mercoledì 28 febbraio 2007

Dalla periferia dell'Impero


(mercoledì 21 febbraio 2007, copyright Ore Piccole)


Io ho commesso svariati peccati mortali, il non meno grave dei quali consiste nell’aver invitato, qualche anno fa, un gruppo di giovani scrittori meridionali a confrontarsi col pubblico nelle brume del profondo nord. Gli errori si commettono per imparare, e infatti nella circostanza specifica imparai che in Italia tutti sentono un gran bisogno di leggere romanzi e ascoltare presentazioni, a patto tuttavia che a leggere romanzi e ascoltare presentazioni sia qualcun altro. Uno degli autori che si mostrò più entusiasta della mia sciagurata iniziativa, non solo prima ma anche dopo aver parlato di fronte a una decina di volenterosi nordici, fu Livio Romano, romanziere che viene dalla provincia di Lecce e che ora va per i quarant’anni.
Avevo scelto Livio Romano perché all’inizio del millennio, con Mistandivò (Einaudi, 2001), aveva provato a far convivere un sincero (e impietoso) ritratto del meridione con un ardito (e colto) sperimentalismo linguistico. Pensando al ritrito figurativismo linguistico col quale nei decenni i narratori meridionali hanno tentato di descrivere il meridione, e in particolare sentendomi mancare di fronte all’inimmaginabile sottobosco di autorucoli semidialettali che puntano esclusivamente al plauso del loro paesello e all’invidia di quello vicino, il solo pensiero che Livio Romano avesse tentato qualcosa di nuovo mi consolava; la consapevolezza che l’Einaudi l’avesse appoggiato mi rincuorava; la possibilità che potesse addirittura tracciare una strada nuova mi lasciava ben sperare.
L’idea fondamentale del ciclo di incontri che avevo organizzato con spirito suicida era appunto quello di mostrare al nord un sud inatteso e, per certi versi, disatteso rispetto alle aspettative del comodo pubblico delle brume; montandomi la testa, la mia intenzione era di presentare dal vivo le diverse voci che avevano composto l’antologia Disertori (sempre Einaudi, 2000) poiché appunto disertavano ogni luogo comune sul meridione comunemente accettato. Se non che, com’è noto, il pubblico è come Giucas Casella, preferisce che i luoghi comuni vengano disattesi solo quando lo dice lui e di conseguenza, se questo o quell’autore disattende, non lo ascolta.
Un paio di settimane fa Marsilio ha pubblicato il nuovo romanzo di Livio Romano, Niente da Ridere; ovviamente l’ho letto con curiosità acuita dall’attesa intercorsa dalla sua ultima opera (Porto di Mare, Sironi 2002) e ancora una volta, come accadde per Mistandivò, mi sono sentito consolato, rincuorato e pronto a ben sperare. Innanzitutto per la trama: Niente da Ridere è una tela di ragno che muove dal suo protagonista, Gregorio Parigino, e coinvolge la compagnia di giro che lo circonda e lo opprime, dalla moglie insicura alla madre schizofrenica, l’amica instabile e l’idealista accecato, l’onorevole maneggione e un’infinità di figlie e nipoti. Centro del proprio mondo, Gregorio Parigino si ritrova all’improvviso schiavo del suo stesso mondo, e ciò su cui faceva affidamento diventa invece ciò che lo sconfigge.
L’unica consolazione che gli resti è l’Alprazolam, uno psicofarmaco i cui benefici effetti rilassanti vengono resi magistralmente da Romano alternando inserti di prosa distesa a pagine e pagine di narrazione forsennata. Forse dico una banalità, ma mi è parso che l’Alprazolam sia il vero protagonista di Niente da Ridere, col suo scandire il ritmo del romanzo da un rovescio all’altro; così come nel libro di Giobbe il vero protagonista è Satana, irrefrenabile causa delle disgrazie ingiuste. Il repentino crollo di Gregorio Parigino, tanto nella vita privata quanto in quella pubblica, prende le mosse proprio dal demone del protagonista, il suo continuo e inevitabile affidarsi al supporto esterno per rimettere in carreggiata la vita interiore; e Livio Romano, che è furbo e sa come in narrativa non si possa propinare una verità univoca, si guarda bene dal dichiarare che per Parigino il male assoluto sia lo psicofarmaco e il bene assoluto la ricerca di un senso interiore, oppure che l’amante sia buona e la moglie cattiva (o viceversa, si accettano scommesse), che il partito che candida Parigino alle comunali sia corretto e il partito che lo avversa sia mascalzone. Piuttosto Livio Romano rimesta in questo disorientamento e lascia che il lettore si renda conto da solo di come sia proprio in questa mancanza di un alto e di un basso che Parigino si smarrisce.
Quanto a me, non mi è ancora necessario l’Alprazolam e riesco abbastanza agevolmente a consolarmi con minor roba. Ad esempio, è stato un motivo di notevole soddisfazione rincorrere per le oltre trecentocinquanta pagine di Niente da Ridere le marche degli accessori posseduti da Parigino, la musica che ascolta, i libri che legge, i film che vede; non solo per ricavarne suggerimenti (in fin dei conti, uno dei principali vantaggi dei romanzi è che la pubblicità di ogni genere è sincera e mai occulta) ma soprattutto per dimostrare empiricamente che Gregorio Parigino vive in un Salento atipico.
Vive in un Salento atipico se si pensa alle infinite rappresentazioni da cartolina che – oserò dirlo? – persino i suoi stessi abitanti non sembrano impegnati altro che a produrre continuamente. Vive in un Salento atipico che è indubbiamente Salento ma che potrebbe assomigliare a qualsiasi altro posto di mare: non nelle descrizioni, non nella parlata, ma nell’anima di chi lo abita e, soprattutto, nelle marche degli accessori che possiedono, nella musica che ascoltano, nei libri che leggono, nei film che vedono. Gregorio Parigino, esaurito quantunque, in questo è il mio Salentino ideale, poiché alla retorica di sole mare e vento contrappone un solido ancoraggio al quotidiano mondo occidentale. Scappa dal difetto peggiore del meridione, il terronismo psicologico, il lamento dell’abbandono frammisto alla reiterata (auto)attribuzione di una superiorità morale. Gregorio Parigino è un uomo. Punto. Gregorio Parigino è un Italiano. Gregorio Parigino è un Occidentale nato per caso nel cuore del Salento.
Sono stati questi dettagli, sono state le marche degli accessori e le parole delle canzoni a ricordarmi un passaggio dell’intervento di Livio Romano nel corso del brumoso seminario piuttosto che organizzare il quale meglio avrei fatto a non essere mai nato. Mentre io cercavo di rintracciare un pansessismo apulico che riunisse in sé le disparate pagine di lui stesso, di Cosimo Argentina e di Annalucia Lomunno, mi sono sentito toccare il braccio da Livio Romano il quale mi ha interrotto per insegnare a me e alla decina di brumosi astanti: che la tendenza di molta narrativa meridionale consisteva proprio nel configurarsi quale meridionale; che questa tendenza era pericolosa in quanto respingeva in secondo piano il principale criterio di giudizio letterario, ossia il valore intrinseco di un’opera; che tuttavia questa tendenza poteva godere di un certo qual successo, benché provinciale, in quanto rispecchiava il desiderio recondito di (auto)reclusione e (auto)compatimento del pubblico meridionale, nonché quello di (altrui) differenziazione e (ipocrita) ammirazione del pubblico settentrionale; che, infine, il meridione d’Italia era sì periferia dell’Impero, ma era pur sempre Impero, frontiera che vive di friselle ma anche di Coca Cola.Così, se con Niente da Ridere Livio Romano arriva agevolmente a un pubblico più vasto di quello che poteva essere ammirato dalle acrobazie linguistiche di Mistandivò o interessato all’impegno sociopolitico di Porto di Mare, questo accade perché il suo nuovo romanzo riesce a fondere entrambi i temi facendoli confluire nel più vasto, e universale, interesse per la psicologia della comunità e lo psicodramma del singolo. Lo sguardo dell’autore infatti si colloca a metà fra pubblico e privato, e non perdona né all’anima di Parigino né allo spirito del suo tempo (o del suo luogo). E soprattutto, nella colonna sonora del Salento di Livio Romano non c’è traccia dei Sud Sound System, non c’è traccia delle rintronanti pizziche. Più che un inizio, è un punto d’arrivo.

A che serve la Coppa Italia?

(martedì 20 febbraio 2007, copyright Il Resto del Pallone)

Di fronte al cartone con dentro i bordi bruciacchiati della pizza, mentre in diretta su Rai Uno guardo la Roma passeggiare sui poveri resti del Milan, mi sono chiesto se non sarebbe stato meglio, invece di scomodare altre quarantasei squadre, risolvere la questione facendo giocare direttamente la Roma contro l’Inter e l’Inter contro la Roma. Trattandosi tuttavia di un pensiero, benché formalmente corretto, evidentemente dettato dall’acrimonia per la sconfitta (peggio ancora: dettato dall’acrimonia per le vittorie altrui), mi sono deciso a rigettarlo ciò nondimeno riformulando la domanda: ma questa Coppa Italia servirà a qualcosa?
Sia chiaro, io adoro l’Inghilterra per vari motivi e uno di questi (uno dei motivi secondari, a dire il vero) è che la FA Cup viene ritenuta più importante della Premier League. Senza tuttavia arrivare a questi eccessi, indubbiamente dettati dal bacon a colazione e dalla cena alle sei di sera, sarei felice di vedere dalle nostre parti un’intera nazione che impazzisce per il trofeo più sinuoso d’Italia. Invece, se fra un goal e l’altro della Roma avessi chiamato un centinaio di utenze pescate a caso dall’elenco telefonico per chiedere a bruciapelo: “A che serve la Coppa Italia?”, di là dagli improperi una buona maggioranza degli intervistati mi avrebbe risposto: “A spezzare i garretti dei calciatori facendoli giocare alle undici di sera su campi ghiacciati”. Una significativa minoranza (probabilmente juventini incancreniti) avrebbe risposto: “La Coppa Italia serviva a far vincere qualcosa all’Inter prima di Guidorossopoli”. Qualche storico dell’Accademia dei Lincei avrebbe potuto ricordarmi: “Serviva a qualificare una squadra per la Coppa delle Coppe”. Se putacaso avessi pescato l’utenza di un qualche allenatore, mi sarei sentito rispondere: “Serve ad accumulare fatica inutile”; se invece avessi pescato un presidente: “A far guadagnare meno soldi di un torneo estivo”.
Così che la nobile Coppa Italia s’è trovata degradata da amante complice delle squadre spettacolari ma poco continue a vecchia zia indigesta che si è piazzata in casa e che in una maniera o nell’altra bisogna riuscire a sopportare. Per invertire la tendenza, e per metaforicamente ringalluzzire la vecchia zia, io avrei quattro proposte. La prima è quella di mantenere la struttura così com’è mutando però l’importante dettaglio della qualificazione: ossia, visto che la Coppa delle Coppe non c’è più, piuttosto che in Uefa sarebbe più logico che la vincitrice venisse ammessa alla Champions League. Questo garantirebbe che ogni partecipante giocherebbe col sangue agli occhi dal primo turno all’ultimo e ristabilirebbe un tocco di giustizia terrena: in fin dei conti chi ha la coccarda sulla magli ha vinto qualcosa, chi arriva quarto in campionato no.
La seconda proposta è un naturale sviluppo di un dato di fatto: per preservare i titolari da rovinosi infortuni gli allenatori imbottiscono la formazione di riserve e ignoti ragazzini? Benissimo, facciamo giocare la Coppa Italia solo agli under23, con tre fuori quota per squadra. Sarebbe un incentivo per i vivai e grazie a Dio il livello delle giovanili italiane è notevole; quanto allo spettacolo, mi sono sempre divertito più con le qualificazioni del Torneo di Viareggio che con certe improponibili gare della Coppa Uefa riformata, tanto per dire.
La terza via sarebbe l’esatto inverso: far giocare la Coppa Italia alle vecchie glorie. Ovviamente non solo a loro, ma permettere il tesseramento temporaneo di ex campioni a spasso ma ancora in grado di far emozionare qualcuno. Ovviamente un torneo del genere andrebbe giocato d’estate (come effettivamente si faceva negli anni sessanta) al posto di tutti i torneini e torneetti che negli ultimi anni proliferano senza senso alcuno.La quarta proposta è il modello inglese; non potremo sperare di applicarlo sugli spalti finché non lo avremo inoculato nei campi. Quindi una bella Coppa Italia aperta a tutte le squadre dalla A alla D, eliminazione diretta con partite di sola andata in casa della peggio classificata nell’anno precedente, e la cura del sogno che è l’anima del calcio: la remota possibilità che la Leonessa Altamura impedisca all’Inter di annoiarsi a furia di vincere e vincere ancora.

L'inconsolabile perdita di un figlio


(lunedì 19 febbraio 2007, copyright Stilos: il quindicinale dei libri, anno IX n.4)


Inconsolabile è la persona il cui tempo è irrimediabilmente spezzato in un prima e in un dopo inconciliabili, e il cui pensiero ritorna ossessivamente al momento di rottura poiché sa che non può risalire più indietro nel passato senza provare una fitta straziante. L’esordio narrativo di Anne Godard è la spietata e chirurgica traduzione in forma di romanzo di questa definizione: la storia di una madre che ha vissuto il momento irreparabile della perdita di un figlio e del suo ossessivo vivere in funzione di quest’avvenimento, di giorno in giorno, di anniversario in anniversario, morbosamente aggrappata al ricordo di un vuoto. La stanza del giovane, custodita intatta per decine d’anni, è l’ultima compagna della sua vecchiaia: abbandonata dal marito, sottilmente disprezzata dai figli minori, per certi versi dimenticata dagli amici, la protagonista vi si rintana per immergersi consapevolmente in un flusso di memorie che ruotano tutte, inevitabilmente, intorno al momento della morte altrui. Quando decide di affrontare direttamente - violentemente quasi - la ricostruzione del trauma dimenticato, di fronte al riemergere della sofferenza fino ad allora controllata e quasi venerata, rivedendo e rivivendo la scomparsa del proprio figlio, la madre smette di essere madre e necessariamente inizia a morire.
A soli trentasei anni, Anne Godard ha prodotto un romanzo il cui ritmo è scandito dalla perizia con la quale dissemina lungo la rama dei ricordi indizi psicologici che danno la cifra della perdita sofferta dalla donna. Il tempo narrativo, composto da dieci capitoli ben proporzionati, vive della discrasia fra il prima e il dopo: un passato in cui tutto sembra correre troppo in fretta verso la morte del figlio e un continuo presente di istanti sospesi e reiterati, frutto di una perdita di senso che all’esperienza della morte quotidianamente si rifà. Un romanzo triste, certo, ma non lamentoso, stante la bravura di Anne Godard nel distinguersi sottilmente dalla protagonista, ora sovrapponendole la propria voce, ora lasciando che il lettore si renda conto di un’ironia infinita: quando ad esempio la madre, frugando per la prima volta nella stanza del figlio, scopre che anche lui le nascondeva qualcosa ma non lo accetta, e preferisce continuare a riporre tutto ciò che il figlio le ha involontariamente lasciato in una nebbiosa età dell’oro, un irrealizzato idillio materno che solo la morte, paradossalmente, sembra aver potuto rendere possibile.
Fosse sopravvissuto, sottintende Anne Godard, il figlio maggiore sarebbe magari diventato come i suoi fratelli, smentendo la patina di eccezionalità che il lutto materno gli ha cucito addosso: così che la repentina, polemica e rabbiosa uscita di casa dei fratelli minori acquista il senso di una lotta di liberazione da una cappa funerea, da una morbosa attesa del ritorno di un passato; sembra quasi la furia di Caino di fronte a una preferenza ai suoi occhi ingiustificata. Il dolore della madre non vuol sentir ragione e si autoalimenta fino a comprendere tutto ciò che la circonda, avvelenandolo e castrandolo. I continui e ossessivi riferimenti al figlio, la ricerca delle sue ultime immagini o di una qualsiasi traccia della sua presenza, costruiscono una prigione dei ricordi e al contempo l’unico rifugio nel quale la madre possa sentirsi al sicuro da un tempo che continua per tutti, ma che a lei pare essersi fermato; come se la donna, tenendo continuamente presente la morte, riuscisse a evitare di considerare la perdita del figlio come un evento reale, ossia come un avvenimento che ha spezzato una felice continuità dai contorni indistinti.Il linguaggio di Anne Godard è di limpidezza cristallina e precisione entomologica; si avverte, dietro ogni parola, la fatica della scelta senza che questo intacchi minimamente la fluidità della lettura. La sua prosa impone al lettore un ritmo moderato e costante, rende pressoché inconcepibile la voglia di saltare foss’anche una sola riga ma, d’altro canto, la brevità e la densità del romanzo impediscono al lettore di interrompere, lo inchiodano, lo ipnotizzano. Soprattutto, la vera sorpresa del romanzo è l’utilizzo della narrazione in seconda persona, artificio che rende netta l’idea della fitta straziante al cuore cui la protagonista si sottopone volontariamente, compiacendosene talvolta. Dal primo all’ultimo tu su cui intesse il romanzo, Anne Godard ottiene un duplice effetto: riuscire a mostrare la protagonista dall’esterno configurandola quale centro di un sistema chiuso e autoreferenziale; sovrapporre l’immagine della protagonista a lettore che sente i suoi atti, i suoi gesti e i suoi pensieri attaccarglisi addosso e seguirlo, come l’immagine riflessa in uno specchio incrinato dall’assenza.

Occhio che vede, cuore che duole

(venerdì 9 febbraio 2007, copyright Ore Piccole)

Tu. Quand’ero giovane e ingenuo credevo romanticamente che dire tu rivelasse al contempo una presenza e un’assenza, poiché costringeva le labbra a un movimento che era come dare un bacio all’aria circostante. Poi grazie al cielo sono cresciuto, anche un po’ ingrassato per la verità, e ho appreso che dire tu aveva tre padri nobili in letteratura. Uno, celeberrimo, era Calvino che in Se una notte d’inverno un viaggiatore ingeriva nella vita del lettore raccontandogli quello che stava facendo come se lo sapesse meglio di lui. Il secondo, misconosciuto e capovolto, era il Chamisso de La meravigliosa storia di Peter Schlemihl nel quale la narrazione è in prima persona ma a un bel punto la voce narrante piglia e si sdoppia rivolgendosi esplicitamente all’autore: “Oh, mio buon Chamisso, voglio sperare che tu non abbia ancora dimenticato che cosa è l’amore!”. Il terzo, infine, il Baudelaire che apostrofa l’ipocrita lettore suo simile e fratello. A nessuno di loro ha attinto Anne Godard, trentacinquenne parigina che vorrei invitare a cena, per esordire col romanzo Inconsolabile (Neri Pozza, 2007) tutto narrato in seconda persona.
A differenza di Baudelaire, Anne Godard non fa alcun riferimento al lettore, pare anzi fingere che questi non ci sia e - nel mio caso specifico - mi fa sentire in felice colpa come un tizio che origli e ficchi il naso in un poeticamente ritmato dialogo di comari, di cui si riesce a sentire soltanto una metà. La voce narrante non è quella del protagonista che si rivolge all’autore, come in Chamisso, ma quella dell’autrice che si rivolge alla protagonista. Anni luce lontana da Calvino, infine, Anne Godard non ha optato per la narrazione in seconda persona come artifizio letterario ma come migliore e forse unica maniera per presentare oggettivamente e soggettivamente, dall’esterno e dall’interno al contempo, il dolore che la protagonista condivide necessariamente con l’autrice che l’ha creata.
La storia è facile, il romanzo è breve. Una donna perde suo figlio in circostanze non chiare; invecchia progressivamente ma con la mente e lo sguardo costantemente rivolti al momento della perdita e alla ignota felicità che l’ha preceduta. È dunque come se per lei il tempo passasse inesorabile e al contempo si fosse fermato; inconsolabile, lo dice la parola stessa, è infatti colui nella cui vita s’è verificata una rottura, uno iato, uno sbrego irreparabile che lo porta a considerare il tempo successivo come un’inutile tortura e il tempo precedente come un irraggiungibile rimpianto. La protagonista alla quale si rivolge Anne Godard vive una temporalità spezzata; di là, un’immaginaria età dell’oro nella quale anche le piccole miserie del suo figlio adolescente vengono mitizzate e indorate; di qua, il progressivo allontanamento del marito dapprima, quindi degli altri figli che crescono e infine degli amici che - inevitabilmente - iniziano a dimenticare di telefonarle a ogni anniversario della disgrazia, perdono giocoforza i contatti con un mondo chiuso e autoreferenziale che, passato il santo, non è più il loro, non vive più del loro tempo che va avanti, immarcescibile.
Anne Godard è brava. Sa scegliere le parole, sa pesarle, posarle e disporle ottenendo una scrittura martellante; sa altrettanto che di madri infelici è pieno il mondo letterario, e sa pure che ogni madre perde suo figlio senza bisogno che questi muoia né che scappi di casa con la scusa dell’università o del lavoro. Il continuo tu di Anne Godard, che accompagna il lettore per centoquindici pagine finché non si distingue più chi narra chi legge e chi vive nel romanzo, è un indice infilato nel costato della storia, un dito estraneo che scava in un’innaturale apertura del corpo, dove la vita della madre si separa definitivamente da quella che ha portato in grembo per nove mesi e che s’è illusa di poter proteggere e avvolgere negli anni e in eterno. È talmente precisa la volontà dicotomica di Anne Godard e della sua seconda persona che pare alle volte di sentire la voce del Dio veterotestamentario che al contempo ordina e indica e racconta quello che accade secondo i suoi stessi precetti.
L’occhio narrante di Anne Godard può essere dappertutto, ma sceglie di seguire ossessivamente la vecchia protagonista, di accompagnarla gradino dopo gradino nei suoi definitivi decadenza e sotterramento. Anche dopo molte settimane dalla lettura del libro - così come accade nel mio caso, in questo momento - basta dare un’occhiata alla copertina per sentire nuovamente il metronomo della seconda persona, per ritrovarsi immersi nel tempo di un mondo creato esclusivamente dalle parole.
L’occhio narrante di Anne Godard poteva essere lacrimoso come la storia che narra, e aggiungere dolore al dolore; invece, con soluzione più che brillante, sceglie di essere indifferente, di più, sceglie di essere ironico e di mostrare in tutta nettezza la distanza incommensurabile fra il dolore vissuto, quello della protagonista che vi è conficcata fino ai capelli, e il dolore osservato, quello del lettore che sa benissimo come, una volta chiuso il libro, non ci saranno più madri depresse né figli deceduti né mariti fuggitivi. Il dolore narrato da Anne Godard è il solido ponte che collega i due mondi apparentemente inconciliabili: quello dei personaggi costretti a vivere in infinita ripetizione gli accadimenti narrati, e quello dei lettori consapevoli che la narrazione altrui è una parentesi conchiusa nei fatti propri.Quand’ero giovane e ingenuo invece di ubriacarmi drogarmi e mettere incinta la qualsiasi provvedevo a farmi regalare libri tipo Le Poetiche di Joyce, in cui Umberto Eco richiama e illustra la distinzione dal sapore tomistico fra tre generi - lirico epico e drammatico - esposta nei resti bruciacchiati dello Stephen Hero. Leggiamo. La forma lirica è “il più semplice rivestimento verbale di un attimo di emozione”, vulgo la narrazione in prima persona, sentimentale autoreferenziale o blogghistica che sia; la forma drammatica “riempie i personaggi con una forza vitale tale che assumono una vita estetica propria e intangibile”, vulgo la narrazione in terza persona, onnisciente e dickensiana, che è quello che crea raccontando. Infine, nelle parole di Eco/Joyce la forma epica “perviene all’equidistanza fra poeta lettore e centro emozionale”: esattamente quello che avrebbe fatto Joyce cresciutello con l’Ulisse, quello che aveva fatto Flaubert, il Dio-narratore che si limava le unghie ammirando la propria creazione, quello che ha fatto lucida e tagliente Anne Godard, estraendo fra tutti i possibili esordi, tanto per gradire, un gran romanzetto epico quale da tempo non se ne fanno più. Chapeau.

lunedì 26 febbraio 2007

Sopravvivere al calcio

(sabato 3 febbraio 2007, copyright Il Resto del Pallone)

È sabato mattina, ieri c’è stata Catania-Palermo e ovviamente il progettato articolo sulla Coppa Italia è finito nel cestino virtuale del computer; ma è pronto, ahimè, per venire raccattato non appena si ricomincerà come se niente fosse. Perché covo l’amaro sospetto che, fatta salva l’indignazione, fatti salvi un paio di turni di sospensione del campionato, non accadrà nulla, e vorrà dire che nessuno avrà imparato nulla. Vorrà dire, soprattutto, che il calcio sarà venuto meno al duplice impegno racchiuso nel suo essere sport: da un lato - lo dice l’etimologia - quello di diporto, sano divertimento, metodo costruttivo per rilassarsi; dall’altro quello educativo di tramandare valori ed emozioni da una generazione all’altra. A me sembra che nessuno di questi due compiti stia venendo rispettato da tempo, e che la guerriglia di Sant’Agata non sia una causa, ma una conseguenza.
Se l’Italia avesse un governo, il ministro dell’Interno da cui dipendeva il poliziotto che è stato ucciso ritirerebbe i poliziotti dagli stadi per costringere i club a trovare una soluzione ragionevole, e non si limiterebbe a minacciarlo. Se la maggioranza si pregiasse di votare favore del ministro della Difesa, questi si sentirebbe forte abbastanza da ricordare che chiunque alzi una mano contro un carabiniere è nemico dell’Italia né più né meno di chi attenta alla vita di un soldato al fronte. Se le gerarchie all’interno della maggioranza fossero chiare, non si sarebbe costretti ad arzigogoli per giustificare l’atto - in sé inaccettabile - di fronteggiare impunemente le forze dell’ordine con qualsiasi pretesto, pseudo-sportivo o pseudo-politico. Questo tanto per dimostrare come il problema non sia circoscritto al calcio, ma sia da rintracciare a monte in troppe indecisioni della società civile.
D’altra parte, non ci si può nascondere dietro un dito dicendo che i delinquenti non sono tifosi e che pertanto il calcio ne viene ferito solo di striscio. Se gli episodi di violenza segnassero qualsiasi di macro-aggregazione (compresi i convegni di Forza Italia, il carnevale di Viareggio e la finale di Ballando con le Stelle), allora il discorso starebbe in piedi, e la colpa sarebbe generale; ma non mi risultano bollettini di guerra emessi in occasione di incontri di altri sport, quindi si tratta di un problema specifico del calcio: di Pancalli, di Matarrese, dei presidenti, degli allenatori, dei giocatori, degli addetti ai lavori, dei giornalisti, dei tifosi organizzati e di chiunque sbirci anche fugacemente cinque minuti di Controcampo o della Domenica Sportiva. Se è sempre il calcio il momento di aggregazione cui si accompagna la violenza, tanto da ritenerla perfino inevitabile, vuol dire che il calcio fornisce in qualche maniera giustificazione all’esercizio della violenza. Se allo stadio il diporto diventa battaglia, allora non ci sono scusanti: il calcio è marcio.
Come per tutti i problemi, non c’è un rimedio - altrimenti lo si attuerebbe e in quattro e quattr’otto il problema non ci sarebbe più. Sarebbe saggio però tentare di trovare una soluzione. La prima potrebbe essere quella di rispettare le regole (stadi a norma; biglietti nominali), aggiungerne di nuove e migliori (pene più severe per chi causa i disordini; alzare l’asticella della responsabilità oggettiva per spingere i club a cooperare maggiormente con le forze dell’ordine, a proprio stesso vantaggio) e punire chi non le rispetta (in questo caso, far sparire il Catania dalla Lega Calcio potrebbe essere un inizio).
La seconda soluzione consisterebbe nel prendere atto che l’indegna cagnara di quest’estate era già un sintomo sufficiente a capire che si era passato il segno; e quando si passa il segno raramente la colpa è circoscritta a poche persone o a poche società. Invece s’è creduto che bastasse nascondere la Juventus e poco altro sotto il tappeto del Mondiale per risorgere immacolati: errore enorme. Se un sistema è marcio, dal capo dei capi all’ultimo dei tifosi, bisogna rinnovarlo radicalmente; per rinnovarlo ci vogliono dei tempi tecnici e questi tempi rendono necessario uno iato, un vuoto, una pausa di profonda riflessione.Il calcio è una pentola che sta per scoppiare ferendoci tutti, e noi continuiamo a credere che il problema sia che tipo di pasta calare, quando invece dobbiamo trovare una consistente valvola di sfogo. Per dare sollievo a questa pressione, io propongo che la Federcalcio annulli la stagione in corso, che è iniziata zoppa e sta finendo pazza e pericolosa; che Inter, Milan, Roma, Livorno e Parma si ritirino dalle coppe europee; che tutta l’attività dei club professionistici e della nazionale maggiore venga sospesa come minimo fino ad agosto; che l’anno prossimo si proceda alla rifondazione della Lega Calcio ammettendovi i club meglio classificati nel campionato Primavera. Non accadrà. Io vorrei allora che tutte le testate giornalistiche sportive, della carta stampata o radiotelevisive, ignorino il calcio italiano per tutto il resto di questa stagione; che si limitino a darci i risultati dei campionati esteri e dei tornei giovanili; che riempiano col basket, col volley, col rugby, col tennis, la scherma, il kayak e le bocce gli spazi vuoti che inevitabilmente si creeranno. Non accadrà. Io invito allora chiunque, come me, ama il calcio e sa di non poterne fare a meno a tentare uno sforzo per detronizzarlo dai propri interessi a vantaggio di uno sport a scelta; a sospendere dolorosamente (faccio il mio caso) l’amore per il Milan e sostituirlo con il tifo per l’Aston Villa, o per la Lottomatica Roma, o per il Cimone Modena; a comportarsi come con un’amata stronza, a porla di fronte a un bivio definitivo, a tradirla per farla tornare fedele. Non accadrà, io stesso non ci riuscirò. Ma almeno, sapendo che esistono tanti altri sport rasserenanti, potremo sopravvivere col cuore in pace alla chiusura definitiva del calcio, che tanto durerà un paio di settimane.

JR & B-16


(sabato 3 febbraio 2007, copyright Ore Piccole)


Nell’attesa che si compia la beata speranza e venga il Nostro Salvatore Gesù Cristo a liberarmi da questa misera vita e possibilmente anche dal dottorato di ricerca, mi trascino con l’anima ferita e il corpo dolorante attraverso le incombenze quotidiane. Unica consolazione settimanale, eccezion fatta per cosacce delle quali è meglio non riferire pubblicamente, sono per me le parole che il Papa, ogni domenica alle 12, pronunzia dalla finestra del proprio studio; trovo consolante infatti che un vecchio e saggio sacerdote, con immarcescibile costanza, di settimana in settimana diventi un uomo che parla agli uomini; e trovo ancor più consolante, e anzi conferma della consolazione precedente, che le parole del vecchio e saggio sacerdote diventino materia di discussione su un livello molto più alto e più profondo al contempo di quella che sarebbe causata da gesti magari più eclatanti delle parole, mediaticamente studiati in favore di telecamera.
Ratzinger è un Papa di parole e per questo lo sento vicino a me; Ratzinger è un Papa di parole che altre parole inevitabilmente genera. Se c’è una cosa che l’anonimo (e già apprezzato qualche mese fa) libellista dell’ISBN deve riconoscere a Ratzinger, è che nel breve volgere di una stagione gli ha fornito nuovo materiale di discussione. Così a Contro Ratzinger si è aggiunto Contro Ratzinger 2.0: scontro di civiltà e altre sciocchezze; cosa che sarebbe stata impossibile con un Papa che si fosse tenuto su termini vaghi o che peggio ancora parlasse soltanto per cercare l’applauso. Il compito del teologo, e del Papa primo fra tutti, è al contrario quello di cercare la marcatura dei confini, il punto di rottura, il qui-e-non-oltre insindacabile; il compito di chi ascolta il Papa è capirlo, riflettere, soppesare, trarne conclusioni. Ossia la cosa identica che facciamo, con risultati felicemente opposti, io e l’anonimo dell’ISBN.
Ho preso un impegno con me stesso: ci sono mille cose da dire ma questa recensione non dev’esser più lunga del libello che recensisce, anche per non farmi fare la fine di Sainte-Beuve che litigò con tutti i suoi contemporanei. Questo mi mette in notevole svantaggio nella disputa, visto che la ISBN ha concepito Contro Ratzinger 2.0 come - testualmente - un upgrade del candido volume precedentemente edito (con tanto di linguetta adesiva per attaccarlo sul retro del predecessore): e quindi si tratta di un libello agilissimo, quasi diafano, ma non per questo inconsistente. Un pamphlet, come nelle intenzioni dell’anonimo. Io, che sono baroccamente controriformistico e mai abituato alla necessaria brevità, dovrò pertanto proporzionarmi a queste dimensioni lillipuziane (però costa tanto, amici dell’ISBN, se facciamo una proporzione col volume originario: sei euro e ottanta, più di dieci centesimi a pagina; potenzialmente questo allontana dall’acquisto i possessori del primo volume e tanto meno favorisce chi tramite il volumetto smilzo volesse avvicinarsi alla disputa sulla vera fede); io, che provo un sotterraneo piacere nell’assistere al sovvertimento delle gerarchie per la manutenzione delle quali io stesso nel mio piccolo combatto, potrei dunque essere costretto ad apocalittizzare i toni per evitare la lungaggine delle sottigliezze. Premesso questo, amici dell’ISBN, amico anonimo - appunto, premesso questo, amici come prima, e spero anche di più.
Il volumetto si articola in cinque momenti: i primi tre riguardano il celebre discorso di Ratisbona (quello dopo il quale tutto l’Islam insorse contro Manuele II Paleologo, coraggiosamente incurante che questi fosse crepato da quasi sei secoli), una la contrapposizione fra monoteismo e politeismo, l’ultima la recrudescenza bigotta del cesaropapismo grafico-editoriale. Poiché nessun libro nasce vergine, non ho potuto fare a meno di considerare Contro Ratzinger 2.0 sia tenendo presente il suo brillante predecessore, sia circondandolo dei libri che ho avuto per le mani nello stesso periodo.
Il brillante predecessore, Contro Ratzinger e basta, è funzionale al contenuto, e paradossalmente può essere il peggior nemico di Contro Ratzinger 2.0. Ancor più paradossalmente, sarebbe stato meglio leggere prima il secondo e poi il primo (se non l’avete ancora fatto provate così, vi piacerà di più) in quanto il 2.0 sembra limitarsi a un problema snocciolato - quello dei rapporti fra Islam e Cattolicesimo così come apparvero nel discorso di Ratisbona - e sembra soprattutto voler esaminare le correnti profonde di un oceano innavigabile limitandosi a dare un’occhiata alla schiuma in superficie. Colpa dell’anonimo? Colpa delle sessanta paginette? No, colpa di nessuno perché si tratta di un processo che ritengo voluto: per evidenziare come nei primi capoversi del discorsone ratisbone si annidino addirittura un errore, una dimenticanza, un insulto e un pregiudizio - e per mostrare che invece la sua critica riesce ad andare più in profondità - l’anonimo deve diabolicamente tener presente soltanto la panna montata (il giudizio tranchant sull’Islam) evitando di menzionare il gelato (i decenni di dottrina che sostengono il Ratzinger-pensiero) e il cono (i secoli di teologia ai quali la dottrina di Ratzinger si appella); altrimenti non sarebbe stato un pamphlet ma la Medulla Theologiae Moralis. Sarò arrabbiato col mio (virtuale) amico anonimo per così poco? No, tanto più perché intuisco benissimo che ha voluto riprendere un procedimento di diminuzione e discredito dei contenuti del sacro avversario tipico dell’esegesi iconoclasta del XVIII secolo - faccio un esempio: il Vangelo racconta che Gesù secca un fico perché non dà frutto; immediatamente dopo Gesù giustifica quest’azione con un’interpretazione simbolica ragionevole; l’esegeta illuminista riferisce l’episodio omettendo quest’interpretazione e dando l’idea di un Gesù isterico che ce l’aveva coi fichi senza motivo plausibile.
Qui sono entrati in gioco i libri che m’è capitato di usare intorno a Contro Ratzinger 2.0, e che sono funzionali alla forma. All’atto della lettura, stavo scrivendo infatti un patetico tentativo di dimostrare che nel Dizionario Filosofico Voltaire sostiene l’esatto contrario di quello che ha effettivamente scritto; e la rispondenza stilistica fra due testi così distanti è stata lampante di primo acchito. Della pamphlettistica settecentesca (di cui Voltaire è il campione indiscusso), l’anonimo ha saputo riproporre la varieganza (lo dice Bonolis, lo dico anch’io) stilistica da contrapporre alla monolitica, gerarchica e rituale dossografia ecclesiastica. E così l’anonimo approfitta della versatilità grafica dell’ISBN per trasformare il discorso di Ratisbona in un tema su mezza pagina di quaderno a righi, completo di segni di lapis, correzioni e interpolazioni professorali; riproduce (in carattere Arial, parrebbe) l’e-corrispondenza intercorsa fra il Papa e i capi delle grandi religioni monoteiste mondiali (grandayatollah@sistani.org, vedete se vi risponde qualcuno); fotografa il Cardinal Bertone - nuovo segretario di stato vaticano - di fianco a un Uomo Vitruviano senza palle; auto-intercetta e trascrive una delirante telefonata anatomica a un’ansiosa signorina; ripropone la guerra grafica fra la ISBN e il comune di Roma (amministrato dal socialdemocratico Veltroni, eh, non dal barone Scarpia) sulle dimensioni della pubblicità di Contro Ratzinger; e così via.
È questa dimensione del bizzarro sorridente la cifra di Contro Ratzinger 2.0; le risate a denti stretti che riesce a strappare hanno il triplice scopo di divertire il lettore (nella fattispecie me, dopo un’intera giornata dedicata a compulsare il catalogo della biblioteca di Voltaire per poi scoprire che era inutile), di distrarlo dal fulcro dottrinale del pamphlet, meno centrato del precedente, e anche di intenerirlo ed evitare che rimarchi qualche errore dettato dalla troppa foga iconoclasta. Tanto per dire, l’anonimo cita l’infallibilità fingendo di non sapere che si applica soltanto ai dogmi pronunziati ex cathedra, e che non mette al riparo dalla confusione di date o di nomi, tutt’altro: chissà se ha notato, l’anonimo, come un paio di domeniche fa il Papa abbia sbagliato a recitare l’Angelus, per poi correggersi. Capita: mica per niente è un vecchio sacerdote, è un uomo che parla agli uomini; mica per niente mi consola.All’anonimo dell’ISBN queste malizie vengono perdonate facilmente, tuttavia, non solo perché è simpatico e ci diporta, né perché a pranzo ho abbondato col vino rosso, che non a caso è parte integrante dell’Eucaristia (si veda l’editoriale di Camillo Langone sulla prima pagina del Foglio di oggi). Perdono agevolmente per via di una citazione che Sciascia prese in prestito da I Teologi di Borges: Aureliano conversò con Dio; Questi si interessa così poco di controversie religiose che lo scambiò per Giovanni di Pannonia. Ma questo indurrebbe a sospettare una confusione nella mente divina. È più esatto dire che nel Paradiso Aureliano seppe che per l’insondabile divinità egli e Giovanni di Pannonia (l’ortodosso e l’eretico, l’aborritore e l’aborrito, l’accusatore e la vittima) erano la stessa persona. Ecco, non vorrei arrabbiarmi con l’anonimo per poi scoprire all’inferno che magari l’anonimo sono io.

Le sozzure del matrimonio, le delusioni dell'adulterio


(lunedì 29 gennaio 2007, copyright Ore Piccole)


Centocinquant’anni fa questa mattina iniziava a Parigi il primo dei tre processi che avrebbero provveduto a ridefinire il concetto di letteratura così come noi lo intendiamo oggi. Se anzi gli altri due (contro l’Ulisse di Joyce e contro la Lady Chatterley di Lawrence) possono forse contare maggiormente come precedenti specifici riguardo ai casi di oscenità, il processo che si apriva il 29 gennaio 1857 chiamava in causa argomenti più generali e, come tali, più decisivi. Gli imputati erano tre: Léon Laurent-Pichat, direttore della Revue de Paris, reo di aver pubblicato a puntate il romanzo incriminato; Auguste Alexis Pillet, tipografo, reo di non essersi rifiutato di dare alle stampe del materiale osceno; infine Gustave Flaubert, reo di avere scritto Madame Bovary. Poiché non sarò mai in grado di scrivere un legal thriller, inizio rivelando l’esito del processo: Laurent-Pichat, Pillet e soprattutto Flaubert vengono assolti, com’era facilmente intuibile dal corso della storia di cui siamo perfettamente a conoscenza; e mi permetto addirittura di dire che il contenuto della sentenza è la cosa meno detetrminante ai nostri occhi, esattamente come il misero risultato di una partita di calcio (due numeri separati da un trattino) se comparato a novanta infiniti minuti di piacere e sofferenza.
L’accusa allo stampatore, forse, è quella che oggi ci stupisce maggiormente. Non solo viene accusato di responsabilità oggettiva ma, negli atti del processo, il suo nome precede quello dell’autore; sembrerebbe paradossale ma è indicativo di come l’accusa mossa a Madame Bovary non fosse tanto da ricercarsi nel merito quanto nel metodo ossia, tradotto, in questione non era tanto l’evenienza che il romanzo fosse stato scritto quanto che esso fosse stato letto, e quindi diffuso, e quindi stampato. Donde, l’accusa al proto, decisivo complice. L’accusa al direttore della Revue de Paris ci appare più ragionevole; se un libro causa un danno (ragionando in astratto) la colpa non è solo dell’autore, il quale il più delle volte è un meschinello e uno sconsiderato, ma soprattutto dell’editore, il quale dovrebbe essere più uomo di mondo e soprattutto rendersi maggiormente conto dei possibili effetti di ciò che si accinge a stampare. Di qui, la responsabilità; se non che la vicenda editoriale di Madame Bovary ci insegna che fu proprio l’editore Laurent-Pichat a insistere per tagliare i passi più scabrosi del romanzo; e non è peregrina l’idea che siano stati proprio i più maldestri fra i tagli, che lasciavano il detto non detto privando la prosa di Flaubert del ritmo ossessivamente ricercato di stesura in stesura, a insospettire i bizzochi più di quanto non avrebbe fatto magari un periodo più esplicito ma meglio calibrato. A considerarla da questo versante, l’accusa al direttore/editore ci sembra ben assestata; però, nonostante gli sforzi della corte per tenere insieme in un solo procedimento tre imputati, dall’apertura della requisitoria al pronunciamento dell’assoluzione appare chiaro che si trattava - neanche tanto sotterraneamente - soprattutto di un processo a Flaubert.
Potrà sorprendere le nostre ingenue coscienze apprendere che il suo avvocato difensore, Marie-Antoine-Jules Sénard, apra la propria arringa squarciando subito il velo che dovrebbe coprire la vita privata di Flaubert, rimarcando orgoglioso come egli stesso fosse amico di Flaubert senior così come l’autore era amico dei vari Sénard junior, dei quali non precisa il numero. Non è un patetico tentativo di ottenere un’assoluzione a priori: il roboante giureconsulto sapeva il fatto suo e una decina d’anni prima era stato addirittura Ministro degli Interni; va anzi pensato che, all’apertura del dibattimento, la sua celebrità fosse probabilmente ben maggiore di quella dell’autore, e che la sua stessa presenza al processo fosse dunque un atto sufficiente a orientare, se non il giudizio, quanto meno la considerazione della corte. Soprattutto, parlare della vita privata di Flaubert non era un patetico espediente in quanto l’avvocato Sénard, colto più che a sufficienza, intendeva spiegare l’opera di un autore mediante la sua vita, puntando il dito sull’incommensurabile distanza che separa i vapori di Emma Bovary, avida lettrice di romanzi, e il rigore di Gustave Flaubert, romanziere esordiente.
La distinzione fondamentale è dunque questa, volta a smontare il sillogismo dell’accusa: nel romanzo viene esplicitamente detto che la fantasia bovaresca viene eccitata dalla lettura di romanzi, facendo della protagonista una Don Chisciotte un po’ troia (per quanto l’avvocato Sénard abbia utilizzato termini più fioriti); si presume pertanto che la lettura di passi scabrosi possa eccitare simili aspirazioni nelle oneste mogli di campagna, donde l’accusa di offese alla morale pubblica; la vita di Flaubert, invece, dimostra l’esatto contrario, e cioè che la continua compagnia di romanzi più o meno scabrosi e la produzione degli stessi non conduce dritti all’inferno, tutt’altro.
Questo è il ragionamento sotteso all’arringa difensiva. Sénard potrebbe agevolmente sbrigarsela così se l’accusa non contemplasse anche, insieme alla morale pubblica, le offese alla religione; accusa più sottile, perversa quasi, e velenosissima nell’infinità di riferimenti contraddittori che si possono presentare al proposito. È qui che Sénard ha il colpo di genio e trasla il discorso sul versante opposto: se aveva affrontato la vita privata dell’autore per difendere quella immaginaria di un personaggio, ora invece sterilizza Flaubert e invece di questionarne la fede personale ne decanta esclusivamente le capacità scrittorie, mostrando come le scene (e più in generale le circostanze) accusate di empietà fossero invece un raffinato e coltissimo gioco di rimandi agli apologeti del cristianesimo, culminanti in Bossuet, anzi, culminanti addirittura nel commento al Catechismo pubblicato qualche anno prima dell’abate Guillois: e come si fa a dar torto al Catechismo?
Non bisogna voler male all’avvocato accusatore. Il sostituto procuratore Ernest Pinard interrompe reiteratamente la difesa per accusarla di aver travisato le sue parole e di star spostando il dibattito su un piano estraneo al processo: aveva ragione. Noi ci sentiamo talmente (post)moderni che le rimostranze espresse da Pinard nella requisitoria non possono che scandalizzarci in nome della libertà di stampa, della guerra alla censura, dell’arte e pure del libero libertinaggio; a maggior ragione solleviamo tronfi i nostri menti apprendendo da Mario Vargas Llosa (L’Orgia Perpetua) che in privato Pinard si dilettava nella stesura di versi pornografici. Concludiamo che è un ipocrita, quindi lo esecriamo e, come tutti quelli che si scandalizzano facilmente, sbagliamo di grosso. Centocinquant’anni dopo, Pinard emerge come il vero protagonista del processo: un protagonista parlante, anzi più che loquace, talvolta garrulo, ma l’unico che fronteggi l’altero e muto Flaubert, la cui presenza aleggia sul tribunale come lo spirito di Dio sulle acque della Genesi.
Ci sono tante maniere di leggere un libro; si può farlo dall’inizio alla fine, come di solito è consigliato, ma nulla ci vieta di leggerne un po’ per volta, a spizzichi e bocconi, o di inseguire da una pagina all’altra un’idea che forse all’autore non è mai venuta in mente. L’accusa di Pinard - lunga, delineata, mai banale e formidabilmente ben scritta - si apre proprio con questa domanda: come si legge un libro? La questione non è peregrina, tanto più se si tiene presente che nella circostanza specifica pare che il principale interesse di accusa e difesa fosse di evitare alla corte il fastidio di leggere l’intero libro, ritenendo sconveniente che degli uomini togati perdessero tempo con un romanzo d’appendice. Pinard è diabolico e gioca su quest’impossibilità: rivendicando la propria fedeltà al testo, offre una sintesi della trama e accompagna la corte in una selezione dei passi. Selezione tendenziosa, non sarò certo io a dirlo (anche perché glielo rinfaccia Sénard): ma quale selezione non lo è? Considerate soltanto le vostre antologie del liceo, non vi offrivano una letteratura che era decisamente difforme da come effettivamente la letteratura era andata sviluppandosi dei secoli, e che veniva comunque canonizzata come La Letteratura Santa e Immutabile?
Letto da Pinard, Madame Bovary è un libro sconveniente; non perché la requisitoria si limiti ai passi scabrosi, tutt’altro: lo scaltro Pinard lascia cadere le pietre di scandalo in prati fioriti di bella prosa e di complimenti all’autore. La lettura di Pinard è forse l’analisi più precisa che sia mai stata fatta a Madame Bovary, tanto che - vinto il processo - Flaubert volle accluderla in appendice in tutte le nuove edizioni del romanzo (giù fino al Meridiano Mondadori del quale mi sto servendo), insieme ai verbali della difesa e della sentenza. Su una precisa frase Pinard appunta la propria attenzione: “nella sua fresca bellezza, prima delle sozzure del matrimonio e delle delusioni dell’adulterio” - la frase continua, ma Pinard si ferma e, con espressione che immagino teatrale, leva gli occhi dal foglio e suggerisce alla corte: “Un’altra avrebbe detto: prima delle delusioni del matrimonio e delle sozzure dell’adulterio”. Poi continua, ma il fulcro dell’accusa era questo, e non fu capito.
Pinard sta considerando Emma Bovary non come un personaggio fittizio (come invece distinguerà Sénard, disponendo sul bilancino i pensieri della protagonista e i giudizi dell’autore, mischiati assieme dal discorso indiretto) ma come un personaggio reale, una delle possibili oneste spose di campagna che possono essere traviate dalla lettura delle avventure di una di loro. Prevede la mossa della difesa, che presenterà quale insegnamento morale del libro proprio la raggiunta consapevolezza che l’adulterio non è che illusione dopo l’oscenità del matrimonio contratto per ambizione e prestigio. Individuato l’inciso nel quale Flaubert aveva racchiuso l’insegnamento, Pinard provvede a capovolgerlo disinvoltamente, ridisponendo i termini nell’ordine prestabilito (il matrimonio può essere deludente; l’adulterio è una porcheria) e sapendo altresì che quella metatesi è il suo cavallo di Troia: se si ammette che Flaubert avrebbe potuto scrivere meglio l’idea che intendeva esprimere, sarebbero venuti meno tanto l’insegnamento morale racchiuso nell’inciso quanto la presunzione che il romanzo fosse prosa d’arte; allora Pinard avrebbe avuto gioco facile a tacciare Madame Bovary di libraccio immorale, e proibirne la lettura a tutti gli scolari per i quali oggi è obbligatoria. Non c’è riuscito.Sénard e Pinard, centocinquant’anni dopo aver pronunziato le parole che leggiamo, diventano nella nostra mente uno scherzo della memoria, uno di quei giochi di specchi a cui il lettore compulsivo è abituato da tempo: i loro cognomi in rima si fanno, sulle pagine degli atti, da persone personaggi, si mutano in frutto della fantasia dell’autore che stanno rispettivamente accusando e difendendo, diventano una di quelle coppie di opposti complementari che Flaubert stesso amava e che ha eternato in Bouvard e Pécuchet. Ci sembrano ridicoli e al contempo siamo loro grati per averci letto ognuno un romanzo diverso. Dalle note agli atti del processo, infine, si può apprendere che di lì a dieci anni Pinard sarebbe diventato ministro degli Interni; magari accettando l’incarico ha pensato all’antico rivale che l’aveva preceduto nello stesso ruolo; magari ha sentito che la letteratura gli aveva dato torto, mentre la storia gli stava dando ragione.

Il periodo ipotetico

(sabato 20 gennaio 2007, copyright Il Resto del Pallone)


Un amico ha appena cercato di convincermi dell’intrinseca utilità di Ronaldo: a differenza di me (e, credo, di tutte le persone ragionevoli), quest’amico non ritiene che Gilardino renda meglio da solo e quindi presume che, dovendo necessariamente affiancargli un brasiliano, Ronaldo sia decisamente meglio di Oliveira; tanto più che appena Kakà tornerà in forma, e inizierà a infilare la palla negli spazi come solo lui sa fare sui verdi prati di San Siro, le devastanti progressioni di Ronaldo saranno il correlativo oggettivo delle sue siringhe rasoterra. Al contrario, insisteva il mio amico, nel Real Madrid Ronaldo è non solo inutile ma dannoso, perché costringe Raúl ad arretrare (o ad avanzare, non ricordo) il proprio raggio d’azione ed espone il centrocampo a spifferi poco salubri che Cannavaro, troppo impegnato a ridersela per essere sfuggito al naufragio juventino, non riesce a contrastare, col risultato che squadre mediocri e dal nome ridicolo come il Recreativo Huelva, di fronte al Pallone d’Oro sgonfiato, sembrano il ritmico Brasile con Didì-Vavà-Pelè.
Questo è il ragionamento-tipo che si sente a partire dalla riapertura del calciomercato; e se non si tratta di Ronaldo ma di Bogdani, non del Milan ma del Chievo, in fin dei conti al variare dei nomi resta comunque in mano un enorme castello di possibilità remote incatenate fra loro da tutta una serie di se…se…se. Coi se e coi ma la storia non si fa, questo siamo abbastanza sgamati da saperlo; tuttavia ci si riesce a imbastire un discreto calciomercato, dove per calciomercato non s’intende tanto l’effettivo trasferimento di un calciatore da una squadra all’altra, ma tutto il chiacchiericcio di contorno che argomenta con perizia e dedizione la ricetta per risollevare le sorti delle squadre che a mezzo campionato si ritrovano sull’orlo del baratro, cioè tutte tranne l’Inter (quanto all’Inter, il calciomercato dovrebbe servirle ad evitare di ricordarsi improvvisamente di essere l’Inter e arrivare consuetamente e quasi miracolosamente seconda - ma è un discorso a parte).
In me però sorge un sospetto. Sarà mica che il mio amico di cui sopra, essendo spagnolo e soprattutto essendo tifoso del Real Madrid, mi stia decantando l’intrinseca necessità di Ronaldo per contribuire prima che sia troppo tardi all’epico sbolognamento di un bidone passatello? Anche se non volessi mettere in dubbio la sua buona fede (del mio amico, non di Ronaldo), ai miei occhi il calciomercato d’inverno resta allo stesso livello dei disperati tentativi di rivendere al mercatino sotto casa gli improponibili regali ricevuti da vecchie zie che risorgono solo a Natale: cravatte a pallini fucsia, radiosveglie a forma di mulino, insomma tutto il kitsch che sia possibile concepire e riciclare.
Su un piano romantico, sono avverso al mercato d’inverno perché scompagina le raccolte di figurine (e se mai avrò un figlio, come potrò prevenirlo dal trauma di Adriano uno e trino che, nel giro di un anno, giocava nella Fiorentina nel Parma e nell’Inter?) e perché rende inutilizzabili le guide al campionato fiduciosamente acquistate dopo ferragosto. Per non parlare dell’Almanacco Panini, uscito appena a dicembre: sarebbe come se da una nube luminosa adesso sentissi la voce di Dio ordinarmi di pigliare la Bibbia: “Allora, errata corrige: sposto Adamo nel ventre della balena e metto Isaia nel giardino dell’Eden”.Su un piano razionale, sono scettico: è raro che un acquisto d’inverno riaggiusti un’intera annata, e ancora più raro in paragone alle spropositate speranze riposte in questo buffo mercatino. È successo forse una sola volta, nell’inverno 1997-’98, quando Edgar Davids da mela marcia nel Milan si trasformò in carrozza dorata nella Juventus, facendole vincere lo scudetto in rimonta proprio guardacaso sulla prima Inter di Ronaldo. Ma per un Davids che si chiama Wolfe e risolve problemi c’è un’infinità di Esnaider o di Mario Jardel, che più che problemi sono disgrazie. Tanto per restare all’attualità, mi sembra che finora l’unico acquisto ragionevole sia lo slavato Wilhelmsson, onesto macinatore di fasce destre che permetterà a Spalletti di fare qualche cambio in più e alla Roma di non giocare sempre per vie centrali, arrischiando magari di aprirsi talvolta in un 4-4-2 ad ampio respiro. Ecco, anch’io sono stato risucchiato dal vortice del calciomercato d’inverno e dalla smania del periodo ipotetico, quando invece avrei fatto meglio a mettere in chiaro che Ronaldo per il Milan sarebbe un acquisto incongruo come il calendario di Sophia Loren (semi)nuda per un elettrauto; piuttosto, l’elettrauto farebbe meglio a comprare il calendario di Roberta Missoni (tutta) nuda e il Milan un portiere vero e qualche difensore giovane. A proposito, chi è Grimi?

La fine del mondo non arriva mai


(mercoledì 17 gennaio 2007, copyright Books Brothers)


Per prima cosa m’è venuta in mente la foto di un muro inglese sulla quale era scritto a caratteri cubitali Jesus saves, ovvero Gesù salva ma anche, con perfetta polisemia, Gesù para; lì sotto una mano anonima aveva aggiunto in sghembo But Keegan taps in - Ma Keegan ribadisce in rete. La stessa sproporzione fra onnipotenza divina e capacità umane, la stessa malandrina contrapposizione ironica fra due piani inconciliabili (Dio contro un calciatore, per quanto decisamente bravo), si ritrova in Bere Caffè da un’Altra Parte, la raccolta dei racconti di ZZ Packer edita da ISBN.
Per seconda cosa m’è venuto in mente che esiste un’America che non conosciamo affatto e la cui esistenza dimentichiamo continuamente nei nostri presuntuosi discorsi sul continente dirimpettaio; è l’America che lo stile trasognato di ZZ Packer rende lontana e imponderabile, l’America della Chiesa Pentecostale del Grande Cristo Emanuele del Battesimo del Fuoco e dei giganteschi campeggi per preadolescenti e delle insormontabili case di correzione. Infatti, a guardare in faccia ZZ Packer, cosa resa possibile dalla foto in terza di copertina, lo sguardo di questa trentenne di San Francisco racchiude i due sentimenti principali della sua narrativa (uno per occhio): la rassegnazione alle vie del mondo e la continua tensione verso un possibile superamento.
Poiché tuttavia gli autori vanno giudicati dalle loro parole e non dalle fotografie (per quanto evidentemente osservare una foto di ZZ Packer sia sicuramente più gradevole che incappare, poniamo, in un ritratto di Kierkegaard), è bene sottolineare che i due sentimenti affiancati e contrapposti sarebbero stati evidenti anche ignorando del tutto il sembiante dell’autrice. La rassegnazione, innanzitutto, traspare dalle scelte linguistiche che potrebbero talvolta apparire incongrue, innestando su una sintassi elementare degli improvvisi colpi di coda lessicali, parole inattese, accelerazioni del ritmo narrativo o divagazioni sorprendenti. Né si tratta di una rassegnazione passiva (di quella, per intenderci, che mi piglia quando lavoro alla tesi di dottorato), fungendo piuttosto da trampolino per un’ironia delirante e dolorosa, che causa la risata tipica di chi è debole e non ha altra vendetta che commiserare ciò che lo sovrasta.
Riguardo a ciò, la costante dei racconti è nella consapevolezza nera: già il primo, ad esempio, vive sulla querelle fra un gruppetto di ragazzine che si ribellano a una presunta offesa razziale subita dalle loro vicine bianche. Se questo fosse stato il tema-fulcro della raccolta, non ho difficoltà ad ammettere che avrei richiuso il libro per mai più riaprirlo, e invece - e invece - ZZ Packer ha talento più che sufficiente a insufflare la querelle razziale in un più alto e più fine gioco di rimandi psicologici, linguistici e umoristici, così da farla apparire del tutto naturale, per niente forzata e soprattutto mai lamentosa. Il corso del racconto (è il primo, Coccinelle), che vede rotolare la questione verso un inevitabile finale in cui per un caso strano sono proprio le presunte vittime a macchiarsi di razzismo costituisce forse la maggiore peculiarità stilistica di ZZ Packer nonché un ottimo appiglio per esplorare il secondo sentimento della sua narrativa.
L’ambiente nel quale si muove gran parte delle storie è quello delle chiese battiste: reverendi spettacolari (c’è una memorabile predica sull’utilizzo del telefono), catechiste ingenue, tredicenni che vagheggiano una fuga solo finché la sanno impossibile. Su tutto questo, un’estrema perizia nelle citazioni bibliche (guardiamoci in faccia: noi cattolici non sappiamo nemmeno se il libro del profeta Amos esiste veramente), una netta distinzione del bene dal male e un continuo riferimento al trascendente nei meandri della vita iperterrena (ri-guardiamoci in faccia: se non è domenica, noi cattolici siamo molto meno cattolici di quanto dovremmo). Avesse avuto solo il primo sentimento, ossia l’ironica rassegnazione, ZZ Packer si sarebbe limitata a descrivere questo mondo con ironia velenosa; ma come da foto l’autrice ha anche il secondo occhio, che la porta a sperare in un superamento dell’immanente, in una possibile salvazione: e, per quanto la mancanza di fiducia la prevenga dal cospargere le sue storie con una serena moralità da Padre Brown, è palpabile la comprensione verso i personaggi che talvolta non hanno altra speranza se non quella in una miglior vita futura.
Il racconto che fra tutti ho preferito (l’ultimo: Arriva Doris) si apre con la fine del mondo del 1961, surrogato della inutilmente attesa fine del mondo del 1955: data cui guardano con trepidazione i Pentecostali, per i quali essa non costituisce la perdita di qualcosa ma la speranza di un altrove nel quale rifugiarsi (l’Altra Parte del titolo della raccolta), ovvero l’Assunzione nel mondo nuovo e felice (guardiamoci in faccia: io sono cattolico ma non accetterei che la fine dei tempi mi impedisse di vedere l’ultima puntata di Desperate Housewives). Tuttavia questo rovesciamento, questo riscatto, nel 1961 non arriva così come non era arrivato qualche anno prima; e la vita, che ai suoi sgoccioli era parsa caricarsi di significato e bellezza, ritorna ad essere mera quotidianità da accettarsi con illuminata rassegnazione (vedi sopra).Per terza cosa, nella ridda di versetti biblici citati qua e là più o meno maliziosamente, m’è venuta in mente una significativa mancanza, il celebre versetto del Salmo 8 che lamenta Che cos’è l’uomo perché te ne ricordi, il figlio dell’uomo perché te ne curi?. Re David (se l’ha scritto lui) e ZZ Packer hanno questo in comune (solo questo, suppongo): hanno un sentimento che li porta a percepire nettamente, come una presenza fisica, la sproporzione inconciliabile fra il grande Dio e il piccolo uomo. I salmi di David sono la speranza dell’umanità; le piccole storie di ZZ Packer sono un sorriso in una valle di lacrime.

Lo splendore del Maligno


(lunedì 8 gennaio 2007, copyright Ore Piccole)


Per grazia di Dio il tempo non passa invano, pertanto oggi possiamo leggere Nada, il primo romanzo di Carmen Laforet, fresco fresco come se sessant’anni e rotti non fossero finora trascorsi. La prima edizione fu in Spagna nel 1944; lei, l’autrice, aveva ventitré anni e sarebbe vissuta fino al 2004. Per grazia di Dio il tempo non passa invano, e ci consente di stabilire giorno dopo giorno cosa conservare e cosa buttar via delle immense cartacce accumulate fra le migliaia (milioni forse) di diversi esordi letterari che si sono succeduti fra la seconda (1939-1945) e la quarta guerra mondiale (2001-boh). Il compito potrebbe apparire sovrumano, ma al riguardo io adotto un metodo infallibile poiché basato sulla legge di gravitazione universale: fatta una catasta delle infinite parole utilizzate a scopo romanzesco, ecco che dall’azione irrefragabile del tempo si salvano soltanto le parole lievi, altissime, irraggiungibili (la cui stessa costituzione iperurania preserva dall’intaccamento) così come - per reazione uguale e contraria - le parole grevi, infami, impanianti (che dall’intaccamento e dalla corrosione traggono giovamento e diventano anzi pezzi d’antiquariato). Tutto il resto è media letteratura e aurea mediocrità: lasciata passare una sana decina di anni ai nostri occhi non avrà più importanza che se fosse stata scritto in inchiostro simpatico.
Fin dalla scelta del titolo sembra che Carmen Laforet abbia voluto tenere in adeguata considerazione quest’effetto del tempo: Nada (né si capisce perché non ci sia stato coraggio abbastanza per tradurre in Italiano, Niente, o Nulla; d’altra parte sono passati centoventicinque anni, anzi centoventisei, da quando Alfredo Oriani ebbe il coraggio di intitolare un suo romanzo No) pare stia a significare proprio quest’azione del tempo, gli effetti della naturale selezione per corrosione, al termine della quale, quando tutto sarà compiuto, di questo stesso tutto non resterà che un mucchietto di polvere. L’editore Neri Pozza, sagace al suo solito, nel riproporre dopo tempo immemorabile il romanzo di Laforet ha voluto incarnare quest’alternanza fra alto e basso, fra ciò che resta e ciò che passa, nell’immagine di copertina (ancora una volta: quanto tempo ci metteranno tutti gli editori sulla faccia della terra a capire che un libro vero non inizia dalla prima parola né dal titolo ma dalla copertina? è troppo d’annunziana quest’idea per essere accettabile? eppure io tutto sono tranne che d’annunziano, pensate che da una settimana non ho manco il tempo di farmi la barba): la foto di Burt Glinn mostra in alto una ragazzetta che dondola in altalena, tale che il movimento oscillatorio la riporterà ad abbassarsi; in basso due guglie della Sagrada Familia, che tendono verso i cieli eterni ma, architettonicamente, sono ben piantati al suolo peccatore.
Su e giù dunque, leggero e pesante; quest’alternanza rende le parole di Carmen Laforet degne di essere sopravvissute a sessantadue anni di altri pensieri. Nella storia di Andrea, che si trasferisce a casa della nonna per fare l’università a Barcellona, si può facilmente rinvenire un esempio di realismo limpido, dove il linguaggio della narratrice (Andrea stessa) e per estensione dell’autrice rende giustizia alla parola come scalpello per abbellire il mondo, o quanto meno per smussarlo. Quello di calle di Aribau, dal momento in cui la nonna apre la porta ad Andrea, è un mondo che balza agli occhi stessi della protagonista/narratrice come peculiarmente brutto; di una bruttezza profonda, insondabile, quasi metafisica e - lo si intuisce fin dalle prime pagine - impossibile a mutarsi. Andrea non ha altra scelta: se vuole vivere a Barcellona, quale pegno della libertà (che credeva) appena conquistata deve scendere a patti con le ristrettezze del posto, con la scomodità della camera, con le beghe familiari e col più che rivelatore nome di battesimo della sua ipocrita e bigotta zia Angustias. Si riscatta, tuttavia, narrando ovvero vedendosi vivere, riservandosi di scegliere per ogni cosa brutta una parola bella e riscattando, così, con l’ordine retorico un mondo bruttarello.
Né va sottovalutata la sottotraccia che Carmen Laforet svela a intervalli regolari: la fame che porta Andrea a dover nutrirsi saltuariamente per la strada e a ritenere una leccornia il più ripugnante fra i bolliti. Noi veniamo or ora da un mese di bagordi, abbiamo trasformato l’Avvento in una scusa per morire d’indigestione prima che inizino le feste, abbiamo infilato il cibo dove non entrava più nemmeno a pressarlo col badile; e in questi giorni siamo tornati al lavoro col magone nella panza e con l’occhio intontito dall’unto dei grassi. Siamo riusciti a dimenticare, con ammirevole dedizione sparsa nei decenni, ciò che invece Andrea nella cattolicissima Spagna del tempo tiene sempre a mente, senza sentire la necessità di citarlo mai: ovvero la nozione che il digiuno rende più acuti gli occhi della mente.
Le cianfrusaglie sono l’unità di misura di questo romanzo. Digiunando (per necessità) e riflettendo (per vocazione), Andrea vede gli oggetti come essi sono veramente; li vede caricarsi di significati insospettati e insperati; li utilizza (il letto, lo specchio, la valigia) come rifugio da una nuova famiglia dilaniata da liti e urla, nella miglior tradizione mediterranea (quiz: cosa credete che mi impedisca, al momento, di scrivere più velocemente e meglio la recensione che ho sotto i polpastrelli? forse per caso l’evenienza che i miei genitori dialoghino senza ritenere opportuno muovere ognuno un passo dai due capi estremi del corridoio?). La silenziosa Andrea vede cose che gli altri non vedono, verrebbe da dire, e ama nascondersi nelle strade di Barcellona, come se casa sua fosse fuori e gli estranei fossero dentro, agognando come un frutto proibito il Barrio Chino, il quartiere malfamato e ridondante che l’invadente zia Angustias le ha più volte interdetto con minacce individuandovi, non a torto, “lo splendore del Maligno”.
Girando le pagine passano i mesi e alla fine del romanzo è trascorso circa un anno: lasso di tempo ideale per crescere, per cambiare e - se non si è stati già uccisi dall’università stessa - cercare di capire se la guerra adolescenziale contro il mondo è stata vinta o è stata persa. L’ingresso nel Barrio Chino segna il valico decisivo: guardandone le luci (piuttosto buie)e udendone i suoni (per lo più rumoracci) Andrea compie la sua personale discesa ad inferos che le consente di superare l’angustia di sua zia; di guardare in faccia il male quotidiano e poter così rendersi conto, sulla scorta dell’esempio, che è invece un abitante di calle de Aribau a celare in sé un principio di male eterno: e lo vedrà agire, appunto, in tutto il suo splendore. Varcando la porta di calle de Aribau, Andrea ha diciannove anni all’incirca; l’autrice ne aveva ventitré; Nada è il romanzo di ciò che resiste al tempo, di ciò che in genere resta - niente, appunto - dei vent’anni, l’età che è rimpianta da tutti tranne che dai ventenni. Mi ha fatto venire in mente, al richiuderlo, quello che Sciascia raccontava della gioventù di un celebre contemporaneo di Carmen Laforet, Giuseppe Antonio Borgese: Nessuno vuol tornare oggi ad avere vent’anni. E forse anche coloro che li hanno non li vorrebbero, ne sentono il disagio, quasi la disperazione; ma, per grazia di Dio, il tempo non passa invano.

C'era una volta il Parma

(venerdì 5 gennaio 2007, copyright Il Resto del Pallone)

Ci si inoltrava nella primavera del 1990 e a un certo punto sembrava che il Parma non riuscisse più a vincere; allora chiesero a Nevio Scala se temesse la concorrenza delle arrembanti Ancona e Reggina per salire in serie A. Con tutta la calma di questo mondo, rispose: “Non temo nessuno; temo noi se continuiamo così”. Risultato, il Parma venne promosso - con tre punti di vantaggio sull’Ancona - e la profezia di Nevio Scala finì nel dimenticatoio. Venne coperta di polvere perché, prima ancora che si finisse di festeggiare il primo ingresso nell’alta società, il Parma iniziò a infilare risultati più che sorprendenti (1-0 sul Napoli campione d’Italia, 2-1 sulla Roma, 2-0 sul Milan) e già alla fine del girone d’andata si capì che non giocava per la salvezza. Giocava per divertirsi, più che altro, e per divertire, nello spirito solare di una delle città più belle e serene d’Italia; riuscendoci, peraltro, cosa ancora più sconvolgente se si pensa che era bastato innestare una non pretenziosa spina dorsale straniera (Taffarel in porta, Grun in difesa, Brolin davanti) nell’organico dei silenziosi eroi della promozione (Minotti, Apolloni, Zoratto, Pizzi, Osio e Melli). Nel 1991 il Parma arrivò sesto in campionato, un punto davanti alla sciagurata Juventus di Maifredi, e fatti due conti si rese conto di aver guadagnato l’accesso in UEFA.
Non fu un affare: gli onesti bulgari del Cska Sofia, pareggiando in casa e in trasferta, fecero finire il sogno prima ancora che se ne delineassero i contorni; ma si sa che il seme deve morire se si vuole che dia frutto. A fronte di un campionato piuttosto anonimo (concluso comunque con un punto in più della sciagurata Inter di Orrico prima e Suarez poi), arrivò la partita impossibile, la doppia finale di Coppa Italia 1992 contro la Juventus. È stato un bel sogno, pazienza, sembrava giù scritto in faccia ai tifosi e tanto più dopo aver perso la gara di andata contro il danzante Roberto Baggio; andò a finire come nessuno avrebbe mai pensato possibile, con Melli e Osio increduli dopo i loro stessi goal, e con il gruppone felice e sudato intorno al primo storico trofeo.
Bene, evviva, sarà il primo e ultimo tuttavia - pensava il tifoso lungimirante; senza essere lungimirante abbastanza da prevedere che egli stesso, nove mesi dopo, si sarebbe unito a uno stadio intero per intonare la marcia trionfale dell’Aida nel mentre che gli stessi eroi della promozione (con l’aggiunta di Ballotta, Benarrivo e Di Chiara) massacravano il povero Sparta Praga. La Coppa delle Coppe 1993 fu vinta ai quarti di finale, nel pomeriggio assolato del Tardini, sulle note di Verdi: perché la semifinale vinta (in trasferta!) contro l’Atlético Madrid fu l’imponderabile conseguenza del miracolo e il 3-1 in finale sull’Anversa poco più che la marca da bollo. In campionato il Parma era arrivato terzo, nientemeno, con due punti di vantaggio sulla Juventus di Trapattoni; si iniziava a sognare lo scudetto, qualcuno iniziò a pretenderlo, per questo ad Asprilla vennero Sensini, Crippa e Zola, e qualcuno osò storcere il naso di fronte a un quarto posto dieci punti davanti alla peggior Inter che uomo ricordi, storcendolo ulteriormente di fronte alla finale di Coppa delle Coppe persa contro l’Arsenal dopo aver eliminato, tanto per gradire, Ajax e Benfica. La Supercoppa Europea 1994 conquistata ribaltando tanto il punteggio (0-1 in casa, 2-0 in trasferta) quanto l’avversario (il supponente Milan di Papin) scivolò via come un olio balsamico. Ora, la storia insegna che in provincia insistere per lo scudetto non porta gran che bene: prova ne sia che nonostante Giovanni Galli, Fernando Couto e Dino Baggio non si concluse nulla di più che un terzo posto dietro la rinata Juventus di Lippi ma davanti a Milan (tre punti) e Inter (undici). Il tutto condito, tanto per gradire, da due doppie finali contro la Juve: una persa, in Coppa Italia, e una vinta meravigliosamente, mattatore Dino Baggio, per la Coppa UEFA 1995. Nel 1996 brutto campionato (comunque quattro punti davanti all’Inter), brutta Supercoppa Italiana (persa contro la solita Juve), brutta Coppa delle Coppe (eliminazione contro il primo avversario decente, il Paris Saint-Germain).
Si pensò che fosse l’apocalisse (più modestamente, si parlò di fine del ciclo), ci si preparò al peggio, Nevio Scala gettò la spugna lasciando dietro di sé la propria nera e inascoltata profezia. Nacque così il Parma più solido che abbia mai pestato un campo verde, con tutti insieme Buffon e Thuram e Cannavaro e Chiesa e Crespo: lo scudetto 1997 venne mancato per due punti, meno di una partita intera, secondo quella che sarebbe diventata una peculiare abitudine del nuovo allenatore, Carletto Ancelotti. L’esordio in Champions League (per la quale iniziava a non essere più indispensabile vincere i campionati) segnò l’inversione di tendenza: stornò la concentrazione dal campionato (concluso comunque con tredici punti più del Milan) e vide il sogno in grande stile naufragare nel primo pachidermico turno a gironi. Contro il Borussia Dortmund. Allenato da Nevio Scala.Salito troppo in alto, il Parma riuscì a non precipitare, anzi: colse un onorevolissimo quarto posto (un punto in più della Juventus, nove in più dell’Inter) e rinnovò la propria intesa con l’eliminazione diretta vincendo sia la Coppa Italia (due sostanziosi pareggi con la Fiorentina) sia la Coppa UEFA 1999 (3-0 su dei giovanotti che sostenevano di essere l’Olympique Marsiglia). Fosse stato un film, il Parma avrebbe avuto Scorsese; fosse stata una tragedia, avrebbe avuto Euripide. Invece era una squadra di calcio, e ha avuto la quadrata saggezza di Nevio Scala. “Temo soltanto noi se continuiamo così”: la parabola del Parma, che ha grattato il cielo senza essere mai accolta fra gli dèi, portò ancora con sé la prima Supercoppa Italiana (2000) e un’altra Coppa Italia (2002); ma ora forse gli dèi la stanno punendo per aver voluto troppo smettendo di divertire e divertirsi, per aver tradito l’aria di una delle più belle e serene città d’Italia.

Recriminazioni di Natale

(martedì 19 dicembre 2006, copyright Il Resto del Pallone)


Innanzitutto rivoglio la Coppa Intercontinentale, quella vera con la partita secca fra campioni d’Europa e di Sudamerica, ché gli incontri con altre squadre assurde dal nome impronunciabile e dagli schemi difensivi altamente improbabili diluiscono il fascino della competizione e la fanno sembrare una fidanzata che si presenta agli appuntamenti accompagnata da sorelle e cugine per far numero. Rivoglio la levataccia alle quattro della domenica mattina per vedere in diretta televisiva e in chiaro Platini mollemente sdraiato sotto la neve o il superfluo e artistico volo d’angelo di Rijkaard. Poi, inclusa nel pacchetto, rivoglio la Coppa delle Coppe, che aveva un suo intrinseco senso - non trovate? - se si pensa che faceva scontrare a eliminazione diretta le squadre specializzate nella vittoria di tornei a eliminazione diretta, tipo la Sampdoria o, se ci abbandoniamo a gusti esotici, il Malines o KV Mechelen che dir si voglia. Già che stiamo, rivoglio anche la Coppa UEFA con sessantaquattro squadre (solide: la Roma, il Barcellona, il Manchester United, tutte seconde e terze classificate, non chiamate a caso dalla mezza classifica) e con doppia finale, senza ridicole fasi a gironi-sola-andata al termine delle quali giocatori e allenatori non hanno ancora capito se si sono qualificati o meno e pertanto, di fronte al giornalista che li intervista, abbozzano. Rivoglio la Coppa Italia, fecondo terreno di sperimentazioni (tre punti per la vittoria, rigori senza supplementari, differenza reti e ripescaggi astrusi sono tutti nati lì), zona franca per sbrigliare la fantasia e lasciar divertire i bambini facendo tuttavia arrivare in fondo squadre spettacolari e ciniche (la Juve e il Milan, la Roma e il Torino, la Sampdoria e il Napoli), e non tortura invernale che squassa i garretti dei destrieri, snobbata in favore di più fumosi traguardi e per ciò stesso reiteratamente vinta dall’Inter. Della Supercoppa Italiana e della diafana Supercoppa Europea d’agosto, invece, farei volentieri a meno in cambio (bisogna sempre contrattare) di una Serie A a sedici squadre; nemmeno diciotto, ché già allora ce n’era sempre qualcuna, tipo l’Udinese, pronta a retrocedere e a venir promossa ad anni alterni. Rivoglio la compatta Serie A domenicale che segue il corso del sole (d’inverno si inizia alle 14:30, se no si gela; d’estate si inizia alle 16:30, se no si crepa) e che costringe a montare in fretta e furia tutte le sintesi nel tardo pomeriggio, dopo di che il resto è replica e approfondimento, niente di nuovo sotto il sole tramontato. Rivoglio la Juventus dove Dio comanda. Rivoglio le maglie bianche per le trasferte cromaticamente problematiche, e non pigiami grigiolini o carnevalate fucsia o camuffi catarifrangenti. Rivoglio le amichevoli estive contro la Villarcidese o la Pieve di Castro e rinunzio volentieri ad arrivare a settembre con già tre Milan-Inter alle spalle. Altrettanto respingo da me l’insensata Confederations Cup, lo stucchevole FIFA World Player e tutta l’annessa processione di nomi turchi, compresa la Champions League coi pachidermici gironi e le torte sovranazionali. Rivoglio la Coppa dei Campioni liscia: trentadue nazioni, una squadra ciascuna, adrenalinica eliminazione diretta e angoscia da primo turno, sospesi fra la speranza che venga sorteggiato lo Sliema Wanderers e il terrore che dall’urna si materializzi il Real Madrid. Rivoglio i Mondiali a ventiquattro squadre (più Olanda, meno Corea) e gli Europei a otto, con annesso thrilling nel girone di qualificazione: o si arriva primi o non si arriva affatto, nel calcio non si deve rimandare a domani la partita che si può vincere oggi. Rivoglio un sacco di altre cose, collateralmente: la Gazzetta dello Sport che macchia le mani colpevoli di starla impugnando a scuola, dieci pagine di TuttoCoppe sul Guerin Sportivo, la terminologia che chiama terzino il terzino e non esterno basso fluidificante che rientra, il pudore di non indossare lo sponsor durante le finali di coppa, le amichevoli della Nazionale giocate alle tre del pomeriggio, i cronisti che per far capire una partita non avevano bisogno di commentatori tecnici. Per finire, rivolevo Matarrese che in vent’anni alla Lega, alla Federcalcio e alla FIFA aveva fatto bene o male funzionare come un orologio l’anarchico calcio nostrano che senza di lui s’è squacquerato: e Matarrese l’ho riavuto, ora speriamo tutto il resto.

Scribi e Farisei, ovvero La recensione definitiva

(lunedì 18 dicembre 2006, copyright Ore Piccole)

Io mi annoio piuttosto. Tanto per fare un esempio, l’ultima volta mi sono annoiato leggendo l’edizione supereconomica di Ugo Riccarelli, Il Dolore Perfetto (I Miti Mondadori, 2005), ma ciò non è per nulla indicativo, o meglio, non era affatto colpa del romanzo né dell’autore. Non seguirà pertanto recensione negativa (a che servirebbe? l’hanno già letto tutti, gli hanno pure dato lo Strega), né tampoco una critica seria o, peggio che andar di notte, costruttiva (è giunta l’ora, garcialorcanamente le cinque della sera, in cui sono talmente saturo di parole che incenerirei qualsiasi cosa o persona mi capitasse a tiro; gli amici lo sanno e non mi telefonano; i miei lo intuiscono e proprio per questo provocano passandomi dietro ogni minuto e mezzo). Mi preme di più, rovesciare la questione e fornire una disamina della mie facoltà di lettore. Il dato di fatto era che, leggendo Riccarelli e annoiandomi adeguatamente, piuttosto che a misurarmi “con il significato profondo, mitico e insostituibile del racconto” (come strillava in copertina l’esegesi de La Repubblica) tendevo a contare le pagine che mi separavano dalla fine, le dividevo per il numero dei capitoli e notavo che se ne otteneva un risultato piuttosto bilanciato; e se incontravo una buona trovata di narrativa la trattavo alla stregua di trucchetto, e se qua e là affiorava uno sbrego dicevo pazienza e tiravo avanti - sembravo insomma uno di quei ciclisti dal nome comune che al Giro d’Italia pedalano uno dopo l’altro duecento chilometri al dì, nella pancia del gruppo, senza peritarsi di andare mai in fuga e stando tutt’al più attenti a non lasciarsi travolgere dalle cadute altrui.
Neutro, atarassico anzi, macinavo parole, masticavo pagine e mi rendevo conto di non star leggendo un romanzo bensì di star smontando un prodotto. L’unico momento in cui mi sono emozionato è stato l’esergo, dov’era scritto “Barocco è il mondo”; mi sono indignato perché lasciar cadere lì Gadda mi pareva un ingiustificato surplus, come mettere il ketchup sulla parmigiana di melanzane. Per il resto mi sono divertito come un ingegnere che smonta i giocattoli di suo figlio: a suo figlio piacciono, dunque sono fatti bene; se l’ingegnere non si diverte la colpa non è dei giocattoli, né tanto meno del figlio, ma dell’ingegnere stesso, o meglio del suo stesso essere ingegnere. Altresì, la colpa della mia noia non va ascritta al romanzo, né tanto meno al pubblico che l’ha adorato, ma a me stesso e al mio essere lettore continuativo, onnivoro, compulsivo.
Io mi annoio piuttosto e, per sopravvivere a me stesso, puntello le giornate di liste. Si tratta per lo più di faccende occasionali (chi mi ha telefonato oggi, chi mi ha scritto una mail) atte a far passare il tempo, oppure della razionalizzazione di necessità vitali (ah quanto mi consolano i noveri della biancheria da far lavare a mani esperte!); si tratta di esercizi dalla vacuità bizantina (che bisogno ho di segnarmi tutti i risultati del campionato di calcio inglese?) e dalla portata metanarrativa (se, poniamo caso, Tizio mi telefona per dirmi che vuole vedermi cinque minuti dopo, impiego i cinque minuti intercorrenti a scrivere sull’agendina che mi ha telefonato Tizio e che devo vederlo nel giro di cinque minuti). La lista che porto avanti da più tempo l’ho iniziata il 21 giugno 1996 così che nel giro di dieci anni ho riempito svariati foglietti, miracolosamente tutti delle stesse dimensioni, dell’elenco di ogni singolo libro che leggevo, iniziandone uno solo dopo averne finito un altro. Segnavo segno e segnerò, per ciascuno: data di inizio - trattino - data di fine - iniziale del nome e cognome dell’autore - titolo italiano fra virgolette - eventuale titolo originale fra parentesi. Questa mania mi consente da un lato di ricostruire come s’è (de)formata la mia coscienza di lettore, dall’altro lato di collocare con sorprendente precisione i ricordi di avvenimenti e sensazioni più o meno strettamente legati alla lettura; ossia, per uno che purtroppo legge tutti i giorni, tutti gli avvenimenti e tutte le sensazioni, nulla escluso.
Diceva un tale, forse addirittura io stesso, che la tendenza libraria a distinguere e porre in evidenza le nuove uscite è capziosa: perfino i classici antichi sono novità per chi non li ha ancora letti (e Dio solo sa se coi licei che abbiamo oggigiorno non sono in tanti). E allora, senza vergogna, ammetto che non avevo ancora letto le Confessioni di Sant’Agostino, ad esempio. Più modestamente, per me il 2006 è stato l’anno di Thomas Pynchon: avendo solo sentito dirne ho rimediato a gennaio con V., a febbraio con Mason & Dixon, a settembre con L’Arcobaleno della Gravità; l’altro giorno stavo per comprare Entropia ma mi sono contenuto, pare ci siano anche altri autori da leggere prima o poi. Non per niente quest’anno mi sono all’improvviso innamorato di Flaubert e specificatamente del Flaubert autore della Tentazione di Sant’Antonio, della quale ho letto ogni possibile variante (due), desiderando di averne scritta io ogni singola parola e, nell’impossibilità, facendo voto speculare di leggere in tempi più che accettabili ogni singola parola uscita dalla piuma di Flaubert.
Invece, tanto per dire, mi hanno deluso in parecchi. La Pianista di Elfriede Jelinek mi è parsa intollerabile, Il Responsabile delle Risorse Umane di Yehoshua pareva scritto da qualcun altro, Houellebecq sembra avere (speriamo di no) già esaurito le cartucce, Guy Debord ha scritto un libro di cui avrebbe dovuto scrivere soltanto il titolo (In Girum Imus Nocte et Consumimur Igni), Harold Pinter mi aveva sedotto coi drammi giovanili e mi ha abbandonato con quelli della vecchiaia e soprattutto col romanzo I Nani (ci sarà un motivo per cui i drammaturghi scrivono drammi e i romanzieri scrivono romanzi). Poi Lo Strano Caso del Cane Ucciso a Mezzanotte di Mark Haddon: ricordo di averlo letto solo perché ho scritto di averlo letto, mentre di Ecco la Storia ricordo distintamente il rimpianto per i tempi andati in cui leggere Pennac mi piaceva, oh se mi piaceva. Underworld di De Lillo mi ha fatto lo stesso effetto di un eurostar che passa fulmineo in una stazione di provincia e perfino Iperione, che è stato scritto dal veneratissimo Hölderlin e che per giunta mi è stato generosamente regalato da Snupi, non è andato oltre il timore reverenziale e il valore affettivo. I Racconti di Adulteri Disorientati di cui J.J. Millás ha voluto farci dono mi hanno orientato a non leggerne più una riga (non per niente l’ultima parola del volume è: “Mah”).
Ma il Signore è misericordioso e ha voluto farmi qualche sorpresa. Espiazione, di Ian McEwan, è un capolavoro di perizia narrativa e calibro dei sentimenti che il nostro secolo probabilmente non merita; le Correzioni di Jonathan Franzen mi hanno addirittura fatto chiedere se in Europa abbiamo ancora la capacità e la volontà di dipingere affreschi così massicci (la risposta è sì, almeno finché Michael Faber avrà la forza di scrivere roba come Il Petalo Cremisi e il Bianco); Opus Pistorum riscatta acrobaticamente le sconcezze di Henry Miller che fino ad allora mi avevano poco entusiasmato, e le Piccole Scene Amorose di Pierre Louÿs andrebbero fatte leggere a grandi e piccine così come, a diverso scopo, le Storie Impreviste di Roald Dahl. E Orwell? Tutti dicono di 1984, di Omaggio alla Catalogna, de La Fattoria degli Animali ma mi è parso di leggere la sua prosa più vera e cordiale in Senza un Soldo a Parigi e a Londra e soprattutto in Una Boccata d’Aria. Giuro che non avevo mai letto Insciallah; giuro che mi è piaciuto da morire, giuro che m’ha preso le viscere, che la prosa della Fallaci mi ha acchiappato per la collottola e sbattuto dove voleva. Dave Eggers mi ha fatto rotolare sul pavimento per le risate con in mano L’Opera Struggente di un Formidabile Genio, ma deve imparare che il lettore ogni tanto va lasciato anche sedere comodo; e, udite udite, ho scoperto che i tre volumi di Woody Allen (Rivincite; Senza Piume; Effetti Collaterali) sono libri veri, nonostante un’impaginazione qua e là un po’ sciatta, tranquillamente equiparabili ai grandi capolavori umoristici e alle parodie letterarie.
Di alcuni libri mi è rimasto, di là dal gradimento il più delle volte alto, la netta percezione di un momento che li ha resi indissolubili dalla mia piccola vita, come una serie di fotografie di me che leggo (d’altra parte non faccio altro, ogni dicembre mi riprometto di iscrivermi a una palestra ma a Capodanno, fra i fumi del cotechino, ho già cambiato idea). C’è stata una lieve scossa di terremoto, una domenica mattina, mentre leggevo Notizie dal Paradiso di David Lodge; ma era un romanzo talmente bello, struggente e divertente, che l’unica mia reazione è stata girare pagina: e meno male che la furia degli elementi s’è sopita, altrimenti sarei morto così, in uno dei rari momenti in cui non mi stavo annoiando. Ho diviso in due parti eguali La Palude Definitiva di Giorgio Manganelli: la prima da leggere di pomeriggio, in treno da Modena a Parma, mentre fuori c’era il sole; la seconda invece di sera, in treno da Parma a Modena, mentre fuori iniziava a piovere e non avevo l’ombrello e vivevo a più di dieci minuti dalla stazione ed ero troppo schizzinoso tuttavia per salire su un autobus come una persona normale. Ho cacciato fuori di camera mia una persona che non vedevo da tempo perché la sua inopportuna visita mi impediva di scoprire cosa s’era inventato Piperno per il finale di Con le Peggiori Intenzioni; il Rapporto sulla Fede di Ratzinger e Messori è stato il mio pressoché unico alimento durante il digiuno per le Ceneri (con gran disappunto della bibliotecaria che se l’è visto restituire mordicchiato agli angoli); in un bar vicino all’Accademia ho pagato talmente tanto un cappuccino da ritenere opportuno fermarmi a leggere integralmente Todo Modo di Sciascia, mentre Il Teatro della Memoria l’ho letto in terrazzo per immergermi in un gradevole e luminoso pomeriggio dal quale ho ricavato sonori mal di testa e un conseguente abuso di nimesulide. Il Joyce di Ezra Pound m’è parso troppo importante per non essere letto durante le conferenze di non ricordo più chi, mentre una sera, a casa di mia zia, fingevo di dormire e invece leggevo La Vergine nel Giardino di Antonia Susan Byatt - o probabilmente fingevo di leggere La Vergine nel Giardino e invece dormivo, poiché Antonia Susan Byatt è talmente brava che non si sa mai.
Una volta elencati, i libri li conto; e dal 21 giugno 1996 a tutt’oggi sono arrivato a quota mille e l’ho superata, per non dire che quest’anno ho esagerato e, sebbene dicembre ancora non sia finito, veleggio verso il centocinquantesimo; se non che mentre li conto, in questo preciso istante, squilla il telefono (“Pronto Gurrado? Scusa se ti disturbo, so che non fai un cazzo dalla mattina alla sera e quindi di sera, appunto, tendi a recuperare il tempo perduto se non che verso quest’ora ti stanchi, anzi ti annoi, desideri di essere già morto o per lo meno già in pensione e risolvi di guardare Chi Vuol Essere Milionario rimandando ogni incombenza a un eterno domani che giammai sorgerà, e chiacchiere non ce ne vogliono…”). È Marvi che da non troppi chilometri più in là chiede un parere su un libro da regalare per Natale a sua madre (quanto a sé, ricusa di oltrepassare Topolino ed è per questo che le voglio tanto bene). Io sono una bestia, a Natale non faccio regali né li ricevo, detesto talmente tanto le feste comandate che all’ultimo dell’anno mi corico a mezzanotte meno un quarto mentre Capodanno lo trascorro nascosto sotto una scrivania. “Vabbe’, se non vuoi sporcarti le mani dandomi consigli per gli acquisti almeno dimmi che libro stai leggendo oggi…” Elio Guerrero (a cura di), Il Concilio Vaticano II, trecentotrentatré pagine (la metà del diavolo). “Gesù, mai sia, Dio scampi e liberi. Un libro normale no?” L’unica cosa che posso fare - volendo aiutarla e al contempo preservare la mia candida coscienza che non tollererebbe di vederla aggiungersi alla pletora orrenda di acquirenti occasionali che brulicano nelle librerie durante le ultime due settimane dell’anno e basta - è dirle qual è il libro dell’anno; secondo i criteri esposti all’inizio, ovvero non il libro più bello uscito quest’anno (criterio oggettivo, spersonalizzante, che tratta i libri come yogurt da mangiare in tromba perché altrimenti scadono) ma il libro più bello che ho letto quest’anno (criterio soggettivo, individualistico, che tratta i libri come signorine cui di tanto in tanto ci piace mandare un messaggino, anche se le abbiamo conosciute quand’erano giovani davvero, e ora invece non proprio). “Me’, scià, meglio di niente, va bene, distinti saluti, statt’ bun.”
Allora, il gioco è facile una volta che ho sott’occhio l’elenco, tanto più che sono avvantaggiato dall’esercizio pregresso (nel 2004 ha vinto Horcynus Orca di Stefano d’Arrigo, nel 2005 La Versione di Barney di Mordecai Richler): si dividono i libri in base al mese in cui li si è letti e, in maniera del tutto arbitraria e ingiustificata, se ne sceglie uno per ogni gruppo, per un complessivo totale di dodici (gennaio: Espiazione di Ian McEwan; febbraio: Con le Peggiori Intenzioni di Alessando Piperno; marzo: Le Correzioni di Jonathan Franzen; aprile: La Moglie dell’Uomo che Viaggiava nel Tempo di Audrey Niffenegger; maggio: Il Complotto contro l’America di Philip Roth; giugno: Candido di Leonardo Sciascia; luglio: I Versi Satanici di Salman Rushdie; agosto: La Tentazione di Sant’Antonio di Gustave Flaubert; settembre: Insciallah di Oriana Fallaci; ottobre: La Donna del Tenente Francese di Paul Fowles; novembre: Ginger Man di J.P. Donleavy; dicembre: Senza Piume di Woody Allen, ma spero di trovare di meglio nei giorni che mi separano dall’annuale apocatastasi). A questo punto, se non ci si è addormentati, si procede a riunire i residui in gruppi contigui di tre, scegliendone uno per stagione e non nascondendo una certa crudeltà a immaginarsi l’espressione desolata degli autori via via scartati (seleziono per l’inverno Espiazione, per la primavera Candido, per l’estate La Tentazione di Sant’Antonio, per l’autunno La Donna del Tenente Francese); poi, con altrettante crudeltà e leggerezza, si fanno le semifinali (primo semestre: Espiazione; secondo semestre, La Tentazione di Sant’Antonio), la finale per il terzo posto (quarto classificato: La Donna del Tenente Francese, di Paul Fowles; terzo: Candido, di Leonardo Sciascia) e infine la finalissima in eurovisione.
Ora, è evidente che se si arriva con in mano (o nella testa) due libri rappresentativi ciascuno di sei mesi di intense letture, sceglierne uno soltanto è banalmente malefico. Tuttavia è necessario, bisogna fare a meno di uno dei due; eppure di Flaubert - come ho detto - sono innamorato, eppure di Espiazione - come ho detto - non sarà facile trovare un pari. Consapevole di preferire in fin dei conti Flaubert, pieno di sensi di colpa decido di optare a sorpresa per Espiazione, che vince con le migliori congratulazioni e che fra pochi giorni Marvi regalerà alla sua madre ignara di questo laborioso procedimento che prima o poi mi porterà ad essere internato in luoghi dove le pareti sono indistinguibili dai materassi. Ora, il grosso è fatto: dati i due libri più amati e più graditi, con non poca sofferenza si è deciso di fare a meno di uno, così come durante le selezioni precedenti si era più omeno a malincuore fatto a meno di due (su quattro), di otto (su dodici) e di altri centotrenta (su centoquarantadue). Quest’esercizio ogni anno mi rallegra, costituisce il mio personale auto-da-fè in cui, poiché durante le feste bisogna essere tutti più cattivi, mi rendo conto che scegliendo un solo libro all’anno potrei fare a meno di tutti gli altri libri che ho letto nei mesi precedenti, e che parimenti avrei potuto fare a meno di leggerli, e che se potessi li brucerei tutti quanti insieme al pagano albero di Natale fosse soltanto per vendicarmi del tempo e della vita che (seduto; rotolandomi sul pavimento; in treno; fingendo di dormire; durante le conferenze altrui) mi hanno fatto perdere. Così con gli occhi della mente li guardo bruciare uno ad uno e diventare altrettante facelle natalizie che mi ruotano attorno come le stelle del cielo e le anime del Paradiso; sogno i caratteri cauterizzarsi, le pagine sciogliersi, gli autori venir messi al rogo dal primo all’ultimo; sospiro e mi preparo a un nuovo anno di dodici mesi e di almeno dieci libri al mese, mentre sempre più distanti li vedo comporre il motto latino: vellem nescire literas, vorrei non saper leggere.(“Marvi? Marvi? Mi senti, sei ancora in linea? Senti, di’ a tua madre che l’importante è non leggere mai Il Dolore Perfetto, caso mai le regalo la mia copia.”)