giovedì 29 agosto 2013

Poniamo che voi paghiate, o abbiate dovuto pagare, cento talleri di Imu; e che ora, abolitala, a partire dall'anno venturo dobbiate pagare in tassa sui servizi  esattamente gli stessi cento talleri. Ebbene, vi converrebbe anche se non risparmiate. L'imposta sulla prima casa infatti è odiosa perché è una tassa sul fastidio. Uno è nato per scelte indipendenti dalla propria volontà e da qualche parte deve pur dormire; se gli piove addosso un immobile in eredità secolare, o se a furia di lavorare risparmiando decide di alleggerirsi il conto in banca puntando sul mattone, ecco arriva l'Imu a dirgli che avrebbe fatto meglio a non lavorare, che se i suoi genitori defunti avevano una casa è colpa sua e che, se proprio deve dormire da qualche parte, è giusto che paghi per il disturbo che arreca gravando il suolo: non gli sarebbe convenuto sforzarsi di non nascere? Inoltre l'Imu contiene in sé un paradosso, e cioè che un suo innalzamento indiscriminato renderebbe conveniente a tutti vivere in affitto in una casa di proprietà altrui, ma a nessuno avere una casa propria da affittare agli altri. Moriremmo in breve tempo tutti senzatetto.

Poniamo invece che io viva in una città immaginaria che per convenzione chiameremo Modena. Il Comune mi mette a disposizione autobus frequenti che vanno da un capo all'altro in mezz'oretta; chiude il centro al traffico per farmi passeggiare con comodo ma garantisce il transito ai residenti; si assicura che sulle piste ciclabili si vada in bicicletta e che sui marciapiedi si marci a piedi. Inoltre prende una biblioteca e la riempie di libri, ma scelti fra quelli che la gente ha voglia di leggere con divertimento e profitto; dove vanno gli adulti allestisce anche spazi per i bambini presumendo genialmente che i primi possano avere dei figli e che i secondi possano avere dei genitori; addirittura differenzia la raccolta dei rifiuti e per soprammercato organizza eventi culturali gratuiti, con un occhio di riguardo alla campagna per raccomandare ai più disinvolti di fare poco baccano in giro dopo la mezzanotte ché magari al piano di sopra c'è la vecchietta che deve riposare o lo studente che l'indomani ha l'esame. Io, se vivessi a Modena, in tasse sui servizi verserei volentieri anche il doppio di quanto mi sottrae l'Imu perché il Comune si fa garante del mio benessere e ho l'obbligo di finanziare i miei alleati e protettori.

Poniamo invece che io viva in un'altra città immaginaria, che per convenzione chiameremo Gravina. Il Comune mette a disposizione autobus invisibili a cittadini molto distratti i quali non li vedono passare mai; il centro storico è aperto al traffico, così che nelle stradine più anguste i pedoni debbano consentire il passaggio delle automobili salendo su marciapiedi che non di rado si trovano altrove; quelle parcheggiate in divieto di sosta non hanno la multa sul parabrezza perché forse i vigili urbani si dispiacciono, e i bidoni della differenziata sono accuratamente nascosti, con l'ovvia eccezione di quelli che fungono da pubblico vespasiano. Viene organizzato il concorso Balconi Fioriti così che cittadini e turisti passeggino ammirati col naso all'insù finendo regolarmente coi piedi nelle deiezioni canine, quando non semiumane, che i copertoni hanno previamente provveduto a spalmare sull'asfalto senza che a nessun assessore sia venuto in mente non dico di inviare un furgoncino che ripulisca ma quanto meno di organizzare il concorso Strade Cacate. Potrà sorprendervi ma io, se anche vivessi in un posto del genere, sarei altrettanto felice di versare una tassa sui servizi: può comunque essere un'occasione per salire in municipio e sputare in faccia al sindaco, perché quando c'era l'Imu io davo fastidio a lui ma dall'anno venturo sarà lui a dar fastidio a me.

martedì 27 agosto 2013

Il guaio è che siamo ancora fermi al 1977. Era l’anno di “Un borghese piccolo piccolo”, con Alberto Sordi che accompagna il figlio al concorso per il Ministero. Arriva la convocazione alla prova scritta tempo tre settimane, il figlio dichiara di star già iniziando a cacarsi sotto, il padre lo rimprovera di non fare così ché sembra sua madre, la madre protesta ma intanto va in chiesa a fare stregonerie con l’acquasantiera, il figlio teme comunque di non farcela, il padre prende le ferie per aiutarlo a prepararsi e gli ripete che se fanno il loro dovere, tutti e due a tavolino fino a tarda sera, ce la faranno. E poi, il giorno del concorso, viene scandito il lento rituale: la mamma che assiste il ragazzo mentre s’infila i calzini, il segno della croce prima di uscire di casa, la dormita in tram, il cornetto al bar; questo ragazzo che non è più un ragazzo, imbolsito, vestito come uno studente di scuola media affetto da gigantismo, ha sette biro in tasca per timore che finisca l’inchiostro e lo sguardo spento di un perfetto Vincenzo Crocitti che a ogni passo sembra più vecchio del padre dal quale si fa trascinare verso il posto fisso, verso lo Stato che – esclama Alberto Sordi – non fallisce mai.

Sul Foglio di oggi trovate un paginone in cui racconto il dipanarsi del concorso docenti convocato dall'ex ministro Proumo, spiego la differenza fra professori e alunni, faccio due complimenti a Mariastella Gelmini e incidentalmente ammetto di essere anch'io nato di donna. 

[Ora disponibile anche sul sito del Foglio.]

lunedì 26 agosto 2013

Ora che è iniziato il campionato di Serie A, per gli scrittori italiani sono guai. Il mio articolo di sabato scorso da oggi è reperibile sul sito del Foglio.

domenica 25 agosto 2013

"Mica per niente si chiama Sabato Sprint", ha detto ieri non so con quanta ironia Sabrina Gandolfi a mezzanotte meno venti, cinquanta minuti dopo l'inizio della trasmissione, lanciando il servizio sulla partita delle 18 per il quale mi ero rassegnato ad aspettare fino a ottobre.

Su Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport, oggi avanzo una modesta proposta alla Rai: o cambiare la scaletta di Stadio Sprint, o cambiare il titolo della trasmissione.

sabato 24 agosto 2013

È difficile seguire il consiglio di Hemingway in “Fiesta”, cioè che lo scrittore deve traghettare dagli atti rituali dello sport alla mitologia che sedimenta nella memoria collettiva; impastoiarsi nel rito è da grigi cronisti, strombazzare il mito da editorialisti faziosi.

Ho letto C'è un grande prato verde (Manni) e ho capito perché quando inizia il campionato di Serie A gli scrittori italiani vanno in crisi. Spiego tutto in prima pagina sul Foglio di oggi.

giovedì 22 agosto 2013

Io purtroppo voto in Puglia quindi qualche anno fa un signore mi aveva chiamato apposta per dirmi: "Non m'importa cosa pensi dei comunisti, non m'importa cosa pensi degli omosessuali, parlo a te in quanto giovane; stavolta non puoi non votare Nichi Vendola, perché non è un politicante ma un poeta". Lì per lì non ho trovato di meglio che rispondere che Nichi Vendola non lo avrei votato affatto: nulla contro gli omosessuali, figuriamoci contro i comunisti, ma lo scrivere poesie mi sembrava una responsabilità troppo grande per passarla sotto silenzio. Da allora sono trascorsi quasi due mandati da governatore della Puglia e ho sempre mantenuto nei confronti di Vendola un'istintiva diffidenza, come di fronte a un nemico conclamato, di un'intensità tale che nemmeno decine di sillogi versificate sarebbero in grado di giustificare.

Finché stamattina sul dorsetto barese del Corriere della Sera ho letto un articolo sul governatore dell'Abruzzo Gianni Chiodi il quale suggerisce di chiudere l'Università di Bari per i magri risultati che ha mietuto nella graduatoria nazionale di valutazione della ricerca. Nella polemica è intervenuto Nichi Vendola, il quale prima mi informa che in Italia ci sono troppo pochi laureati, mentre io erroneamente credevo che ci fossero troppi laureati disoccupati; poi contesta un'iniziativa del governo Letta volta a incentivare con apposite borse di studio gli studenti meritevoli che decidano di andare a studiare fuori dalla propria regione. "Se ciò accadesse", dichiara Vendola, "sarebbe l'anticamera di una vera e propria emigrazione culturale verso le Università del Nord e noi non lo permetteremo", plurale majestatis.

Se ne deduce che la Puglia brulica di studenti meritevoli i quali, se solo qualcuno li finanziasse, vorrebbero scappare a studiare al Nord; ma Nichi Vendola, l'eroe di noi giovani, è pronto a tutto pur d'impedirlo, proferendo loro queste parole di cui faccio la parafrasi in prosa corrente: "Io vi salverò, io non permetterò che le migliori menti della mia regione siano costrette ad andare a studiare in università lontane, magari classificate ai primi posti della graduatoria Anvur per la valutazione della ricerca, col rischio che i pugliesi di domani vengano posti di fronte a una proporzione studenti/professori inferiore all'ordine delle tre cifre o che addirittura, in un futuro non troppo lontano, trovino un lavoro retribuito. Né lascerò che siano sottoposti a esami che si svolgono nella data prestabilita, alla mercé di docenti reperibili negli orari di ricevimento, venendo magari alloggiati in strutture non fatiscenti e talvolta perfino finanziate da benefattori e mecenati. Non voglio che gli studenti pugliesi vadano a finire in regioni più ricche e produttive, né che si confrontino con realtà estranee, e dovrà passare sul mio cadavere chiunque voglia surrettiziamente spingerli a maturare allontanandosi da papà e mammà. Perché a un giovane meritevole, solo perché è nato in Puglia, non devono essere negate le stesse opportunità di un giovane nato al Nord?".

Già, perché? Io non lo so con precisione ma da oggi so perché, quando vedo una foto di Nichi Vendola, mi si rizza il pelo sulla schiena come ai gatti.

[Ora è disponibile anche sul sito di Tempi, con foto di Nichi Vendola per provare se fa lo stesso effetto anche a voi.]

lunedì 19 agosto 2013

Tutti prendono in giro Franco Bragagna per il tumultuoso accavallarsi di concetti nelle sue telecronache; è un alternarsi di nozioni infinitesimali e metafore friedrichiane, lampi e cantonate, spoonerismi, raggiri di parole e dissociazionni d'idee, aneddoti da caminetto.

Su Quasi Rete recensisco lo stile liberissimo nelle cronache dei Mondiali di atletica di Franco Bragagna, l'ultimo narratore sperimentale.

domenica 18 agosto 2013

Stamattina ho assistito alla Messa non voglio dire più deprimente della mia vita, ma a una che avrebbe potuto essere migliore se il lettore non fosse stato semianalfabeta, se il canto dell'Alleluia non avesse trasudato lassitudine e sconforto, e se, visto che si trattava della Messa per i bambini, ci fosse stato almeno un bambino (il più giovane ero io). Lì ho sentito leggere dal Vangelo: "Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione". E' seguita come commento a queste parole un'omelia critica sulla critica di un qualche innominato esponente della Lega al discorso di Papa Francesco a Lampedusa; nonché un'argomentazione contro il compromesso del governo di larghe intese.
Com'è come non è mi sono tornate in mente le parole che ieri avevo letto in Cina e altri orienti di Giorgio Manganelli (Adelphi): in Pakistan "la Corte sentenzia non tanto 'in nome' quanto 'per conto' o 'su delega' di Allah"; "quanto al Capo dello Stato, costui governa a sua volta 'su delega', giacché il mondo non appartiene ad alcun uomo, ma tutto e solo ad Allah". Ancora, il Pakistan è "una comunità sacra - 'umma' - che collettivamente pensa ed è pensata da Dio, e che vive in modo totalmente posseduto dal sacro, in quanto appartenente a Dio"; quindi "non esiste legge dello Stato, anzi non esiste propriamente Stato, ma solo la 'sunna', la tradizione, la legge che la collettività custodisce da sempre". Dichiara infine un pakistano: "Noi siamo una 'umma', esistiamo nel disegno di salvezza di Allah"; "noi siamo un popolo di Dio, una nazione che è tale in quanto pensa ed è pensata da Dio".
Ecco, nel Pakistan del 1979 tutto parlava di Dio mentre nella civile Italia del 2013 tutto parla dell'Imu, dell'agibilità politica, delle prerogative del Quirinale e del rimpasto di governo. Quando prima o poi l'Occidente sarà morto e sepolto, sulla nostra lapide quest'epitaffio sarà scritto: "Avevamo la vera religione / ma non eravamo persone serie".

sabato 17 agosto 2013

Che Yelena Isinbaeva fosse brava lo sapevamo; che sia bella, si vede; adesso scopriamo che è anche intelligente. L'interesse delle sue dichiarazioni sulla presunta legge anti-gay promulgata ad Putin non risiede tanto nella considerazione che la Russia sia diversa e più eterosessuale di altri luoghi; quest'affermazione è statisticamente sindacabile come qualsiasi asserzione sulla sessualità, che è la parte nascosta e sfuggente di ciascuno (anche se, non so se siete mai stati in Russia, non so se avete mai visto le russe, ma se ci siete stati, se le avete viste, mi sembra chiaro il motivo per cui, ecco, ci siamo capiti). Piuttosto mi ha colpito la scioltezza con la quale ha spostato il discorso su un piano differente e superiore, mettendo in evidenza la fallacia degli omosessualisti. Il punto non è infatti stabilire se essere omosessuali sia bello o brutto, né se l'universale affermazione dell'omosessualismo migliorerà o peggiorerà questo mondo scombiccherato. Il punto è invece, come ha detto la Isinbaeva, che le leggi di un paese vanno rispettate dai forestieri che ci passano così come gli abitanti di quel paese devono rispettare le leggi altrui nei propri passaggi all'estero. Gli omosessualisti cercano di affermare la propria convinzione spacciandola per principio universale, e per questo hanno ottenuto che la legge russa che proibisce la propaganda omosessualista in presenza di minori venisse bollata col marchio di "legge anti-gay"; se fosse passato il nome, poniamo, di "legge salva-bimbi" allora la reazione del pubblico superficiale e distratto sarebbe stata presumibilmente diversa. La Isinbaeva, guardando abitualmente il mondo da un'altezza prossima ai cinque metri, ha colto che una legge non deve essere l'affermazione di un principio generale calato dall'alto ma la soluzione di un problema particolare che emerge dal basso; e che come tale deve rispondere alle esigenze di un certo gruppo di persone entro determinati confini. Purtroppo ha ammesso di non parlare bene l'Inglese e di essersi espressa male. Se avesse voluto passare alla storia, alla domanda in conferenza stampa avrebbe potuto rispondere "there is no such thing as mankind", ossia l'umanità non esiste e quindi è inutile cercare principii che valgano per tutti. Esistono degli individui che compiono degli atti e poi ne rispondono alla propria coscienza, eventualmente alla polizia e sicuramente un domani al Padreterno; esistono agglomerati di individui che si danno delle regole circoscritte all'agglomerato, e ognuno può vagliare se e quanto gli convenga trasgredire; a casa propria uno fa cosa vuole e a casa altrui si adegua. Se non gli piace non ci va, e non si sentirà la sua mancanza. Sentendo le dichiarazioni della Isinbaeva infilate da un qualsiasi telegiornale fra le nostre beghe agostane, fra il questicidio e la quellofobia, ho capito che l'Italia sbaglia a rimpiangere di non avere atlete come lei. Avremmo bisogno di donne.

domenica 11 agosto 2013

Mi fanno presente che sul nuovo numero del trimestrale L'Estroverso Raffaella Belfiore recensisce Voltaire cattolico. Si trova anche online cliccando qui.

sabato 10 agosto 2013

Gli italiani, che tragedy, non sanno l'Inglese. Ieri ad esempio è stato diffuso un video in cui il sottosegretario a non so che Michaela Biancofiore dichiarava alla Bbc che Berlusconi è innocent, mica delinquent. Allora giù improperi e sberleffi da parte del cosiddetto popolo di internet, cioè il quarto Stato composto da chi anziché fare qualcosa sta seduto ad aspettare di criticare quello che fanno gli altri: che imbarazzo la Biancofiore che parla Inglese togliendo le vocali in coda alle parole, the vocals from the parols. Ebbene, se il popolo di internet sapesse l'Inglese saprebbe anche che si tratta di una lingua composita che assomma termini di origine sassone a termini di derivazione latina, i quali pertanto spesso coincidono con quelli italiani scevri dell'ultima vocale. Se avesse mai prestato opera di traduzione o interpretariato, il popolo di internet, saprebbe che l'Inglese più diventa difficile per loro più diventa facile per noi, ovvero che i termini inglesi più aulici sono proprio quelli di origine latina che risultano più immediati e intuitivi per gli italiani. Se il popolo di internet avesse quanto meno letto Beppe Severgnini, saprebbe che costui si rallegra all'idea che in quanto italiani latinofoni disponiamo di un arsenale di termini elementari che ci consente di parlare un Inglese sofisticatissimo per i madrelingua. Se possedesse un dizionario Inglese/Italiano, il popolo di internet, potrebbe trovarci scritto (ricopio dal mio Hazon/Garzanti): "Innocent, agg., innocente, non colpevole: the accused (o the defendant) is innocent, l'imputato è innocente. Delinquent, agg., (dir.) colpevole, (amm.) inadempiente, insolvente: s. juvenile delinquent, delinquente minorenne". Ora, non voglio dire che Michaela Biancofiore conosca a memoria il dizionario, ed è magari probabile che andando a intuito sappia l'Inglese a sua insaputa; fatto sta che il famoso popolo di internet è composto da una manica di presumptuous ignorants.

[Ora disponibile anche sul sito di Tempi, il settimanal cattolic & dadaist.]

venerdì 9 agosto 2013

Il fatto, spiega Brooker, è che "la gente prende tutto sul serio. Quando parli sul serio pensa che sei sarcastico e quando sei sarcastico pensa che parli sul serio. La morale, naturalmente, è che la gente dovrebbe smettere di tentare di comunicare".

Sul Foglio in edicola oggi illustro il paradosso di Charlie Brooker, il geniale giornalista inglese (autore di Black Mirror) che scrive di non scrivere per ridurre le emissioni globali di fuffa.

(Per approfondire, qui c'è l'articolo di congedo di Brooker sul Guardian e qui la conseguente inchiesta di Piero Vietti sul Foglio.)

sabato 3 agosto 2013

Spiace che Cécile Kyenge non vada alla festa della Lega; per fortuna non ci vado neanch'io altrimenti ne avrei approfittato per chiederle una cosetta. Lei, precisamente, di cosa si occupa? C'è un vago ricordo della delega all'integrazione, quasi nessuno sa che per colpa della palestra di Josefa Idem le è stata assegnata anche la delega alle politiche giovanili. Le offese che ha ricevuto sono senz'altro becere e gravi, ma quando parlano di lei i quotidiani si limitano a riferire delle sue brillanti reazioni agli insulti, riducendo l'operato della Kyenge alll'integrazione del ministro stesso nel Consiglio dei Ministri. Anche cronisti insospettabili ormai non la definiscono più col titolo corretto del suo dicastero ma come "primo ministro nero della Repubblica", confondendo il ruolo con l'identità e suggerendo tacitamente che il ministro nero in tanto è ministro in quanto è nero. In questo contesto di vacuità tautologica un consigliere comunale del varesotto ha conseguentemente definito la Kyenge "ministro del nulla" ed è stato pavlovianamente tacciato di razzismo nonostante che avesse espresso un giudizio politico, per giunta sul ruolo e non sull'identità della Kyenge. Ecco, Enrico Letta è un politico giovane ma esperto, sagace, furbacchione. Se avesse affidato alla Kyenge Viminale o Farnesina non mi sarebbe importato che il ministro fosse nero, bianco, giallo, rosso o blu; invece ha sottilmente consegnato al ministro nero il ministero che si occupa dell'integrazione, fra gli altri, del ministro stesso. Così qualsiasi critica politica le si fosse mossa sarebbe finita nel mucchio della cagnara sul colore della pelle. Scelta di abilità politica estrema e di sottile, cinico,  machiavellico, quasi soave razzismo.