(Gurrado per Quasi Rete)
Qui al weekend si leggono i giornali, quindi alla fine della settimana che posso fare? Mi adeguo e leggo i giornali anch’io. D’altra parte mi sembra che in Inghilterra comprando un quotidiano si compri un annesso corso di giornalismo. Prendete il Guardian, ad esempio, che è il mio preferito. Nato a Manchester, ora consta di quattro sezioni al giorno: il giornale propriamente detto, un fascicolo di dodici pagine esclusivamente dedicate allo sport, una sezione a casaccio fra mass-media, lavoro, finanza eccetera e infine il G2, il tabloid spillato che ospita l’approfondimento brillante (tema di copertina di venerdì scorso: come rapire il boss – gli impiegati del G2 sequestrano la caporedattrice – dettagli a pagina 4). Al sabato le sezioni diventano sette; non c’è il G2 ma in compenso si trovano ventidue pagine esclusivamente dedicate alle recensioni di libri – ragion per cui, se a uno putacaso piacciono i libri e lo sport, il Guardian diventa automaticamente il giornale da comprare ogni giorno (messaggio promozionale), anche se di tanto in tanto non è facile capire quando scherza e quando no.
Tanto per dire, sempre venerdì, lo stesso numero che rendicontava il ratto della caporedattrice ospitava un raffinatissimo esercizio di alta mimesi scrittoria, un pastiche parodistico di discorsi già sentiti fare e rifare mille volte da gente tipo Tana de Zulueta (se non sapete chi sia, non siete i soli; se sapete che è italiana, forse non siete italiani voi): che Berlusconi possiede il monopolio della comunicazione italiana, e bla bla bla, e che metà dei giornalisti italiani lavora per lui mentre l’altra metà sa che potrebbe lavorare per lui un giorno, e bla bla bla, e che se un Italiano scrive qualcosa deve prima chiedere il permesso a Berlusconi, e bla bla bla, e che gli Italiani sono tenuti all’oscuro delle gaffe di Berlusconi, e bla bla bla. L’anonimo articolista, per vezzo forse eccessivo, aveva ritenuto opportuno firmare questa riuscita presa in giro col nome della sua stessa vittima, ossia non Berlusconi ma Tana de Zulueta; geniale poi la notazione a fine articolo, nella quale veniva specificato – così, secco secco – che Tana de Zulueta è stata membro del Parlamento italiano, peculiarità che (sottintendevano forse) l’accomuna tanto a Benedetto Croce quanto a Cicciolina. Tale la profondità, che solo a stento era possibile distinguere l’articolo di Tana de Zulueta (vera? presunta?) da quello di Eric Hobsbawn ospitato appena una pagina prima. A conferma che se uno compra il Guardian ce n’è per ogni gusto, perfino il peggiore.
Io lo leggo così: salto a pie’ pari le inevitabili pagine dedicate alle notizie e vado dritto ai commenti, nascosti nella seconda metà della prima sezione, poco prima degli annunci mortuari e dei compleanni celebri – che altresì leggo entrambi avidamente, nella speranza di scorgere il mio nome infilato prima o poi in uno dei due box. Trasferitevi dunque in Inghilterra pure voi, tutti quanti, e comprate il Guardian ogni giorno, domenica esclusa. Nel settimo giorno si riposa, parafrasando, anzi si trasforma nell’Observer che per certi versi è anche meglio, un quotidiano/settimanale talmente bello che se uscisse più di una volta ogni sette giorni perderebbe parte del prestigio che gli deriva dal fare così il prezioso.
Questo per spiegare che ai miei occhi non tutti i mutamenti vengono per nuocere. Ha nuociuto il cambiamento del Times, che s’è ristretto nelle dimensioni e nella gittata degli articoli (nessuno si azzardi a dire che le misure non contano); non nocerebbe un cambiamento dell’Independent, un giornale che in Italia viene citato ogni due per tre come fonte di magnifica autorevolezza senza considerare che è passato alla storia per: 1) nel 2003 avere scritto che gli Italiani d’estate non vanno in villeggiatura, non avendo i soldi, bensì si nascondono nello scantinato per due settimane e poi riemergono spacciando di essere stati alle Maldive o alle Hawaii, sempre ammesso che le distinguano; 2) nel 2007 avere pubblicato sull’ultima pagina, che per la sua conformazione compatta è anche la prima di sport, un titolo che parlava a chiare lettere stampatelle di BECKAM, senz’acca, che è un po’ come titolare appresso a un eventuale TREZEGHET. Oppure CASANO. Impresa emulata solo dalla Gazzetta di Modena, beneamata, che alla morte di Pavarotti si produsse in un commosso titolo cubitale giallo paglierino, che recitava intrepido TUTTO IL MONDO AI SUI PIEDI.
Ma se penso a quanto amo lo sport – guardarlo, non farlo, ché a tentare schiatto, ormai temo, com’è risultato evidente oggi pomeriggio quando ho ansimato per coprire camminando il percorso che quand’ero giovane, un paio d’anni fa, inghiottivo correndo – dicevo: ma se penso a quanto amo lo sport, rari esempi mi vengono in mente di cambiamenti positivi, passati e soprattutto futuri. M’è tornato in mente, questo concetto, apprendendo che il mammasantissima dello snooker intende cambiarne le regole in men che non si dica. Avete presente lo snooker, vero? È il bigliardo inglese. Si gioca su un tappeto più lungo di quello dei nostri bar, sterminato anzi, forse memore delle interminabili verdi distese britanniche sulle quali piove un giorno sì e l’altro pure. Mordecai Richler (che si scrive senz’acca, e quindi c’è da presumere che l’Independent lo scriverebbe con) gli ha dedicato un appassionato libretto che s’intitola appunto On Snooker, e che Adelphi ha tradotto Il mio biliardo. Sintetizzando, si è dotati di quindici palle rosse che valgono un punto ciascuna e vanno mandate in buca a una a una; solo quando si è finito con loro si può passare alle ulteriori palle colorate, una anche romanticamente rosa, che valgono ciascuna un numero crescente di punti e vanno gettate in buca nell’ordine. Come suggeriva Jerome K. Jerome, l’unica maniera razionale di affrontare lo snooker è tirare con tutta la forza possibile affidandosi alla Provvidenza, che di solito però risulta impegnata altrove.
Si tratta veramente di uno sport, giuraddio, perché le partite sono interminabili e più passa il tempo meno si riesce a vedere l’altra parte del tavolo, e a furia di girarci attorno le gambe si rammolliscono, e le quindici palle rosse sembrano aumentare anziché diminuire, e le palle colorate ti guardano beffarde trasformandosi da ambita preda in ostacolo vigliacco, che va a sistemarsi fra te e la palla rossa che vuoi, che devi mandare in buca minacciandoti di penalità via via più consistenti. Più del cibo e del clima, lo snooker è la principale causa della melanconia inglese.
Li rallegra tuttavia quando, come a partire dal 18 aprile prossimo, si terrà il torneo detto The Crucible: che il correttore automatico di word si ostina a correggermi in “The Cruciale”, forse non sbagliando di molto; che è legato da omonimia a un dramma di Arthur Miller recentemente tornato di moda; che è, soprattutto, il campionato mondiale degli snookeristi trasmesso in diretta dalla BBC ogni anno per ore e ore per giorni e giorni. Costringendo i partecipanti a lunghe partite filate, una dietro l’altra, il vincitore non finisce per essere soltanto il migliore del lotto; dev’essere perfetto, imperturbabile, infallibile, un semidio. A meno che non passi negli anni a venire la proposta di cui dicevo poco fa, e che consiste nella riduzione un po’ di tutto: della lunghezza del tappeto, del tempo di gioco, addirittura del numero delle palle rosse. Dice che così lo sport sarà più facile da seguire, le partite dureranno meno e potranno essere moltiplicate, e che alla diminuzione della fatica corrisponderebbe un aumento proporzionale del valsente. Peccato, però, che le corrisponderebbe anche una diminuzione proporzionale della gloria del vincitore, declassato via via a uomo come tutti, poi tiratore passabile, quindi favorito dalla sorte, infine “sapevo farlo anch’io”. Passasse l’orrenda riforma, ne godrebbe solo il fantasma di Carlo Marx: sarebbe la prima applicazione comprovata della caduta tendenziale del saggio di profitto.
Speriamo che non cambi, insomma: sarebbe come trasformare un levriere in bassotto. Se penso a quanto amo lo sport, stavo dicendo prima di interrompermi, non posso non considerare con sgomento quanto siano cambiate varie discipline da che le seguivo ragazzino. Ci credereste che un tempo la pallavolo si giocava senza libero e con il cambio palla? La pallacanestro europea si articolava in due tempi, non quattro. Il tennis era ricamo, non clave. La pelota basca pare che sia rimasta immutata. In compenso la formula 1 consentiva l’utilizzo di esseri umani oltre che di automobili. Né i ciclisti correvano vestiti da astronauti (a proposito, dopo la seconda tappa del Giro dei Paesi Baschi il Guardian riportava la seguente classifica generale: primo Sanchez, secondo Kolobnev allo stesso tempo, terzo Pineau allo stesso tempo, come anche Knees, Samuel Sanchez, Egoi Martinez, Nibali, Contador, Cunego e un’altra dozzina di corridori; in compenso Swift portava 7 ore 52 minuti e 20 secondi di ritardo, che dopo due tappe non sono niente male, per tacere delle 9 ore e 50 di Wegelius: forse nel mentre che ero distratto hanno cambiato pure le regole del ciclismo, o forse il Guardian ha copiato i risultati dall’Independent). E il calcio?
Il calcio in Inghilterra è cambiato vent’anni fa, nel giro di poche settimane. Il 15 aprile 1989 il calcio inglese morì a Hillsborough, insieme a novantasei tifosi del Liverpool schiacciati contro le recinzioni dello stadio mentre attendevano di guardare la semifinale di FA Cup. Fu la tragedia più grande del calcio locale, soprattutto per le migliaia di tifosi che videro da vicinissimo i corpi dei loro amici ridursi a un cumulo di carne informe. Molti decisero di non mettere mai più piede in uno stadio. Il 26 maggio 1989, nell’ultima partita di campionato, il Liverpool primo in classifica ospitava l’Arsenal secondo. La classifica richiedeva che l’Arsenal, malconcio e in crisi, dovesse vincere con due goal di scarto in trasferta per vincere the scudetto. Sì, buonanotte. E invece, al termine di una partita di superba intensità, all’ultimo guizzo nell’ultimo minuto della stagione, un tizio con la maglia dell’Arsenal si vede arrivare sui piedi una palla inattesa, la svirgola, spiazza col suo errore la difesa del Liverpool, si vede ricadere miracolosamente la palla sui piedi, tira di nuovo, segna lo 0-2, urla, corre, si accascia, lo sommergono di abbracci, ha vinto.
I tifosi del Liverpool si resero conto di aver perso un campionato ma di aver ritrovato il bandolo della bellezza del gioco, l’eterna fascinazione che ci riduce ogni settimana alla più trepidante ingenuità. Sconfitti, applaudirono gli avversari. Dimostrarono la possibilità di un nuovo calcio e l’opportunità del cambiamento. Fu il primo impulso verso il calcio inglese che conosciamo oggi – coi tifosi rispettosamente seduti come a teatro e i treni pieni di famiglie (padre, madre, mediamente due bambini) che ogni sabato si mettono in treno per guardare la squadra che amano, maglietta indosso. Il tutto è magnificamente raccontato in un nuovissimo libro di Jason Cowley, The Last Game: love, death and football, che secondo la recensione del Guardian è lungo 288 pagine mentre secondo l’Observer 273. Vatti a fidare.
Qui al weekend si leggono i giornali, quindi alla fine della settimana che posso fare? Mi adeguo e leggo i giornali anch’io. D’altra parte mi sembra che in Inghilterra comprando un quotidiano si compri un annesso corso di giornalismo. Prendete il Guardian, ad esempio, che è il mio preferito. Nato a Manchester, ora consta di quattro sezioni al giorno: il giornale propriamente detto, un fascicolo di dodici pagine esclusivamente dedicate allo sport, una sezione a casaccio fra mass-media, lavoro, finanza eccetera e infine il G2, il tabloid spillato che ospita l’approfondimento brillante (tema di copertina di venerdì scorso: come rapire il boss – gli impiegati del G2 sequestrano la caporedattrice – dettagli a pagina 4). Al sabato le sezioni diventano sette; non c’è il G2 ma in compenso si trovano ventidue pagine esclusivamente dedicate alle recensioni di libri – ragion per cui, se a uno putacaso piacciono i libri e lo sport, il Guardian diventa automaticamente il giornale da comprare ogni giorno (messaggio promozionale), anche se di tanto in tanto non è facile capire quando scherza e quando no.
Tanto per dire, sempre venerdì, lo stesso numero che rendicontava il ratto della caporedattrice ospitava un raffinatissimo esercizio di alta mimesi scrittoria, un pastiche parodistico di discorsi già sentiti fare e rifare mille volte da gente tipo Tana de Zulueta (se non sapete chi sia, non siete i soli; se sapete che è italiana, forse non siete italiani voi): che Berlusconi possiede il monopolio della comunicazione italiana, e bla bla bla, e che metà dei giornalisti italiani lavora per lui mentre l’altra metà sa che potrebbe lavorare per lui un giorno, e bla bla bla, e che se un Italiano scrive qualcosa deve prima chiedere il permesso a Berlusconi, e bla bla bla, e che gli Italiani sono tenuti all’oscuro delle gaffe di Berlusconi, e bla bla bla. L’anonimo articolista, per vezzo forse eccessivo, aveva ritenuto opportuno firmare questa riuscita presa in giro col nome della sua stessa vittima, ossia non Berlusconi ma Tana de Zulueta; geniale poi la notazione a fine articolo, nella quale veniva specificato – così, secco secco – che Tana de Zulueta è stata membro del Parlamento italiano, peculiarità che (sottintendevano forse) l’accomuna tanto a Benedetto Croce quanto a Cicciolina. Tale la profondità, che solo a stento era possibile distinguere l’articolo di Tana de Zulueta (vera? presunta?) da quello di Eric Hobsbawn ospitato appena una pagina prima. A conferma che se uno compra il Guardian ce n’è per ogni gusto, perfino il peggiore.
Io lo leggo così: salto a pie’ pari le inevitabili pagine dedicate alle notizie e vado dritto ai commenti, nascosti nella seconda metà della prima sezione, poco prima degli annunci mortuari e dei compleanni celebri – che altresì leggo entrambi avidamente, nella speranza di scorgere il mio nome infilato prima o poi in uno dei due box. Trasferitevi dunque in Inghilterra pure voi, tutti quanti, e comprate il Guardian ogni giorno, domenica esclusa. Nel settimo giorno si riposa, parafrasando, anzi si trasforma nell’Observer che per certi versi è anche meglio, un quotidiano/settimanale talmente bello che se uscisse più di una volta ogni sette giorni perderebbe parte del prestigio che gli deriva dal fare così il prezioso.
Questo per spiegare che ai miei occhi non tutti i mutamenti vengono per nuocere. Ha nuociuto il cambiamento del Times, che s’è ristretto nelle dimensioni e nella gittata degli articoli (nessuno si azzardi a dire che le misure non contano); non nocerebbe un cambiamento dell’Independent, un giornale che in Italia viene citato ogni due per tre come fonte di magnifica autorevolezza senza considerare che è passato alla storia per: 1) nel 2003 avere scritto che gli Italiani d’estate non vanno in villeggiatura, non avendo i soldi, bensì si nascondono nello scantinato per due settimane e poi riemergono spacciando di essere stati alle Maldive o alle Hawaii, sempre ammesso che le distinguano; 2) nel 2007 avere pubblicato sull’ultima pagina, che per la sua conformazione compatta è anche la prima di sport, un titolo che parlava a chiare lettere stampatelle di BECKAM, senz’acca, che è un po’ come titolare appresso a un eventuale TREZEGHET. Oppure CASANO. Impresa emulata solo dalla Gazzetta di Modena, beneamata, che alla morte di Pavarotti si produsse in un commosso titolo cubitale giallo paglierino, che recitava intrepido TUTTO IL MONDO AI SUI PIEDI.
Ma se penso a quanto amo lo sport – guardarlo, non farlo, ché a tentare schiatto, ormai temo, com’è risultato evidente oggi pomeriggio quando ho ansimato per coprire camminando il percorso che quand’ero giovane, un paio d’anni fa, inghiottivo correndo – dicevo: ma se penso a quanto amo lo sport, rari esempi mi vengono in mente di cambiamenti positivi, passati e soprattutto futuri. M’è tornato in mente, questo concetto, apprendendo che il mammasantissima dello snooker intende cambiarne le regole in men che non si dica. Avete presente lo snooker, vero? È il bigliardo inglese. Si gioca su un tappeto più lungo di quello dei nostri bar, sterminato anzi, forse memore delle interminabili verdi distese britanniche sulle quali piove un giorno sì e l’altro pure. Mordecai Richler (che si scrive senz’acca, e quindi c’è da presumere che l’Independent lo scriverebbe con) gli ha dedicato un appassionato libretto che s’intitola appunto On Snooker, e che Adelphi ha tradotto Il mio biliardo. Sintetizzando, si è dotati di quindici palle rosse che valgono un punto ciascuna e vanno mandate in buca a una a una; solo quando si è finito con loro si può passare alle ulteriori palle colorate, una anche romanticamente rosa, che valgono ciascuna un numero crescente di punti e vanno gettate in buca nell’ordine. Come suggeriva Jerome K. Jerome, l’unica maniera razionale di affrontare lo snooker è tirare con tutta la forza possibile affidandosi alla Provvidenza, che di solito però risulta impegnata altrove.
Si tratta veramente di uno sport, giuraddio, perché le partite sono interminabili e più passa il tempo meno si riesce a vedere l’altra parte del tavolo, e a furia di girarci attorno le gambe si rammolliscono, e le quindici palle rosse sembrano aumentare anziché diminuire, e le palle colorate ti guardano beffarde trasformandosi da ambita preda in ostacolo vigliacco, che va a sistemarsi fra te e la palla rossa che vuoi, che devi mandare in buca minacciandoti di penalità via via più consistenti. Più del cibo e del clima, lo snooker è la principale causa della melanconia inglese.
Li rallegra tuttavia quando, come a partire dal 18 aprile prossimo, si terrà il torneo detto The Crucible: che il correttore automatico di word si ostina a correggermi in “The Cruciale”, forse non sbagliando di molto; che è legato da omonimia a un dramma di Arthur Miller recentemente tornato di moda; che è, soprattutto, il campionato mondiale degli snookeristi trasmesso in diretta dalla BBC ogni anno per ore e ore per giorni e giorni. Costringendo i partecipanti a lunghe partite filate, una dietro l’altra, il vincitore non finisce per essere soltanto il migliore del lotto; dev’essere perfetto, imperturbabile, infallibile, un semidio. A meno che non passi negli anni a venire la proposta di cui dicevo poco fa, e che consiste nella riduzione un po’ di tutto: della lunghezza del tappeto, del tempo di gioco, addirittura del numero delle palle rosse. Dice che così lo sport sarà più facile da seguire, le partite dureranno meno e potranno essere moltiplicate, e che alla diminuzione della fatica corrisponderebbe un aumento proporzionale del valsente. Peccato, però, che le corrisponderebbe anche una diminuzione proporzionale della gloria del vincitore, declassato via via a uomo come tutti, poi tiratore passabile, quindi favorito dalla sorte, infine “sapevo farlo anch’io”. Passasse l’orrenda riforma, ne godrebbe solo il fantasma di Carlo Marx: sarebbe la prima applicazione comprovata della caduta tendenziale del saggio di profitto.
Speriamo che non cambi, insomma: sarebbe come trasformare un levriere in bassotto. Se penso a quanto amo lo sport, stavo dicendo prima di interrompermi, non posso non considerare con sgomento quanto siano cambiate varie discipline da che le seguivo ragazzino. Ci credereste che un tempo la pallavolo si giocava senza libero e con il cambio palla? La pallacanestro europea si articolava in due tempi, non quattro. Il tennis era ricamo, non clave. La pelota basca pare che sia rimasta immutata. In compenso la formula 1 consentiva l’utilizzo di esseri umani oltre che di automobili. Né i ciclisti correvano vestiti da astronauti (a proposito, dopo la seconda tappa del Giro dei Paesi Baschi il Guardian riportava la seguente classifica generale: primo Sanchez, secondo Kolobnev allo stesso tempo, terzo Pineau allo stesso tempo, come anche Knees, Samuel Sanchez, Egoi Martinez, Nibali, Contador, Cunego e un’altra dozzina di corridori; in compenso Swift portava 7 ore 52 minuti e 20 secondi di ritardo, che dopo due tappe non sono niente male, per tacere delle 9 ore e 50 di Wegelius: forse nel mentre che ero distratto hanno cambiato pure le regole del ciclismo, o forse il Guardian ha copiato i risultati dall’Independent). E il calcio?
Il calcio in Inghilterra è cambiato vent’anni fa, nel giro di poche settimane. Il 15 aprile 1989 il calcio inglese morì a Hillsborough, insieme a novantasei tifosi del Liverpool schiacciati contro le recinzioni dello stadio mentre attendevano di guardare la semifinale di FA Cup. Fu la tragedia più grande del calcio locale, soprattutto per le migliaia di tifosi che videro da vicinissimo i corpi dei loro amici ridursi a un cumulo di carne informe. Molti decisero di non mettere mai più piede in uno stadio. Il 26 maggio 1989, nell’ultima partita di campionato, il Liverpool primo in classifica ospitava l’Arsenal secondo. La classifica richiedeva che l’Arsenal, malconcio e in crisi, dovesse vincere con due goal di scarto in trasferta per vincere the scudetto. Sì, buonanotte. E invece, al termine di una partita di superba intensità, all’ultimo guizzo nell’ultimo minuto della stagione, un tizio con la maglia dell’Arsenal si vede arrivare sui piedi una palla inattesa, la svirgola, spiazza col suo errore la difesa del Liverpool, si vede ricadere miracolosamente la palla sui piedi, tira di nuovo, segna lo 0-2, urla, corre, si accascia, lo sommergono di abbracci, ha vinto.
I tifosi del Liverpool si resero conto di aver perso un campionato ma di aver ritrovato il bandolo della bellezza del gioco, l’eterna fascinazione che ci riduce ogni settimana alla più trepidante ingenuità. Sconfitti, applaudirono gli avversari. Dimostrarono la possibilità di un nuovo calcio e l’opportunità del cambiamento. Fu il primo impulso verso il calcio inglese che conosciamo oggi – coi tifosi rispettosamente seduti come a teatro e i treni pieni di famiglie (padre, madre, mediamente due bambini) che ogni sabato si mettono in treno per guardare la squadra che amano, maglietta indosso. Il tutto è magnificamente raccontato in un nuovissimo libro di Jason Cowley, The Last Game: love, death and football, che secondo la recensione del Guardian è lungo 288 pagine mentre secondo l’Observer 273. Vatti a fidare.
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