(lunedì 4 dicembre 2006, copyright Il Resto del Pallone)
“Papà, dove gioca la Juventus?” “A Torino.” “A Torino? Ma a Torino non gioca il Torino?” (Ero un bambino sillogistico). “Sì, una domenica ci gioca il Torino e l’altra domenica la Juventus. La Juventus è la squadra di Torino.” Quest’ultima affermazione di mio padre, dettata indubbiamente dalla sua storica fede bianconera, mi faceva arricciare il naso al solo pensiero che lui stesso, in fin dei conti, con Torino non avesse nulla a che fare e quindi non avrebbe avuto nessuna ragione di tifare per la Juventus se fosse stata, come aveva detto, la squadra di Torino. A sette anni d’età mi era più che chiaro che la Juventus era un’entità sovracittadina, sovraregionale, una specie di Nazionale in pigiama a righe (e infatti: Zoff, Cabrini, Scirea…), e tutt’al più una Signora che risedeva a Torino così come avrebbe potuto risiedere ovunque (e infatti per un periodo ha giocato in casa a Milano, a Lecce, a Palermo, sempre riempiendo gli stadi come uova); il Torino, al contrario, era evidentemente la squadra di Torino, con l’articolo determinativo, per via del nome, per via del toro rampante sullo stemma, per via (questo l’ho capito molto molto dopo) della reincarnazione domenicale dell’anima romanticamente triste della città.
Se guardo le undici facce del Grande Torino, nella foto d’archivio sgranata dal tempo, non c’è arroganza, non c’è sicumera sui volti (da sinistra a destra, da sopra a sotto) di Castigliano, Ballarin, Rigamonti, Loik, Maroso, Mazzola, Bagicalupo, Menti, Ossola, Martelli e Gabetto. Bagicalupo sembra preoccupato, addirittura; Loik è accigliato; Ossola e Gabetto, pressoché uguali per via della scriminatura al centro, sembrano due vedette che scrutano in direzioni opposte; Ballarin tiene in mano il pallone come uno che non saprebbe cosa farsene: oggi, una squadra dopolavoristica che si lascia fotografare davanti al baretto affetterebbe più sicurezza nei propri mezzi. Invece quegli stessi undici giovanotti smagati, una volta in campo, vincevano per cinque, sette, dieci a zero come se fossero piovuti dal cielo in terra a miracol mostrare; segnavano tre goal e poi facevano accademia; se putacaso passavano in svantaggio, Valentino Mazzola si rimboccava le maniche e l’avversario di turno rimpiangeva di essere nato. Una volta ho visto una foto di Gabetto che fa una mezza rovesciata: sul volto aveva scritta tanta grinta che non l’avrebbe riconosciuto nemmeno sua madre. Poi la partita finiva, tanto a poco, a uno scudetto seguiva un altro scudetto, e i volti ritornavano distesi, spauriti; i sovrumani si trasformavano in ragazzi qualunque, che sembravano più vecchi dell’età che avevano: Rigamonti aveva ventisete anni; Bagicalupo venticinque; Maroso ventiquattro. C’è voluta la Morte, per finire.
Ma anche solo considerare uno come Denis Law, con la faccia smunta e l’esterno fatato, e pensare che gli anni sessanta hanno avuto in lui forse il più grande dissipatore di talento calcistico; o rivedere il celebre salto d’esultanza di Gigi Meroni (ancora sbarbato, la zazzera al vento, i pugni al cielo e le gambe piegate) e pensare che non sarebbe mai vissuto abbastanza; o contare i baffi dell’ultimo scudetto (Claudio Sala, Zaccarelli, Garritano e anche Cazzaniga, il portiere di riserva) e notare che così felici e informali sembrano sempre ancora irrefragabilmente persone qualsiasi, cioè persone vere e non divetti, signori sorridenti e sudati come i papà che tornano dal lavoro: tutto ciò mi fa rimpiangere di non avere avuto il tempo di vederlo dal vivo, questo Torino glorioso, di non averne mai fatto parte della mia quotidianità, ma solo della storia.
Il mio Torino, quello visto a ogni Novantesimo Minuto e ai mercoledì di coppa, vive di due estremi. L’estremo basso è la retrocessione in B della primavera 1989, di cui capii il senso solo qualche mese dopo, apprendendo di un 7-0 inflitto al malcapitato Pescara come a dirgli: sono cambiati i volti ma le maglie no, siamo ancora lo stesso Torino di semidei che, dovunque giochi, vince tanto a poco. L’estremo alto è la cavalcata di coppa UEFA superando ostacoli in crescendo: il Knattspyrnufelag Reykiavikur (2-0 e 6-1), il Boavista (2-0 e 0-0), l’Aek Atene (2-2 e 1-0), il BK03 (2-0 e 1-0), addirittura il Real Madrid (1-2 e 2-0) per poi schiantarsi in finale contro il doppio pareggio con l’Ajax (2-2, 0-0): ecco, la sedia di Amsterdam che Mondonico inferocito aveva sollevato per brandirla contro la miopia del guardalinee mi sembra il più bel trofeo che possa essere assegnato alla straordinaria umanità di una squadra sovrumana.
Se guardo le undici facce del Grande Torino, nella foto d’archivio sgranata dal tempo, non c’è arroganza, non c’è sicumera sui volti (da sinistra a destra, da sopra a sotto) di Castigliano, Ballarin, Rigamonti, Loik, Maroso, Mazzola, Bagicalupo, Menti, Ossola, Martelli e Gabetto. Bagicalupo sembra preoccupato, addirittura; Loik è accigliato; Ossola e Gabetto, pressoché uguali per via della scriminatura al centro, sembrano due vedette che scrutano in direzioni opposte; Ballarin tiene in mano il pallone come uno che non saprebbe cosa farsene: oggi, una squadra dopolavoristica che si lascia fotografare davanti al baretto affetterebbe più sicurezza nei propri mezzi. Invece quegli stessi undici giovanotti smagati, una volta in campo, vincevano per cinque, sette, dieci a zero come se fossero piovuti dal cielo in terra a miracol mostrare; segnavano tre goal e poi facevano accademia; se putacaso passavano in svantaggio, Valentino Mazzola si rimboccava le maniche e l’avversario di turno rimpiangeva di essere nato. Una volta ho visto una foto di Gabetto che fa una mezza rovesciata: sul volto aveva scritta tanta grinta che non l’avrebbe riconosciuto nemmeno sua madre. Poi la partita finiva, tanto a poco, a uno scudetto seguiva un altro scudetto, e i volti ritornavano distesi, spauriti; i sovrumani si trasformavano in ragazzi qualunque, che sembravano più vecchi dell’età che avevano: Rigamonti aveva ventisete anni; Bagicalupo venticinque; Maroso ventiquattro. C’è voluta la Morte, per finire.
Ma anche solo considerare uno come Denis Law, con la faccia smunta e l’esterno fatato, e pensare che gli anni sessanta hanno avuto in lui forse il più grande dissipatore di talento calcistico; o rivedere il celebre salto d’esultanza di Gigi Meroni (ancora sbarbato, la zazzera al vento, i pugni al cielo e le gambe piegate) e pensare che non sarebbe mai vissuto abbastanza; o contare i baffi dell’ultimo scudetto (Claudio Sala, Zaccarelli, Garritano e anche Cazzaniga, il portiere di riserva) e notare che così felici e informali sembrano sempre ancora irrefragabilmente persone qualsiasi, cioè persone vere e non divetti, signori sorridenti e sudati come i papà che tornano dal lavoro: tutto ciò mi fa rimpiangere di non avere avuto il tempo di vederlo dal vivo, questo Torino glorioso, di non averne mai fatto parte della mia quotidianità, ma solo della storia.
Il mio Torino, quello visto a ogni Novantesimo Minuto e ai mercoledì di coppa, vive di due estremi. L’estremo basso è la retrocessione in B della primavera 1989, di cui capii il senso solo qualche mese dopo, apprendendo di un 7-0 inflitto al malcapitato Pescara come a dirgli: sono cambiati i volti ma le maglie no, siamo ancora lo stesso Torino di semidei che, dovunque giochi, vince tanto a poco. L’estremo alto è la cavalcata di coppa UEFA superando ostacoli in crescendo: il Knattspyrnufelag Reykiavikur (2-0 e 6-1), il Boavista (2-0 e 0-0), l’Aek Atene (2-2 e 1-0), il BK03 (2-0 e 1-0), addirittura il Real Madrid (1-2 e 2-0) per poi schiantarsi in finale contro il doppio pareggio con l’Ajax (2-2, 0-0): ecco, la sedia di Amsterdam che Mondonico inferocito aveva sollevato per brandirla contro la miopia del guardalinee mi sembra il più bel trofeo che possa essere assegnato alla straordinaria umanità di una squadra sovrumana.
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