lunedì 26 febbraio 2007

Scribi e Farisei, ovvero La recensione definitiva

(lunedì 18 dicembre 2006, copyright Ore Piccole)

Io mi annoio piuttosto. Tanto per fare un esempio, l’ultima volta mi sono annoiato leggendo l’edizione supereconomica di Ugo Riccarelli, Il Dolore Perfetto (I Miti Mondadori, 2005), ma ciò non è per nulla indicativo, o meglio, non era affatto colpa del romanzo né dell’autore. Non seguirà pertanto recensione negativa (a che servirebbe? l’hanno già letto tutti, gli hanno pure dato lo Strega), né tampoco una critica seria o, peggio che andar di notte, costruttiva (è giunta l’ora, garcialorcanamente le cinque della sera, in cui sono talmente saturo di parole che incenerirei qualsiasi cosa o persona mi capitasse a tiro; gli amici lo sanno e non mi telefonano; i miei lo intuiscono e proprio per questo provocano passandomi dietro ogni minuto e mezzo). Mi preme di più, rovesciare la questione e fornire una disamina della mie facoltà di lettore. Il dato di fatto era che, leggendo Riccarelli e annoiandomi adeguatamente, piuttosto che a misurarmi “con il significato profondo, mitico e insostituibile del racconto” (come strillava in copertina l’esegesi de La Repubblica) tendevo a contare le pagine che mi separavano dalla fine, le dividevo per il numero dei capitoli e notavo che se ne otteneva un risultato piuttosto bilanciato; e se incontravo una buona trovata di narrativa la trattavo alla stregua di trucchetto, e se qua e là affiorava uno sbrego dicevo pazienza e tiravo avanti - sembravo insomma uno di quei ciclisti dal nome comune che al Giro d’Italia pedalano uno dopo l’altro duecento chilometri al dì, nella pancia del gruppo, senza peritarsi di andare mai in fuga e stando tutt’al più attenti a non lasciarsi travolgere dalle cadute altrui.
Neutro, atarassico anzi, macinavo parole, masticavo pagine e mi rendevo conto di non star leggendo un romanzo bensì di star smontando un prodotto. L’unico momento in cui mi sono emozionato è stato l’esergo, dov’era scritto “Barocco è il mondo”; mi sono indignato perché lasciar cadere lì Gadda mi pareva un ingiustificato surplus, come mettere il ketchup sulla parmigiana di melanzane. Per il resto mi sono divertito come un ingegnere che smonta i giocattoli di suo figlio: a suo figlio piacciono, dunque sono fatti bene; se l’ingegnere non si diverte la colpa non è dei giocattoli, né tanto meno del figlio, ma dell’ingegnere stesso, o meglio del suo stesso essere ingegnere. Altresì, la colpa della mia noia non va ascritta al romanzo, né tanto meno al pubblico che l’ha adorato, ma a me stesso e al mio essere lettore continuativo, onnivoro, compulsivo.
Io mi annoio piuttosto e, per sopravvivere a me stesso, puntello le giornate di liste. Si tratta per lo più di faccende occasionali (chi mi ha telefonato oggi, chi mi ha scritto una mail) atte a far passare il tempo, oppure della razionalizzazione di necessità vitali (ah quanto mi consolano i noveri della biancheria da far lavare a mani esperte!); si tratta di esercizi dalla vacuità bizantina (che bisogno ho di segnarmi tutti i risultati del campionato di calcio inglese?) e dalla portata metanarrativa (se, poniamo caso, Tizio mi telefona per dirmi che vuole vedermi cinque minuti dopo, impiego i cinque minuti intercorrenti a scrivere sull’agendina che mi ha telefonato Tizio e che devo vederlo nel giro di cinque minuti). La lista che porto avanti da più tempo l’ho iniziata il 21 giugno 1996 così che nel giro di dieci anni ho riempito svariati foglietti, miracolosamente tutti delle stesse dimensioni, dell’elenco di ogni singolo libro che leggevo, iniziandone uno solo dopo averne finito un altro. Segnavo segno e segnerò, per ciascuno: data di inizio - trattino - data di fine - iniziale del nome e cognome dell’autore - titolo italiano fra virgolette - eventuale titolo originale fra parentesi. Questa mania mi consente da un lato di ricostruire come s’è (de)formata la mia coscienza di lettore, dall’altro lato di collocare con sorprendente precisione i ricordi di avvenimenti e sensazioni più o meno strettamente legati alla lettura; ossia, per uno che purtroppo legge tutti i giorni, tutti gli avvenimenti e tutte le sensazioni, nulla escluso.
Diceva un tale, forse addirittura io stesso, che la tendenza libraria a distinguere e porre in evidenza le nuove uscite è capziosa: perfino i classici antichi sono novità per chi non li ha ancora letti (e Dio solo sa se coi licei che abbiamo oggigiorno non sono in tanti). E allora, senza vergogna, ammetto che non avevo ancora letto le Confessioni di Sant’Agostino, ad esempio. Più modestamente, per me il 2006 è stato l’anno di Thomas Pynchon: avendo solo sentito dirne ho rimediato a gennaio con V., a febbraio con Mason & Dixon, a settembre con L’Arcobaleno della Gravità; l’altro giorno stavo per comprare Entropia ma mi sono contenuto, pare ci siano anche altri autori da leggere prima o poi. Non per niente quest’anno mi sono all’improvviso innamorato di Flaubert e specificatamente del Flaubert autore della Tentazione di Sant’Antonio, della quale ho letto ogni possibile variante (due), desiderando di averne scritta io ogni singola parola e, nell’impossibilità, facendo voto speculare di leggere in tempi più che accettabili ogni singola parola uscita dalla piuma di Flaubert.
Invece, tanto per dire, mi hanno deluso in parecchi. La Pianista di Elfriede Jelinek mi è parsa intollerabile, Il Responsabile delle Risorse Umane di Yehoshua pareva scritto da qualcun altro, Houellebecq sembra avere (speriamo di no) già esaurito le cartucce, Guy Debord ha scritto un libro di cui avrebbe dovuto scrivere soltanto il titolo (In Girum Imus Nocte et Consumimur Igni), Harold Pinter mi aveva sedotto coi drammi giovanili e mi ha abbandonato con quelli della vecchiaia e soprattutto col romanzo I Nani (ci sarà un motivo per cui i drammaturghi scrivono drammi e i romanzieri scrivono romanzi). Poi Lo Strano Caso del Cane Ucciso a Mezzanotte di Mark Haddon: ricordo di averlo letto solo perché ho scritto di averlo letto, mentre di Ecco la Storia ricordo distintamente il rimpianto per i tempi andati in cui leggere Pennac mi piaceva, oh se mi piaceva. Underworld di De Lillo mi ha fatto lo stesso effetto di un eurostar che passa fulmineo in una stazione di provincia e perfino Iperione, che è stato scritto dal veneratissimo Hölderlin e che per giunta mi è stato generosamente regalato da Snupi, non è andato oltre il timore reverenziale e il valore affettivo. I Racconti di Adulteri Disorientati di cui J.J. Millás ha voluto farci dono mi hanno orientato a non leggerne più una riga (non per niente l’ultima parola del volume è: “Mah”).
Ma il Signore è misericordioso e ha voluto farmi qualche sorpresa. Espiazione, di Ian McEwan, è un capolavoro di perizia narrativa e calibro dei sentimenti che il nostro secolo probabilmente non merita; le Correzioni di Jonathan Franzen mi hanno addirittura fatto chiedere se in Europa abbiamo ancora la capacità e la volontà di dipingere affreschi così massicci (la risposta è sì, almeno finché Michael Faber avrà la forza di scrivere roba come Il Petalo Cremisi e il Bianco); Opus Pistorum riscatta acrobaticamente le sconcezze di Henry Miller che fino ad allora mi avevano poco entusiasmato, e le Piccole Scene Amorose di Pierre Louÿs andrebbero fatte leggere a grandi e piccine così come, a diverso scopo, le Storie Impreviste di Roald Dahl. E Orwell? Tutti dicono di 1984, di Omaggio alla Catalogna, de La Fattoria degli Animali ma mi è parso di leggere la sua prosa più vera e cordiale in Senza un Soldo a Parigi e a Londra e soprattutto in Una Boccata d’Aria. Giuro che non avevo mai letto Insciallah; giuro che mi è piaciuto da morire, giuro che m’ha preso le viscere, che la prosa della Fallaci mi ha acchiappato per la collottola e sbattuto dove voleva. Dave Eggers mi ha fatto rotolare sul pavimento per le risate con in mano L’Opera Struggente di un Formidabile Genio, ma deve imparare che il lettore ogni tanto va lasciato anche sedere comodo; e, udite udite, ho scoperto che i tre volumi di Woody Allen (Rivincite; Senza Piume; Effetti Collaterali) sono libri veri, nonostante un’impaginazione qua e là un po’ sciatta, tranquillamente equiparabili ai grandi capolavori umoristici e alle parodie letterarie.
Di alcuni libri mi è rimasto, di là dal gradimento il più delle volte alto, la netta percezione di un momento che li ha resi indissolubili dalla mia piccola vita, come una serie di fotografie di me che leggo (d’altra parte non faccio altro, ogni dicembre mi riprometto di iscrivermi a una palestra ma a Capodanno, fra i fumi del cotechino, ho già cambiato idea). C’è stata una lieve scossa di terremoto, una domenica mattina, mentre leggevo Notizie dal Paradiso di David Lodge; ma era un romanzo talmente bello, struggente e divertente, che l’unica mia reazione è stata girare pagina: e meno male che la furia degli elementi s’è sopita, altrimenti sarei morto così, in uno dei rari momenti in cui non mi stavo annoiando. Ho diviso in due parti eguali La Palude Definitiva di Giorgio Manganelli: la prima da leggere di pomeriggio, in treno da Modena a Parma, mentre fuori c’era il sole; la seconda invece di sera, in treno da Parma a Modena, mentre fuori iniziava a piovere e non avevo l’ombrello e vivevo a più di dieci minuti dalla stazione ed ero troppo schizzinoso tuttavia per salire su un autobus come una persona normale. Ho cacciato fuori di camera mia una persona che non vedevo da tempo perché la sua inopportuna visita mi impediva di scoprire cosa s’era inventato Piperno per il finale di Con le Peggiori Intenzioni; il Rapporto sulla Fede di Ratzinger e Messori è stato il mio pressoché unico alimento durante il digiuno per le Ceneri (con gran disappunto della bibliotecaria che se l’è visto restituire mordicchiato agli angoli); in un bar vicino all’Accademia ho pagato talmente tanto un cappuccino da ritenere opportuno fermarmi a leggere integralmente Todo Modo di Sciascia, mentre Il Teatro della Memoria l’ho letto in terrazzo per immergermi in un gradevole e luminoso pomeriggio dal quale ho ricavato sonori mal di testa e un conseguente abuso di nimesulide. Il Joyce di Ezra Pound m’è parso troppo importante per non essere letto durante le conferenze di non ricordo più chi, mentre una sera, a casa di mia zia, fingevo di dormire e invece leggevo La Vergine nel Giardino di Antonia Susan Byatt - o probabilmente fingevo di leggere La Vergine nel Giardino e invece dormivo, poiché Antonia Susan Byatt è talmente brava che non si sa mai.
Una volta elencati, i libri li conto; e dal 21 giugno 1996 a tutt’oggi sono arrivato a quota mille e l’ho superata, per non dire che quest’anno ho esagerato e, sebbene dicembre ancora non sia finito, veleggio verso il centocinquantesimo; se non che mentre li conto, in questo preciso istante, squilla il telefono (“Pronto Gurrado? Scusa se ti disturbo, so che non fai un cazzo dalla mattina alla sera e quindi di sera, appunto, tendi a recuperare il tempo perduto se non che verso quest’ora ti stanchi, anzi ti annoi, desideri di essere già morto o per lo meno già in pensione e risolvi di guardare Chi Vuol Essere Milionario rimandando ogni incombenza a un eterno domani che giammai sorgerà, e chiacchiere non ce ne vogliono…”). È Marvi che da non troppi chilometri più in là chiede un parere su un libro da regalare per Natale a sua madre (quanto a sé, ricusa di oltrepassare Topolino ed è per questo che le voglio tanto bene). Io sono una bestia, a Natale non faccio regali né li ricevo, detesto talmente tanto le feste comandate che all’ultimo dell’anno mi corico a mezzanotte meno un quarto mentre Capodanno lo trascorro nascosto sotto una scrivania. “Vabbe’, se non vuoi sporcarti le mani dandomi consigli per gli acquisti almeno dimmi che libro stai leggendo oggi…” Elio Guerrero (a cura di), Il Concilio Vaticano II, trecentotrentatré pagine (la metà del diavolo). “Gesù, mai sia, Dio scampi e liberi. Un libro normale no?” L’unica cosa che posso fare - volendo aiutarla e al contempo preservare la mia candida coscienza che non tollererebbe di vederla aggiungersi alla pletora orrenda di acquirenti occasionali che brulicano nelle librerie durante le ultime due settimane dell’anno e basta - è dirle qual è il libro dell’anno; secondo i criteri esposti all’inizio, ovvero non il libro più bello uscito quest’anno (criterio oggettivo, spersonalizzante, che tratta i libri come yogurt da mangiare in tromba perché altrimenti scadono) ma il libro più bello che ho letto quest’anno (criterio soggettivo, individualistico, che tratta i libri come signorine cui di tanto in tanto ci piace mandare un messaggino, anche se le abbiamo conosciute quand’erano giovani davvero, e ora invece non proprio). “Me’, scià, meglio di niente, va bene, distinti saluti, statt’ bun.”
Allora, il gioco è facile una volta che ho sott’occhio l’elenco, tanto più che sono avvantaggiato dall’esercizio pregresso (nel 2004 ha vinto Horcynus Orca di Stefano d’Arrigo, nel 2005 La Versione di Barney di Mordecai Richler): si dividono i libri in base al mese in cui li si è letti e, in maniera del tutto arbitraria e ingiustificata, se ne sceglie uno per ogni gruppo, per un complessivo totale di dodici (gennaio: Espiazione di Ian McEwan; febbraio: Con le Peggiori Intenzioni di Alessando Piperno; marzo: Le Correzioni di Jonathan Franzen; aprile: La Moglie dell’Uomo che Viaggiava nel Tempo di Audrey Niffenegger; maggio: Il Complotto contro l’America di Philip Roth; giugno: Candido di Leonardo Sciascia; luglio: I Versi Satanici di Salman Rushdie; agosto: La Tentazione di Sant’Antonio di Gustave Flaubert; settembre: Insciallah di Oriana Fallaci; ottobre: La Donna del Tenente Francese di Paul Fowles; novembre: Ginger Man di J.P. Donleavy; dicembre: Senza Piume di Woody Allen, ma spero di trovare di meglio nei giorni che mi separano dall’annuale apocatastasi). A questo punto, se non ci si è addormentati, si procede a riunire i residui in gruppi contigui di tre, scegliendone uno per stagione e non nascondendo una certa crudeltà a immaginarsi l’espressione desolata degli autori via via scartati (seleziono per l’inverno Espiazione, per la primavera Candido, per l’estate La Tentazione di Sant’Antonio, per l’autunno La Donna del Tenente Francese); poi, con altrettante crudeltà e leggerezza, si fanno le semifinali (primo semestre: Espiazione; secondo semestre, La Tentazione di Sant’Antonio), la finale per il terzo posto (quarto classificato: La Donna del Tenente Francese, di Paul Fowles; terzo: Candido, di Leonardo Sciascia) e infine la finalissima in eurovisione.
Ora, è evidente che se si arriva con in mano (o nella testa) due libri rappresentativi ciascuno di sei mesi di intense letture, sceglierne uno soltanto è banalmente malefico. Tuttavia è necessario, bisogna fare a meno di uno dei due; eppure di Flaubert - come ho detto - sono innamorato, eppure di Espiazione - come ho detto - non sarà facile trovare un pari. Consapevole di preferire in fin dei conti Flaubert, pieno di sensi di colpa decido di optare a sorpresa per Espiazione, che vince con le migliori congratulazioni e che fra pochi giorni Marvi regalerà alla sua madre ignara di questo laborioso procedimento che prima o poi mi porterà ad essere internato in luoghi dove le pareti sono indistinguibili dai materassi. Ora, il grosso è fatto: dati i due libri più amati e più graditi, con non poca sofferenza si è deciso di fare a meno di uno, così come durante le selezioni precedenti si era più omeno a malincuore fatto a meno di due (su quattro), di otto (su dodici) e di altri centotrenta (su centoquarantadue). Quest’esercizio ogni anno mi rallegra, costituisce il mio personale auto-da-fè in cui, poiché durante le feste bisogna essere tutti più cattivi, mi rendo conto che scegliendo un solo libro all’anno potrei fare a meno di tutti gli altri libri che ho letto nei mesi precedenti, e che parimenti avrei potuto fare a meno di leggerli, e che se potessi li brucerei tutti quanti insieme al pagano albero di Natale fosse soltanto per vendicarmi del tempo e della vita che (seduto; rotolandomi sul pavimento; in treno; fingendo di dormire; durante le conferenze altrui) mi hanno fatto perdere. Così con gli occhi della mente li guardo bruciare uno ad uno e diventare altrettante facelle natalizie che mi ruotano attorno come le stelle del cielo e le anime del Paradiso; sogno i caratteri cauterizzarsi, le pagine sciogliersi, gli autori venir messi al rogo dal primo all’ultimo; sospiro e mi preparo a un nuovo anno di dodici mesi e di almeno dieci libri al mese, mentre sempre più distanti li vedo comporre il motto latino: vellem nescire literas, vorrei non saper leggere.(“Marvi? Marvi? Mi senti, sei ancora in linea? Senti, di’ a tua madre che l’importante è non leggere mai Il Dolore Perfetto, caso mai le regalo la mia copia.”)

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