lunedì 31 dicembre 2018


Diciamocelo, il libro più bello che ho letto quest’anno è stato 4 3 2 1 di Paul Auster (Einaudi). Ne ho letti nel complesso centoventiquattro, non tantissimi ma comunque superiori alla decente media di dieci al mese che credo consenta di farsi un panorama ampio della cultura presente e passata; per la futura c’è ancora tempo. A posteriori, controllando sull’elenco di letture che tengo a mano su fogli volanti da più di vent’anni, ho scoperto che contrariamente alle mie abitudini nel 2018 ho privilegiato la narrativa straniera, sul cui podio dietro Auster porrei 7 di Tristan Garcia (NNE edizioni) e, se proprio vogliamo un libro senza numeri nel titolo, Un romanzo russo di Emmanuel Carrère (Adelphi). Poca narrativa italiana e pochissima nuova, visto che il panorama è quel che è, ma dovendo scegliere premierei Il gioco di Carlo D’Amicis (Mondadori) davanti a Il quinto Evangelio di Mario Pomilio, che è un gran classico del 1975 saltatomi in grembo da una bancarella la scorsa primavera, e Gli 80 di Camporammaglia di Valerio Valentini (Laterza).  Quanto alla saggistica, prevale La letteratura circostante di Gianluigi Simonetti (Il Mulino) sul monumentale Postwar di Tony Judt (Laterza), talmente monumentale che mi aspettava da un bel po’, e su Dopo Dio di Peter Sloterdijk (Raffaello Cortina). La miglior traduzione in cui mi sia imbattuto, a occhio, mi è parsa quella di Max Bocchiola per Il libro delle illusioni, sempre Einaudi, sempre di Paul Auster, così chiudiamo il cerchio.