “Zero a zero anche ieri ’stu Milàn ccà, ’stu Rivera che ormai nun me segna cchiù…”. Fieramente lombardocentrica (di questi tempi, poi) e capace di riscuotere il plauso delle tribù progressiste, la Pivetti mi sembra la persona più indicata a garantire l’equilibrio fra preminenza della macroregione settentrionale e indipendenza dallo straniero. In particolare la Pivetti l’ho trovata sublime nel ripescaggio di un pezzo di Walter Valdi, I Wahha Put-hanga, che in due minuti scarsi riesce a offendere mortalmente e gratuitamente i negher del menga, le donne (siano esse obese o bislunghe), gli impotenti e i cü.
In Inghilterra per una cosa del genere si va in galera, credo. Prima di diventare anche noi come gli inglesi e vivere nell’ossessione di dover far bella figura in salotto, magari potremmo tentare la strada di un avanspettacolo politico fondamentalista e allusivo, in cui non sia disdicevole esprimere in modo ironico ma fermo idee tradizionali politicamente scorrette, né essere consapevoli che non è possibile accontentare tutti né accontentarsi di tutto, né essere orgogliosi di tenere a una squadra che perde. Io, tanto per cominciare, anche se l’avanspettacolo della Pivetti sostituiva all’improvviso Il Dolore di Marguerite Duras con Mariangela Melato, mica ho chiesto indietro al teatro Fraschini i soldi dell’abbonamento.
[L'intervento gemello di Francesco Savio si trova come sempre su Quasi Rete.]
di che si parla?
almanacco del giorno stesso,
radio londra,
selvaggio e sentimentale
lunedì 15 ottobre 2012
Finalmente domenica!
Sosta per Armenia e Danimarca, 14 ottobre 2012
Ho sentito qualche maligno proferire: “È uscito il nuovo romanzo di Paolo Giordano; ci hanno messo cinque anni a scriverglielo”. Ho sentito qualcun altro argomentare che, essendo uscito un ulteriore libro di Francesco Totti, questi ha ormai più titoli di me per concorrere all’abilitazione nazionale da docente universitario. Ho pensato che di o su Lance Armstrong è uscito a tutt’oggi un fottio di libri, in America e in Francia e in Italia, e ho immaginato autori ed editori intenti a cambiarne il finale, a smussarne affermazioni troppo entusiastiche, a cancellarne le parti in cui si diceva che la sua storia era un esempio per tutti gli ammalati. Ho concluso che l’editoria – in Italia, in Francia e pure in America – è sovente fatta da persone incapaci di prevedere il futuro di là dalla propria nuca, altrimenti sarebbero state in grado di scrivere, in tutti i volumi gialli usciti su Armstrong nell’ultima dozzina d’anni, che già nel 1999, sulla salita del Sestriere, era evidente ciò di cui tutti avrebbero finto di accorgersi a 2012 inoltrato, quando sarebbe stato troppo tardi: le vittorie celebrate, la gloria archiviata, i proventi pappati, gli ammalati ingannati, le mogli bionde cambiate in numero di tre, più o meno una ogni due Tour vinti. Ho pensato che è bene lasciare un enorme buco nell’albo d’oro a futura memoria ma che si potrebbe assegnare d’ufficio a Pantani la vittoria nei Tour del 2004 e 2005, per avere pagato con la vita colpe sulle quali in America si sbevazzava a tradimento. Ho notato che l’ipocrisia generale degli ultimi tredici anni ha fatto sì che alla delinquenza di Armstrong fossero dedicate lenzuolate e al ritiro di Alessia Filippi un trafiletto appena, quando invece sarebbe stato più giusto l’inverso: quattro parole per Armstrong (“ciò che già sapevamo”) e lenzuolate di elucubrazioni sulla Filippi. Ho scoperto di non essermi reso conto che la Filippi fosse così giovane, venticinque anni addosso e sette meno di me che a stento mi reggo a galla. Ho ritenuto che il suo indubbio talento natatorio fosse stato in qualche modo oscurato dal non avere mai fatto pubblicità alle bollette o ai biscottini. Ho capito che la vera soddisfazione dell’agonismo non è la vittoria, foss’anche per sette anni consecutivi, ma la sera in cui vai a coricarti sapendo che al mattino dopo non dovrai farlo più. Ho meditato sulla differenza fra chi si ritira vecchio a pancia piena, accortosi che per bravura o per inganno non avrebbe potuto combinare di più in carriera, e chi chiude il rubinetto da giovane, per scelta consapevole, pur sapendo di non avere bevuto tanto quanto ci si aspettava in relazione al talento e di potere, un giorno futuro, avere ancora sete. Ho immaginato Alessia Filippi che torna a casa e non deve più pensare a tempi o bracciate perché ha scelto di essere una persona normale. Ho dedotto che oggi come oggi un suo libro che spieghi perché e percome sarebbe trenta volte più interessante di tutta la bibliografia di e su Armstrong e perfino dei libri di Totti, per tacere di Paolo Giordano. Ho rimpianto di non avere il numero di Alessia Filippi perché le avrei scritto questo messaggino: “Auguri, bella pesciolona. La tua vita inizia domani; finora era solo allenamento”.
[L'altra metà della rubrica, quella di Francesco Savio, si trova su Quasi Rete.]
Sosta per Armenia e Danimarca, 14 ottobre 2012
Ho sentito qualche maligno proferire: “È uscito il nuovo romanzo di Paolo Giordano; ci hanno messo cinque anni a scriverglielo”. Ho sentito qualcun altro argomentare che, essendo uscito un ulteriore libro di Francesco Totti, questi ha ormai più titoli di me per concorrere all’abilitazione nazionale da docente universitario. Ho pensato che di o su Lance Armstrong è uscito a tutt’oggi un fottio di libri, in America e in Francia e in Italia, e ho immaginato autori ed editori intenti a cambiarne il finale, a smussarne affermazioni troppo entusiastiche, a cancellarne le parti in cui si diceva che la sua storia era un esempio per tutti gli ammalati. Ho concluso che l’editoria – in Italia, in Francia e pure in America – è sovente fatta da persone incapaci di prevedere il futuro di là dalla propria nuca, altrimenti sarebbero state in grado di scrivere, in tutti i volumi gialli usciti su Armstrong nell’ultima dozzina d’anni, che già nel 1999, sulla salita del Sestriere, era evidente ciò di cui tutti avrebbero finto di accorgersi a 2012 inoltrato, quando sarebbe stato troppo tardi: le vittorie celebrate, la gloria archiviata, i proventi pappati, gli ammalati ingannati, le mogli bionde cambiate in numero di tre, più o meno una ogni due Tour vinti. Ho pensato che è bene lasciare un enorme buco nell’albo d’oro a futura memoria ma che si potrebbe assegnare d’ufficio a Pantani la vittoria nei Tour del 2004 e 2005, per avere pagato con la vita colpe sulle quali in America si sbevazzava a tradimento. Ho notato che l’ipocrisia generale degli ultimi tredici anni ha fatto sì che alla delinquenza di Armstrong fossero dedicate lenzuolate e al ritiro di Alessia Filippi un trafiletto appena, quando invece sarebbe stato più giusto l’inverso: quattro parole per Armstrong (“ciò che già sapevamo”) e lenzuolate di elucubrazioni sulla Filippi. Ho scoperto di non essermi reso conto che la Filippi fosse così giovane, venticinque anni addosso e sette meno di me che a stento mi reggo a galla. Ho ritenuto che il suo indubbio talento natatorio fosse stato in qualche modo oscurato dal non avere mai fatto pubblicità alle bollette o ai biscottini. Ho capito che la vera soddisfazione dell’agonismo non è la vittoria, foss’anche per sette anni consecutivi, ma la sera in cui vai a coricarti sapendo che al mattino dopo non dovrai farlo più. Ho meditato sulla differenza fra chi si ritira vecchio a pancia piena, accortosi che per bravura o per inganno non avrebbe potuto combinare di più in carriera, e chi chiude il rubinetto da giovane, per scelta consapevole, pur sapendo di non avere bevuto tanto quanto ci si aspettava in relazione al talento e di potere, un giorno futuro, avere ancora sete. Ho immaginato Alessia Filippi che torna a casa e non deve più pensare a tempi o bracciate perché ha scelto di essere una persona normale. Ho dedotto che oggi come oggi un suo libro che spieghi perché e percome sarebbe trenta volte più interessante di tutta la bibliografia di e su Armstrong e perfino dei libri di Totti, per tacere di Paolo Giordano. Ho rimpianto di non avere il numero di Alessia Filippi perché le avrei scritto questo messaggino: “Auguri, bella pesciolona. La tua vita inizia domani; finora era solo allenamento”.
[L'altra metà della rubrica, quella di Francesco Savio, si trova su Quasi Rete.]
sabato 13 ottobre 2012
Anche se il lettore non volesse accorgersene, la coerente impostazione editoriale che trasforma il giornale in libro è evidente dalla scelta delle foto, impaginate in maniera tale da scandire l’evolversi del ragionamento attorno al Concilio secondo un evidente criterio di unità stilistica che va oltre la diversa identità dei fotografi (Fusar, Barbey, Pallottelli, Dolcetti e Fedele Toscani). Parte dell’apparato iconografico sembra fatto apposta per eternare in alcune espressioni la pochezza umana di fronte agli affari interni dello Spirito Santo: il volto ottuso di alcuni fedeli; la mossa vezzosa di un francescano in posa; il rictus del presidente francese Vincent Auriol; il disagio di Fanfani in alta uniforme; lo sguardo smarrito di Leone di fronte a una cerimonia di cui non riesce a prevedere la durata.
Su Qwerty, il blog di Tempi che recensisce i giornali, oggi è il turno del numero sul Concilio Vaticano II de L'Europeo. Ospite d'onore, Luigi Barzini junior.
Su Qwerty, il blog di Tempi che recensisce i giornali, oggi è il turno del numero sul Concilio Vaticano II de L'Europeo. Ospite d'onore, Luigi Barzini junior.
lunedì 8 ottobre 2012
Finalmente domenica!
Settima giornata, 7 ottobre 2012
Ieri sera il treno da Porta Venezia a Pavia ha accumulato un ritardo pari all’intero tragitto quindi ho avuto tutto l’agio di leggere un libro che avevo comprato per caso, curiosità e sbaglio essendo stato tratto in inganno dal titolo Questioni delicate che ho affrontato dall’analista, o cose del genere. Non ricordo l’autore. Fatto sta che leggendo leggendo mi sono imbattuto nell’unica frase che meritasse di essere ricordata, in realtà un dialogo: “Quand’è che la gente smette di fare quello che fa perché ci crede e continua a farlo per i motivi più strani?” “Credo verso i trent’anni”.
Sarà che fra un paio di mesi ne compio trentadue ma nel preciso istante mi sono reso conto che avevo appena passato l’ora più gradevole della settimana, a casa di savio a guardare una replica di Mai Dire Gol risalente al dicembre 1998. Guardare la tv al sabato pomeriggio, una cosa che non facevo dai tempi del liceo, appunto quell’anno lì. Guardare Mai Dire Gol e accorgermi che quindici anni fa, ma anche venti, era ancora possibile parlare di calcio a un livello diverso; non solo più alto semanticamente e creativamente ma proprio in senso letterale, ossia su un piano differente rispetto al modo uno e trino nel quale il lessico sportivo viene declinato oggidì da Sky, Mediaset Premium e Rai Sport (senza dimenticare Sportitalia). Fate conto che avevamo appena finito di guardare un minuto del campionato di pallavolo, con Antinelli & Lucchetta che si profondevano in commenti di questo tenore: “Fiore muove le braccia a tergicristallo e deposita non un petalo ma un cactus nel campo avversario”. L’alternativa era continuare a guardare la replica a oltranza di Wellington-Sidney.
E così Mai Dire Gol, visto con gli occhi stanchi di oggi, sembra un miracolo di felicità stilistica tanto quanto mi sembra miracolosa l’ipotesi, l’involontario ricordo, la madeleine dei pomeriggi del liceo in cui o guardavo la tv o facevo i compiti o leggevo e scrivevo senza che nulla mi pesasse addosso, vivendo insomma con la stessa felicità stilistica per la quale la Gialappa’s Band riusciva a rinchiudere in una sola inquadratura Crozza, Bisio, Gioele Dix e la Littizzetto senza far pensare che stessero esagerando. La stessa, grossomodo, che ho visto nei gesti bensì impacciati di un giovane ex calciatore, che per convenzione chiameremo Mimmo, mentre tentava di aprire il portone di un albergo con un’impaziente amica di fianco. Ecco, io nel 1998, ma anche nel ’97 e nel ’96, facevo cose nell’incrollabile consapevolezza che mi avrebbero portato, un giorno, alla gloria al denaro al successo e all’opportunità di portarmi in albergo chi mi pareva come l’ammirevole invidiabile Supermimmo. La prospettiva mi allettava e la fatica svaniva; facevo tutto ciò che facevo perché mi piaceva e ci credevo. Oggi so che gloria e successo non sono arrivati, i soldi men che meno, in albergo ci vado da solo, vorrei vivere nel 1998 perpetuo, ho passato i trent’anni e continuo a fare cose per i motivi più strani, che non mi sono del tutto chiari.
[Il resto della rubrica, con la metà di Francesco Savio, si trova su Quasi Rete.]
Settima giornata, 7 ottobre 2012
Ieri sera il treno da Porta Venezia a Pavia ha accumulato un ritardo pari all’intero tragitto quindi ho avuto tutto l’agio di leggere un libro che avevo comprato per caso, curiosità e sbaglio essendo stato tratto in inganno dal titolo Questioni delicate che ho affrontato dall’analista, o cose del genere. Non ricordo l’autore. Fatto sta che leggendo leggendo mi sono imbattuto nell’unica frase che meritasse di essere ricordata, in realtà un dialogo: “Quand’è che la gente smette di fare quello che fa perché ci crede e continua a farlo per i motivi più strani?” “Credo verso i trent’anni”.
Sarà che fra un paio di mesi ne compio trentadue ma nel preciso istante mi sono reso conto che avevo appena passato l’ora più gradevole della settimana, a casa di savio a guardare una replica di Mai Dire Gol risalente al dicembre 1998. Guardare la tv al sabato pomeriggio, una cosa che non facevo dai tempi del liceo, appunto quell’anno lì. Guardare Mai Dire Gol e accorgermi che quindici anni fa, ma anche venti, era ancora possibile parlare di calcio a un livello diverso; non solo più alto semanticamente e creativamente ma proprio in senso letterale, ossia su un piano differente rispetto al modo uno e trino nel quale il lessico sportivo viene declinato oggidì da Sky, Mediaset Premium e Rai Sport (senza dimenticare Sportitalia). Fate conto che avevamo appena finito di guardare un minuto del campionato di pallavolo, con Antinelli & Lucchetta che si profondevano in commenti di questo tenore: “Fiore muove le braccia a tergicristallo e deposita non un petalo ma un cactus nel campo avversario”. L’alternativa era continuare a guardare la replica a oltranza di Wellington-Sidney.
E così Mai Dire Gol, visto con gli occhi stanchi di oggi, sembra un miracolo di felicità stilistica tanto quanto mi sembra miracolosa l’ipotesi, l’involontario ricordo, la madeleine dei pomeriggi del liceo in cui o guardavo la tv o facevo i compiti o leggevo e scrivevo senza che nulla mi pesasse addosso, vivendo insomma con la stessa felicità stilistica per la quale la Gialappa’s Band riusciva a rinchiudere in una sola inquadratura Crozza, Bisio, Gioele Dix e la Littizzetto senza far pensare che stessero esagerando. La stessa, grossomodo, che ho visto nei gesti bensì impacciati di un giovane ex calciatore, che per convenzione chiameremo Mimmo, mentre tentava di aprire il portone di un albergo con un’impaziente amica di fianco. Ecco, io nel 1998, ma anche nel ’97 e nel ’96, facevo cose nell’incrollabile consapevolezza che mi avrebbero portato, un giorno, alla gloria al denaro al successo e all’opportunità di portarmi in albergo chi mi pareva come l’ammirevole invidiabile Supermimmo. La prospettiva mi allettava e la fatica svaniva; facevo tutto ciò che facevo perché mi piaceva e ci credevo. Oggi so che gloria e successo non sono arrivati, i soldi men che meno, in albergo ci vado da solo, vorrei vivere nel 1998 perpetuo, ho passato i trent’anni e continuo a fare cose per i motivi più strani, che non mi sono del tutto chiari.
[Il resto della rubrica, con la metà di Francesco Savio, si trova su Quasi Rete.]
lunedì 1 ottobre 2012
Ieri mattina, all’angolo fra corso Cavour e via XX
Settembre, una ragazza mi ha fermato mentre stavo andando dalla libreria alla
biblioteca e mi ha chiesto: “Ciao! L’ultimo libro che hai letto?”. Trattandosi
di una di quelle importune scritturate per procacciare sottoscrizioni di
abbonamenti a un qualche club del libro da parte di ignari passanti, l’ho
squadrata sì con mestizia ma anche con malcelato disprezzo verso il suo
mestiere, i suoi modo e la sua persona, e le ho risposto: “Io lavoro coi libri,
non ti conviene”. Avrà capito che faccio il libraio, o forse il rappresentante
di un club del libro rivale, e l’ho lasciata lì coi suoi moduli in mano sotto
la pioggia battente.
Al pomeriggio, mentre guardavo su Rai3 la pioggia battente
che cadeva sul Giro di Lombardia perché erano saltate le immagini dei
corridori, e mentre mi chiedevo se valesse la pena di stare a guardare le gocce
televisive sull’asfalto del Lungolario di Lecco anziché quelle che dal vivo
bagnavano i circostanti tetti di Pavia, mi sono reso conto che se fossi stato onesto
avrei dovuto così rispondere all’ignota imbonitrice:
“L’ultimo libro che ho letto, finito appena ieri, è The Devil’s Dictionary di Ambrose
Bierce, nell’edizione (Penguin, Harmondsworth, 1971, non in vendita negli Stati
Uniti e in Canada) che include anche le voci scoperte da Ernest Jerome Hopkin e
presenti nel periodico ottocentesco sanfrancischese “The News Letter” ma non
nell’edizione in volume del 1911. Questo pomeriggio, compatibilmente con gli
impegni di passività ciclistica e calcistica, ho invece la ferma intenzione di
iniziare Putain di Nelly Arcan
(Seuil, Paris, 2001), una mondana quebecchese versata nello stream of
consciousness. A dire il vero, per insindacabili questioni di lavoro, sto
leggendo anche I progressi della ragione:
vita di Pietro Verri di Carlo Capra (Il Mulino, Bologna, 2002), il Dictionnaire portatif des Conciles di
Pons-Augustine Alletz (Paris, chez la veuve Didot, 1758) , l’Istoria del Concilio di Trento del
cardinale Pietro Sforza Pallavicino (Roma, 1657) e soprattutto l’Istoria del Concilio tridentino di
Pietro Soave Polano alias Paolo Sarpi, non già nell’edizione originale
londinese del 1619 ma nella traduzione francese di Giovanni Diodati sotto il
titolo Histoire du Concile de Trente eccetera
eccetera (Genève, chez Chouet, 1635, seconda edizione).
“Devo però ammettere che con l’andare del tempo leggo e
sottolineo e glosso sempre più meccanicamente e svogliatamente e faticosamente
perché, anziché pensare a cosa c’è scritto, sempre più spesso mi sorprendo a
riflettere così poniamo caso che gli editori delle opere di Voltaire taglino
tutte le mie note a pie’ di pagina per ragioni di spazio, che i giornali
smettano d’emblée di pubblicarmi, che i pamphlet che ho già pronti da tempo
(uno dei quali con contratto regolarmente sottoscritto e regolarmente disatteso
dall’editore) restino a furia di promesse vaghe eternamente rinchiusi nel mio
computer, e che non riesca nemmeno a pubblicare uno straccio di romanzo come un
Carofiglio qualsiasi; allora, nel caso, avrei ancora bisogno di libri?
Nossignora, dico io, avrei piuttosto bisogno di comprare uno specchio, bello,
nuovo, ampio e luminoso, così da poter alfine passare il resto dei miei giorni
a sputarmi in faccia, manco fossi Zdenek Zeman”.
[La rubrica completa, con la metà di Francesco Savio, si trova come sempre su Quasi Rete.]
di che si parla?
almanacco del giorno stesso,
auto da fé,
la scatola nera
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