martedì 26 ottobre 2010
Stendhaliana, parte seconda. Beato te, Enrico Beyle da Grenoble, che puoi scrivere ad alta voce quello che gli italiani possono al massimo fingere di non pensare. “A Napoli si è troppo africani perché si possa gustare appieno l’espressione più fine delle sfumature dei sentimenti”; “il popolo romano è quello che, in tutta Europa, ama di più la satira fine e mordente”; “è passeggiando così che mi sono fatto un’idea della beltà lombarda, una delle più toccanti sebbene nessun pittore l’abbia mai resa immortale nei suoi quadri”; “nei momenti di slancio più appassionato, ogni donna imita sempre un po’ un romanzo sentimentale alla moda”; “il più grande svantaggio per questo poeta è che la lingua in cui scrive non viene più capita a dieci leghe di distanza da Milano, e che a Parigi, a Londra e a Filadelfia, si ignora perfino l’esistenza di detta lingua”; “sapreste dirmi il titolo di un libro italiano tradotto in francese negli ultimi due anni?”; “c’è una sola buona rivista letteraria, il Poligrafo di Baretti; sotto il nome di letteratura, tutte le altre pubblicano delle pesantissime dissertazioni che non passerebbero l’anticamera dell’accademia di belle lettere”; e soprattutto, descrivendo una processione cattolica: “In quell’istante, attorno a me non c’erano che fedeli, e io stesso non potevo che essere di una religione così bella!”. Sono passati duecento anni ma ci fai ancora fare la figura della mosca nella bottiglia, che non capisce di che forma sia finché non ne viene fuori.
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