Buongiorno, sabato abbiamo assistito alla fine del Milan di Berlusconi. Non dico tanto per il risultato – che alla fine è la soluzione ragionevole di quando una squadra molto più debole gioca in dieci contro una squadra molto più forte – quanto per la diffusa sensazione da impero alla fine della decadenza che si respirava a San Siro e il cui odore è arrivato, parlo per me, fino al vallo di Adriano e ben oltre. Il Milan di Berlusconi, prima ancora che una squadra, era una idea. Il binomio “vincere e divertire” è stato il suo verbo. Le vittorie sono arrivate, inutile elencarle, il divertimento pure: quelli che come me sono stati bambini negli anni dell’acme di Arrigo Sacchi si porteranno nella tomba qualcosa che è mancato a chi è cresciuto negli anni dell’acme di Cosmin Contra o di Egidio Calloni. Forse solo quelli che hanno visto Nordhal, forse solo quelli che hanno visto Rocco possono capire. Cambiando allenatori, tesserati, modulo e facendo inevitabili errori (Tabarez, Terim) il Milan è stato percorso da una costante sottile linea rossonera dal momento in cui Berlusconi è disceso dal cielo fino a sabato sera.
Il momento in cui è finito il Milan di Berlusconi è stata l’espulsione folle di Rino Gattuso. Lo scrivo perché le pagine di internet rimangono sempiterne e magari fra due settimane ci si sarà dimenticati della dinamica: il calabroscozzese era franato addosso a Eto’o lanciato in contropiede; ne aveva ricavato il rigore dello 0-2 e una misericordiosa ammonizione, poiché da ultimo uomo dice il regolamento che si va espulsi; non passano due minuti e s’infortuna; chiede prontamente il cambio e, nel mentre che Leonardo fa riscaldare ben bene Seedorf, pensa di farsi giustiza da solo e si guadagna la meritata espulsione gambizzando il neofita Sneijder nel corso di un innocuo scambio a centrocampo. Mi piacerebbe sapere in che lingua ha bestemmiato Seedorf, che è olandese originario del Suriname e già spagnolo prima di trapiantarsi in Italia (Leonardo, lui, ne parla sette e pur lindo e pinto com’è le avrà usate tutte). Anche nel
Che poi a Berlusconi, glielo dico da (magari) amico, vendere il Milan converrebbe oltremodo. Innanzitutto non gli conviene legare la propria immagine a una squadra ormai perdente, sia nei risultati (fatta salva la fortuita eccezione del 2007) sia nella gestione. Gli conviene fidarsi di Bossi più che di Ronaldinho. Se poi intende diventare Presidente della Repubblica, o quanto meno candidarsi a rappresentare istituzionalmente anche quegli italiani che non lo soffrono affatto, conservarsi la zavorra di una squadra di calcio – necessariamente parziale dunque, necessariamente sottoposta ad alterne vicende settimanali che mal si sposano con stabilità e credibilità – sarebbe deleterio. Un Milan nuovo, con tutt’altro proprietario e tutt’altra organizzazione, digerirebbe più facilmente rovesci come quello del derby perché non sarebbe più schiacciato dal peso di vent’anni di gloriosa e impegnativa storia recente e sarebbe libero di fare quello che gli pare: anche non qualificarsi per
E come ho fatto a vederlo, io che sono in carcere et vinculis, questo derby a distanza siderale? Facile: dopo tre anni di sosta, curiosamente coincisi con il dominio dell’Inter, una rete televisiva inglese ha ricominciato a trasmettere
Ma spiegare il nostro calcio agli Inglesi è cosa ardua, quasi quanto chieder loro di distinguerci dagli Spagnoli. Di là dal fatto che col termine “calcio” intendono uno sport radicalmente differente – com’è stato dimostrato a sufficienza dagli ottavi di finale di Coppa dei Campioni l’anno scorso – loro alla fin fine prediligono il cricket. Per chi non avesse le idee chiare al riguardo, il cricket è il baseball con la scoliosi. Consiste in una serie di persone vestite tutte allo stesso modo, e comunque in maniera più adatta a un cocktail fra ex compagni di college, i quali danno mazzate a una pallina cercando di colpire parti nevralgiche del corpo mortale degli avversari – o dei compagni, è indifferente. L’arbitro è detto umpire e il suo compito precipuo consiste nel preparare il tè e berselo. A un certo punto qualcuno dei partecipanti urla “wicket, wicket!”, conseguendo così un punto per la propria squadra – o per gli avversari, è indifferente. Sarebbe come se nel calcio si segnasse solo e soltanto quando qualche zuzzurellone si mettesse a urlare “stralcio, stralcio!”. Il cricket non va confuso col croquet, che com’è noto viene giocato con ricci al posto delle palline, pellicani al posto delle mazze e
In realtà solo i test match durano cinque giorni; ci sono anche partite che hanno una durata ragionevole ma annegano nell’indifferenza generale. Un esempio di test match, anzi il più importante, è terminato domenica scorsa e vedeva impegnata
A uno sguardo meno superficiale del mio, ossia quello di chiunque altro, risulta che il test match finito domenica scorsa si chiama “The Ashes”, ossia le ceneri, esattamente come quelle del mercoledì – si sa che gli Inglesi sono un popolo spensierato e incline a pensieri consolatori. Perché mai? Perché il 29 agosto 1882
In tutto ciò, la settimana scorsa s’è presentata all’Oval la cantante di filastrocche sentimentali Lily Allen e ha coscienziosamente seguito i cinque giorni di pullover bianchi tenendo una pallina da cricket (non già un riccio) in mano. Si è anche lamentata del fatto che i pullover degli inglesi fossero troppo bianchi – li avrebbe voluti invece più color crema, perché avrebbero dato maggior senso di familiare sporco. Ha dichiarato infine che lei, che è di nuovissima generazione essendo nata nel 1985, non sa che farsene del cricket moderno che dura tre orette al massimo, invece smania per i cinque giorni di test match e in particolare per The Ashes perché sono così carichi di tradizione. La medesima Allen qualche anno fa aveva profuso il singolo LDN, nel video del quale andava in giro saltellando (pur non essendo australiana) al grido di “everything seems nice”: passava sopra una cicca di sigaretta e vedeva invece una caramella, oppure scorgeva tre monete d’oro e in realtà aveva appena scansato una merda fumante. Abbiamo capito perché le piace il cricket.
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