venerdì 29 ottobre 2010

Stendhaliana, parte quinta. Stendhal, Stendhal, perdonami: avevo frainteso e ti avevo sottovalutato, invece tu mi hai dimostrato di avere capito tutto dell’Italia (nonostante ti sia incaponito a intitolare Rome, Naples et Florence un libro che parla per lo più di Milano) nel momento in cui sei andato in una bisca e hai assistito a questa scena che riporto in francese per miglior effetto, e chi non capisce s’attacca: “Le parterre impatienté criait: «Zitti! zitti!», et la loge n’étant qu’au second rang, le spectacle était en quelque sorte interrompu. «Va a farti buzzarare!» criait lun des joeurs. «Ti te sei un gran cojononon!» répondait l’autre en lui faisant des yeux furibonds et criant à tue-tête”. E ora vorrei tanto concludere con una considerazione salace su certe faccende che non cambiano mai, nemmeno a due secoli di distanza, nemmeno con l’unificazione, nemmeno con la costituzione; ma la tua maestria nell’individuare al volo il nostro spirito nazionale mi lascia senza niente da aggiungere e mi fa restare zitto e incerto come un cojononon.

giovedì 28 ottobre 2010

Stendhaliana, parte quarta. Io che detesto fare i bagagli, subire il check-in o prenotare uno scompartimento, rinunciare alle mie cose intrasportabili, dover selezionare il doloroso necessario, salutare gli amici e non tornare mai più ho trovato consolazione nel bon mot riportato in Rome, Naples et Florence. Un duca aveva proibito il passaggio attraverso le proprie terre a ogni mezzo di trasporto che non fossero i piedi. Interrogato sul motivo del singolare editto, aveva risposto: “Viaggiano soltanto i giacobini”. Era il duca di Modena, quindi aveva buone ragioni per voler restare dov’era. (Ma per contro si veda la risposta del duca di Bassompierre a chi lo rimproverava di frequentare gli angoli meno raccomandabili di Napoli: “Io vado dove mi pare, e rendo nobile ogni posto in cui passo”).

mercoledì 27 ottobre 2010

Stendhaliana, parte terza. Forse che in qualche trasferimento – in aereo, in treno, in pullman – mi è capitato di incontrare Enrico Beyle da Grenoble e di rattristarlo con la mia aria tacita e mesta? In Rome, Naples et Florence scrive che “l’Italiano non diviene comunicativo che verso i trent’anni”. Poi, quattro pagine dopo, scrive: “pioveva orribilmente; la tristezza disponeva alla filosofia”. De me fabula narratur: un tempo ero abile e disinvolto conversatore; poi, verso i trent’anni, mi sono trasferito in Inghilterra.

martedì 26 ottobre 2010

Stendhaliana, parte seconda. Beato te, Enrico Beyle da Grenoble, che puoi scrivere ad alta voce quello che gli italiani possono al massimo fingere di non pensare. “A Napoli si è troppo africani perché si possa gustare appieno l’espressione più fine delle sfumature dei sentimenti”; “il popolo romano è quello che, in tutta Europa, ama di più la satira fine e mordente”; “è passeggiando così che mi sono fatto un’idea della beltà lombarda, una delle più toccanti sebbene nessun pittore l’abbia mai resa immortale nei suoi quadri”; “nei momenti di slancio più appassionato, ogni donna imita sempre un po’ un romanzo sentimentale alla moda”; “il più grande svantaggio per questo poeta è che la lingua in cui scrive non viene più capita a dieci leghe di distanza da Milano, e che a Parigi, a Londra e a Filadelfia, si ignora perfino l’esistenza di detta lingua”; “sapreste dirmi il titolo di un libro italiano tradotto in francese negli ultimi due anni?”; “c’è una sola buona rivista letteraria, il Poligrafo di Baretti; sotto il nome di letteratura, tutte le altre pubblicano delle pesantissime dissertazioni che non passerebbero l’anticamera dell’accademia di belle lettere”; e soprattutto, descrivendo una processione cattolica: “In quell’istante, attorno a me non c’erano che fedeli, e io stesso non potevo che essere di una religione così bella!”. Sono passati duecento anni ma ci fai ancora fare la figura della mosca nella bottiglia, che non capisce di che forma sia finché non ne viene fuori.

lunedì 25 ottobre 2010

Stendhaliana, parte prima. Anche il più italiano degli autori francesi, Enrico Beyle da Grenoble, passa per la nostra penisola senza riuscire a capirla. Leggete qui che errore madornale si lascia sfuggire in Rome, Naples et Florence, sentendosi in vena di profezie: “L’Italia non potrà avere una letteratura vera e propria se non quando avrà due Camere”. Era il 1816. Centotrent’anni dopo l’abbiamo accontentato e quali sono stati i risultati? Prima ci sono stati Dante, Machiavelli, Manzoni. Il bicameralismo perfetto, alla lunga, ha prodotto Fabio Volo.

venerdì 22 ottobre 2010

Timothy Garton Ash è una persona intelligente. Ogni tanto lo incontro per strada a Oxford, in quanto s’aggira spesso nella stessa zona in cui lavoro. Indossa sempre una sciarpa, di solito un cappello, e dietro la barba scura mi guarda con gli occhietti vispi di chi spera di essere riconosciuto, o forse lo sa già. Di sicuro non giova alla mia privacy il fatto che sovente io vada a zonzo con una copia del Guardian sottobraccio; allora è ovvio che tutti i suoi corsivisti appena mi incrociano per strada mi guardino come una celebrità. Timothy Garton Ash però vive e insegna a Oxford solo metà dell’anno mentre il resto del tempo lavora in America, credo a Stanford. A questo proposito, sul Guardian di ieri ci informava di essere passato da New York e di essere andato a un night club. Buon per lui. Invece no: era entrato in questo locale, che si chiama New York Dolls come si evince dalla vistosa pubblicità sistemata sul tettuccio di un taxi su due, per dimostrare che la moschea a Ground Zero non è poi questa cattiva idea. O meglio: la moschea a Ground Zero sarebbe meglio evitarla ma, dovendo sorgere all’interno di un centro di studi islamici collocato a tre isolati da Groud Zero, si tratterebbe di un esercizio comparabile al New York Dolls che si trova un mero isolato più in qua. Se la moschea offende la memoria delle vittime dell’11 settembre, la stessa memoria non dovrebbe essere offesa anche dal night club? E invece la costruzione della moschea incontra difficoltà inaudite mentre il New York Dolls sta lì dai tempi in cui Arafat concedeva interviste a Playboy. Si tratta di un articolo lungo, ben architettato, molto ragionato e soprattutto intelligente: mi ha quasi convinto che l’attentato alle torri gemelle l’abbiano organizzato le spogliarelliste.

giovedì 21 ottobre 2010

Facciamo un salto indietro: primavera 2008. Vivo in una città universitaria e tutti dicono: se vince Berlusconi è un vulnus per la democrazia. Ma io ribatto: se Berlusconi prende più voti vuol dire che è eletto democraticamente. Allora tutti insistono: ma Berlusconi è un monopolista delle comunicazioni, l’incarnazione del quarto, quinto e sesto potere a reti unificate. E io: sine, ma preferireste Murdoch? E tutti: ma a Berlusconi piace oltremodo la gnocca, come si fa a diventare presidente del Consiglio seri e compunti senza essere asessuati? Io: scusate ma la gnocca piace anche a me, e preferirei che ciò non mi precludesse l’elettorato passivo. Tutti: ma Berlusconi parla a voce troppo alta, dice cucù, fa le corna e sostiene che i tedeschi sono dei kapò. Io: perbacco, sembra proprio un italiano. Tutti: basta, quand’è così se vince Berlusconi noi ce ne andiamo dall’Italia e lasciamo che questo paese affondi nella propria melma. Io: va bene, tenetemi aggiornato e vengo a salutarvi in aeroporto. Ora, come molti di voi sapranno, Berlusconi ha vinto le elezioni del 2008 con ampia maggioranza. Com’è che tutti sono rimasti dov’erano e ho dovuto andarmene io?

mercoledì 20 ottobre 2010

Hanno ragione quelli che mi dicono: “Di che ti lamenti? Stai a Oxford, hai un lavoro, guadagni bene e mangi a sbafo. Non ti piace la città? Che t’importa? Tanto passi tutta la giornata in ufficio e geograficamente parlando una scrivania vale l’altra. L’importante di questi tempi è avere un lavoro: tira avanti e non lamentarti sempre. Sai quanto pesa la parola Oxford in un curriculum? Quando finirai potrai trovare il lavoro che ti pare. Anzi l’ideale sarebbe che restassi un po’ più oltre i due anni stabiliti; magari un altro, magari altri tre, magari cinque. Più è lunga la permanenza miglior figura fa il curriculum. Va bene, dovrai continuare ad alzarti alle sei del mattino per scrivere, a parlare senza che nessuno capisca le sfumature di ciò che dici, a incontrare gente che non ha niente a che spartire con te; dovrai pagare le tasse al governo italiano e a quello inglese, alla regione Puglia e al city council; non potrai mai andare in edicola a comprare il Foglio, non riuscirai a guardare una partita in santa pace, perderai tutti gli amici e avrai figli che non parlano la tua lingua; ma sono dettagli. L’importante è la carriera. Se invece di cinque resti lì dieci, venti, trent’anni, sai come diventa importante il tuo curriculum? Fa’ un piccolo sacrificio, resisti e accontentati di vivere male oggi in funzione di un bel futuro. Resta lì, lavora lì, invecchia lì; poi magari morirai, ma con ottime prospettive”.

martedì 19 ottobre 2010

Sarà che della ragazza uccisa non m'importa niente, né tampoco dello zio, della cugina e del bisnonno; sarà che non mi sembrano eventi da meritare curiosità né persone alle quali dedicare tempo; fatto sta che salto a pie' pari tutte le pagine di quotidiano e le mezz'orate di tv che s'imperniano su questa o altra amenità di cronaca. Preferisco leggere un bel romanzo, a patto che non rechi il sottotitolo "una storia vera". Questi italiani si sa come sono: perché adocchino un libro ci vuole un festival letterario, perché lo comprino ci vuole una Feltrinelli, perché lo leggano ci vuole un miracolo; e il miracolo, nello specifico, dev'essere la trasformazione del regno delle idee pure e fantasiose in "storia vera". Vino tramutato in acqua; è già tanto piena di storie vere la vita mia, perché dovrei accollarmene altre per iscritto? Io me li vedo davanti, tutti quelli che mi rimbrottano di passare così tanto tempo sull'empireo dei libri; sono gli stessi che dedicano fervori e neuroni alle pagine di ammazzamenti, come se la cronaca esistesse più della narrativa. E se il ragionamento non è chiaro, ve lo faccio spiegare da Giuseppe Gioachino Belli, uno che certe cose le capiva meglio di Celentano: "Va' in d'una strada, indove sce se fa / cquarche gran scavo in de la terra, e ttu / vederai che ggnisuno sa ppassà / si nun z'affaccia e ssi nun guarda ggiù. // Che conziste sta gran curiosità? / Nun è la terra ggiù come che ssù? / Cosa spera la ggente in quer guardà? / che se scopri er burrò dde Bberzebbù? // Ma cquest'è 'r peggio ch'io nun zo ccapì, / che ssibbè nnun c'è un cazzo da vedé, / invetrischeno l'occhi, e sstanno llì. // Er monno dunque è ppiù cojjon de mé / che mme ne sto su sta loggetta, e cqui / gguardo in cielo le stelle e cquer che cc'è".

lunedì 18 ottobre 2010

Basta, è giunta l'ora di una controriforma della grammatica: "religione" deve diventare singularia tantum, non deve avere più il plurale. Che senso ha parlare di "religioni" se per definizione ogni religione è unica e una soltanto è vera? Si può parlare di "religione" se si cita il Cattolicesimo, che è la vera fede, o tutt'al più riferendosi a giudaismo e ortodossia, fratelli maggiori e minori che nel Cattolicesimo si riconosceranno e fonderanno nel giro di due o trecento anni (be', su, dimostratemi che ho torto). Questa riforma del linguaggio renderebbe più facile distinguere la religione dalle sette (tutti i protestantesimi), dai giochi di società (come il buddismo) e dalle associazioni a delinquere (l'Islam). Quanto agli atei, il problema non si pone: esistendo Dio, l'ateismo non esiste.

venerdì 15 ottobre 2010

Né mi stupirei che si possa fare libera conversazione con le prostitute (quand'anche esse risultassero negre francesi abbonate a La Difesa Della Razza). Perché non si dovrebbe? Non so con voi, ma con me attaccano discorso loro, sarà perché sono meno laido del cliente standard sarà perché viaggiando per lavoro giro spesso da solo. L'unica variante è a San Pietroburgo, dove le medesime non si palesano in strada (fa troppo freddo, loro diventerbbero stalagmiti e San Pietroburgo diventerebbe Pompei) ma mandano dei compari agli angoli di alcune traverse della Prospettiva Nevskij; tuttavia nemeno costoro riescono a star fermi ragion per cui, dopo aver provato a saltellare e a strofinarsi i palmi sui quadricipiti, cambiano strategia e iniziano a camminare su e giù per l'isolato, affiancando di volta in volta il passante che ritengono plausibile cliente - così che, nei miei quattro giorni petroburghesi di raccoglimento e silenzio (avete provato mai a parlare in cirillico?) l'unica parola che mi fosse stata rivolta consisteva in un'occhieggiante: "Russian girl: nice sex!" (Ora che ci penso, oggi queste mie candide pagine inesistenti avranno un'impennata di accessi grazie a coloro che abitualmente cercano su google le quattro summenzionate parolette). A Parigi le cose sono più delicate: domenica mattina, mentre passavo da Les Halles deserte con un libro sotto braccio, una m'è saltata pressoché al collo con la scusa di chiedermi cosa leggessi. Quando ha visto che era Stendhal, mi ha lasciato andare libero. Sarà che viaggio sempre da solo ma per principio due chiacchiere innocenti io non le nego a nessuno. Appurato che la prostituzione non è reato (a differenza dell'evasione fiscale, tanto per dire), la principale differenza è che loro vengono pagate per aprire le cosce mentre io per soldi accetto di scrivere in inglese saggetti che in italiano sarebbero ben meno incomprensibili e bolsi. Stiamo tutti sulla stessa barca, che peraltro affonda; e prima di giudicare ripeterei cento volte uno stornello ereditato da Giuseppe Gioachino Belli: "Ffior de limone / si Ccristo nun perdona a le puttane, / er paradiso lo pò ddà a piggione".

giovedì 14 ottobre 2010

Se Parigi avesse la statale 96 sarebbe una piccola provincia di Bari. Ha invece una zona, diciamo dalla Poissonnière fino al boulevard de Sébastopol, in cui la quantità di signore scese a prendere un po' d'aria al portone di casa loro dapprima sorprende poi desta sospetto. Io sono un passeggiatore, ragion per cui me ne tornavo a piedi da La Libreria (una rivendita di libri italiani, tanto in traduzione quanto in originale, che merita una visita per l'eroicità dei proprietari e soprattutto perché nel piano interrato ha una scelta di titoli niente male, non raccattati all'ingrosso ma considerati uno a uno, ivi incluso perfino Comme Te l'Aggia Dicere?, un atlante del gesticolare pubblicato da Intramoenia che in vita mia avevo visto esposto solamente in piazza Bellini a Napoli, nel caffè della medesima casa editrice, dove andavamo a farci belli con le colleghe, altri tempi) ai grandi boulevard che confluiscono verso la Senna. Vedendo l'incrementata densità di donnine, ne ho approfittato per levarmi una curiosità che covavo da tempo e appena ho trovato la prima prostituta negra le sono andato incontro (traduco) chiedendo: "Signorina, permette una domanda?" "Sono cinquanta euri." "Temo che mi abbia frainteso. Volevo chiederle come mai a Parigi le donne nere sono così belle: io sono italiano ma vivo in Inghilterra e posso assicurarle che né da un lato né dall'altro ne ho viste mai di paragonabili alle parigine. Eppure la negra è in media meglio della bianca; ma in Inghilterra particolarmente piuttosto che consegnarsi a queste specie di assi di picche ambulanti viene voglia di andare con un'inglese vera, il che è tutto dire. Come si spiega?" A questo punto l'adescatrice mi guarda con aria annoiata e mi dà una risposta che non mi sarebbe venuta nemmeno a pensarci una settimana: "Si spiega che noi siamo francesi mentre loro sono africane". Mica per niente è la patria di Gobineau.

mercoledì 13 ottobre 2010

Se Parigi avesse l'underground sarebbe una piccola Londra. Come tale sarebbe ingestibile: quest'anno ci sono andato tre volte da Oxford e due volte su tre all'andata ho trovato lo sciopero della metropolitana, non in Francia dove sarebbe stato verosimile ma a Londra dove credevo non scioperasse più nessuno dal 1848, ragion per cui ho in entrambi i casi rischiato di perdere l'eurostar delle 9:30 pur essendo arrivato in città già da due ore, presentandomi al check-in sudato e laido come un cencio dopo aver aspettato invano che passasse l'autobus indicato dagli immani dementi piazzati dal comune a dare informazioni a ogni isolato (sono talmente tanti che uno si chiede: non valeva la pena di usarli come guidatori temporanei di metropolitana? magari saremmo morti, ma almeno saremmo morti puntuali), combattendo con una muraglia di giapponesi inutili per definizione e ulteriormente dannosi nella circostanza, rincorrendo valigia in resta tassisti mussulmani che o non mi vedevano o fingevano di non vedermi, subendo angherie da indigeni increduli di poter finalmente scavalcare una fila - a riprova che l'Inghilterra non è nazione civile e che se ha colonizzato un posto come l'India vuol dire che se lo meritava. Senza contare che, al viaggio di ritorno, due volte su tre ho trovato la metropolitana interrotta per lavori riguardo ai quali si specificava che erano mirati a rendere il servizio più funzionale in futuro: al che mi sono chiesto, ma quando cacchio saranno funzionali se l'underground di Londra non prevede lavori in corso solamente quando c'è sciopero? Parigi invece ha la métropolitain dai vezzosi cartelli liberty che introducono agli scalini interrati: di fronte al Louvre una coppia di turiste l'altro giorno mi ha fermato per chiedermi - be', non hanno propriamente chiesto, si sono limitate a indicarmi scandendo in tono impercettibilmente interrogativo: "La métropolitain... à gauche". Forse volevano implicitamente, inconsapevolmente riferirsi alla matrice politica della grève generale a oltranza iniziata ieri come da tradizione, ma che di sicuro non renderà Parigi meno civile di quanto sia perché la civiltà non è questione di mezzi di trasporto bensì di eleganza anzi di decenza. Ho risposto loro tacendo, indicando appunto l'enorme scritta "métropolitain" alle loro spalle. Poi ho chiesto: "Etes-vous italiennes?", nel mio miglior francese senza accenti circonflessi. "Sì... italiane..." ha ammesso una di loro. "Si vede", ho replicato e me ne sono andato a piedi visto che a Parigi si può camminare e a Londra invece no.

martedì 12 ottobre 2010

Se Parigi avesse la Feltrinelli sarebbe una piccola Roma (Largo Argentina), una piccola Milano (Galleria Vittorio Emanuele), una piccola Napoli (Chiaia). Invece sul boulevard Saint Michel c'è l'enorme palazzo di Gilbert Joseph, dal quale mi servo più che volentieri nonostante che i miei colleghi più snob vadano altrove - e quando mi chiedono che differenza trovo infine fra le due grandi catene librarie rispondo che Gilbert Joseph non è morto su un traliccio. In realtà la differenza principale è che in una Feltrinelli io noto sempre gli stessi titoli mentre da Gilbert Joseph tanti libri diversi. Tradotto, in una Feltrinelli teoricamente infinita troverebbero spazio infinite copie dello stesso titolo (ovviamente di Saviano, ma forse anche di Jovanotti) mentre in una Gilbert Joseph teoricamente infinita troverebbe spazio almeno una copia di infiniti titoli, ivi inclusi libri che non sono mai stati scritti. Borges ci morirebbe dalla gioia, se non fosse già morto per conto suo. Per questo se si ha la pazienza, come ce l'ho io, di passare in rassegna tutti i dorsi di tutto il settore tascabili di Gilbert Joseph si scopre inevitabilmente testi di cui si ignorava l'esistenza e due ore dopo se ne esce con una cultura ben superiore a quella allegata alla laurea in lingua e letteratura francese. Per questo qualche giorno fa sono entrato da Gilbert Joseph per comprare l'ultimo romanzo di Houellebecq, ho visto che costava 22 euri, ho letto la prima pagina in cui si descrive Damien Hirst (quello che espone cadaveri di vacca) che prende un drink con Jeff Koons (l'ex fidanzato di Cicciolina), ne ho spesi 21 e sono uscito con Proust, Ionesco e Stendhal con la consapevolezza che mi avanzavano soldi per un caffè.

lunedì 11 ottobre 2010

Se Parigi avesse la Ghirlandina sarebbe una piccola Modena. In compenso ha la Torre Eiffel ma solo pochissimi (io) possono capire che il suo fascino non risiede nella sua forma ma nell’avvicinamento e nell’allontanamento. Passeggiando sul Pont des Arts con un collega maoista esiliato in Francia, poiché ormai nemmeno più i maoisti fanno carriera nell’università italiana, riesco a non essere vinto dalla vertigine delle fessure che sotto i miei piedi si aprono sulla Senna solo perché da qualche parte alla nostra sinistra si fa largo fra la nebbiolina un’ombra giallognola che è, scopriamo a più attenta osservazione, la Torre Eiffel che vigila sul nostro itinerario. A Parigi come a Modena è impossibile perdersi perché si è sempre protetti dalla Torre Eiffel come dalla Ghirlandina: basta scrutare l’orizzonte per capire dove si è, e quando si arriva fin sotto si vede la Torre Eiffel scomporsi e la sua slanciata sagoma universalmente nota dilatarsi in una figura che è la sua forma vera ma che nessuno sarebbe in grado di riprodurre a memoria, e si vede la Ghirlandina appiattirsi e incombere come un ponte infinitesimale fra la terra e il cielo irraggiungibile. Qui casca l’asino, diranno i miei piccoli lettori: la Ghirlandina è un campanile e come tale simbolo di Dio; la Torre Eiffel al massimo può essere simbolo di un turista giapponese con l’obiettivo a tracolla. Nossignore, invece, perché la Ghirlandina è il punto più alto e centrale di Modena, riferimento irrinunciabile e assoluto; mentre il punto più alto di Parigi è il Sacré Coeur, talmente alto che affacciandosi si vede la Torre Eiffel e ci si sente più sicuri.

venerdì 8 ottobre 2010

Carlodosseide, parte decimaseconda e ultima (anche se avrei preferito che fossero infinite). In un’epoca folle di mussulmane lapidate e di beagles vivisezionati, basta una frasettina di Amori per rimettere ogni cosa al suo posto. Una volta in più la sottoscrivo e vorrei averla pensata io per primo (ma non potevo, per colpe non mie sono nato centotrentun anni dopo): “Di tutte le bestie, però, quella che io preferisco, dopo la donna, è il cane”.

giovedì 7 ottobre 2010

Carlodosseide, parte decimaprima. Abbiamo pochi eroi perché abbiamo troppi monumenti. “Il marmo”, scrive Carlo Dossi nel Campionario, “costa poco in Italia”. Ne consegue la continua svalutazione della gloria: la nobiltà è diventata mediocrità, il lusso è diventato telefonino, il Risorgimento Costituzione.

mercoledì 6 ottobre 2010

Carlodosseide, parte decima (per solutori più che esperti, anzi, stavolta è una cosa fra me e lui, potete anche non leggere perché non capireste nulla). Carlo Dossi, che fossi di Pavia (be’, Zenevredo) lo sapevo già; ma non è che di nascosto sei mio compagno di collegio? Negli archivi del Ghislieri non risulti ma all’inizio inizio del Campionario ti lasci sfuggire una considerazione velenosa sulla “coronata humilitas dei Borromèi” che lascia sospettare da quale metà dell’università e della città battesse il tuo cuore. Cosa devo fare per renderti ghisleriano ad honorem?

martedì 5 ottobre 2010

Carlodosseide, parte nona (se non ho perso il conto). Prima che venissero inventate le classifiche dei libri più venduti, prima che venisse inventata Repubblica, prima che venissero anche solo concepiti Baricco e Saviano, nel suo Campionario Carlo Dossi aveva notato che “gli analfabeti son molti ma molti più ancora sono i leggenti che non capiscono nulla”. (Ma anche, più amaramente, che “contrattempisti, più che tutti, siam noi, noi scrittori, che ci ostiniamo a presentar libri a una Italia che non sa lèggere”).

lunedì 4 ottobre 2010

Carlodosseide, parte ottava (non preoccupatevi, continueremo ancora a lungo – e se non vi piace potete cambiare blog). Ditemi al volo i nomi di cinque autori italiani giovani. Che so, c’è dentro Gianluca Morozzi (39 anni)? C’è dentro Niccolò Ammaniti (44 anni)? In Dal Calamajo di un Mèdico Carlo Dossi si definiva “giovane abusivamente, (…) ho trentasett’anni”; e non indossava magliette né felpe, non parlava coi congiuntivi sbagliati né suonava la chitarra elettrica per rendere più sfrenato, sfrontato, patetico il proprio abusivismo.

venerdì 1 ottobre 2010

Carlodosseide, parte settima. Parlandoci chiarissimo, la prossima volta che qualcuno vi rimprovera perché vi accoppiate a casaccio, come se una valesse l’altra, prendete il raro volumone a cura di Dante Isella (Carlo Dossi, Opere, Adelphi, 1995, 1633 pagine, 100.000 lire fuori corso), apritelo su La Colonia Felice, parte prima, capitolo sesto, pagina 569 e puntate il dito medio sul rigo tredicesimo: “Che è un matrimonio, in tutti i paesi del mondo, per quanto premeditato, se non un getto di dadi?”. Poi fategli una pernacchia.