Il tempo potrebbe rivelare che Samuel Beckett è stato più grande come romanziere che come drammaturgo: bisognerà attendere fino alla metà di questo secolo per confrontare i suoi risultati teatrali con lo stato del teatro nel 2050, e i suoi risultati come romanziere con lo stato della narrativa nello stesso anno. Oggi, a vent’anni dalla sua morte e quaranta dall’assegnazione del Nobel, possiamo soltanto trarre impressioni dalla tendenza generale; a occhio, la tendenza è che al momento sembri più facile inscenare un dramma à
Le tre parti della trilogia sono separate e interdipendenti come accade nella cosmogonia indiana, secondo la quale il mondo viene sorretto da un elefante poggiato su una tartaruga. Molloy può essere il mondo: è il più lungo dei tre romanzi, l’unico a essere diviso in due parti speculari, l’unico a presentare pagine graficamente rispondenti alle abitudini del lettore, scandite in agevoli capoversi. È anche l’unico in cui i personaggi si muovano: spostandosi da un luogo all’altro forniscono una parodia dell’archetipo del romanzo-viaggio sia l’eroe eponimo Molloy, che stentatamente s’avanza su un percorso incerto facendo leva sulle proprie stampelle, sia il deuteragonista Moran, detective incaricato di rintracciarlo e progressivamente attanagliato da una malattia alle gambe che lo costringe a finire strisciando.
Nella prima metà la voce narrante è Molloy, nella seconda Moran. Molloy si qualifica da solo come narratore inaffidabile, ostentando un complessivo disinteresse per il mondo ostile che lo circonda e giungendo fino a ritenere incerta l’identità della madre con cui viveva. Il suo orizzonte è limitato al goffo e disperato tentativo di reggersi in piedi, o di avanzare strisciando, nonché al possesso di pochi oggetti e al vano tentativo di imporre un ordine razionale su di essi: una scena-chiave del volume è la descrizione, per pagine e pagine, di come Molloy cerchi un algoritmo per non succhiare due volte una delle sedici pietre di fiume che possiede prima di aver succhiato a turno tutte le altre. Moran invece parte baldanzoso, dopo cento pagine dell’ossessiva narrazione di Molloy, come esponente del positivismo letterario: ha una famiglia, una vita regolare, una missione da compiere e la fiducia di portarla a termine. Il suo racconto ne costituisce il verbale; la prosa di Beckett ne risente e si fa più tradizionale: “È mezzanotte. La pioggia sferza i vetri”, inizia. Ma è solo un appiglio per la parodia e progressivamente la personalità di Moran si sfalda: salta
Malone muore è l’elefante su cui poggia il mondo, per così dire, nonché il secondo stadio della destrutturazione della credibilità narrativa. Protagonista e voce narrante è il vecchio Malone, di età potenzialmente infinita, rinchiuso in una camera ad aspettare di morire. Possiede un quaderno, due matite e un bastone uncinato per raccogliere gli oggetti sparsi tutt’attorno, dei quali via via dimentica la presenza. Il suo obiettivo è intrattenersi fino al momento estremo, raccontandosi storie forse inventate, forse autobiografiche. La sua prosa è scandita da un ritmo lentissimo, morente appunto, e va a capo piuttosto di rado, anche ogni cinque o sei pagine. Oltre che inaffidabile, è un narratore capriccioso: parte in quarta, ristagna, cambia nome ai personaggi, si annoia, s’interrompe perché ha perso la matita e così via. Soprattutto disprezza quello che racconta, ne lamenta l’inutilità di vacuo pour-parler rivolto al muro. È un affabulatore stanco che accoglie la morte come unico possibile sollievo dalla narrativa lasciando poche parole in sospeso sull’ultima pagina.
Al protagonista de L’Innominabile questo sollievo è negato. Lui è come la tartaruga che regge il peso non solo di tutto il mondo, ma pure dell’elefante. Non ha mobilità, non ha consistenza, è una specie di palla sospesa in un vuoto assoluto. Non ha nemmeno le palpebre per asciugarsi le lacrime. Non può distogliere lo sguardo da un punto nel quale vede periodicamente passare Molloy, Malone, Murphy, Mercier, buona parte dei personaggi di Beckett. Nessuno gli parla ed è costretto a scrivere continuamente, senza sosta né desiderio, da un committente che si chiama Mahood, inquietante omofonia con “manhood”, “genere umano”. Anche Molloy nel primo dei tre romanzi aveva un committente, che periodicamente andava a ritirare le pagine che gli aveva dato da ricopiare, e le sue avventure iniziano proprio quando smette di ricopiare perché non ha voglia. Non solo l’Innominabile non può smettere, invece, ma Mahood non ritira mai né tanto meno legge le sue pagine. La prosa è ipnotica, cadenzatissima. L’ultimo interminabile capoverso divora più di cento pagine e si conclude sulla sconsolata notazione dell’impossibilità e della inevitabilità della narrativa: “bisogna continuare, non posso continuare, continuerò”.
Nella Trilogia Beckett mette a frutto la palestra di narratore alla quale era stato sottoposto nella Parigi degli anni ’30 quando Joyce, ormai quasi del tutto cieco, lo costringeva a lunghe sessioni di dettato e trascrizione di pagine e pagine di Finnegans Wake – Beckett come Molloy, dunque, e come l’Innominabile, mentre Joyce doveva sembrargli più simile a Malone morente. La leggenda vuole che un giorno Joyce sentisse bussare e interrompesse la dettatura per dire “Avanti”, mentre Beckett imperturbabile inseriva nel testo scritto anche l’interruzione. Se si dovesse tentare di dare un peso specifico all’aggettivo “beckettiano”, basandosi sul suo grande affresco narrativo, balzerebbe innanzitutto all’occhio la ripercussione su vasta scala di quest’ immobilità autistica, che ci permette di immaginare l’autore seduto imperturbabile al tavolino, di fronte a una finestra eclissata da un muro, mentre con capoversi granitici aggiunge una parola all’altra per raccontare personaggi completamente fermi.
Lo fa in ragione di un’oggettività ineluttabile, ossia di una concezione puramente meccanicistica dell’universo a ogni suo livello, che si scontra con l’impossibilità della precisione terminologica, ovvero col grande problema del linguaggio che affonda le sue radici nel Cratilo di Platone e addirittura nella Genesi: la mancata corrispondenza fra una parola e l’oggetto che designa. I personaggi di Beckett cercano morbosamente una rappresentazione del reale in scala 1:1, salvo poi arrendersi e avvertire esplicitamente che hanno usato un termine o un nome in luogo di un altro perché in fondo non ha importanza. L’oggettività è un dato di fatto e come tale viene percepito quale violento e respingente: quindi la fisicità dei personaggi di Beckett è assolutamente repellente (sporcizia, deformità, inanità sono le caratteristiche di base) e l’interrelazione fra due di loro è sempre incongruente; il sesso è grottesco. Tutti i personaggi però vengono costretti all’azione da un Dio/autore che è capriccioso e annoiato come Malone, e quindi li pone continuamente di fronte al più completo scacco nella realizzazione dei loro progetti: e il primo progetto di tutti è lo stesso romanzo di cui sono protagonisti, e che finisce più per autocombustione che per compimento.
Romanzi beckettiani, ora come ora, in giro non ne vedo. Si tornerà a scriverne quando si realizzerà che la letteratura è un passatempo inutile, una tortura oziosa.