lunedì 31 agosto 2009

Berlusconi, Lily Allen e la scoliosi

(Gurrado per Quasi Rete)

Buongiorno, sabato abbiamo assistito alla fine del Milan di Berlusconi. Non dico tanto per il risultato – che alla fine è la soluzione ragionevole di quando una squadra molto più debole gioca in dieci contro una squadra molto più forte – quanto per la diffusa sensazione da impero alla fine della decadenza che si respirava a San Siro e il cui odore è arrivato, parlo per me, fino al vallo di Adriano e ben oltre. Il Milan di Berlusconi, prima ancora che una squadra, era una idea. Il binomio “vincere e divertire” è stato il suo verbo. Le vittorie sono arrivate, inutile elencarle, il divertimento pure: quelli che come me sono stati bambini negli anni dell’acme di Arrigo Sacchi si porteranno nella tomba qualcosa che è mancato a chi è cresciuto negli anni dell’acme di Cosmin Contra o di Egidio Calloni. Forse solo quelli che hanno visto Nordhal, forse solo quelli che hanno visto Rocco possono capire. Cambiando allenatori, tesserati, modulo e facendo inevitabili errori (Tabarez, Terim) il Milan è stato percorso da una costante sottile linea rossonera dal momento in cui Berlusconi è disceso dal cielo fino a sabato sera.

Il momento in cui è finito il Milan di Berlusconi è stata l’espulsione folle di Rino Gattuso. Lo scrivo perché le pagine di internet rimangono sempiterne e magari fra due settimane ci si sarà dimenticati della dinamica: il calabroscozzese era franato addosso a Eto’o lanciato in contropiede; ne aveva ricavato il rigore dello 0-2 e una misericordiosa ammonizione, poiché da ultimo uomo dice il regolamento che si va espulsi; non passano due minuti e s’infortuna; chiede prontamente il cambio e, nel mentre che Leonardo fa riscaldare ben bene Seedorf, pensa di farsi giustiza da solo e si guadagna la meritata espulsione gambizzando il neofita Sneijder nel corso di un innocuo scambio a centrocampo. Mi piacerebbe sapere in che lingua ha bestemmiato Seedorf, che è olandese originario del Suriname e già spagnolo prima di trapiantarsi in Italia (Leonardo, lui, ne parla sette e pur lindo e pinto com’è le avrà usate tutte). Anche nel 1990, a Verona, il Milan impazzì e ricavò quattro espulsioni in un sol colpo: Costacurta, Rijkaard, Van Basten e lo stesso Sacchi. Si notò che il Milan di Sacchi non aveva mai visto un cartellino rosso prima d’allora; ma all’epoca la crisi di nervi collettiva fu una protesta contro l’antigioco del Verona, i mezzucci del Napoli della monetina di Alemão, l’arbitraggio scandaloso e isterico di Lo Bello junior – e quindi l’affermazione ulteriore della teoria di Berlusconi, quella stessa che l’anno dopo sconfessò Galliani per aver ritirato la squadra dalla Coppa dei Lampioni (fulminati) al Vélodrome di Marsiglia. L’improvvisa follia di Rino Gattuso significa invece che non c’è più voglia né di vincere né di divertire.

Che poi a Berlusconi, glielo dico da (magari) amico, vendere il Milan converrebbe oltremodo. Innanzitutto non gli conviene legare la propria immagine a una squadra ormai perdente, sia nei risultati (fatta salva la fortuita eccezione del 2007) sia nella gestione. Gli conviene fidarsi di Bossi più che di Ronaldinho. Se poi intende diventare Presidente della Repubblica, o quanto meno candidarsi a rappresentare istituzionalmente anche quegli italiani che non lo soffrono affatto, conservarsi la zavorra di una squadra di calcio – necessariamente parziale dunque, necessariamente sottoposta ad alterne vicende settimanali che mal si sposano con stabilità e credibilità – sarebbe deleterio. Un Milan nuovo, con tutt’altro proprietario e tutt’altra organizzazione, digerirebbe più facilmente rovesci come quello del derby perché non sarebbe più schiacciato dal peso di vent’anni di gloriosa e impegnativa storia recente e sarebbe libero di fare quello che gli pare: anche non qualificarsi per la Coppa dei Campioni, anche andare in B se necessario.

E come ho fatto a vederlo, io che sono in carcere et vinculis, questo derby a distanza siderale? Facile: dopo tre anni di sosta, curiosamente coincisi con il dominio dell’Inter, una rete televisiva inglese ha ricominciato a trasmettere la Serie A. Prima era Channel4 (la stessa del Grande Fratello, c’è da preoccuparsi), ora è la ESPN (la stessa delle repliche delle partite di cinquant’anni fa, c’è comunque da preoccuparsi). In collaborazione con ESPN è peraltro uscito a queste latitudini un numero speciale di Calcio Italia, il mensile che da anni tenta inutilmente di spiegare il nostro calcio agli Inglesi. Il numero costa quattro sterline, ovvero due dobloni, e presenta i rooster della Serie A con notevole dovizia di dati e immagini. È, fatte le debite proporzioni geografiche, un’arte della quale s’è un po’ perso il gusto in Italia, ad esempio quei meravigliosi speciali d’inizio stagione con cui il TV Radiocorriere ha segnato i miei anni ’80 e che ora non esistono più. Calcio Italia è andato solo un po’ in confusione con la Serie C1 che cambia nome (già da un anno, in verità); visto l’andazzo che favorisce il calcio spagnolo l’ha istintivamente ribattezzata “primera divisione”.

Ma spiegare il nostro calcio agli Inglesi è cosa ardua, quasi quanto chieder loro di distinguerci dagli Spagnoli. Di là dal fatto che col termine “calcio” intendono uno sport radicalmente differente – com’è stato dimostrato a sufficienza dagli ottavi di finale di Coppa dei Campioni l’anno scorso – loro alla fin fine prediligono il cricket. Per chi non avesse le idee chiare al riguardo, il cricket è il baseball con la scoliosi. Consiste in una serie di persone vestite tutte allo stesso modo, e comunque in maniera più adatta a un cocktail fra ex compagni di college, i quali danno mazzate a una pallina cercando di colpire parti nevralgiche del corpo mortale degli avversari – o dei compagni, è indifferente. L’arbitro è detto umpire e il suo compito precipuo consiste nel preparare il tè e berselo. A un certo punto qualcuno dei partecipanti urla “wicket, wicket!”, conseguendo così un punto per la propria squadra – o per gli avversari, è indifferente. Sarebbe come se nel calcio si segnasse solo e soltanto quando qualche zuzzurellone si mettesse a urlare “stralcio, stralcio!”. Il cricket non va confuso col croquet, che com’è noto viene giocato con ricci al posto delle palline, pellicani al posto delle mazze e la Regina di Cuori al posto dell’umpire (“Tagliatele la testa!”). Si tratta di uno sport praticato in nazioni altamente civilizzate come l’Australia, l’India, il Pakistan, lo Sri Lanka, il Ceylon, il Catai, la Kamchatka, Atlantide e la Gran Bretagna. Le partite durano cinque giorni, vince chi sopravvive.

In realtà solo i test match durano cinque giorni; ci sono anche partite che hanno una durata ragionevole ma annegano nell’indifferenza generale. Un esempio di test match, anzi il più importante, è terminato domenica scorsa e vedeva impegnata la Gran Bretagna, con il caratteristico pullover bianco, contro l’Australia, con il caratteristico pullover bianco. Gli Inglesi si distinguevano perché avevano i denti cariati. Gli Australiani perché saltavano e se ho visto bene avevano coda e marsupio. A giudicare dal fatto che lunedì mattina i quotidiani seri hanno dedicato dodici pagine ciascuno alla partita ho dedotto che avesse vinto la Gran Bretagna, peraltro facilmente riconoscibile dal caratteristico pullover bianco. Il fatto che martedì tutti i quotidiani fossero usciti con lo stesso inserto speciale sulla partita della settimana prima ha rafforzato la mia convinzione al riguardo.

A uno sguardo meno superficiale del mio, ossia quello di chiunque altro, risulta che il test match finito domenica scorsa si chiama “The Ashes”, ossia le ceneri, esattamente come quelle del mercoledì – si sa che gli Inglesi sono un popolo spensierato e incline a pensieri consolatori. Perché mai? Perché il 29 agosto 1882 la Gran Bretagna, o l’Inghilterra, insomma quelli coi denti cariati avevano perso contro l’Australia, o l’Oceania, insomma quelli con coda e marsupio. Era la prima volta che ciò avveniva su suolo britannico, per di più nel sacro stadio denominato Oval, il Wembley del cricket. La mattina dopo The Sporting Times uscì con un enorme annuncio mortuario, che recitava: “In affezionata memoria / del / cricket inglese / perito all’Oval / il / 29 agosto, 1882, / intensamente rimpianto da una vasta cerchia / di amici e conoscenti. / R(iposi) I (n) P(ace) / Il corpo verrà cremato e le / ceneri verranno traslate in Australia”. Lunedì scorso sul Times (ma penso che fosse una pubblicità) è stato riprodotto lo stesso annuncio ma a geografia inversa: in affezionata memoria del cricket australiano le cui ceneri verranno traslate in Inghilterra. Non vi dico le risate.

In tutto ciò, la settimana scorsa s’è presentata all’Oval la cantante di filastrocche sentimentali Lily Allen e ha coscienziosamente seguito i cinque giorni di pullover bianchi tenendo una pallina da cricket (non già un riccio) in mano. Si è anche lamentata del fatto che i pullover degli inglesi fossero troppo bianchi – li avrebbe voluti invece più color crema, perché avrebbero dato maggior senso di familiare sporco. Ha dichiarato infine che lei, che è di nuovissima generazione essendo nata nel 1985, non sa che farsene del cricket moderno che dura tre orette al massimo, invece smania per i cinque giorni di test match e in particolare per The Ashes perché sono così carichi di tradizione. La medesima Allen qualche anno fa aveva profuso il singolo LDN, nel video del quale andava in giro saltellando (pur non essendo australiana) al grido di “everything seems nice”: passava sopra una cicca di sigaretta e vedeva invece una caramella, oppure scorgeva tre monete d’oro e in realtà aveva appena scansato una merda fumante. Abbiamo capito perché le piace il cricket.

venerdì 28 agosto 2009

L'anacronismo è moderno

(Gurrado per Il Foglio)

Lo scrittore è padrone del tempo? Tiziano Scarpa in coda al suo breve Stabat Mater aggiunge sei pagine di notazioni tecniche in cui elenca le fonti del romanzo, le migliori incisioni di Vivaldi e perfino i libri potenzialmente simili al proprio che non ha letto per non lasciarsi influenzare. Poi rivela, a sorpresa per il lettore a digiuno di storia della musica: “Il mio libro è colmo di clamorosi anacronismi”. Tanto per dire, quando il giovane Vivaldi insegnava alle fanciulle dell’Ospedale della Pietà di Venezia non aveva affatto avuto il tempo di scrivere l’oratorio Juditha Triumphans, tanto meno le Quattro Stagioni. Ma poi, dopo aver mostrato l’orgoglio di certificare che la sua storia è “costellata di gravi falsificazioni”, Scarpa diventa remissivo e chiede “indulgenza agli storici e agli estimatori di Vivaldi”, spiegando piuttosto timidamente che s’è limitato a “fantasticare” e che s’è basato su una “suggestione storica” in luogo della “verosimiglianza documentaria”.

Altro nuovo romanzo Einaudi: in Accabadora Michela Murgia fa riferimento all’intervento dei cavalieri di Vittorio Veneto nel corso della Prima Guerra Mondiale. Io non me n’ero nemmeno accorto, preso dalla trama: è stata la Murgia stessa a farmi notare che i cavalieri di Vittorio Veneto furono istituiti nel 1968 e che a maggior ragione nel bel mezzo della Prima Guerra Mondiale era ben difficile anche solo immaginarseli. La Murgia non ha voluto evidenziare l’anacronismo in una postilla interna al volume ma ha lasciato che balzasse da sé agli occhi del lettore (se sono tutti distratti come me, sta fresca). Qualcuno ha effettivamente protestato ascrivendo l’errore agli editor dell’Einaudi ma la Murgia è intervenuta in prima persona dicendosi mossa “dallo stesso intento simbolico con cui Picasso dipinse Guernica, il meno realistico dei ritratti della guerra e ciò nonostante il più reale”.

Da un lato Scarpa che si azzarda ma poi si vergogna; dall’altro la Murgia che si propone di fare delle date belliche sbagliate una sua firma alla Hitchcock perché, dice lei, non possono esistere date giuste per guerre ingiuste. In entrambi i casi s’è perso un po’ il gusto per l’anacronismo fine a sé stesso, che poi è quello più gustoso per il lettore astuto. Fatti salvi i romanzi interamente controfattuali - ad esempio Contro-passato prossimo di Guido Morselli (1975) o L’inattesa piega degli eventi di Enrico Brizzi (2008) - l’anacronismo più arzigogolato e perverso è calato dalla Francia. Raymond Queneau ambienta Troppo buoni con le donne (1947) durante la sollevazione irlandese della Pasqua 1916 e dà ai protagonisti nomi tratti di peso dall’Ulisse, che si svolge a Dublino dodici anni prima. Dopo di che lascia che a uno dei personaggi sfugga detto: “Non per niente siamo la patria del James Joyce” salvo commentare in nota: “Qui c’è un leggero anacronismo ma Caffrey, essendo analfabeta, non poteva sapere che nel 1916 l’Ulisse non era ancora stato pubblicato”.

Sempre in ambito joyciano, per solutori più che esperti è l’anacronismo incluso da Anthony Burgess nel suo ambiziosissimo Gli strumenti delle tenebre (1980, ormai tragicamente fuori commercio) che attraversa da un capo all’altro la storia culturale del XX secolo. La voce narrante racconta di avere avuto la sua prima esperienza omosessuale da adolescente, con l’affermato poeta irlandese George Russell, nel pomeriggio del 16 giugno 1904; se non che nell’Ulisse Joyce mostra Russell che alla stessa ora dello stesso giorno passeggia lungo il Liffey con una signorina. “La letteratura gli aveva offerto un alibi immortale”, commenta Burgess, fingendo di dimenticare che Ulisse e Gli strumenti delle tenebre sono due romanzi e come tali possono contenere due realtà storiche in contraddizione fra loro ma entrambe vere.

La qualità di un romanzo storico si misura dal coraggio dei suoi anacronismi. La narrativa è più forma che contenuto, quindi non dev’essere calibrata sulla pedagogia ma deve presupporla. Dall’errore cercato e ammiccante, o dalla riscrittura maliziosa dei dettagli della storia, lo scrittore aumenta la propria credibilità perché si eleva al di sopra della mera riproduzione di dati di fatto – altrimenti a fare i romanzieri sarebbero buoni tutti. Temere che un ragazzino legga Scarpa e cresca nella convinzione che Vivaldi abbia composto le Quattro Stagioni vent’anni prima del dovuto, o temere che legga la Murgia e deduca che a Vittorio Veneto abbiano combattuto i cavalieri di Vittorio Veneto, è come precludergli la lettura di una nota poesia perché i botanisti (e Giovanni Pascoli) insegnano che le rose fioriscono a maggio e le viole a marzo: quindi la donzelletta che vien dalla campagna non può affatto recare in mano un mazzolin di entrambe.

giovedì 27 agosto 2009

Il burkini è provinciale

(Gurrado per Il Foglio)

Niente, nessuno mi leverà dalla testa che il coro di prefiche che s’è levato in difesa dell’indossatrice di burkini, vittima di presunti atti di discriminazione in una piscina di Verona, fosse in realtà dovuto al timore di fare brutta figura all’estero. Siamo abbastanza provinciali da temere che a furia di leggere Repubblica i giornalisti stranieri si convincano che l’Italia non sia una democrazia matura capace di discernimento in materia di integrazione culturale nonché di valorizzazione del femminismo, di laicità dello Stato, in materia insomma di tutte queste amenità. Se la cosa può tranquillizzare la coscienza patria, in Inghilterra la storia del burkini di Verona è passata del tutto inosservata: anche perché i tre principali quotidiani broadsheet – Times, Guardian e perfino l’Independent – si erano pochi giorni prima diffusi sul caso simile avvenuto in una piscina di Parigi.

Stavolta però le prefiche del multiculturalismo hanno sbagliato esempio. Pochi giorni fa un autorevole quotidiano britannico che inizia con la G, facendo riferimento a un autorevole quotidiano italiano che inizia con la R, ha citato un caso di discriminazione ben più grave: “Gli Italiani recalcitrano di fronte all’abitudine cinese di friggere le meduse”, sparava il titolo. Nel trafiletto Tom Kington, corrispondente da Roma del Guardian, spiegava che sulla spiaggia di Marina di Pietrasanta i cinesi “quest’anno si sono organizzati”: vanno al largo, acchiappano meduse in quantità, le rovesciano sulla spiaggia, le impanano, le friggono e buon appetito. La perplessità dei bagnanti è agli occhi di Kington una testimonianza “della fatica che fa l’Italia ad accettare le abitudini culinarie della sua sempre crescente comunità di immigrati”.

Notoriamente in Inghilterra vige il principio di non lamentarsi per nessun tipo di comportamento, ricevendone in cambio il diritto a fare ciò che si vuole senza che nessuno ne chieda ragione. Questo ha giustificato secoli di eccentricità individuale e si adatta facilmente all’assimilazione dei costumi collettivi di intere minoranze. Per lo stesso principio un mesetto fa, aspettando l’autobus, ero stato tacitamente redarguito da chi era in fila dietro di me, avendo osato sghignazzare al passaggio di una signorina con lo zaino a forma di bara: un esagono irregolare, nero e con una croce sopra. I signori in fila erano altrettanti Tom Kington. Pensavano che non stesse bene criticare (o peggio ancora deridere) una trovata un po’ macabra e un po’ squallida, e che parimenti non starebbe bene ritenere che friggere meduse in spiaggia sia un’abiezione. O che le meduse fritte siano una porcheria.

Il sillogismo di Tom Kington è facilmente decrittabile: l’idea che i cinesi mangino porcherie è talmente radicata da essere un luogo comune; quindi criticarli presumendo a priori che le meduse fritte siano una porcheria li riduce a combaciare col luogo comune; quindi gli Italiani sono razzisti e non capiscono che uno può mangiare tutte le meduse che vuole. In compenso nello stesso articolo Kington riferiva che lo stupore degli italiani di Marina di Pietrasanta era tale che, al vedere i cinesi impegnati nella sofisticata operazione culinaria, i bagnanti indigeni “hanno sputacchiato qua e là i loro sandwich alla mozzarella”. Questo evidentemente non è un luogo comune.

L’Inghilterra, culla e tomba del multiculti, sopravvive riducendo tutte le sue minoranze a uno stereotipo facilmente digeribile (a differenza delle meduse fritte). Mentre gli Italiani sono talmente affascinati dal diverso da voler imporselo contro la propria stessa volontà o buon senso, gli Inglesi lo ammirano come una tigre in gabbia. Per essere accettato, ognuno deve tenersi nei confini di ciò che ci si aspetta che faccia: gli Italiani soprattutto. Non ci credete? Leggete sull’Observer di domenica scorsa, a pagina 23, il reportage di Henry Porter sul palio di Siena. A differenza del pezzo di Kington è scritto in buona fede. Porter è sinceramente estasiato di fronte al talento degli Italiani per le mascherate (“the Italian gift for costume”) tanto da ergersi a difensore del palio a fronte dei “nordeuropei che parlerebbero piuttosto di isteria e machismo”. Porter è colpito da come il palio sia una parentesi pittoresca all’interno di un’eccellente vita quotidiana, che a Siena si attua nella “alta partecipazione al volontariato” e soprattutto nel “sustainable e-government”, qualsiasi cosa significhi. Il Palio è un bel gioco perché dura poco: infatti “nel giro di mezz’ora su quello stesso terreno s’imbandiscono le tavole e arriva la pizza”. Non riferisce se si imbracci anche il mandolino.

Senza parole

mercoledì 26 agosto 2009

Rivoluzione a Oxford

Fra i vari vantaggi d'essermi trasferito nell'estrema periferia oxoniense annovero quello di trovarmi sull'inchianata di una collinetta: così che in caso di alluvione - verosimile visto che è il 25 agosto e piove già da due giorni di fila - Oxford verrebbe sommersa con tutti i suoi turisti giapponesi e io no. Anzi mi si preparerebbe una comoda via di fuga verso Londra e soprattutto verso l'aeroporto di Heathrow: perché, guardiamoci in faccia, che resto a fare se Oxford si trasforma in una fogna a cielo aperto? C'è dunque da augurarsi che la pioggia continui, né a occhio pare che voglia smettere prima di aprile o maggio prossimo.

Nel frattempo bisogna ingannare l'attesa, ad esempio prendendo l'autobus. High Street, la strada principale del centro di Oxford, è intasata per lavori e così finisce spesso che gli autobus si movano dalla fermata e trenta centimetri dopo restino immobili in colonna, pochissimo discosti dal marciapiede, in attesa di tempi migliori. In quell'eterno momento è costume che arrivi un passeggere che voglia prendere l'autobus che in teoria s'è mosso ma in realtà sta fermo. Prima o poi capita a tutti. Ieri è capitato a me.

Ed è quindi capitato che il guidatore d'autobus non abbia trovato miglior maniera di lenire la propria frustrazione per essere nato inglese che fingere di non vedere me e un altro paio di poveracci che ci sbracciavamo attaccati alla portiera, chiedendogli di aprirla. Ciò gli avrà causato un torcicollo almeno, stante l'innaturalissima posizione che era costretto ad assumere per non incrociare giammai il nostro sguardo; ché noi, una volta capito che non c'erano santi (d'altronde è un Paese protestante), avevamo ognuno singolarmente in testa di rivolgergli il meritato applauso e farlo sentire una cacchetta coram populo, oltre che porgergli il dorso delle nostre mani con le dita a forma di V, che qui è insulto speciosissimo e lavabile col sangue - sempre che in Inghilterra si lavi mai qualcosa. Avesse pure voluto scendere a menarci, avrebbe dovuto aprire la portiera e saremmo saliti d'agilità.

I pavidi occupanti dell'autobus medesimo si sono ben guardati dallo spodestare il fetente, impadronirsi del mezzo, scardinare la cassetta dei biglietti e dar fuoco all'automezzo così, giusto perché è bello rosso e quindi ben si sposa con le lingue di fiamma. Nell'impossibilità di coinvolgere simili ignavi in un'anticipazione degli effetti dell'alluvione (continua a piovere, eh, intanto) mi son fatto venire un'idea migliore per colpire sulle rotule l'intero sistema di consuetudini e non-possa dei britannici, questi nazisti così educati.

Il loro è un sistema ipercapitalistico: produce merci che producono consumatori che producono altre merci che producono altri consumatori in un sistema di bisogni superflui sempre crescenti. Non esiste l'anima e nemmeno la rinunzia. L'autista non apre la portiera perché teme che uno degli occupanti dell'autobus, avendo pagato regolare biglietto, rivendichi il proprio diritto alla partenza istantanea anche contro ogni evidenza, anche se la strada è intasata e far salire tre poveracci in più non rallenta affatto l'operazione di star fermi. Di conseguenza, se come me vivete a Oxford, la prossima volta che vi capita una cosa del genere - può essere l'autista che non apre la portiera, ma anche il libraio che vi chiede di fare due chilometri di fila prima di cambiare una banconota urgente, oppure la cameriera che vi informa che l'offerta sulla cena al pub è valida solo fino alle cinque del pomeriggio - regolatevi così: siccome avrete sicuramente visto in qualche vetrina un qualcosa che vi stuzzica e v'incuriosisce, e siccome costando tutto parecchio vi starete domandando se è il caso di comprarlo o meno, non compratelo. Sappiate che la vostra rinunzia sarà la miglior punizione per l'autista infingardo.

Loro si aspettano una reazione immediata e per questo si irrigidiscono, forti dei loro codicilli profusi in innumerevoli notti trascorse senza scopare. Voi lasciate correre. Poi la volta successiva che un Inglese vi chiede soldi, anche se non ha niente a che vedere con l'Inglese di prima, non dateglieli. Lasciate che la merce marcisca in vetrina. Lasciate che i camerieri siano costretti a vomitare tutti i pasti avanzati che hanno dovuto inghiottirsi, che i librai facciano ampi falò dei romanzi in superofferta, che le carte plastificate per l'abbonamento ai trasporti urbani servano tutt'al più a giocare a briscola.

Tutti i soldi che non spenderete andranno a buon fine. Non acquistando un vestito impedirete al commesso di cenare al pub e la cameriera non potrà comprare nessun romanzo costringendo il libraio a fare a piedi il tratto di strada che avrebbe più comodamente percorso in autobus. L'autobus si svuoterà via via e dove ne erano necessari tre finirà per esserne più che sufficiente uno. Due autisti verranno licenziati: uno sarà innocente, ma l'altro rimpiangerà di non avervi aperto la portiera quando avrebbe potuto farlo.

martedì 25 agosto 2009

La Repubblica delle donne (nude)

(Gurrado per Tempi)

L’anno prossimo cade il quarantesimo anniversario della pubblicazione di Radical Chic, feroce pamphlet in cui Tom Wolfe si accanisce contro “il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto”; ma Repubblica sta facendo di tutto per anticipare le celebrazioni. All’epoca, nel 1970 a New York, erano le Pantere Nere della protesta razziale a venire introdotte nel rarefatto habitat degli intellettuali altoborghesi, per venire addomesticate con un “bocconcino al roquefort ricoperto di noci tritate” e tacitare così la perpetua sete di generici buoni sentimenti che anima e tormenta i progressisti perbene. Oggi da New York ci si trasferisce a Bari (chi si accontenta, mai come in questo caso, gode) e Repubblica, non disponendo presumibilmente né di bocconcini al roquefort né di noci tritate, offre le proprie pagine a innocue o presunte tigri da letto mostrandole in ogni guisa per farci la morale. Ormai nemmeno sui giornali specializzati si parla tanto di escort, di minorenni e di pensieri lubrici assortiti. Il tutto, ovviamente, per il bene della donna e a maggior gloria del fascino irresistibile dei femministi da salotto – anzi, da prima pagina.

Facciamo un esempio pratico. Prendiamo un numero a caso di Repubblica – tanto sono bene o male tutti uguali e a quanto pare vengono stampati soprattutto per offrire un supporto cartaceo alle dieci domande di Giuseppe D’Avanzo a Berlusconi, che dall’originario 26 giugno si sono decisamente rimpicciolite ma sono sempre lì. Bene, ho per le mani l’uscita del 4 agosto scorso che in prima pagina riporta un vibrante articolo di Miriam Mafai (segue a pagina 11) dal titolo: “Le donne e la libertà ai tempi del Cavaliere”. Io sono un ingenuo e quindi ho pensato che un titolo del genere presagisse tutto un discorso sulla libertà di andare ognuno con la donna che si preferisce, ché poi bisogna renderne conto a Dio, al confessore, all’eventuale moglie e non certo a Ezio Mauro. Intuirete che ho sbagliato. Il pezzo della Mafai si concentra su “tutto questo scialo di donne” che ha scatenato nelle sue consorelle “irritazione, e persino un po’ di vergogna”. Vergogna per cosa? Per l’idea sottesa – e si presume automaticamente berlusconiana – che “siccome esistono le veline, tutte le donne italiane sarebbero classificabili come aspiranti veline”. Concordo: conosco donne che possono aspirare fino allo scoppio ma il fisico da veline non ce l’avranno mai. Per me la questione è chiusa qui.

A questo punto però interviene una mia amica femminista e mi spiega che il mio punto di vista è limitato, in quanto sono maschio, e che il discorso della Mafai è più sottile e più profondo. Devo riconoscere che le distinzioni categoriali di quest’ultima sono degne di Scoto Eriugena: “Una velina, una escort, una prostituta è una donna che dispone del suo corpo come crede”. Presumo che soltanto per brevità la Mafai non abbia inserito nell’elenco anche le attrici, le hostess, le segretarie e tutte quelle svergognate che usano il fard. None, spiega paziente l’amica femminista senza la quale non riuscirei a capire niente di tutto ciò che scrive Repubblica; il punto della Mafai è che ormai questo, ossia in parole povere quello della signorina piuttosto bona, “sia l’unico modello di riuscita e di comportamento che il potere in carica oggi propone alle donne”. A controprova la Mafai si inalbera: “Tutti conosciamo il volto di Patrizia D’Addario”. Non solo il volto, a dir la verità. Ma, chiedo alla mia amica femminista, non era stata Repubblica a tirar fuori costei, e il numero in questione non ne pubblica una fotina ammiccante, giusto per non perdere l’abitudine?

La mia amica se ne va sdegnata dichiarando che è proprio vero che i maschi non capiscono un accidente e che perdono la testa appena vedono le curve giuste. Decido di continuare per conto mio la ricerca e deglutendo leggo il resto di Repubblica come se fosse un libro. In fin dei conti un giornale è un tutto intero: l’abbiamo visto qualche mese fa per quel che riguarda Playboy, mensile che tuttavia si mantiene meno invasivo riguardo alla vita sessuale di ciascheduno. A pagina 40 (e 41) dello stesso numero di Repubblica trovo una vibrante recensione di Natalia Aspesi al romanzo Obsession di Gloria Vanderbilt: le memorie erotiche di una facoltosa vegliarda nata nel febbraio 1924. Non entro nei dettagli ma il succo è che “trattandosi di una signora entrata nella quinta età (…) pare blasfemo pensarla non si dice mentre pratica, ma neppure mentre immagina, fantastica, rievoca, quelle brutte cose là”. Anche perché, insomma, se una ricca signora di ottantacinque anni e mezzo si sente autorizzata ad avere una vita sessuale, dove si andrà a finire con ricchi signori che a settembre ne compiono settantatre? La condanna della Aspesi è talmente ferma che c’è materiale sufficiente per un’undicesima domanda di D’Avanzo a Berlusconi, che potrebbe suonare più o meno: “Signor presidente, lei ha conosciuto l’ereditiera Gloria Vanderbilt? Quali sono, più in generale, i suoi rapporti con le ottuagenarie? Non ritiene che una tale frequentazione sia in contraddizione con la sua politica di valorizzazione dei giovani? Posto di fronte alla scelta fra una nonna e la sua nipotina, non pensa che in entrambi i casi comprometterebbe importanti affari di Stato?”.

Per fortuna Repubblica ha un’idea tutta diversa delle donne. Patrocina un prototipo di successo assolutamente scollegato dall’avvenenza: di fianco ai santini di Noemi & Patrizia la Repubblica in questione colloca due fototessere accollatissime di Cristina Battaglia, “meno nota numero due dell’Enea”, e di Federica Pellegrini, “trionfatrice dei mondiali di nuoto”. Ecco, i mondiali di nuoto. Secondo Repubblica sono stati l’esaltazione del femminismo applicato. Le imprese della Pellegrini sono lì a dimostrarlo insieme a un’inchiesta di Enrico Sisti che si mangia le pagine 29, 30 e 31. La Pellegrini è l’incarnazione di quello che Sisti definisce “fattore D” (nel senso di “fattore Donna”, non “fattore D’Avanzo”); a quanto pare, stando alle dichiarazioni di uno psicologo dello sport raccolte da Sisti, “una ragazza la prendi e lei di solito risponde meglio di un uomo. Succede anche nella scuola, non soltanto nello sport”. Esempi ce n’è a bizzeffe: la Cagnotto, la Idem, la Sensini, ma anche la Follis, la Karbon, la Aguero e soprattutto la Granbassi che – illustra Repubblica – “ha vinto un mondiale e ha partecipato alla trasmissione Annozero di Santoro”. Meno spazio viene dedicato ad Alessia Filippi, la bella pesciolona la cui identità traspare dietro quella dell’atleta “moderatamente coatta”, e che soprattutto si macchia della colpa di essere bellina, di saper perdere senza frignare e di essere una ragazza normale.

E i maschi? Sisti li ignora con classe ma si può dedurre che ad esempio Luca Marin sia solo uno smidollato, buono solo a fidanzarsi con la Pellegrini e, si veda l’intervista sul sito di Repubblica stessa, a farci sesso prima delle gare. Forse Repubblica vuol sottintendere che senza un impaccio del genere – senza questo fardello erotico, senza questo elemosiniere dell’amplesso – sui 400 stile libero la Pellegrini sarebbe scesa sotto la barriera dei tre minuti, dei due, sarebbe arrivata prima ancora di tuffarsi? Ma poi, chiederei se fossi D’Avanzo, questo non sarebbe in contraddizione con la critica che la Mafai avanza a “movimenti e culture che esaltano la violenza e il successo” e “che irridono i deboli e i meno dotati”?

Boh. Di sicuro la Mafai ha ragione quando critica questi movimenti e culture “che tentano di riportare la donna a un ruolo subalterno”. Per saperne di più ho abbandonato il numero cartaceo di Repubblica e sono andato ad approfondire sul sito che, come dire, spogliando castigat mores. Come si fa coi gatti quando fanno pipì dove non dovrebbero, che li si sbatte col muso dentro finché capiscono che non devono farlo più, Repubblica.it fornisce a bizzeffe esempi deterrenti dell’abiezione delle “donne esibite come merce, donne spogliate, donne in vendita offerte al miglior acquirente” contro le quali punta il dito la Mafai. Come ad esempio le ventidue candidate al titolo di Miss Universo, delle quali Repubblica.it fornisce adeguato catalogo fotografico in bikini: vi consiglio Chole Mortaud, miss Francia e foto numero quattro, nonché Eli Landa, miss Norvegia e foto numero 16 della quale mi riservo di studiare più approfonditamente la posa di schiena per ritrovarvi vestigia della sua, come scrive la Mafai, “realizzazione come individuo libero e responsabile, attraverso una faticosa combinazione tra studio, organizzazione della vita familiare, maternità e lavoro”.

Presumo che, come scrive sempre la Mafai, “il femminismo (…) che rivendicava la fine di ogni forma di discriminazione fra uomini e donne” sia rintracciabile nelle sette foto della “splendida Ximena Fleitas, prorompente uruguaiana di 29 anni molto conosciuta nel suo paese come modella di lingerie e costumi da bagno” che presto sposerà il tennista Simone Bolelli, ritratto costui non in top strappato e madido ma in abito da lavoro, maglietta e calzoncini bianchi. Qualcosa non mi torna ma non riesco a focalizzare bene cosa, perché frugando su Repubblica.it ho appena trovato sette gallerie di foto di Nereida Gallardo, atomica ex di Cristiano Ronaldo. In alcune indossa addirittura un reggiseno, pertanto adesso ho di meglio da fare.

lunedì 24 agosto 2009

L'Italia fa novanta

Non avendo mai giocato al Superenalotto - né a lotterie similari, preferendo accumulare i sei euri risparmiati settimanalmente fino a conseguire la mirabile vincita di circa trecento euri all'anno - il mio interesse nei confronti del jackpot crescente è stato inversamente proporzionale al suo ammontare, in singolare contrasto con l'isterismo che aveva preso i vari mezzi di comunicazione e in particolare il Tg1, che ogni giorno forniva la diretta dell'estrazione che in fin dei conti poteva interessare al massimo una persona, il futuro vincitore. Ciò nondimeno mi permetto due considerazioni riguardo al trambusto d'azzardo:

1) Siamo sicuri che il vincitore, provvisoriamente noto quale "Culone di Bagnone", sia alla fine più felice di, che so, Rubens Barrichello? Culone dovrà nascondersi e non potrà nemmeno vantarsene con gli amici, i quali in circostanze del genere corrono il rischio di diventare molto poco amici. I parenti, al contrario, in circostanze simili tendono a diventare troppo parenti. E poi, che se ne fa uno di 148 milioni di euri? Con centomila euri l'anno si vive benone, quindi diciamo che ci sono almeno centoquaranta milioni superflui. Che fa, si compra Cristiano Ronaldo e Kakà? 

2) Il vincitore, anzi la vincitrice morale del Superenalotto è stata Isabella Schiavone, inviata del Tg1 nel posto dove danno i numeri. Occhi sbarrati, parlantina parossistica e vaga somiglianza con la propria possibile parodia fatta da Anna Marchesini, la Schiavone ha lasciato sul campo una notevole quantità di anni di vita. Sembrava quasi che l'estrazione la riguardasse direttamente. Più progredivano le sestine infruttuose, più lei si diffondeva in dettagli sul fatto che l'estrazione non fosse opera di mano umana - è stata via via una cosa sovrumana, inumana, disumana. Sensazionale vedere come si affannasse a dare informazioni inutili sul numero di schedine giocate, sul numero di settimane da cui non si faceva il cinque più uno, sul numero di numeri necessari a enumerare i sei numeri vincenti - salvo poi interrompersi per esclamare "47!", "53!", "1!" via via che la pallina sortiva dal vortice non azionato da mano umana.  Sembrava di star giocando a tombola con una zia un po' rincoglionita. L'ultima sera, ormai allo stremo, s'è lasciata sfuggire che il montepremi era salito a "148 quasi milioni": come un signor Bonaventura tirchio, che alla fin della tenzone / dona a tutti un quasi milione.

venerdì 21 agosto 2009

Domani accadrà

(Gurrado per Quasi Rete)

Basta con le solite arrampicate sugli specchi e gli arzigogoli per tenere insieme argomenti che non combacerebbero nemmeno col silicone sigillante Saratoga: voglio scrivere una paginetta semplice per spiegare cosa penso della stagione calcistica che sta per iniziare (al momento in cui scrivo, manca un’ora esatta al calcio d’inizio della Serie B) e fare una serie di pronostici a caso che verrà puntualmente smentita dai fatti. Ma io di mestiere faccio lo storico e quindi so che non esistono fatti, solo interpretazioni. D’altra parte perché privarsi del piacere di rileggere queste stesse righe fra un anno e poter dire: “Io l’avevo detto, tutto il contrario?”.

Ma poi, sinceramente, vi siete accorti che c’è stato un intervallo fra la stagione scorsa e la novella? Il calciomercato 2009-2010 impazzava mentre l’Italia grigiomarrò veniva presa a sberle nella Confederations Cup 2008-2009. La Roma ha iniziato i preliminari di Coppa Uefa nei giorni in cui avrebbe dovuto giocare al beach volley. La Supercoppa Italiana 2009-2010 è stata giocata l’8 agosto, quando la gente normale non guarda partite; per aumentare l’effetto di straniamento l’hanno allestita a Pechino, così uno accendeva la tv alle due del pomeriggio e vedeva il buio pesto. Ecco, proprio dalla Supercoppa Italiana sono emersi i primi due giudizi sbagliati della stagione. L’Inter ha perso, ha perso Mourinho – s’è detto. A me è parso che l’Inter abbia giocato il miglior calcio degli ultimi anni, solo che Muslera s’è improvvisamente ricordato di essere un portiere, promettente per giunta. La Lazio ha fatto l’unica partita che si può ragionevolmente fare contro quest’Inter e ha colpito con spietatezza. È stata sotto questo aspetto una bella Lazio e gli elogi si sono sprecati ma lo spareggio Uefa ha dimostrato che almeno per ora questa è l’unica maniera che la Lazio ha di affrontare qualsiasi avversario, non solo l’Inter ma anche l’imbarazzante Elfsborg. Quanto potrà durare?

(Mi sono reso conto solo ora che sto istintivamente continuando a chiamare Coppa Uefa quella che dovrebbe chiamarsi Europa League. Non ci fate caso, vero? Se volete, per omogeneità possiamo accordarci di chiamare Coppa dei Campioni la Champions League, Coppa Intercontinentale il Mondiale per Club, Coppa Italia la Tim Cup e stronzata epocale la Confederations Cup. Chiusa parentesi.)

L’Inter ha venduto Ibrahimovic quindi è senza dubbio più forte dello scorso anno, avendone ricavato Eto’o e una cinquantina di milioni da reinvestire presumibilmente in una mezza punta – ma io, difensivista morboso, li spenderei piuttosto per un altro difensore centrale e un altro centrocampista di contenimento, non sia mai che Cambiasso e Javier Zanetti si rompano contemporaneamente. Se il campionato si decidesse in base al potenziale delle squadre, l’Inter non avrebbe rivali. Ma tre scudetti consecutivi annoiano (se qualcuno si azzarda a dire “quattro” gli martello la falange minima del mignolo destro), è tempo di pensare all’Europa. Secondo me potrebbe essere l’anno giusto, soprattutto se si considera il rendimento internazionale di Eto’o e Lucio e lo si compara a quello di Ibrahimovic, che segnava solo con lo Spartak Mosca.

Il Milan ha venduto Kakà ma qualcosa mi dice che non sia più forte dello scorso anno. Ho in mente un parallelo che rende fino a un certo punto: nell’estate 1991 finì il ciclo di Sacchi (quest’anno è finito quello di Ancelotti) che aveva fruttato uno scudetto e due Coppe dei Campioni (Ancelotti idem); la squadra veniva ritenuta bollita (oggi viene ritenuta decotta), allora la si affidò a Capello, in teoria yes-man di Berlusconi, aziendalista praticamente senza esperienza in panchina (idem Leonardo oggidì) e vinse tre scudetti di fila. La differenza è che all’epoca non venne venduto il miglior attaccante, come invece è accaduto quest’anno di fatto senza sostituirlo. La pazza idea è che il sostituto fosse Ronaldinho, il quale potrebbe esserlo se ricominciasse a correre – o se Pato decidesse di correre al posto suo, mentre il dentinho fa da boa, in entrambi i sensi della parola. Resta il fatto che la rosa è ristretta, per quanto promettenti possano essere Di Gennaro ed, ehm, Zigoni. Senza dimenticare Viudez. Paradossalmente la miglior prospettiva sarebbe un’immediata eliminazione dalla Champions League, per affidarsi alla Provvidenza e diventare la squadra rivelazione del campionato.

Il ruolo insomma che l’anno scorso ebbe la Juventus, non fosse che nome e blasone l’abbiano fatto passare inosservato. Ferrara conosce finora soltanto vittorie (due) ma sembra l’uomo adatto ad affrontare le avversità, che nonostante gli unanimi consensi potrebbero non mancare qualora il novissimo asse centrale Cannavaro-Felipe Melo-Diego non dovesse sulle prime funzionare a dovere. Per il resto la squadra è ottima, Del Piero è una persona matura (lo è da quando era nei ragazzini del Padova, figuriamoci ora) e quindi capirà se gli sarà chiesto di non giocare, lo spogliatoio sembra saldo e la sensazione è che ci sia tutto da guadagnare. Ci sarebbe stato ancor meno da perdere se la reazione all’infortunio di Sissoko non fosse stata la (s)vendita di Cristiano Zanetti: è come se alla reggia di Caserta si pretendesse che le fontane facessero giochi d’acqua senza chiamare prima l’idraulico.

Ma se dovessi dire un pronostico secco sulla vincitrice del campionato (come lo scorso anno dissi: Juventus), mai come quest’anno risponderei: la Roma. I guai della società sono stati confusi con i guai della squadra. Venduto Aquilani, è stato preso Guberti: il sostituto non è allo stesso livello ma il sostituendo non era insostituibile, per quanto possa ammirarlo. Resta una squadra con Totti, Vucinic, De Rossi, Pizarro, Mexès e Doni in porta quando tornerà; soprattutto resta una squadra che conserva l’allenatore, Spalletti, e un progetto di gioco collaudatissimo a fronte di tre grandi che stanno cambiando e dovranno per forza sperimentare. Potrebbe essere una vittoria alla Nuvolari, piombando addosso agli avversari a fari spenti e quando è troppo tardi per fare la differenza. Senza contare che se supera indenne le prime cinque giornate (Genoa, Juve, Fiorentina e Palermo: auguri) il grosso è fatto.

Il grave difetto dei campionati a 20 squadre è che aumentano a dismisura le partite e diminuisce proporzionalmente il margine di errore rispetto alla qualità, alla forza della squadra. Fosse stato un campionato a 16 squadre, con otto giornate in meno (e due mesi di vacanza in più, come alle scuole elementari), sarebbe un campionato con meno infortuni e più sorprese: perché gli infortuni vengono assorbiti dalle squadre con rose sterminate, certo non da quelle che in panchina mancano un altro po’ i magazzinieri. Fosse stato un campionato a 16 squadre, avrebbero potuto giocarselo anche: il Napoli, che controbilancia un’ottima campagna acquisti con una tifoseria turbolenta perché abituata troppo bene e un allenatore forse inetto a questi livelli; la Fiorentina, che però sembra una di quelle ragazze che invecchiano zitelle; la Lazio, qualora fosse in grado di affrontare alcune partite in maniera meno attendista; e (bestemmierò?) il Genoa, che di tutte è quella che mi incuriosisce di più e che ha nello stomaco un cocktail di concretezza e incoscienza che mi ricorda il Verona di Bagnoli. Quello che vinse lo scudetto, uno degli ultimi a 16 squadre, come volevasi dimostrare.

Idem, un campionato a 20 squadre implica necessariamente che le quattro squadre di troppo siano più deboli, poiché non esiste un livello superiore alla Serie A. Il che implica a sua volta che gli attaccanti di sfondamento segnano di più (se leggeste le statistiche sapreste che quando Nordhal segnava trentacinque goal a campionato la Serie A era a 20 squadre e si giocava contro Pro Patria e Novara). Per questo credo che attaccanti provenienti da campionati più sofisticati come Eto’o, Huntelar e forse Palacio (non già Nenè, che resta un oggetto misterioso) potrebbero avere vita facile come la ebbe l’anno scorso Zarate – e come sempre la ebbe Ibrahimovic, il quale prediligeva segnare al Chievo, alla Reggina e se avesse potuto anche alla Virescit Bergamo. Dite invece all’Udinese che sostituendo Quagliarella con Floro Flores e Corradi non si va lontano: in questo caso uan is megli che two.

Allo stesso modo finiscono per retrocedere sempre squadre deboli: 3 su 20 sono poche; ai beati tempi ne retrocedevano 3 su 16 ed era tutt’altra percentuale. Oggi la bieca speranza, anzi la Schadenfreude che possa cascare nella rete qualche pesce grosso tipo la Fiorentina del ’93 è molto limitata. C’è da dire che lo scorso anno c’è riuscito il Torino, ma solo perché il Bologna di Di Vaio s’è avvalso della peculiarità del paragrafo precedente: basta avere davanti, come diceva Rocco, un mona che la butta dentro e i punti prima o poi fioccano. Per campanilismo mi soffermo un attimo sul Bari: che patirà l’infortunio a Paro quasi quanto la Juventus ha patito quello a Sissoko (in proporzione), ma che ha un centrocampo e soprattutto un attacco potenzialmente sorprendente, fra Barreto Meggiorini e Kutuzov (il quale, lo dico per informare mia madre che sarà indubbiamente l’unica arrivata a leggere fin qui, non è scappato da Guerra e Pace). Dovrebbe salvarsi, forse anche qualcosina in più – ad esempio un buon 1-1 con l’Inter in rodaggio dopodomani. Sorprese simili riserverà il Parma, ma in questo caso più che da un giudizio tecnico mi lascio trasportare dalla commozione nel rivedere pari pari la maglietta che fece la gloria di Nevio Scala. Altri tempi.

In definitiva questa è la mia parola: scudetto alla Roma; Juventus e Inter in Coppa dei Campioni senza preliminari; una fra Milan, Napoli e Lazio al quarto posto e la Fiorentina subito dietro, quindi settima (ah, i preliminari della Coppa dei Campioni, quanti strascichi lasciano e quanto male fanno). Poi una sfilza di posizioni inutili fino alle tre che vanno giù: meriterebbero di retrocedere in sei ma le tre più pericolanti mi sembrano il Livorno (ancora Lucarelli?), il Siena (ancora Reginaldo?) e non escluderei il Catania senza Zenga (ancora in Serie A?). Dalla B immagino la promozione diretta di Torino e Brescia; dai playoff potrebbe spuntare una mezza sorpresa come il Sassuolo o il Mantova.

Il Genoa ha le carte per vincere la Coppa Italia. La coppa Uefa come sempre non ci riguarda, quindi è inutile parlarne – d’altra parte a questo punto non si sa nemmeno chi ci giocherà pertanto fare pronostici è folle. Stesso discorso per la Coppa dei Campioni: fra le partecipanti sicure, indicare il Real Madrid è troppo banale, quindi non lo sta facendo nessuno, quindi io mi sbilancio e dico che la vincerà il Real Madrid, quindi andrà verosimilmente a finire che non la vincerà affatto. Mai come quest’anno occhio all’Inter.

Per fortuna tutte queste supposizioni da domani saranno carta straccia; anzi, avendole pubblicate sul web, non saranno nemmeno quella. Ma il calcio vive di fantasia e di speranza, oltre che di ricordi e lenimenti. Il presente conta poco, è come un quotidiano di fronte a un atlante storico. Fra quattro minuti la serie B darà la prima pedata e potremo concentrarci sul Mondiale, perché nulla è più vero di quanto ha scritto e cantato Lucio Dalla: l’anno che sta arrivando fra un anno passerà (io mi sto già preparando, è questa la novità).

giovedì 20 agosto 2009

Sesso, bugie e microonde

(Gurrado per Il Foglio)

Adesso è colpa del microonde. Ha fatto scalpore anche in Italia l’inchiesta della Nuffield Health sulla vita privata degli inglesi, dalla quale è emerso che tre su quattro non hanno né tempo né forza né voglia di fare l’amore. Tuttavia non sorprende il risultato in sé quanto le motivazioni che la direttrice della Nuffield, Sarah Dauncey, ha espresso nelle sue dichiarazioni alla stampa. Pare che “la creazione di una Gran Bretagna pericolosamente pigra e accidiosa”, nonché eroticamente lobotomizzata, sia dovuta a “cibi precotti, telecomandi e shopping online”.

Mi sembra una bugia pietosa, questa che il calo del desiderio nazionale sia dovuto alla proliferazione di vaschette di shepherd’s pie e cannelloni di dubbia provenienza da infilare nel microonde per cenare tre minuti dopo il rientro dall’ufficio. Cinque anni fa l’antropologa Kate Fox stava scrivendo il suo libro più celebre, Watching the English, e riferiva che una volta arrivata al capitolo sul sesso i suoi amici si erano divisi in due fazioni: quelli che ritenevano che sarebbe stato molto breve e quelli che si aspettavano una ventina di pagine bianche. I microonde non erano menzionati e nemmeno i telecomandi.

Le vere ragioni per cui gli inglesi non hanno voglia di riprodursi sono molteplici. Una si aggira per Oxford in questi giorni e consiste in un enorme cartellone pubblicitario che fa terrorismo psicologico dalla fiancata di svariati autobus: “Hai meno di 24 anni? Hai mai fatto sesso? Sai cos’è la clamidia? Una persona su dieci è infetta, scopri se sei tu!”. Un’altra ragione è andata in onda ad aprile su Channel4 per quattro sere di fila. Si chiamava The Sex Education vs. Pornography e la conduttrice Anna Richardson intraprendeva un tour delle scuole superiori britanniche allo scopo di dimostrare brillantemente agli studenti che il sesso non ha nulla a che vedere con la bellezza né con l’attrazione fisica, e che anzi una donna ben curata dà inevitabilmente l’idea di essere un po’ zoccola. Allo scopo la stessa Richardson, che è piuttosto attraente, si conciava da zoccola e andava in giro per Carnaby Street chiedendo ai passanti se sembrava una zoccola. Gli inglesi sono educati e tendevano ad assecondarla.

La Richardson spiegava invece ai ragazzi che un corpo nudo è spesso repellente e mostrava all’uopo gigantografie di dettagli oggettivamente ripugnanti – il tutto in prima serata. Il clou della trasmissione è arrivato quando a uno stuolo di liceali ambosessi è stato chiesto di infilare un preservativo su un vibratore. La signorina che s’è sbrogliata in un batter d’occhio è stata portata in trionfo, il signorino che mezz’ora dopo era ancora lì ad armeggiare con gli strumenti è stato dileggiato con piglio darwinista.

Non bastassero la Richardson e la clamidia itinerante a far passare tutte le voglie, ogni giovedì il Guardian ospita Sexual Healing, colonna di quesiti psicosessuali curata da Pamela Stephenson Connolly. La rubrica richiama inconsapevolmente l’incauta richiesta espressa da una rivista elegante in un celebre racconto di Achille Campanile: “Avete domande da porci?”. Giovedì scorso una signora si chiedeva come fare per accontentare suo fratello che voleva portarsela a letto. In precedenza un’altra si interrogava su cosa fare qualora suo marito fosse davvero gay. Il mio preferito resta il ventottenne che a giugno si lamentava del fatto che la fidanzata lo implorasse di assumere un ruolo dominante nel rapporto: “La cosa mi piace, ma io mi considero un femminista e dopo averla menata mi sento in colpa”. Pamela Stephenson Connolly ha una parola buona per tutti: spiega che il sesso è libertà quindi ogni attitudine al riguardo merita profondo rispetto e una terapia intensiva, specie se uno a 23 anni è ancora vergine.

La quarta ragione è il saturday night boozing, la bisboccia del sabato sera. Vagano per il centro frotte di bachelorettes travestite da infermiere sexy, con la giarrettiera in bell’evidenza o le orecchie da coniglietta sui capelli. Nonché ragazzine con gonne sempre più corte e senza calze anche in pieno inverno, tanto per far capire che sono up to it – ossia che ci stanno – e che per due rum si può accompagnarle in bagno, tanto la mattina dopo ricorderanno ben poco. Le inseguono armenti di giovanottoni che per attaccare discorso devono farsi coraggio a suon di birra. Nel Three Goats Heads, il più bel pub di Oxford, un cartello vicino alla latrina rammenta che alcune signorine possono non gradire l’idea di venire approcciate da un anglosassone puzzolente che balbetta frasi sconnesse e poi crolla esanime ai loro piedi.

La quinta causa è la più grave. La morale vittoriana è tramontata e nulla più è proibito, ergo gli inglesi non hanno voglia di fare l'amore perché nessuno cerca di impedirglielo.

mercoledì 19 agosto 2009

Quando l'uomo è un pistola


L'altro giorno ero sovrappensiero quindi non ho fatto molto caso all'aver dato disponibilità a una trasferta in un posto di cui non avevo colto appieno il nome. Tutt'al più, pensavo, sarà in Cornovaglia e comunque l'Inghilterra è piccola e viaggiabile. Invece poi con un giro di parole è emerso che questo posto si trova in New Mexico ma intanto la disponibilità l'avevo già data.

Fonti attendibili mi riferiscono che il New Mexico confina con Texas e Arizona. Allora ho iniziato a lamentare che sicuramente in New Mexico avrei trovato solo sabbia e cactus, che sarei stato coinvolto in una sparatoria, che avrei alloggiato in un saloon, che gli indigeni avrebbero risposto a qualsiasi domanda sparando, che avrei perso tutti i miei soldi a poker, che le ragazze mi avrebbero dato il loro numero di telefono con un pari ammontare di colpi di arma da fuco (ad esempio, per il mio: tre miliardi quattrocentosettantatrè milioni e così via), che sarei stato rapito dagli indiani durante un assalto alla  diligenza, che avrei dovuto comprare fondina e cinturone, che tutt'al più avrei potuto incontrare gente che compra la Bari, che i giocatori della Bari verranno tutti sparati dai nuovi propietari, che lo sceriffo... A questo punto mi hanno fermato dicendo che sono il solito refrattario e che Texas e Arizona sono ormai molto differenti da come me li immagino, quindi figuriamoci il New Mexico.

Infatti oggi il sito del Corriere riporta la notizia del signore che in Arizona vuole assistere a un comizio di Obama imbracciando il mitra, argomentando ragionevolmente che la legge del suo Stato non glielo impedisce. Ecco, mani in alto.

martedì 18 agosto 2009

L'importante è chiedere scusa

Gli inglesi sono un popolo educato. La prima cosa che le locali mamme insegnano ai loro figli è ubriacarsi ogni sabato sera, no, andare in giro vestiti di fucsia e arancione al contempo, nemmeno, devastare le vetrine delle nazioni in cui vanno a vedere una partita e poi dare la colpa alla polizia del posto, neanche - la prima cosa che le locali mamme insegnano ai loro figli è: "Mind your Ps and Qs". Per quelli che si sono laureati in Lingua e Letteratura Inglese dopo la riforma Berlinguer, si pronuncia "Maind ior pìs and chiùs" e significa: "Mi raccomando i per favore (please, plis, pìs) e i grazie (thank you-s, than-kyous, chiùs)".

Su questi principi si basa la vita sociale britannica così come la monarchia si fonda su leone e unicorno. Volete violentare una ragazza? Basta che glielo chiediate per favore e passerete dalla parte della ragione. Sottraete a una vecchietta i risparmi di una vita? Ditele grazie e siamo tutti a posto.

Io ad esempio ieri ho sperimentato quant'è vantaggioso essere educati in Inghilterra. Ormai ho preso l'abitudine a dire sorry, a chiedere scusa qualsiasi cosa accada. La prassi da queste parti è la seguente: una signorina si siede sull'autobus, vi dà un'enorme mazzata sull'omero levandosi la borsa, lei vi chiede scusa, voi le chiedete scusa simultaneamente anche se non vi siete mossi di un centimetro, anzi di un pollice. Sovrappensiero pestate il piede di un passante, voi gli chiedete scusa ma lui si è già scusato prima che possiate accorgervene anche se di lì a poco si starà facendo amputare l'alluce.

Così l'altro giorno ero in libreria e mi sono reso conto di essere in ritardo. Allora ho fatto per uscire in fretta ma mi son trovato esattamente sulla traiettoria di una giovane cliente. Sicuro che l'avrei urtata se non altro spalla contro spalla, mi sono premunito e le ho detto "sorry"; ma lei non solo ha risposto "sorry pure io" con la velocità di Calamity Jane ma s'è anche agevolmente scansata. Per non sprecare il bonus che mi ero assicurato dicendole "sorry" ho dovuto deviare la mia corsa e caricarla come un rugbysta. A un altro signore che camminava rasente al mio itinerario ho detto "sorry" temendo di sporcargli i pantaloni con la suola delle scarpe ma poi, resomi conto che in realtà era a distanza di sicurezza, ho dovuto tirargli un calcio negli stinchi per giustificare ai suoi occhi il fatto che l'avessi pregato di scusarmi.

Tutto sta nella gestione del senso di colpa. Tanto per dire, l'ultima scoperta di un professore di Oxford è che William Golding, l'autore de Il Signore delle Mosche, da adolescente aveva intenzione di stuprare una sua amica quindicenne. Ma, guardiamoci in faccia, a quell'età chi non l'ha mai avuta?

lunedì 17 agosto 2009

La lingua in bocca

Ella sa, signora, che l'italiano è la favella dell'amore e delle grazie: un gran Monarca che aveva fatto conquiste in varj generi, la giudicò altre volte tale, nel dire ceh questa era la lingua colla quale si deve corteggiare il sesso, di cui V.S. Ill.ma è l'ornamento, come scriveva nel 1759 Deodati de Tovazzi a madame du Graffigny e come si può trovare nel vecchio libro di un vecchio professore (anzi, ho controllato, nel vecchio libro di un professore morto): L'Italiano in Europa di Gianfranco Folena.

Nel quale si trova anche riscontro della fraseologia italiana dei manuali di conversazione rococò, che nel '700 andavano per la maggiore sul pettinatoio di ogni dama: "S'accomodi, s'adaggi. Ne la priego caldamente. I miei ossequi al Signor Fratello. Non sono una ingrata come voi: amo chi m'ama. Non ama il formaggio? Allestiteci il caffè". Ancor oggi sarebbe possibile sopravvivere in Italia per anni e anni utilizzando esclusivamente queste tre righe a seconda dell'occasione.

E in Inghilterra? Il Manuale di Conversazione di Achille Campanile insegna che l'importante è avere pronta la seconda risposta. A fermare un passante straniero e porgli una domanda sono buoni tutti. A capire bene o male la risposta, quasi tutti. A tirar fuori una terza interlocuzione che abbia senso se infilata dietro le prime due, praticamente nessuno.

Per dire, il sabato è fatto per l'uomo e quindi l'uomo si riposa e pensa nella sua benedetta lingua a meno che - come m'è appunto capitato avantieri - non arrivi d'improvviso qualcuno al campanello. "Good morning", fa lui (prima riga); "Good morning", faccio io, "may I help you?" (seconda riga); "Yes please, I came for the fence".

E adesso, che minchia  è il fence? Non avendo una risposta pronta, l'unica è prendere tempo rifugiandosi in schemi linguistici prestabiliti e come tali già noti. Ad esempio: "Yes please, I came for the fence", lui, sono venuto per il fence - "It's nice to see you", io, che piacere vederla  - "I was told the fence needs repairing", lui, mi è stato detto che bisogna riparare il fence - "I am the new lodger", io, sono il nuovo inquilino - "I think it's the case to intervene on the fence as soon as possible", lui, credo che sia il caso di intervenire quanto prima sul fence - "What a lovely day today!", io, ma che magnifica giornata che è oggi - "Could you please show me your fence?", lui, potrebbe farmi vedere il suo fence? - io, "The fence is on the table" - e così via finché il tizio non ha fatto irruzione in casa e s'è servito da solo.

Dopo che ha finito, ho controllato sul dizionario. Il fence è la staccionata. Io non mi ero nemmeno accorto che a casa mia c'è un mezzo giardino, figurarsi.

venerdì 14 agosto 2009

Come trasformare il Vangelo in un romanzo russo

Sto facendo una cosa complicatissima, quindi abbiate la compiacenza di seguirmi nel ragionamento anche se intricato; altrimenti piantatela qua prima di iniziare.

Per guadagnarmi il caviale quotidiano, in questi giorni devo analizzare, attenzione, un'opera di Voltaire scritta nel 1766 e ovviamente, attenzione, composta in Francese. Se non che, attenzione, si tratta di un dialogo, quindi le parole utilizzate, per quanto scritte da Voltaire, vanno ascritte, attenzione, ai due personaggi nonché interlocutori del dialogo. Se non che i due personaggi sono Epitteto e suo figlio i quali, attenzione, sono Greci antichi (specifico per chi si è laureato in Lettere Classiche dopo la riforma Berlinguer: a cavallo fra I e II secolo d.C.). I Greci notoriamente, attenzione, parlano in Greco; fatto sta che se i Greci sono protagonisti di un testo francese devono, attenzione, parlare in Francese. Come si fa a far parlare in Francese degli antichi Greci? Che domande, col Nuovo Testamento.

Attenzione. Il Nuovo Testamento è l'unico testo greco la cui conoscenza, attenzione, non oggi ma nel 1766 fosse diffusa anche fra i lettori comuni. Inoltre questi lettori comuni potevano risalire facilmente al testo Greco leggendo il Nuovo Testamento nella versione della Bibbia di Port-Royal, attenzione, tradotta da Lemaitre de Sacy. Attenzione, sulla i di Lemaitre ci vuole l'accento circonflesso ma non so come si mette. Leggendo Lemaitre (con l'accento circonflesso) il lettore comune poteva risalire a un lessico neotestamentario grecizzante che era, attenzione, facilmente riconoscibile in alcune espressioni peculiari (sul genere di quelle che sono rimaste ancora nelle versioni italiane del Nuovo Testamento, termini desueti che non hanno praticamente più riscontro al di fuori del Vangelo, come ad esempio "la fiaccola sotto il moggio"). Allora Voltaire (senza accento circonflesso) decide di far parlare Epitteto e suo figlio con questi termini peculiari tratti da Lemaitre così che, attenzione, il lettore comune potesse facilmente risalire tramite il Nuovo Testamento a quella che poteva essere una verosimile parlata greca a cavallo, come ci insegnano i nostri amici laureatisi in Lettere Classiche dopo la riforma Berlinguer, di I e II secolo d.C.

Avete capito? Io più o meno. Il fatto è che per scrivere tutta questa faccenda, in Italiano prima e in Inglese poi, ho dovuto necessariamente riportare tutte le citazioni evangeliche in Francese; di modo tale che, attenzione, sto raccontando di un Nuovo Testamento in cui si parla pià Francese che in Guerra e Pace. Ad esempio riferisco di come Gesù, apprendendo della morte del suo amico, corra a Betania e chiami a gran voce: "Lazare, venez dehors!"; oppure di come San Giovanni Battista tuoni lungo le rive del Giordano: "Je vous baptise dans l'eau, mais celui qui doit venir après moi vous baptisera dans le Saint-Esprit et dans le feu"; o di come in piena Giudea un giovine si avvicini a Gesù e lo interroghi: "Bon maitre (con l'accento circonflesso), quel bien faut-il que je fasse pour acquérir la vie éternelle?".

Sì, forse facevo meglio a laurearmi in Giurisprudenza.

giovedì 13 agosto 2009

Ho fatto un sogno

Sarà che a queste latitudini, nonostante la globalizzazione, collegarsi con l'Italia è sempre ardimentoso e per guardare uno e un solo telegiornale bisogna fare tecnologici salti mortali; fatto sta che l'altro giorno quando mi è apparsa la registrazione del Tg1 ho avuto due pensieri uguali e contrari:

1) come sarebbe bello se adesso, mentre Piero Fassino parla della tizia birmana di cui non c'è verso che mi ricordi il nome, e lo fa in qualità di Inviato Speciale dell'Unione Europea per la Birmania ovvero il Myanmar, e nonostante la sostanziale inutilità della sua carica dice cose tutto sommato ragionevoli, e lascia trasparire un'evidente insofferenza per l'atteggiamento della Cina - dicevo, come sarebbe bello se adesso spuntasse alle sue spalle un membro del Governo che dicesse di essere d'accordo con Fassino e che si proverà a fare quello che può per ridurre la Cina alla ragione o se non altro al silenzio, sulla scorta della considerazione che siamo tutti italiani e abbiamo gli stessi doveri;

2) come sarebbe bello se adesso, mentre Niccolò Ghedini annuncia di aver denunciato i fotografi che hanno scattato le foto di Berlusconi mentre fa quello che gli pare a casa sua, e lo fa in qualità di padrone di casa sua, e lo fa in nome del diritto a fare quello che ci pare ognuno a casa propria - dicevo, come sarebbe bello se adesso spuntasse davanti a Ghedini un esponente dell'opposizione che dicesse di essere d'accordo con Berlusconi e che personalmente se lui vedesse un fotografo che cerca di ficcare l'obiettivo in casa sua gli spaccherebbe macchina fotografica e naso utilizzando le nocche allo scopo per cui sono state create, sulla scorta della considerazione che siamo tutti italiani e abbiamo gli stessi diritti.

Ma l'ho pensato solo perché sono in Inghilterra. Noi siamo tutti italiani solamente all'estero.

mercoledì 12 agosto 2009

Apriamo il fuoco

(Gurrado per Il Foglio)

Come ci organizziamo per il 150° dell’Unità d’Italia? Che facciamo del Tricolore e delle bandiere locali? Insegniamo prima il dialetto agli studenti o l’italiano ai professori? Risposte a questi e altri quesiti d’attualità sono già state fornite nel 1969 da Luciano Bianciardi nel suo ultimo visionario romanzo, Aprire il fuoco. Se siete facoltosi elettori di sinistra improvvisamente riscopertisi patrioti, potete leggerlo nel primo volume dell’Antimeridiano Isbn che raccoglie tutta la narrativa bianciardiana in formato deluxe. Se siete ruspanti sostenitori della Lega e volete favorire le piccole aziende milanesi, potete fare un salto in via Ruggero di Lauria e comprare il singolo romanzo in edizione ExCogita direttamente dalle mani della figlia di Bianciardi. Quale delle due posizioni sosteniate, scoprirete di avere ragione.

Dunque, il Tricolore. In Aprire il fuoco ritorna ossessivamente ed è ben raro per un romanzo di quegli anni. Nell’avanguardista e radicale casa Porzio, al veglione del 31 dicembre ’58, le tre figlie della padrona di casa vestivano una di verde, una di bianco e una di rosso “e non si scostavano mai l’una dall’altra, badando bene che l’abito bianco stesse sempre nel mezzo”. Veniva servita un’insalata di verdure venete: “il trevigiano rosso radicchio, il songino verdone e la candida verza”. Ciò non si spiega se non col chiarire che Bianciardi ha ambientato Aprire il fuoco al tempo presente ma ha glissato sull’avvenuta Unità d’Italia: così che all’epoca della narrazione coesistano Giorgio Gaber che canta Porta Romana e Cesare Correnti che offre un caffè all’autore e voce narrante, una vitalissima Fallaci che si scatena col twist e uno spietato maresciallo Radetzky che ordina e capeggia l’imperial regia repressione. Il Tricolore patrio è ostentato in nome dell’unità nazionale ma anche come bandiera locale di una regione dell’Impero austroungarico; gli austriacanti invece lo osteggiano perché non accettano che nessun altro vessillo si affianchi al giallonero.

Tutto sta, insomma, a intendersi sulla natura dell’oppressore. Stiriani, carinzi, boemi e croati hanno la principale caratteristica di parlare un italiano ridicolo: dicono “kwanto” invece di “quando” e non di rado si rifugiano in un incomprensibile vernacolo che del tedesco conserva solo qualche esclamazione qua e là. Bianciardi invece – inteso come protagonista e voce narrante –insegna ai tre figli di casa Porzio l’italiano più limpido possibile e si permette perfino di correggere la metrica del Tasso. Tuttavia, in spregio all’oppressore, i radicali si collegano alla dialettofona tv romana (“Gari amigi bbonasera”) e, per sputare le peggiori offese in faccia agli sbirri austriaci, Bianciardi il purista analizza come si possano usare allo stesso modo “due sinonimi di diversa origine dialettale” aggiungendone via via altri che non riferisco. La lingua di Aprire il fuoco è un impasto di grossetano, ligure, milanese e romanesco, con singole puntate nei più disparati dialetti meridionali per creare una koiné linguistica impiantata su una solida struttura sintattica di italiano cristallino. L’italiano serve a creare una nuova coscienza nazionale, il dialetto a unificare i diversi sforzi verso una direzione comune.

La quale direzione sono le cinque giornate di Milano, che Bianciardi data a metà marzo 1959. La città compatta sacrifica il proprio benessere per elevare barricate di automobili e frigoriferi contro l’oppressore. Le uniche voci critiche sono di Carlo Cattaneo e Giorgio Bocca, il quale stima la rivolta “cosa futile e non risolutiva, un’evasione folcloristica”. Per il resto la città mette da parte le divisioni politico-sociali e tutta unita combatte, resiste e alla fine cade. Fra le ragioni del fallimento Bianciardi indica l’errore “di credere che alla rivoluzione debbano necessariamente seguire nuove istituzioni di governo”. E presumo, a latere, anche comitati celebrativi per istituzionalizzare e sterilizzare la rivoluzione andata a buon fine: una nazione sussiste invece in quella che Gentile chiamava continua contemporaneità della storia, della quale Aprire il fuoco è la miglior traduzione narrativa. Altrimenti si ricade nell’autocitazione e si finisce per issare capziosi distinguo fra gli eroismi di ieri e di oggi.

Facendo tesoro di quest’esperienza, benché virtuale, si potrebbe sostituire il bolso comitato del 150° con uno più creativo, per il 50° delle “gloriose giornate dell’immaginaria insurrezione milanese del 1959”, come specificato dal sottotitolo di una vecchia edizione Bur del romanzo. Da trasformarsi l’anno prossimo in ente (immaginario) che vigili sulla corretta commistione fra bandiere nazionali e simboli regionali, italiano letterario e parlate locali: un comitato per il Risorgimento permanente.

martedì 11 agosto 2009

Alla ricerca della Messa

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Domanda facile facile: perché, dei vari libri di Camillo Langone, la Guida alle Messe è stato l’unico a venire ristampato? Risposta complicata perché le ragioni sono molteplici e interconnesse. Cerco di addentrarmi.

Innanzitutto non credo che sia esclusivo merito del cambio di editore, ossia del passaggio da Marsilio a Mondadori. A Segrate Langone aveva pubblicato qualche anno fa Maccheronica, che raccoglieva le sue recensioni ai ristoranti patri, e la ristampa non era arrivata. Né credo che ciò sia dovuto a quella che può essere sintetizzata nella superficiale notazione: “Tanto in Italia a Messa vanno tutti”: in Italia a Messa vanno in pochi, o comunque meno di quanti dovrebbero, e questa stessa Guida non si spaventa di mazzolare per bene buona parte di costoro. Infine mi sento di escludere recisamente che sia stata scambiata da stuoli di beghine per un allegato di Famiglia Cristiana o una strenna dei padri barnabiti. Le ragioni vanno cercate altrove.

In realtà Langone si allenava da tempo a questo sforzo. Primo critico liturgico d’Italia, la sua rubrica di recensioni sul Foglio era stata inaugurata alla fine del 2005 – ricordo perfino il giorno preciso perché era il mio compleanno, ma presumo che non v’interessi più di tanto. La Guida ha venduto innanzitutto perché non c’era sul mercato un libro simile o in qualche modo assimilabile (sul dorsetto bolognese del Corriere della Sera ho notato che è recentemente apparsa una rubrica sulle omelie domenicali ma m’è sembrata piuttosto melliflua e intrinsecamente relativista). Se inoltre ci sforziamo di considerare esclusivamente la sua produzione in volume, è facile accorgersi che la Guida sintetizza felicemente le due direzioni difficilmente conciliabili intraprese nelle sue due ultime uscite per i tipi di Marsilio. Il collezionista di città si era avventurato da Parma a Potenza in quello che lo stesso Langone definiva “il viaggio in Italia di un erotomane ratzingeriano”. La vera religione spiegata alle ragazze, come usano dire le tristi pubblicità delle tv inglesi, “does exactly what it says on the tin”, faceva esattamente ciò che c’era scritto sulla confezione ovvero copertina: spiegare il Cattolicesimo a dodici signorine diversamente refrattarie ad altrettanti aspetti della corretta spiritualità. Da un lato una curiosità indomita; dall’altro invece vis polemica, saldezza di principii (non di rado in contraddizione coi luoghi comuni di ampi settori culturali) e inesauribile sete di portare dalla parte giusta chi se non altro fa mostre di meritarselo.

La Guida unisce dunque questi diversi aspetti. Ne consegue – secondo motivo per cui ha venduto – che può essere letta in vari maniere e quindi da differenti tipologie di lettori. Quello esplorativo, che vuol sapere come si dice Messa nelle città dove progetta di trasferirsi o da dove sa che non passerà giammai. Quello comparativo (magari sacerdote egli stesso) che vuol sentirsi dire che la Messa della sua parrocchia è migliore di quella altrui o che più spesso teme di essere stato scoperto a celebrare una Messa imbarazzante. Quello restauratore, che spera di trovare residui liturgici in cui la Messa venga ancora celebrata come si dovrebbe anche se il celebrante non è il Papa. Quello iconoclasta, che sotto sotto se la ride quando sente parlare di chiese con l’orologio appeso al muro o di sacerdoti che a fine celebrazione esclamano: “E adesso, un bell’applauso alla Madonna!”. Quello sociopolitico, che fa il conto di quanti sacerdoti dichiarino che le radici cristiane d’Europa non esistono, e quello teologico, che rabbrividisce leggendo di preti che esprimono un cauto scetticismo di fronte a ogni tipo di miracolo, ivi compresa la transustanziazione che avviene sotto le loro stesse zampe.

Per non dire che nella molteplice selva delle Messe italiane Langone ha rinnovato uno dei grandi archetipi narrativi, la quête. È andato alla ricerca di una Messa semplice, sulla base di principii estremamente chiari e, presumo, ragionevoli anche per chi non è cattolico. Ogni chiesa dev’essere illuminata da candele vere e non lumini che saltano appena va via la corrente. Le acquasantiere sono fatte per metterci l’acqua santa. Le panche sono meglio delle sedie perché hanno gli inginocchiatoi; gli inginocchiatoi servono a inginocchiarsi al momento dell’elevazione, quindi è bene utilizzarli; se non ci si inginocchia al momento dell’elevazione si dichiara coi gesti di non credere alla transustanziazione e quindi non si capisce bene perché si sia andati a Messa. Bisogna entrare in chiesa prima che la Messa inizi ed evitare di schiopparne fuori a cinque minuti dalla fine come se il celebrante, invece di benedire, stesse minacciando di sparare ad alzo zero. Prima di fare la comunione è il caso di confessarsi. Le conversazioni al telefonino durante l’omelia e le gare di atletica leggera fra bambini senza guinzaglio nelle navate laterali sono vivamente sconsigliate. Un organo è meglio di dieci tamburelli. La predica è fatta per dire cose sensate, le preghiere collettive per essere recitate collettivamente e i canti per essere cantati. Il prete che dopo la benedizione conclude con “buona domenica” o “buona serata” non crede tanto nella potenza di Cristo quanto in quella di Maurizio Costanzo. La tragedia è che tutti questi esempi di abiezione liturgica sono tratti dalla realtà.

Langone è uno solo quindi non può aver assistito a più di duecento Messe diverse. Si è limitato ad alcune e la sua bravura è stata anche quella di circondarsi di collaboratori volontari (circa cento fra i quali me medesimo, quindi questa recensione è orgogliosamente di parte) i quali gli hanno fornito delle schede di valutazione nelle quali si limitavano a fornire dati concreti: durata della messa, numero di fedeli presenti, citazioni dall’omelia, etc. Dopo di che Langone ha agito come agivano i grandi scrittori di viaggio dei secoli d’oro: ha paragonato il tutto a ciò che conosce e auspica e l’ha descritto fedelmente e giudicato nel dettaglio senza schiodarsi da casa sua. La vivacità con cui è raccontata ogni Messa testimonia che la Guida non è solo un baedeker da consultare ma anche un testo letterario che va letto da cima a fondo: ulteriore ragione per cui ha venduto. D’altra parte a tenere un diario sono buoni tutti, il vero scrittore sa trovare le parole giuste per ciò che gli altri hanno visto o potranno vedere: aiuta a discernere ciò che non a tutti è chiaro.