lunedì 31 agosto 2009

Berlusconi, Lily Allen e la scoliosi

(Gurrado per Quasi Rete)

Buongiorno, sabato abbiamo assistito alla fine del Milan di Berlusconi. Non dico tanto per il risultato – che alla fine è la soluzione ragionevole di quando una squadra molto più debole gioca in dieci contro una squadra molto più forte – quanto per la diffusa sensazione da impero alla fine della decadenza che si respirava a San Siro e il cui odore è arrivato, parlo per me, fino al vallo di Adriano e ben oltre. Il Milan di Berlusconi, prima ancora che una squadra, era una idea. Il binomio “vincere e divertire” è stato il suo verbo. Le vittorie sono arrivate, inutile elencarle, il divertimento pure: quelli che come me sono stati bambini negli anni dell’acme di Arrigo Sacchi si porteranno nella tomba qualcosa che è mancato a chi è cresciuto negli anni dell’acme di Cosmin Contra o di Egidio Calloni. Forse solo quelli che hanno visto Nordhal, forse solo quelli che hanno visto Rocco possono capire. Cambiando allenatori, tesserati, modulo e facendo inevitabili errori (Tabarez, Terim) il Milan è stato percorso da una costante sottile linea rossonera dal momento in cui Berlusconi è disceso dal cielo fino a sabato sera.

Il momento in cui è finito il Milan di Berlusconi è stata l’espulsione folle di Rino Gattuso. Lo scrivo perché le pagine di internet rimangono sempiterne e magari fra due settimane ci si sarà dimenticati della dinamica: il calabroscozzese era franato addosso a Eto’o lanciato in contropiede; ne aveva ricavato il rigore dello 0-2 e una misericordiosa ammonizione, poiché da ultimo uomo dice il regolamento che si va espulsi; non passano due minuti e s’infortuna; chiede prontamente il cambio e, nel mentre che Leonardo fa riscaldare ben bene Seedorf, pensa di farsi giustiza da solo e si guadagna la meritata espulsione gambizzando il neofita Sneijder nel corso di un innocuo scambio a centrocampo. Mi piacerebbe sapere in che lingua ha bestemmiato Seedorf, che è olandese originario del Suriname e già spagnolo prima di trapiantarsi in Italia (Leonardo, lui, ne parla sette e pur lindo e pinto com’è le avrà usate tutte). Anche nel 1990, a Verona, il Milan impazzì e ricavò quattro espulsioni in un sol colpo: Costacurta, Rijkaard, Van Basten e lo stesso Sacchi. Si notò che il Milan di Sacchi non aveva mai visto un cartellino rosso prima d’allora; ma all’epoca la crisi di nervi collettiva fu una protesta contro l’antigioco del Verona, i mezzucci del Napoli della monetina di Alemão, l’arbitraggio scandaloso e isterico di Lo Bello junior – e quindi l’affermazione ulteriore della teoria di Berlusconi, quella stessa che l’anno dopo sconfessò Galliani per aver ritirato la squadra dalla Coppa dei Lampioni (fulminati) al Vélodrome di Marsiglia. L’improvvisa follia di Rino Gattuso significa invece che non c’è più voglia né di vincere né di divertire.

Che poi a Berlusconi, glielo dico da (magari) amico, vendere il Milan converrebbe oltremodo. Innanzitutto non gli conviene legare la propria immagine a una squadra ormai perdente, sia nei risultati (fatta salva la fortuita eccezione del 2007) sia nella gestione. Gli conviene fidarsi di Bossi più che di Ronaldinho. Se poi intende diventare Presidente della Repubblica, o quanto meno candidarsi a rappresentare istituzionalmente anche quegli italiani che non lo soffrono affatto, conservarsi la zavorra di una squadra di calcio – necessariamente parziale dunque, necessariamente sottoposta ad alterne vicende settimanali che mal si sposano con stabilità e credibilità – sarebbe deleterio. Un Milan nuovo, con tutt’altro proprietario e tutt’altra organizzazione, digerirebbe più facilmente rovesci come quello del derby perché non sarebbe più schiacciato dal peso di vent’anni di gloriosa e impegnativa storia recente e sarebbe libero di fare quello che gli pare: anche non qualificarsi per la Coppa dei Campioni, anche andare in B se necessario.

E come ho fatto a vederlo, io che sono in carcere et vinculis, questo derby a distanza siderale? Facile: dopo tre anni di sosta, curiosamente coincisi con il dominio dell’Inter, una rete televisiva inglese ha ricominciato a trasmettere la Serie A. Prima era Channel4 (la stessa del Grande Fratello, c’è da preoccuparsi), ora è la ESPN (la stessa delle repliche delle partite di cinquant’anni fa, c’è comunque da preoccuparsi). In collaborazione con ESPN è peraltro uscito a queste latitudini un numero speciale di Calcio Italia, il mensile che da anni tenta inutilmente di spiegare il nostro calcio agli Inglesi. Il numero costa quattro sterline, ovvero due dobloni, e presenta i rooster della Serie A con notevole dovizia di dati e immagini. È, fatte le debite proporzioni geografiche, un’arte della quale s’è un po’ perso il gusto in Italia, ad esempio quei meravigliosi speciali d’inizio stagione con cui il TV Radiocorriere ha segnato i miei anni ’80 e che ora non esistono più. Calcio Italia è andato solo un po’ in confusione con la Serie C1 che cambia nome (già da un anno, in verità); visto l’andazzo che favorisce il calcio spagnolo l’ha istintivamente ribattezzata “primera divisione”.

Ma spiegare il nostro calcio agli Inglesi è cosa ardua, quasi quanto chieder loro di distinguerci dagli Spagnoli. Di là dal fatto che col termine “calcio” intendono uno sport radicalmente differente – com’è stato dimostrato a sufficienza dagli ottavi di finale di Coppa dei Campioni l’anno scorso – loro alla fin fine prediligono il cricket. Per chi non avesse le idee chiare al riguardo, il cricket è il baseball con la scoliosi. Consiste in una serie di persone vestite tutte allo stesso modo, e comunque in maniera più adatta a un cocktail fra ex compagni di college, i quali danno mazzate a una pallina cercando di colpire parti nevralgiche del corpo mortale degli avversari – o dei compagni, è indifferente. L’arbitro è detto umpire e il suo compito precipuo consiste nel preparare il tè e berselo. A un certo punto qualcuno dei partecipanti urla “wicket, wicket!”, conseguendo così un punto per la propria squadra – o per gli avversari, è indifferente. Sarebbe come se nel calcio si segnasse solo e soltanto quando qualche zuzzurellone si mettesse a urlare “stralcio, stralcio!”. Il cricket non va confuso col croquet, che com’è noto viene giocato con ricci al posto delle palline, pellicani al posto delle mazze e la Regina di Cuori al posto dell’umpire (“Tagliatele la testa!”). Si tratta di uno sport praticato in nazioni altamente civilizzate come l’Australia, l’India, il Pakistan, lo Sri Lanka, il Ceylon, il Catai, la Kamchatka, Atlantide e la Gran Bretagna. Le partite durano cinque giorni, vince chi sopravvive.

In realtà solo i test match durano cinque giorni; ci sono anche partite che hanno una durata ragionevole ma annegano nell’indifferenza generale. Un esempio di test match, anzi il più importante, è terminato domenica scorsa e vedeva impegnata la Gran Bretagna, con il caratteristico pullover bianco, contro l’Australia, con il caratteristico pullover bianco. Gli Inglesi si distinguevano perché avevano i denti cariati. Gli Australiani perché saltavano e se ho visto bene avevano coda e marsupio. A giudicare dal fatto che lunedì mattina i quotidiani seri hanno dedicato dodici pagine ciascuno alla partita ho dedotto che avesse vinto la Gran Bretagna, peraltro facilmente riconoscibile dal caratteristico pullover bianco. Il fatto che martedì tutti i quotidiani fossero usciti con lo stesso inserto speciale sulla partita della settimana prima ha rafforzato la mia convinzione al riguardo.

A uno sguardo meno superficiale del mio, ossia quello di chiunque altro, risulta che il test match finito domenica scorsa si chiama “The Ashes”, ossia le ceneri, esattamente come quelle del mercoledì – si sa che gli Inglesi sono un popolo spensierato e incline a pensieri consolatori. Perché mai? Perché il 29 agosto 1882 la Gran Bretagna, o l’Inghilterra, insomma quelli coi denti cariati avevano perso contro l’Australia, o l’Oceania, insomma quelli con coda e marsupio. Era la prima volta che ciò avveniva su suolo britannico, per di più nel sacro stadio denominato Oval, il Wembley del cricket. La mattina dopo The Sporting Times uscì con un enorme annuncio mortuario, che recitava: “In affezionata memoria / del / cricket inglese / perito all’Oval / il / 29 agosto, 1882, / intensamente rimpianto da una vasta cerchia / di amici e conoscenti. / R(iposi) I (n) P(ace) / Il corpo verrà cremato e le / ceneri verranno traslate in Australia”. Lunedì scorso sul Times (ma penso che fosse una pubblicità) è stato riprodotto lo stesso annuncio ma a geografia inversa: in affezionata memoria del cricket australiano le cui ceneri verranno traslate in Inghilterra. Non vi dico le risate.

In tutto ciò, la settimana scorsa s’è presentata all’Oval la cantante di filastrocche sentimentali Lily Allen e ha coscienziosamente seguito i cinque giorni di pullover bianchi tenendo una pallina da cricket (non già un riccio) in mano. Si è anche lamentata del fatto che i pullover degli inglesi fossero troppo bianchi – li avrebbe voluti invece più color crema, perché avrebbero dato maggior senso di familiare sporco. Ha dichiarato infine che lei, che è di nuovissima generazione essendo nata nel 1985, non sa che farsene del cricket moderno che dura tre orette al massimo, invece smania per i cinque giorni di test match e in particolare per The Ashes perché sono così carichi di tradizione. La medesima Allen qualche anno fa aveva profuso il singolo LDN, nel video del quale andava in giro saltellando (pur non essendo australiana) al grido di “everything seems nice”: passava sopra una cicca di sigaretta e vedeva invece una caramella, oppure scorgeva tre monete d’oro e in realtà aveva appena scansato una merda fumante. Abbiamo capito perché le piace il cricket.

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