venerdì 28 dicembre 2012


Su Tempi in edicola questa settimana è l'ora del Te Deum, come sempre per l'ultimo numero dell'anno. Ogni collaboratore scrive un articolo in cui ringrazia Dio per qualcosa di bello. Io ho ringraziato per...

"Ma come! Hai trentadue anni, sei precario, guadagni così così, non sai che mestiere farai fra dodici mesi, non hai una famiglia, non hai nemmeno una casa perché vivi in una camera in fitto in un collegio universitario. Avevi avuto l'occasionissima di scappare da questa nave dei folli che è l'Italia ma, dopo due anni e mezzo a Oxford, anziché fingere di dimenticare progressivamente la tua lingua, hai scelto di continuare a lavorare nelle università ma tornando in Italia. Sei come il protagonista del tal romanzo di Bernard Malamud, il giovane ricercatore che si trasferisce in un nuovo ateneo e quando i professori gli chiedono se ha una foto della fidanzata nel portafoglio risponde che non ha nessuna foto, né la fidanzata, né il portafoglio. Fra le mani non stringi nulla se non il poter sentirti in diritto di scendere in strada a protestare coi tuoi coetanei realizzati più o meno come te; e invece niente, non solo tiri avanti ma ti metti pure a fischiettare tutto soddisfatto?".

domenica 23 dicembre 2012

Finalmente domenica!
Diciottesima giornata, 23 dicembre 2012

È stata una settimana ricca di eventi: tre. A farla breve, martedì ho preso il taxi e mi sono presentato in un istituto tecnico per sostenere il famoso test di logica-comprensione-informatica-inglese quale prima prova del concorso per la selezione di ben dodici professori di storia e filosofia a tempo indeterminato nei trienni dei licei lombardi. Sono arrivato in lieve ritardo sulle operazioni preliminari perché la tassista era bionda e valeva la pena. Ne approfitto tuttavia per rinnovare l’invito a non credere ai giornali, sui quali è figurato che questo test fosse composto di cinquanta domande astruse fra le quali sarebbe stato impossibile ai più districarsi fornendo le trentacinque risposte esatte necessarie a superare questo primo ostacolo. A riprova di ciò, tutti i quotidiani hanno pubblicato una selezione di questioni scelte fra la decina di domande oggettivamente complesse che capitavano a ciascun candidato, tralasciando le restanti domande che costituivano il corpo portante della prova. Hanno dunque dimenticato di menzionare la quarantina di domande, su cinquanta, alle quali si poteva rispondere anche bendati, con le mani legate dietro la schiena e appesi al lampadario per l’alluce sinistro. Ve le rivelo io. Si trattava, ad esempio, di stabilire se Gennaro fosse simpatico partendo dal presupposto che Gennaro ama la Toscana e che chiunque ami la Toscana è simpatico. Nonché di scrivere al contrario la sequenza alfabetica KLKKKLLKLLKL. Nonché di completare, per chi era versato in lingua inglese, l’argomentazione “Catherine is a journalist. (His? Her? Its?) job is very interesting”.

Premesso che verrò con ogni probabilità uccellato alla seconda prova – lo scritto di cui oggigiorno non si sa gran che – in quanto la vita è breve e non ho tempo di prepararlo, il fatto che su 321.000 candidati non siano passati in 233.000 comporta varie conseguenze che elencherò sinteticamente. Con tutto il rispetto per quelli che si sono fermati a uno o due punti dal minimo consentito, l’ampia percentuale di candidati che non è riuscita a rispondere a nemmeno metà delle domande significa che un’ampia percentuale di laureati italiani non è in grado di compiere ragionamenti elementari e di capire che Gennaro è simpatico ancorché non toscano. Nonostante le mille riserve avanzate dai soliti espertoni, il solo risultato che questo test abbia ridotto drasticamente il numero di candidati significa, tautologicamente, che il ministero ha capito a priori che bastava un test del genere a ridurre drasticamente il numero di candidati, e questa dovrebbe essere l’ambizione di ogni concorso che si rispetti. Inoltre le proteste che si sono levate da ogni parte contro la presunta impossibilità dei test confermano ulteriormente gli annosi sospetti sul molle senso agonistico degli italiani: ossia che costoro preferiscono il pareggio all’eliminazione diretta, la proporzionale all’uninominale, i tarallucci e vino alla gerarchia, l’egualitarismo consolatorio alla lacrimosa meritocrazia. Non c’è niente da fare: l’idea che per scremare dei candidati si ricorra a una selezione basata su dati oggettivi risulta automaticamente ingiusta perché esclude qualcuno. Se si inciampa sulle domande in lingua straniera, si dice che non si può pretendere che tutti i professori siano poliglotti. Se si inciampa su quelle di informatica, si dice che non si può pretendere che tutti i professori siano Steve Jobs. Se si inciampa su quelle di logica, si dice che non si può affidare la selezione della classe docente a una specie di sudoku di Stato.

Il solo dettaglio che una decina di domande (ripeto, su cinquanta, quando bastava rispondere a trentacinque) potesse risultare astrusa o ambigua o ingarbugliata è stato sufficiente a tacciare di arbitrarietà l’intero procedimento selettivo. Se invece si riesce a ragionare quel tanto che basta per stabilire che Gennaro è simpatico, bisogna riconoscere un pregio a questo sopravvalutato e presuntuoso governo che tramonta senza particolari rimpianti: con tutti i difetti nell’attuazione del meccanismo, in merito a istruzione e ricerca si è basato su un principio banale per cercare di migliorare in prospettiva il livello del personale docente. Per selezionare i nuovi professori di liceo ha imbastito un test scemotto ma che, diciamocelo, buona parte degli attuali docenti in carica avrebbe trovato qualche difficoltà a superare in scioltezza. Per selezionare i nuovi professori universitari ha sancito che dovranno avere un numero di pubblicazioni superiore a quello della mediana dei professori universitari attuali; giuridicamente questo è un monstrum, va da sé, perché implica che metà degli attuali professori universitari non sarebbero in grado di passare la selezione odierna; però è l’unica maniera per far sì che fra vent’anni i professori universitari abbiano matematicamente più pubblicazioni di quante ne hanno adesso. Ma se siete convinti che questo tipo di scrematura sia ingiusta, in quanto troppo selettiva, state tranquilli perché chiunque vincerà le prossime elezioni troverà una maniera di ritornare allo status quo ante e sarà il trionfo dei principi fondanti della repubblica italiana: fraternité, égalité, mediocrité!

“Questo lungo scombiccherato Paese”, lo chiamava Gianni Brera. Me lo ricorda Andrea Maietti, che era il destinatario dell’apostrofe, durante una pacciada bassaiola per celebrare il ventennale dello schianto, mercoledì. Siamo a Lodi, lungo l’Adda, in una delle ultime osterie residue in Italia. Per tenerci leggeri abbiamo mangiato mille salumi, pescetti illegali, risotto al vino e salsiccia in cui il riso era poco più che una comparsa, coniglio con polenta e gorgonzola, eccetera. Non è vero che la pesantezza di stomaco affievolisce l’ingegno, alle volte dà coraggio; e così, mentre masticavo e ascoltavo, m’è venuto in mente che alla lunga bisognerà salvare Brera dai breristi. Bisognerà riandare a venti, trenta, quarant’anni fa e inquadrare con certezza due cose: a) che cosa ha veramente scritto, detto e pensato Brera, di là dalla fumosa immagine mitologica che si è venuta costruendo dopo la morte; b) chi era veramente dalla sua parte all’epoca e chi invece è saltato sul carro quando Brera non poteva infastidirlo più. Si otterrebbero, credo, risultati sorprendenti perché, per un Maietti che di Brera sa tutto perché l’ha veramente ascoltato e letto filologicamente, ce n’è tanti per i quali Brera è una barba, una pipa, la bottiglia vicino e qualche parola difficile a casaccio. Alcuni di loro fanno i giornalisti. Alcuni di loro fanno i nani sulle spalle del gigante. Alcuni di loro sono convinti che per essere Brera basti farsi crescere la barba, fumare la pipa, bere a damigiane e scrivere complicato. Sbagliano, anzitutto perché Brera non scriveva complicato, poi per il principio generale che se il genio ha dei tratti distintivi non basta riprodurne i tratti distintivi per diventare geni. Sbagliano anche perché Brera, a leggerlo veramente, riesce tutto il contrario dell’immaginario postumo che gli è stato cucito attorno: era crudele, selettivo, socialista a modo suo, razzista, nordista. Usava la parola “Padania” con frequenza sospetta. Oggi, a occhio, non scriverebbe sui giornali politicamente correttissimi che ne oscurano l’imago a furia d’incenso. Odiava Umberto Eco, figuriamoci come tratterebbe Saviano. Anche nel calcio aveva alcune ostinate idee sbagliate (tipo Facchetti centravanti) che affascinavano proprio perché ci credeva davvero, perché quando scriveva non cercava di fare il Brera della situazione: essendolo già, non aveva bisogno di sforzarsi di diventarlo.

Infine Brera aveva un pregio: spostava lettori, garantiva cinquantamila copie in più al giornale per il quale scriveva, trasformava in soldi il ticchettio dei polpastrelli. Non era un nemico del sistema-calcio, non era un nemico del capitalismo, non era un autore di nicchia che scriveva per gli happy few dal sopracciglio perennemente arcuato o il ditino steso a perenne monito. Soprattutto, Brera non faceva l’imitazione di nessuno, ragion per cui è improponibile voler diventare emuli di Brera imitandolo. Sapete invece chi mi ha ricordato Brera l’originale, a Lodi nel ventennale dello schianto? Maurizio Milani, non l’avrei mai detto, che era seduto in ultima fila ad ascoltare la presentazione del Calciolinguaggio di Gianni Brera di Maietti. Chiacchierandoci mi è tornata in mente un’asserzione di Mariarosa Mancuso, secondo la quale Milani è uno scrittore vero perché ha un mondo e un linguaggio. Mondo e linguaggio sono gli assi cartesiani entro i quali si è mosso Brera, funzionando perché erano il suo mondo e il suo linguaggio di riferimento nella vita quotidiana; e funzionano anche per Milani il quale, chiacchierando con vari astanti quorum ego, utilizza lo stesso mondo e lo stesso linguaggio entro i cui confini scrive, senza andare a riprodurre mondi e linguaggi altrui. Se un domani, poniamo, mi mettessi in testa di diventare l’emulo di Milani e cercassi di scrivere come lui, pernacchie meriterei e non applausi perché farei piroette in un mondo e in un linguaggio precostituiti, non miei. Vale anche per Brera. È più brerista Milani, che s’è inventato un mondo e un linguaggio nuovo e a sé stante, di tanti che si sono messi a seguire la processione. Forse, per diventare il nuovo Brera, è anzitutto necessario dimenticarselo.

Giovedì infine ero a una cena goliardica con duecento studenti: un evento annuale talmente bello che descriverlo è inutile. Non c’è linguaggio e non ci sono parole, dice il salmista (18, 4). Riferirò solo, prima che i polpastrelli mi si consumino, che alla fine lo studente più anziano si alza sulla sedia e intona il Gaudeamus, che è l’inno internazionale degli universitari. È un evento col quale ho lunga consuetudine eppure, quando ho visto duecento ventenni ritti sulla sedia a cantare “Ubi sunt qui ante nos / in mundo fuere? / Vadite ad superos / transite ad inferos / ubi iam fuere”, sarà che in latino le cose vengono meglio, sarà che a vent’anni uno non ci fa caso ma a trenta sì, ecco che la cena goliardica mi si è trasformata in danza macabra a sua insaputa e, mangiando e bevendo, ho avuto la rappresentazione plastica che allegra o godereccia quantunque la vita è breve: “Dove sono coloro che prima di noi furono al mondo? Andate nei cieli, passate dagli inferi, li trovate lì”. Non c’è tempo di passare le giornate a preparare un concorso, figuriamoci di mettersi a scrivere facendo le imitazioni.

 [Il resto della rubrica, cioè la metà di Francesco Savio, si trova come sempre su Quasi Rete.]

lunedì 17 dicembre 2012

Finalmente domenica!
Diciassettesima giornata, 16 dicembre 2012

Oggi è il compleanno del Milan, che ha centotredici anni ma se li porta meglio dei miei trentadue. È altresì una giornata storica perché – come ha ricordato Franco Lauro prima di imperniare la seconda metà di Novantesimo Minuto sulla discussione con Beppe Dossena riguardo all’effettivo risultato di Carpi-Lecce (1-0 come sostiene la regia o 1-1 come scrive la grafica?) – dopo trent’anni di onorato servizio va in pensione Franco Strippoli, l’inviato da Bari della storica trasmissione Rai. Di Franco Strippoli resta imprescindibile l’imitazione fatta da Lino Banfi nel corso di una vecchia e dimenticabile serie televisiva. Banfi interpretava un giornalista pugliese, accompagnato dal fido cameraman Gianni Ciardo, che veniva improvvisamente chiamato a sostituire il cronista titolare in occasione di una Bari-Juventus conclusa con un rigore decisivo in extremis per i bianconeri. Banfi iniziava pacato il suo commento post partita ma poi, giunto al fattaccio incriminato, non resisteva e trascendeva in vernacolo strappandosi di testa il parrucchino, appallottolandolo e scagliandolo al suolo. Di conseguenza veniva chiamato alla sede di Roma e diventava famoso.

Io non so se diventerò famoso; non so nemmeno se diventerò Franco Strippoli e quindi addivengo a più miti consigli. Tento ad esempio di esercitarmi con le simulazioni dei test online tramite i quali martedì prossimo sarà giudicata la mia capacità di insegnare storia e filosofia nei trienni dei licei; ma non appena riesco a trovare i cinquanta minuti necessari, e vi assicuro che non è stato facile nonostante lo stereotipo del concorsista nullafacente, ecco che il sito del ministero dell’istruzione mi impedisce lo svolgimento sancendo che il mio computer è obsoleto. Obsoleto sarai tu, rispondo al ministero, visto che il computer l’ho comprato un anno e mezzo fa mentre il ministero non funziona dal 1944. Pazienza: lo prendo come un segno del destino e giacché ho il computer acceso mi metto a fare un paio di partite a un noto videogioco di calcio, intuendo che l’utilità ai fini concorsuali sarà più o meno identica.

Ora, Valerio Magrelli (per gli amici “Er Sorpresa”) sostiene di avere tentato di appassionarsi ai videogiochi osservando suo figlio che vi si prodigava, ma di non avere mai capito come si facesse a esultare per un goal che non è mai esistito. Questo aprirebbe una discussione ontologica mica da ridere: se non esistono i goal segnati con un videogioco, esistono quelli per i quali ho visto esultare bambini che giocavano in cortile senza pallone, rincorrendosi e tirando e saltando secondo il canovaccio istintivo di una muta commedia dell’arte? Esiste il goal del passante che, sapendosi non visto, calcia una lattina e centra il muro che aveva mirato? Esistono i goal in base ai quali la Gazzetta dello Sport ha dipanato un paio di estati fa la Dream Cup, un trofeo virtuale con squadre immaginarie ma cronache dettagliatissime? Esistono i goal che i bambini sognano dormendo abbracciati al pallone con cui i genitori non li lasciano giocare?

I goal, in larga parte, sono un evento inesistente la cui realtà è data dalla comune credenza; un po’ come i test online del concorso per l’insegnamento di storia e filosofia nei trienni dei licei. La discriminante, il motivo per il quale il videogioco non è assimilabile al calcio, è piuttosto questa: riproduce non già il gioco del calcio in sé – ossia correre saltare colpire – ma l’esperienza televisiva del gioco del calcio. Il videogiocatore è un telespettatore che con le proprie dita può cambiare il corso della partita che sta guardando. Il suo punto di vista è esterno e interno al tempo stesso e, trattandosi di una prospettiva palesemente irrealizzabile nella vita reale, mai nessun videogiocatore potrà pensare di sostituire l’esperienza del gioco del calcio con l’esperienza del videogioco di calcio.

Preoccupa piuttosto il contrario, ossia la progressiva trasformazione del calcio in videogioco allo scopo di favorirne la fruizione televisiva. Se ci pensate, un videogioco per quanto sofisticato si basa sulla ripetizione di una determinata combinazione di eventi secondo un ordine mutabile un tot di volte. Il calcio invece è un’anguilla, come sostiene il famoso detto secondo cui la palla è rotonda: inafferrabile e imprevedibile, non c’è niente che sia riuscito a riprodurne ogni sfaccettatura. Dovendosi però venderlo come prodotto di intrattenimento, si è allora pensato di renderlo più fruibile e più commestibile smontandolo e traducendolo in pezzettini giustapposti: si è iniziato sciorinando i primi dati numerici sul possesso palla e ora sappiamo in tempo reale quanti km ha corso e quanti passaggi ha effettuato un calciatore; si è iniziato col Telebeam e ora siamo finiti al Magma di Adriano Bacconi; si è iniziato con l’estemporaneo ed esotico hombre del partido e siamo finiti alla codifica del meglio e del peggio con l’uomo partita Sky o con i più e i meno della tv di Stato. Non ha senso. La partita di calcio è un evento confuso (soprattutto se in panchina c’è Zeman, ma è un altro discorso) e non è traducibile in nessun altro linguaggio, né su tablet né su lavagnetta; cercare di spiegarlo o addirittura di capirlo secondo parametri standard è come voler quadrare il cerchio. Alla meno peggio si ottiene un poligono con talmente tanti lati che non si sa più come chiamarlo, ma che non sarà mai rotondo: tutti gli opinionisti che discettano di cifre e controcifre non si accorgono che stanno analizzando solo l’esperienza televisiva, confondono la percezione con l’oggettività e si comportano come altrettanti videogiocatori, con la differenza che ci credono davvero.

Il goal non esiste. Lo sanno Beppe Dossena e Franco Lauro che discettano sul risultato misterioso di Carpi-Lecce e lo so io, che immagino l’obsoleto Franco Strippoli scoprire all’improvviso che i salentini non hanno mai pareggiato, strapparsi finalmente il parrucchino, scagliarlo appallottolato sul pavimento dello studio e diventare famoso anziché andare in pensione.

lunedì 10 dicembre 2012

Finalmente domenica!
Sedicesima giornata, 9 dicembre 2012


Oggi è il mio compleanno (auguri; grazie) e mi pongo seriamente il problema se non sia piuttosto preferibile l’onomastico, che è festa verticale e collettiva, a questa celebrazione che invece è individualista e centripeta. Un’autorevole scuola di pensiero sostiene anzi che il compleanno sia da rifiutarsi completamente in quanto festa pagana, o paganizzante che è lo stesso, imposta a colpi di egotismo in una società in cui originariamente fioriva il senso comune del Cristianesimo e quindi esisteva solo l’onomastico, il giorno di tutti quelli che si chiamano come un santo al quale dovrebbero voler rifarsi. Inoltre i compleanni sono una linea retta, un’inarrestabile freccia del tempo che invecchia e uccide, mentre gli onomastici girano intorno a un centro vivificante e quindi scandiscono l’eterno: il 9 dicembre morirà con me ma il 13 giugno resterà anche quando sarò terra per ceci. Ci tengo a specificare la data per chiarire che il mio Antonio patrono è quello da Padova e non l’Abate, nonostante che questi sia il protettore di tutti gli animali. Dev’essersi trattato di uno scambio di persona.

Il dilemma è stato brillantemente risolto da una mia amica che, essendo nata il giorno di Santa Chiara, s’è fatta monaca clarissa e, cambiando nome nell’abbracciare un ordine, ha trasformato il proprio compleanno in onomastico e festa istituzionale. Io non sono altrettanto coraggioso pertanto mi sono limitato, nei giorni scorsi, ad andare a Padova per lasciare una carezza sulla tomba del Santo perché è evidente che, così come senza 9 dicembre non potrebbe esserci Gurrado inteso come corpo che interagisce nel tessuto di una rete sociale e intellettuale, senza Sant’Antonio non potrei esserci io stesso, inteso come anima individuale che un giorno dovrà pur essere giudicata. Sulla scorta di questa considerazione, è evidente che l’onomastico è utile benché progressivamente misconosciuto mentre il compleanno diffuso quantunque può ben essere dannoso.

Io però non sarei altrettanto oltranzista e mi limiterei a dire che il compleanno ricade in quel vasto settore di argomenti che San Paolo derubrica come adiaphora, ovvero indifferenti, come ad esempio l’ortoprassi alimentare degli ebrei. Cosa conta se ci asteniamo dal mangiare il cammello, l’ìrace e la lepre perché secondo il Levitico ruminano e non hanno l’unghia fessa? Io sono onnivoro quindi mangerei cammelli se me li cucinassero, ìraci se sapessi cosa sono e anche eventuali lepri che davvero ruminassero e non avessero l’unghia fessa; mangerei anche grifoni, se solo esistessero, senza per questo sentirmi sminuito nel senso religioso. Allo stesso modo ritengo che le candeline contino quanto l’unghia fessa e che il compleanno, essendo indifferente, cambia senso a seconda dell’uso che se ne fa.

Se uno lo utilizza per farsi riempire di regali vacui mentre non sa nemmeno in che giorno, poniamo, si festeggi San Siro, allora lo utilizza male; se lo utilizza per voltarsi indietro e piangersi addosso alla vista di persone e cose perdute mentre saliva per i tornanti, allora lo utilizza malissimo; se lo utilizza come pietra miliare per controllare su riscontri oggettivi di essere diventato una persona più decente rispetto a dodici mesi prima, e per rendersi conto e ringraziare per tutto ciò di cui non s’è troppo lamentato nell’anno precedente, allora lo utilizza bene. È senz’altro una forma pagana ma non per questo implica paganesimo. Ieri ero a Messa al santuario pavese di Canepanova e mi accorgevo per la prima volta dopo tanti anni che sopra le statue di Re e profeti dell’Antico Testamento avevano dipinto le sibille; il Cattolicesimo etimologicamente è un fiume che travolge tutto e s’ingrossa per i detriti, quindi non sta a fare troppi distinguo sull’essenza pagana delle sibille o dei grifoni o del compleanno se vengono usati in maniera cristiana.

Indubbiamente rimpiango i 9 dicembre dei festeggiamenti familiari, e soprattutto quelli in cui Rijkaard faceva vincere al Milan la Coppa Intercontinentale o in cui mi alzavo apposta dal letto dell’influenza per guardare un derby di Torino rinviato per neve e trasmesso in diretta, senza bisogno di pagare, dalla Rai; quelli in cui ero un buon selvaggio che guardava il campionato più bello del mondo nel momento più bello della storia, inconsapevole emulo di Vittorio Sereni che scopriva un raggio di sole trafiggere San Siro (lo stadio) e si diceva: “Passiamola questa soglia una volta di più”. Però l’infanzia ha fatto il suo tempo, indipendentemente dal comportamento di molti miei coetanei. Mettendo in fila tutti i 9 dicembre della mia vita mi rendo conto che nel mio animo c’è un progresso e che dunque la mia vita ha un senso, il quale ovviamente non può essere deciso da me in quanto sarebbe come pretendere che il mare è stato inventato da chi ci nuota. Se alla sera del 9 dicembre dico: “Bene, non ho rimpianto nessuno dei 9 dicembre precedenti perché non voglio agitarmi cercando di trattenere le ombre”, allora vuol dire che sono cresciuto e che tanti compleanni sono serviti a qualcosa; se non altro a ricordarmi ogni dodici mesi che i patimenti affastellati nei giorni comuni formano un tutto coerente pertanto devo smettere di considerare la mia vita con la lente d’ingrandimento anziché col telescopio. Come mi spiegava ad personam il Salmo di ieri: “Nell’andare se ne va e piange, portando la semente da gettare, ma nel tornare viene con giubilo, portando i suoi covoni”.

Detto questo, pare che gli ìraci siano dei mammiferi esotici noti anche come procavie, la lepre ha l’unghia fessa ma non rumina affatto mentre San Siro (il santo) si festeggia il 9 dicembre ed è il patrono di Pavia, la città dove sono finito a vivere senza che potessi aspettarmelo quando sono nato.

[Come sempre l'altra metà della rubrica, opera di Francesco Savio, si trova su Quasi Rete.]

giovedì 6 dicembre 2012

"Il mio sesso nuotava nella gioia come un pesce nell'acqua", ha scritto l'autrice canadese Nancy Huston nel suo ultimo romanzo "Infrared", ed è stato più che sufficiente a farle vincere il Bad Sex Award: il riconoscimento per il peggiore sesso scritto che la Literary Review assegna da vent'anni.

Ma il Bad Sex Award quest'anno lo meritava qualcun altro, e non mi riferisco a Back to Blood di Tom Wolfe. In prima pagina sul Foglio di oggi svelo il mistero parlando altresì di inondazioni lombari, astronomia heideggeriana, Tony Blair e suocere assassine.

[Il pezzo ora è disponibile anche sul sito del Foglio, gioioso come un pesce nell'acqua.]

mercoledì 5 dicembre 2012

Domani si va a Padova. Alle 17:30 di giovedì 6 dicembre, nella Sala del Romanino dei Musei Civici agli Eremitani (piazza Eremitani, 8) Nacho Duque Garcia e io presentiamo il volume La ricetta di immortalità a cura di Michela Zago, edito da La Vita Felice.

Necessaria precisazione, il libro di Michela Zago non è un misto fra Antonella Clerici e la profezia dei Maya ma la seria edizione critica di un papiro greco, con importanti novità rispetto alla tradizionale interpretazione del papiro stesso. Parleremo delle diverse accezioni di religione, magia e superstizione in età antica, moderna e postmoderna.

martedì 4 dicembre 2012

Il pubblico medio del settimanale plausibilmente sarà andato in sollucchero scorgendo in apertura la foto-poster "Nobel con bacio", in cui Obama oscula con San Suu Kyi la quale in realtà sembra piuttosto refrattaria. È un'immagine che per un attivista dei diritti umani - un ipotetico volontario di Medici Senza Frontiere abbonato a Micro Mega per sostenere Altromercato rallentando il riscaldamento globale mentre legge Umberto Galimberti - equivale a quello che sarebbe per me una foto di Jennifer Aniston che bacia Scarlett Johansson.

Su Qwerty, il blog che recensisce i giornali su Tempi.it, è il turno di Internazionale: il giornale dei giornali, poco urbi e molto orbi.

lunedì 3 dicembre 2012

Finalmente domenica!
Quindicesima giornata, 2 dicembre 2012

Finalmente oggi, a pagina 53 di Repubblica, si fa chiarezza su una questione epocale: un improvvido intervistatore ardisce dare del filosofo a Giovanni Reale, professore al San Raffaele e direttore della collana dei classici del pensiero occidentale per Bompiani, e questi risponde a bruciapelo: “Anzitutto non sono un filosofo ma uno storico della filosofia”. Parafrasando ciò che sosteneva un professore quando ero studente a Pavia, sarebbe come se l’intervistatore di Frank Dettori gli desse del cavallo e questi fosse costretto a specificare: “Anzitutto non sono un cavallo ma un fantino”. Dovrei ordinare un tot di copie di Repubblica di oggi da spedire alle mie corteggiatrici che per far colpo mi domandano: “E cosa pensa la filosofia dell’amore?” (o dell’oroscopo; o del destino; o della politica; o del fuorigioco passivo). Io invariabilmente rispondo: “E che ne so, io mi occupo di esegesi biblica nella filosofia francese del ’700. Al massimo posso dirti cosa pensa la filosofia del crollo delle mura di Gerico al suono delle trombe, o della natura del pesce che inghiottì Giona, oppure dell’ordine che il signore impartì a Ezechiele, ossia di mangiare un rotolo di pergamena, poi di legarsi con delle funi, poi di star coricato sul fianco sinistro per trecentonovanta giorni, poi di mangiare del pane condito con escrementi – al che il profeta reagisce impetrando di poter mangiare piuttosto dello sterco di vacca”, ma al che le indebite corteggiatrici sono altresì sparite e quindi non c’è bisogno di profondersi in dettagli.

La confusione fra “filosofo” e “storico della filosofia” è il sintomo che più mi è personalmente dannoso nella tendenza generalizzata a utilizzare un termine per un altro, volgarmente fischi per fiaschi. L’Italia è una repubblica fondata su varie cose, fra le quali l’utilizzo protervo di termini alla moda in spregio del loro significato. “Laico” è l’esempio perfetto, che non merita nemmeno di essere commentato. Il mio amico Camillo Langone aveva dedicato un intero ciclo sul Foglio a parolacce simili, tipo “migranti” o “escort”. “Matrimonio omosessuale” non si può sentire, se diventasse una legge dello Stato i primi a suicidarsi dovrebbero essere gli etimologisti perché “matrimonio” significa “protezione della madre”.

“Aiutino”, che sabato campeggiava sui titoli di parecchi quotidiani sportivi e no, è fra le peggiori. Viene dal mondo fatato dei quiz televisivi, denotando in positivo la differenza della versione italiana (cattolica, misericordiosa, inclusiva) rispetto al format anglosassone (protestante, spietato, esclusivo): se volevi vincere una certa somma potevi contare su un presentatore comprensivo, che si sarebbe fatto carico delle tue carenze davanti al notaio. L’aiutino ha poi sfondato nelle scuole patrie, non come materia ma quale metodo di studio: nella tendenza nazionale a considerare anzitutto gli alunni come figli di qualcuno (sovente i propri), li abbiamo automaticamente ritenuti vittime di intollerabili angherie e soprusi da parte di professori che pretendono di sapere l’anno esatto della morte di Kant, come se non la sapessero già per conto loro, come se questo vacuo nozionismo potesse contare qualcosa, come se Kant non fosse ancora fra noi grazie alla presenza viva delle sue opere – e così abbiamo preteso l’istituzionalizzazione dell’aiutino per favorire la retta formazione degli scolari coi risultati che abbiamo sotto gli occhi. Ciò nonostante, oggi ci indigniamo collettivamente stigmatizzando il famigerato aiutino quando viene assegnato un rigore a una squadra che, essendo decisamente più forte dell’altra, passa tre quarti d’ora a partita nell’area avversaria, oppure quando viene espulso il calciatore di una squadra proletaria perché ha cercato di abbattere a centrocampo un collega che guadagna il triplo di lui, magari per usargli la gentilezza di non farlo trattenere troppo a lungo in questa valle di lacrime.

Mercoledì sera non c’erano le coppe e ho guardato il dibattito fra Renzi e Bersani per decidere chi, nella prossima primavera, salirà al Quirinale per indicare in Monti il presidente del consiglio ideale. Lessicalmente s’è visto tutto il terrore del politico, ahimè non importa il colore né se indossi o meno la giacca, quando c’è da arraffare voti. Sulle prime, nelle fasi preliminari della schermaglia, s’è iniziato utilizzando termini che oltre al proprio significato concreto si dotavano di uno metaforico (il mandolino, il passerotto e il tacchino di Bersani, e il sensazionale refrain “segretario” con cui Renzi lo infilzava a ogni risposta) ma, quando il gioco s’è fatto duro e bisognava diventare convincenti per il popolo bue e asinello, alé si è passati a utilizzare termini che hanno significato metaforico ma senza averne alcuno concreto: “quote rosa”, “omofobia”, “femminicidio”. Mi aspettavo che da un momento all’altro passassero a “mezza stagione” e “partenza intelligente”. Se fossi stato Renzi, ma anche Bersani, a un giornalista che mi avesse chiesto: “Ma cosa pensa delle quote rosa?” avrei risposto: “Meglio un uomo oggi che una gallina domani”.

C’è in Italia una diffusa paura di utilizzare le parole, ragion per cui chi lo fa adeguatamente viene accusato di essere volgare o provocatore quando è solo una persona che di tanto in tanto si perita di aprire il vocabolario. Dicono gli inglesi che where ignorance is bliss, ’tis folly to be wise: tradotto, perché utilizzare una parola esatta quando la si può sostituire con una circonlocuzione sbagliata? S’è visto, anzi s’è sentito, anche ieri sera durante il commento al derby di Torino su Radiouno. Il cronista, parlando dell’errore di Pirlo dal dischetto, ha dichiarato: “Cantava De Gregori che non è certo un calcio di rigore che può inficiare la carriera di un giocatore”. Tutte le successive telefonate degli ascoltatori si accanivano su inezie dell’arbitraggio, e nessuno ha fatto notare che la metrica non tornava.

[Il resto della rubrica, con scottanti rivelazioni sull'acquisto di Francesco Savio da parte della Juventus, si trova come ogni lunedì su Quasi Rete.]

sabato 1 dicembre 2012

Diderot aveva gli occhi azzurri o castani? Non si tratta di una questione oziosa in quanto è servita a creare del mistero attorno a un celebre quadro di Fragonard, eseguito nel 1769 e custodito al Louvre, nel quale il vecchio Diderot era ritratto in posizione molto simile a quella in cui lo stesso filosofo era stato precedentemente immortalato da Van Loo. Gli studiosi hanno sancito che il Diderot di Van Loo ha gli occhi castani mentre quello di Fragonard li ha azzurri; occhi diversi non possono appartenere alla stessa persona e di conseguenza hanno cambiato il titolo del dipinto di Fragonard in un farraginoso “Figura immaginaria precedentemente identificata a torto in Diderot”.

Sul Foglio di oggi spiego che si possono avere tutti i dubbi di questo mondo sugli occhi del ritratto del filosofo, ma se si va a controllare sull'Encyclopédie le voci "occhi", "ritratto" e "filosofo" si ricava un'idea piuttosto diversa da quella degli esperti del Louvre.

lunedì 26 novembre 2012

Finalmente domenica!
Quattordicesima giornata, 25 novembre 2012

Nelle intenzioni dei progettisti, il cosiddetto spezzatino dovrebbe servire a risolvere le serate del maschio italiano: Milan e Juventus domenica sera, Napoli e Inter lunedì sera, Lazio e Udinese martedì sera di modo tale da impedirgli di trascorrere ore e ore, nei giorni in cui la settimana è in salita, a guardare nel vuoto domandandosi se la propria vita ha un senso. (Di solito no).

Io però ieri ero a pranzo, per una complicata combinazione, dai nonni della fidanzata di un mio amico e c’era pure la sorella sedicenne di lei. Ora io non so se voi avete presente come sia fatta una sedicenne: sta lì in silenzio ad armeggiare col telefonino, un po’ ascolta un po’ no, mangia solo quello che le pare e guarda tutto come se fosse appena stato creato. Consiglio a tutti di avere una sedicenne per commensale, almeno una volta a settimana: vi lancerà certi sguardi speranzosi, vi sembrerà sul punto di lasciarsi sfuggire certe mezze parole, che vi sarà impossibile non accorgervi quanto vorrebbe essere al posto vostro, già cresciuta e pasciuta, a fare le piccole o medie cose quotidiane delle quali invece vi state lamentando. Non dirà una parola ma ve le farà sembrare nuove, e quasi belle. È come la tuffatrice che si sta appena staccando dal trampolino, che pensa solo a librarsi e alla quale non conviene dire che la caduta fa paura, l’impatto con l’acqua fa male e che a furia di bagnarsi ci si becca la polmonite.

Forse bisogna avere sedici anni per meravigliarsi di fronte al miracolo delle partite spalmate, che si sgranano e sembrano moltiplicarsi lungo la settimana, trasformando la routine in bendidio.

Io però ieri pomeriggio sono andato in piazza Vittoria ad assistere alla chiusura di una piccola libreria pavese indipendente che si chiamava Il Delfino e che per vent’anni è stata gestita da librai veri, ossia ai quali anche una persona di cultura accettabile come me poteva chiedere suggerimenti su cosa leggere o regalare ricevendo sempre la risposta esatta per ogni ramo dello scibile. Insieme a me c’erano altre persone, a occhio duecentocinquanta, forse trecento, per La Provincia Pavese addirittura quattrocento (per la questura, diciotto): ci siamo disposti uno di fianco all’altro – io vicinissimo all’ingresso della libreria in disarmo, primo fra i non librai – e di mano in mano ci siamo passati i libri contenuti nell’ultimo scatolone fino a che non li abbiamo fatti arrivare in piazza Cavagneria, un isolato più giù, dove ad attenderli c’era, giù pronta, una grande libreria pavese appena aperta che si chiamerà Il Delfino e che sarà gestita dagli stessi librai, miracolosamente. Abbiamo festeggiato a salame e champagne e abbiamo tutti comprato un libro di buon augurio: io, l’edizione SugarCo delle lettere di Joyce.

Forse i fautori dello spezzatino ritengono che ci si debba di tanto in tanto concedere una botta di vita e di novità, spostare il campionato da qualche altra parte, come voleva fare la Premier League organizzando una trentanovesima giornata nel lontano Oriente, oppure piazzando le partite in orari che sorprendano il pubblico, come uno che per abitudine passi da piazza Vittoria intristendosi perché non ricordava che la libreria era chiusa, o che poi passi per caso da piazza Cavagneria, rallegrandosi perché non si aspettava di ritrovarla riaperta.

Io però ieri sera, dopo una pizza salsiccia e scarola, mi sono messo a leggere Addio al calcio di Valerio Magrelli, con colpevole ritardo che ammetto senza meno, e anche con un certo senso di colpa perché qualche tempo fa, a Torino, una fonte più che affidabile aveva detto a Savio e a me: “Magrelli ha letto il vostro libro, pare che gli sia piaciuto, pare che vi farà una sorpresa”. Sono passati mesi e sono rimasto come l’uomo in albergo, che a letto sente cadere sul pavimento la scarpa dell’ospite della camera superiore e passa la notte insonne in attesa del rumore della seconda, mentre quello se l’è levata pian pianino per timore di disturbare chi dorme al piano di sotto. Mi aspettavo che da un momento all’altro io tornassi a casa, aprissi l’armadio e ne sbucasse Magrelli gridando “Sorpresa!”, oppure che Savio si chinasse sulla culla del piccolo incolpevole Pietro e vi rinvenisse Magrelli in posizione fetale, oppure che per strada, mentre passavo sotto le torri medievali dell’Università, mi planasse addosso Magrelli vestito da Batman, oppure che Savio un giorno mi telefonasse e dicesse: “Guarda, finora te l’ho tenuto nascosto ma in realtà io sono Magrelli; spero che comprenderai”.

Invece la sorpresa Magrelli me l’ha fatta con Addio al calcio, non solo perché è un bel libro ben scritto e ben infiocchettato, ma perché ha colto, senza conoscermi, la mia ossessione per i numeri di pagina, tale che alle volte mi deconcentro dal contenuto perché sono lì a controllare le cifre calcolando quanto tempo ho impiegato a leggere fin lì e quanto ce ne vorrà per leggere il resto. Ieri sera, a letto, ho scoperto che Magrelli ha scritto un libro senza numeri di pagina; o meglio, poiché l’Einaudi suole non inserire il numero sulle pagine in cui inizia un nuovo capitolo, e poiché il libro di Magrelli è composto di novanta capitoli in larga parte di un capoverso ciascuno, i numeri non appaiono quasi mai, con mia grande consolazione. C’è pagina 15, c’è pagina 22, e poi 28, 31, 34, 49,e poi più nulla fino a pagina 94, 95, 97, poi c’è pagina 103 e basta là.

Ecco, tanto per dire, in tutto questo, quanto poteva fregarmene che ci fosse Palermo-Catania.

[Il resto della rubrica, in cui Francesco Savio rivela di non essere Valerio Magrelli, si trova come sempre su Quasi Rete, il blog letterario e dadaista della Gazzetta dello Sport.]

domenica 25 novembre 2012

La storia della campagna elettorale è illustrata anche da una foto dei cinque candidati in attesa del dibattito negli studi di Sky, ognuno a suo modo: Tabacci sembra un calciatore del Subbuteo, la Puppato due, Vendola si frega le mani come il Mr Burns dei Simpson quando dice "Eccellente", Renzi con ogni probabilità sta ballando il Gioca Jouer e a Bersani manca solo una scarpa da sbattere sul tavolo.

Per capire le tante anime della sinistra niente di più indicato che leggere l'Unità il giorno delle primarie (e recensirla su Qwerty, il mio blog su Tempi.it)

lunedì 19 novembre 2012

Finalmente domenica!
Tredicesima giornata, 18 novembre 2012

Quando mi chiedono un parere sulle traduzioni, devo sforzarmi di non riferire un vecchio episodio di Topolino in cui viene inventata una colossale macchina di interpretariato universale. Di fronte a curiosi scettici, viene inserito in questo calcolatore un biglietto con la scritta “Lo spirito è forte ma la carne è debole” e di lì a poco si vede emettere un altro biglietto con la stessa frase in ittita, in accadico, in caratteri cuneiformi. Al che viene richiesta la controprova, inserendo nuovamente il biglietto illeggibile, e la macchina a sua volta restituisce un biglietto in italiano con su scritto: “L’alcol brucia ma la bistecca è tenera”.

Ieri ero stato chiamato al Bookcity di Milano presentare la nuova traduzione dell’Ulisse di Joyce fatta da Enrico Terrinoni per la Newton Compton e, forse per darmi credibilità qualora mi fosse saltato in mente di ripescare la faccenda della bistecca, gli organizzatori mi hanno inserito nel programma come “giornalista” benché non lo sia affatto. Allora, non potendo presentarmi abilmente camuffato da giornalista, ho deciso di barare presentandomi abilmente camuffato da intellettuale di sinistra, indossando con grande disinvoltura un completo di velluto beige a coste sopra un dolcevita scuro. Mi ero anche trattenuto dal radermi, come invece l’istinto e l’abitudine mi avevano suggerito e quasi imposto. Per fortuna la mia bellezza non dipende mai da tali scelte contingenti.

Il travestimento era coerente con quello che avrei detto, ossia che l’ideologia sottostante la traduzione di Terrinoni era la restituzione dell’Ulisse alle masse, per conseguire la quale aveva dovuto agire in due direzioni: tradurlo con un linguaggio più corrente e meno aulico, senza mostrare timore di strapazzare un classico ma stando attento ad accattivare il lettore col ritmo; dissotterrare dalle successive sedimentazioni di interpretazioni più o meno arzigogolate la trama basilare del romanzo che, benché molto diluito, contiene un messaggio di amore fra individui e di pace fra i popoli. Per parlarne senza sentirmi ridicolo, vestito così, avevo architettato un discorso ricco di ironie e sottintesi e concetti appena abbozzati per lasciarli acerbi al ragionamento degli astanti e credevo di avere fatto un buon lavoro fino a che, stamattina, non ho scoperto che mentre parlavo un signore ha diligentemente pubblicato su twitter una cronaca minuto per minuto di cosa dicevo; ma poiché twitter ha un limite massimo di caratteri per botta, ecco che tutte le cautele e le perifrasi e gli ammicchi che costituivano l’impalcatura del mio discorso erano andati a farsi benedire.

Ciò non è colpa del signore in questione, di cui ammiro la dedizione, né mia né tampoco di Joyce, o del completo di velluto con dolcevita. È solo che ormai per essere credibili come intellettuali di sinistra non basta vestirsi da sinistra e dire cose di sinistra; bisogna esprimere concetti che siano già pronti per essere infiocchettati in centoquaranta caratteri senza perdere alcunché e senza risultare urticanti per nessuno. Bisogna, diciamo così, saper andare incontro alla scatoletta; come i calciatori di oggi, che sembrano più bravi dei vecchi solo perché i telecronisti urlano di più.

Meno male che nessuno era presente col superfonino fra le mani quando, passando da piazza Fontana col mio abito beige di lotta e di governo, ho notato che uno dei vasetti sotto la lapide all’anarchico Pinelli era stato rovesciato dal vento, o da un cane, o da un passante scemo. Allora, col favore delle tenebre, sono avanzato nell’aiuola, mi sono accovacciato e l’ho raddrizzato credendo di far culminare così la serata da vero uomo di sinistra, certo che l’abito facesse il monaco. Poi, sul treno suburbano per Pavia, mi sono accorto che mi ero ingannato e che aveva vinto l’imprinting di cattolico reazionario. Raddrizzare ciò che è storto è un atto da nevrotici di destra, tanto da essere finito in una supplica allo Spirito Santo: flecte quod est rigidum, fove quod est frigidum, rege quod est devium. La bistecca è tenera.

[Il resto della rubrica, opera di Francesco Savio, si trova come sempre su Quasi Rete.]

sabato 17 novembre 2012

La lettura di Repubblica è un atto sempre più simile alla distratta presenza fra i banchi di una chiesa: lo si fa un po' perché ci si crede confusamente, un po perché non si ascolta, un po' per tacitare la coscienza, un po' perché bisogna farsi vedere.

Sul numero di Tempi in edicola questa settimana recensisco un'intera settimana di Repubblica, trattando il quotidiano per quel che è: liturgia della parola. (Disponibile anche su Tempi.it)

venerdì 16 novembre 2012

C'è una parolina che ho cercato e ricercato nel testo di un articolo recentemente apparso sul Guardian, nonché fra i 215 commenti che ha causato fino al momento in cui scrivo, ma non c'è stato verso di trovarla.

Prima di svelare la misteriosa identità della parolina è però necessario fornire un minimo di contesto. Pochi giorni fa David Petraeus s'è dimesso dal ruolo di capo della CIA in ragione di una liaison adulterina con la propria biografa, e questo lo sappiamo tutti. Il paradosso che il capo dei servizi segreti si dimetta a causa di una relazione segreta lo abbiamo notato tutti. Il paragone poco lusinghiero fra le foto della legittima consorte e la Catwoman senza costume alla quale aveva ceduto la password della propria posta elettronica l'abbiamo azzardato quasi tutti. Quasi nessuno però ha preso carta e penna per difendere Petraeus e dire che l'eventuale apertura della sua braghetta è di sua esclusiva giurisdizione e pertinenza; e fino a metà novembre sembrava che la migliore apologia fosse stata la vibrante ma isolata colonna di Pietro Ostellino sul Corriere della Sera.

Poi, a sorpresa, è arrivato il Guardian, che il 13 novembre ha pubblicato un articolo di Helen Croydon dal titolo più che significativo: "L'infedeltà di Petraeus è affar suo". La biondissima e appariscente opinionista, autrice fra l'altro di un memoir sulla propria passione per gli uomini più anziani nonché di Cento lezioni di sesso in non più di cento parole, non è parsa per nulla intimorita dall'essere soltanto al secondo articolo sulle pagine sacre del progressismo britannico (fra parentesi, il primo risale ad agosto e s'intitola "La monogamia è un ideale fiabesco"). Ha preso a due mani l'ipocrisia e il moralismo dei salotti buoni anglofoni e li ha sbattuti con gli interessi in faccia al mittente.

L'articolo inizia con una domanda secca: "Sono affari nostri, o di qualcuno dei suoi supervisori al Congresso americano, se David Petraeus ha tradito sua moglie?". Per fugare ogni dubbio, la Croydon si risponde che "i suoi passatempi personali non sono materia di pubblico interesse" e altresì che "non sono affari nostri quali partner sessuali o circoli sessuali o preferenze sessuali vengano prediletti da qualcuno al di fuori dall'orario di lavoro; l'importante è che lavori".

La sua argomentazione è duplice. Alle persone di destra, specie a quelle che si dicono liberiste, ricorda che "l'adulterio può risultare sgradevole per molti, in questo clima sempre più moralistico, ma abbiamo il dovere di lasciare giudizio e condanna alle persone sulle quali ha un impatto diretto". "Ci sono stati molti casi", continua la Croydon, "in cui abbiamo perduto i servigi di persone competenti, non per mancanze nei loro doveri ma per giudizi puritani sulla loro vita privata, benché irrilevante". Quanto a Petraeus, "sì, occupava un ruolo pubblico, ma aveva diritto a una vita privata, a interessi privati e a decisioni autonome". Insomma, "di sicuro la storia merita pettegolezzi; ma merita anche un'inchiesta formale?".

Helen Croydon tuttavia si rivolge in particolare ai lettori di sinistra, quelli che comprano il Guardian ogni mattina per vantarsi della maggiore apertura mentale, della cultura più vasta, della radicale flessibilità nel riconoscimento del diritto alla felicità individuale secondo il tipo di amore che ciascuno ritiene più opportuno. "La fedeltà", ricorda loro la Croydon, "è una scelta di vita e un giudizio morale soggettivo; non è legge. Molte comunità chiudono un occhio di fronte a brevi scappatelle. Alcune coppie si accordano per restare aperte. Gli antropologi accettano l'idea che la monogamia non sia la naturale strategia di accoppiamento dell'uomo". Tradotto, chi critica Petraeus da sinistra è come minimo un sessuofobo, un fascista e un papista in incognito.

Non dev'essere una donna facile ad ammansirsi, Helen Croydon, anche perché per fine articolo conserva un colpo di grazia velenosissimo. "I titoloni e l'indignazione che circondano quest'affaire", scrive avendo cura che i lettori del Guardian si siano riavuti dallo choc, "puzzano di sadico compiacimento nell'assistere alla caduta di un uomo di successo, anziché denotare un effettivo timore razionale per la sicurezza della nazione. Ciò che dovrebbe allarmarci è piuttosto il nostro appetito voyeuristico per il chiacchiericcio salace, e non ciò che gli uomini di Stato combinano nella loro vita privata".

La parolina che ho cercato e ricercato in lungo e in largo, senza mai riuscire a trovarla, è "Berlusconi".

[Disponibile anche su Tempi.it con ammirevoli foto dell'autrice dell'articolo.]

mercoledì 14 novembre 2012

Avrete sicuramente sentito parlare di Bookcity, la megarassegna letteraria che si terrà questo fine settimana a Milano; se no, documentatevi. Ci sono vari invitati di prestigio: cito a campione l'amico Cosimo Argentina, Daria Bignardi, Aldo Busi, Sveva Casati Modignani, Mauro Corona, Pino Corrias, Philippe Daverio, Erri De Luca, Jeffrey Deaver, Andrea Di Consoli, Paolo Di Stefano, Luca Doninelli, Gian Arturo Ferrari, Umberto Galimberti, Don Gallo, Luigi Garlando, Paolo Giordano, Massimo Gramellini, David Grossman, Franco Loi, Marco Malvaldi, Valerio Massimo Manfredi, Armando Massarenti, Sandro Mazzola, Raul Montanari, Gianluigi Nuzzi, Alcide Pierantozzi, Francesca Rigotti, Enrico Ruggeri, Salman Rushdie, Antonio Scurati, Luis Sepulveda, Beppe Severgnini, Vittorio Sgarbi, Walter Siti, Andrea Tornielli, Marco Travaglio, Umberto Veronesi, due coccodrilli e un orangotango.

Ciò nonostante hanno invitato anche me che, abilmente camuffato da giornalista, chiacchiererò con Enrico Terrinoni della sua nuova traduzione dell'Ulisse di James Joyce pubblicata quest'anno da Newton & Compton. Appuntamento sabato 17 novembre alle ore 19:30 presso la Libreria Internazionale Melting Pot di Via Vettabbia 3, zona Missori. Si intitolerà La ritraduzione dei classici. Dopo andiamo a berci una pinta.

L'incontro è stato organizzato dalla rivista "N.d.T. La Nota del Traduttore", gestita con otto mani dall'eroica Dori Agrosì.

lunedì 12 novembre 2012

Finalmente domenica!
Dodicesima giornata, 11 novembre 2012

Stamattina facevo colazione e dalla cucina arrivavano le lontane note di “Bello e impossibile” così che, intingendo il cornetto sintetico nel cappuccino automatico, pensavo a quanto meglio di me Gianna Nannini avesse fatto fruttare la propria laurea in filosofia: per tirar fuori una canzone che metta insieme in maniera immortale due parole semplici ma abituate a vivere separate bisogna saper fingere di non essere intellettuali. Ho covato barocca stima per lei fino a quando mi sono seduto a sfogliare la Lettura del Corriere della Sera in cerca di una lenzuolata di Will Self (il mio autore inglese de sinistra di riferimento) che parlava del principio di omertà vigente in Gran Bretagna. Ben prima però la mia attenzione è stata stornata da una colonna della medesima Gianna Nannini la quale, essendosi ricordata dove aveva appeso il diploma di laurea, incitava Dante a farsi da parte e a lasciare la sua palma di miglior scrittore d’Italia a Elsa Morante.

Ora, a parte che il miglior scrittore d’Italia non è Dante (e nemmeno Saviano) ma Machiavelli – basta aprire a caso il volumone rosso economico in cui la Newton Compton ha raccolto Tutte le opere storiche, politiche e letterarie, al netto di qualche refuso, per trovare frasi su frasi all’altezza della celeberrima “et non sento per 4 hore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in loro” –; a parte che Gianna Nannini esprime la propria parzialità mostrando familiarità con la Morante al punto da chiamarla Elsa, così come se io, grande ammiratore di Joyce e Burgess e Roth, li citassi in pubblico quali James, Anthony e Philip; a parte questo, dicevo, mi chiedo se Gianna abbia effettivamente compiuto un confronto incrociato prima di darsi a giudizi avventati. Prendiamo ad esempio la maniera in cui i due trattano lo sport, sia perché lo sport è azione pura e quindi la narrazione dello sport è la narrazione più pura, sia perché la Nannini è nota tifosa della Fiorentina, nata per propria ammissione con il nastro viola. Ecco come la Morante racconta ne La Storia la rivalità fra le due squadre della Capitale: “La sera del 3 giugno, Tommaso, che si appassionava alle partite di calcio, e favoriva la squadra della Lazio, rincasò più avvilito che mai: quasi non bastasse tutto il resto, era successo un caso dell’altro mondo: la Tirrenia aveva eliminato la Lazio. E così, questa era esclusa dalla finale, favorendo la rivale odiata, la Roma”. Un resoconto tanto farraginoso di materia incandescente fa venire voglia di tifare per i nazisti. Questo invece è Dante che nel XV dell’Inferno incontra Brunetto Latini e, tali l’ammirazione e la commozione, trasforma un sodomita in podista: “Poi si volse, e parve di coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna; e parve di costoro / quello che vince, non colui che perde”. C’è partita? Non c’è partita. Dante batte Elsa più o meno come il fuorigioco passivo della Juventus batte il calcio totale del Pescara.

Però bisogna anche nel nostro piccolo esultare all’idea che Gianna Nannini abbia indicato il più grande scrittore d’Italia in Elsa Morante, e non in – che so – Giuliano Sangiorgi o in Ligabue (come ha fugacemente fatto Antonio D’Orrico, ma solo fra i viventi) o in sé stessa (nel 2006 aveva pubblicato Io per Rizzoli). Se pure l’avesse fatto non ci sarebbe stato di che stupirsi, visto che dalle colonne del medesimo Corriere ieri veniva così salutata l’uscita del nuovo libro di Giacomo Poretti: “Giacomo (quasi) come Proust”. E dunque, di conseguenza: il Pescara (quasi) come la Juventus, poiché entrambe le squadre hanno la maglia a strisce e praticano uno sport simile; Elsa (quasi) come Dante; io (quasi) come Gianna Nannini, perché oltre alla laurea in filosofia ho anche il dottorato e quindi non sarei mai stato in grado di mettere insieme due parole così semplici e così lontane: bello. E impossibile.

[Il resto della rubrica, con la metà di pertinenza di Francesco Savio, si trova come sempre su Quasi Rete.]

martedì 6 novembre 2012

"Mi si domanda se sono principe o legislatore per scrivere di politica. Rispondo di no, ed è per questo che scrivo di politica. Se fossi principe o legislatore, non perderei tempo a dire quel che bisogna fare; lo farei, o tacerei".

Queste righe non le ho scritte io ma Jean-Jacques Rousseau, e devono essere sfuggite al sindaco di Forlì Roberto Balzani, uno studioso di politica che candidandosi non aveva preso in considerazione l'eventualità di poter vincere e dover governare. Racconto la sua storia sul Foglio in edicola oggi (e disponibile anche online).

lunedì 5 novembre 2012

Finalmente domenica!
Undicesima giornata, 4 novembre 2012

Oggi è il 4 novembre e la prima cosa che apprendo alzandomi al mattino è che Giorgio Napolitano esprime sostegno alle forze armate; un po’ come aveva fatto nel 1956, penso, e mi metto a riflettere su come potrei inserire con eleganza questa boutade nel pezzo autobiografico che devo scrivere per Quasi Rete ma ristò all’idea che, se il pezzo dev’essere autobiografico, Giorgio Napolitano c’entra poco e niente. L’importante è che non mi venga in mente di infilarlo nell’articolo che al mattino devo invece scrivere per un settimanale: mi è stato chiesto di camuffarmi per sette giorni da lettore indefesso di un noto quotidiano e di scrivere a settimana conclusa le impressioni che ho ricavato dall’analisi semantica e stilistica del quotidiano stesso. Se non che, mi accorgo, non posso nemmeno parlare di questo nel pezzo diaristico per Quasi Rete, in quanto brucerei l’argomento propostomi da settimanale e soprattutto mi ficcherei in una complicata autoreferenzialità per la quale, dovendo descrivere la mia domenica ed essendomi capitata una domenica in cui fuori piove e io son barricato dentro a scrivere, giungerei all’eccesso di scrivere un pezzo in cui scrivo che sto scrivendo che scrivo che sto scrivendo, e così via: ora, se una cosa del genere la facesse Baricco tutti direbbero che si tratta di una trovata geniale, di un significativo aperçu della vacuità della cultura contemporanea, di uno sguardo finalmente non menzognero sull’identità autoriale. Se invece lo facessi davvero, chiamereste l’ambulanza e non avreste gran torto.

Così mi ritrovo a corto di argomenti e mi ricordo di una volta, mi pare in quinta ginnasio, quando la professoressa d’Italiano spiazzò tutti proponendo come unica traccia per il tema in classe proprio questa: “A corto di argomenti”. Credo che sia la traccia più ardita che si possa escogitare in quanto mette lo studente, che fin lì va avanti a scrivere solo a comando, di fronte al terrificante abisso di dover scrivere senza sapere quale argomento affrontare; terrificante abisso che provo anche oggi, dopo aver scritto tutti i pezzi che dovevo scrivere lungo questo ponte e accorgendomi di avervi sparato tutte le cartucce. All’epoca me la cavai scrivendo un tema sul mio compagno di banco, perché ero uno zuzzurellone già a quattordici anni, ma oggi che ne ho più del doppio pur essendo altrettanto zuzzurellone non ho nemmeno un compagno di banco di cui parlare, ragion per cui guardo la traccia e non so cosa scrivere, a corto di argomenti come non mai.

Se tu guardi l’abisso anche l’abisso ti guarda, diceva Giulio Tremonti. Mi sento dunque tramortito come la Juventus ieri sera, e in effetti potrei commentare la partita della quale – avrete notato – non s’è fatto un gran parlare sugli organi stampa nazionali; diciamo pure che è passata sotto silenzio. O meglio, non è passato sotto silenzio il fuorigioco di Asamoah, anzi c’era gente che dopo cinque minuti aveva già smesso di guardare la tv per postare su facebook la propria indignazione per l’ennesimo campionato falsato e invocare Ingroia presidente della Federcalcio; ciò che è passato sotto silenzio è che, se Marchisio non avesse avuto i piedi quadri per una sera, dopo un quarto d’ora l’Inter si sarebbe trovata sotto di tre reti e lo spensierato Stramaccioni a quest’ora starebbe facendo terra per ceci, come uno Zeman qualsiasi. Ecco, io però notoriamente non sono persona che ami rinfocolare le polemiche né dire alcunché di politicamente scorretto e tanto meno ho qualcosa contro Zeman o contro l’Inter; per di più in tv mi limito a guardare il calcio giocato e l’unico commento che ascolto è quello di mio padre alla domenica pomeriggio alle diciassette.

“Su che canale?”, chiederete. Su nessuno, al telefono di camera mia. Di solito al pomeriggio lui dorme per un paio d’ore, io guardo le partite, poi ci sentiamo e me le spiega. Sulla partita di ieri siamo piuttosto d’accordo, e la vittoria del Milan sul Chievo non viene nemmeno citata; tuttavia mi rendo conto che quando la Juventus perde lui prende a storpiare i nomi dei giocatori, credo per esprimere disprezzo per degli indegni epigoni di Boniperti e Platini; ragion per cui visto l’andazzo è la prima volta che lo sento cambiare i codici fiscali ai nuovi acquisti Asamoah e a Lichtsteiner. Giovinco, che ha un nome più semplice, diventa tout court “quello basso”. Mia madre gli dice di tagliare perché lei invece la domenica mi fa l’oroscopo, che è una pratica che io non condivido (sono cattolico: niente oroscopo né yoga né Nichi Vendola) e alla quale sono sottoposto per tradizione orale. Pare infatti che oggi a casa dei miei i canali Rai non si prendano e quindi mia madre mi dice che mia zia le ha detto che Paolo Fox ha detto che questa settimana io, il Sagittario, riceverò una proposta.

Al che protesto che l’oroscopo così lo so fare anch’io, mentre Paolo Fox, sempre per il doppio tramite di mia madre e di mia zia, protesta che lui può solo limitarsi a dare indicazioni generiche sull’andamento degli eventi, perché i dettagli li decide (indica in alto) il Signore – o, nel caso della Juventus, il guardalinee. La disputa teologica con Paolo Fox mi porterebbe forse troppo lontano per essere uno che ha iniziato a scrivere senza sapere esattamente cosa scrivere e senza voler fare alcunché per nasconderlo, ragion per cui cesso di farlo con grande soddisfazione per essere riuscito a tacere ciò di cui mi vergogno e m’imbarazzo ossia che, quando siamo andati a mangiare una pizza dopo essere stati cacciati dal ristorante, io e Savio, a un certo punto ci siamo accorti che attorno a noi c’erano solo coppie dello stesso sesso; sarà sicuramente stato un caso ma, poiché Milano è piccola non vorrei che un giorno lontano venissimo ricordati come i celebri autori gay di Anticipi, posticipi, incapaci di frequentare i ristoranti giusti e morti postumi.

[La rubrica continua, col diario di Francesco Savio, su Quasi Rete.]

sabato 3 novembre 2012

Il Guerino, decenni or sono, è stato il primo giornale a dare la voce a lettori senza voce (il famoso “Dite la vostra”), e altrettanto innovativo è stato quando Gianni Brera iniziò a rispondere su politica e letteratura nella rubrica “La bocca del leone” e tanto più quando Luciano Bianciardi, pur di rispondere sugli argomenti che più gli premevano, non esitava a scriversi le lettere da solo firmandole coi nomi dei suoi amici celebri. Oggi il Guerino potrebbe sforzarsi di essere altrettanto innovativo togliendo la voce ai lettori in un mondo in cui, grazie all’appiattimento virtuale, chiunque si sente in diritto, anzi dovere, di dire dovunque la propria su qualsiasi argomento senza filtro.

Su Qwerty, il blog di Tempi che recensisce i giornali, continua l'operazione di scandaglio del centenario del Guerin Sportivo.

giovedì 1 novembre 2012

Sempre innovativo dal versante semantico e grafico, il Guerino perseguiva la sintesi anche scioccante quando gli altri giornali ancora si arrabattavano ad arrampicarsi sulla retorica asperrima: il titolo per il primo scudetto della Roma fu “R42”, ed era appunto il 1942; quello per l’Inter di Foni fu “El gh’è!”, ed era il 1953. Poi, con l’evoluzione dei tempi e dei modi, i titoli lasciano perdere lo sperimentalismo e si fanno più graffianti, in un’Italia codina e ossequiosa: quando il Bologna del 1964 è coinvolto nel sospetto di doping, il titolo è “La pipì addosso”.

Il web rende omaggio alla carta: piccola storia di cent'anni di Guerin Sportivo su Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport.

martedì 30 ottobre 2012

Per fugare ogni dubbio, occorre controllare il paginone centrale: se c’è una signorina piegata in tre – la pagina, non la signorina, anche se occasionalmente le due circostanze possono coesistere – avete indubbiamente in mano Playboy.

Playboy Italia compie quarant'anni e Tempi festeggia la ricorrenza ripescando la mia recensione al primo numero della nuova edizione italiana, l'ormai lontano gennaio 2009. Attendo di essere invitato alla festa di compleanno.

lunedì 29 ottobre 2012

Finalmente domenica!
Nona giornata, 28 ottobre 2012

Da ieri la mia vita è cambiata radicalmente perché, con mossa ardita e impreveduta, ho deciso di partecipare al concorso per la selezione di ben dodici professori di storia e filosofia a tempo indeterminato nei trienni dei licei lombardi. Iscriversi alla selezione è facilissimo, e infatti lo raccomando a chiunque sia in cerca di valido passatempo: anzitutto bisogna essere laureati da dieci anni, ma non da nove; dopo di che bisogna ricuperare la Gazzetta Ufficiale del 25 settembre 2012 nella quale si trovano tutte le istruzioni, comprensive di una trentina di pagine di allegati di varia risma; una volta tradotte tali istruzioni in italiano, bisogna accedere al sito del Ministero dell’Istruzione e richiedere di iscriversi alla presentazione di istanze online; effettuata questa richiesta, si riceve una mail con una password, un codice temporaneo diverso dalla password ma parimenti anti-intuitivo e un modulo da stampare; una volta stampato questo modulo bisogna compilarlo, accludervi fotocopia di carta d’identità e tessera sanitaria e presentarsi in un liceo per farsi riconoscere; a quel punto si riceve una nuova mail, in cui viene scritto che il vecchio codice temporaneo è scaduto e bisogna sostituirlo con un codice temporaneo nuovo; bisogna altresì giurare solennemente di non allontanarsi dal proprio computer ad accesso effettuato e di non utilizzare come password la parola “qwerty”. Una volta espletate queste formalità preliminari, si può iniziare a pensare a iscriversi al concorso per la selezione di ben dodici professori di storia e filosofia a tempo indeterminato nei trienni dei licei lombardi.

Un’ulteriore complicazione è data dalla compiuta informatizzazione della presentazione dell’istanza, tale che per garantire ai partecipanti di non perdere i propri dati virtuali il Ministero dell’Istruzione richiede loro di scegliere una domanda standard a risposta aperta da utilizzarsi come grimaldello per ottenere, qualora la si fosse smarrita, una nuova password – da non confondersi col codice temporaneo, sia esso quello vecchio o quello nuovo. È presumibile che, onde garantire la sicurezza degli iscritti al concorso (o, meglio, alle formalità preliminari per la presentazione delle istanze online eccetera eccetera), il Ministero dell’Istruzione abbia telefonato ai Servizi Segreti e abbia detto: “Servizi Segreti, come possiamo garantire la sicurezza degli iscritti alle formalità preliminari eccetera eccetera?”. Ecco il ponderato responso del Copasir: fra le opzioni per la scelta di tale domanda spiccano il cognome di vostra madre, il film che non smettereste mai di vedere e la data di nascita della vostra fidanzata. Questo è chiaramente discriminatorio nei confronti di chi non ha la fidanzata, oltre che di chi guarda solo film zozzi e non ricorda il cognome di sua madre. Sto trascorrendo infatti l’intera giornata odierna a telefonare alle amiche più dimenticate chiedendo come alle medie inferiori: “[Omissis], ti vuoi mettere con me? Mi serve per fare il concorso”. Una discreta percentuale di esse ha risposto di sì, pertanto ho chiesto loro di spedirmi una scansione della loro carta d’identità. In un caso mi è stato chiesto di fare lo stesso perché anche l’interlocutrice aveva necessità di iscriversi alle formalità eccetera eccetera per la selezione di eccetera eccetera dei licei lombardi.

Per fortuna il Ministero dell’Istruzione fornisce indicazioni estremamente dettagliate – su un file pdf scaricabile in parte prima di e in parte dopo avere presentato domanda per l’accesso alle istanze online – su come procedere al passaggio successivo: io infatti leggendo che, onde proseguire la registrazione della domanda per la presentazione di istanze online onde poter concludere l’iscrizione alle formalità preliminari di adesione alla partecipazione al concorso per la selezione di numero dodici professori di storia e filosofia a tempo indeterminato nei trienni delle scuole superiori della Lombardia, bisognava presentarsi in un liceo e farsi riconoscere, mi ero a stento trattenuto dall’andare al Liceo Classico [Omissis] di [Omissis] e toccare il culo alle minorenni, ruttare in faccia al preside e dichiarare sotto giuramento che se proprio non si può istituire la pena di morte bisogna quanto meno ripristinare i lavori forzati, non prima di avere cantato la canzoncina dei Wahha Put-hanga che ormai ascolto ogni giorno prima e dopo i pasti (nel mio caso, cinque). Invece si tratta più modestamente di presentarsi nella segreteria di una scuola statale, porgere il documento ricevuto nella mail di cui al primo paragrafo, debitamente compilato ma non firmato, consegnare la tessera sanitaria onde desumerne il codice fiscale, consegnare la carta d’identità, spiegare che non ho avuto il tempo di farmi la barba, spiegare che sono ingrassato perché colgo ogni occasione per mangiare pur di ascoltare prima e dopo i pasti la canzoncina dei Wahha Put-hanga, attendere che l’applicato di segreteria inoltri la certificazione virtuale al Ministero dell’Istruzione, trattenersi dal toccare il culo alle minorenni di passaggio, ricevere la mail di avvenuto riconoscimento virtuale, cambiare il vecchio codice provvisorio con il codice provvisorio nuovo, non scegliere “qwerty” come password, cominciare la procedura di autocertificazione dei titoli valutabili per l’iscrizione alla selezione eccetera eccetera nei trienni dei licei lombardi, non allontanarsi mai dal proprio computer acceso pena la squalifica, attendere fiducioso la data del concorso. Arriverò tredicesimo e mi consolerò con un bicchiere di Stock84.

[A grande richiesta si trova anche sul sito di Tempi, accompagnato da adeguato videoclip della canzoncina dei Wahha Put-hanga. Il resto della rubrica, opera di Francesco Savio, è reperibile come sempre su Quasi Rete]

lunedì 22 ottobre 2012

Finalmente domenica!
Ottava giornata, 21 ottobre 2012


Io continuerò a tenere al Milan anche l’anno prossimo in serie B quindi proprio non capisco il manipolo di grettoni che s’è fatto rimborsare l’abbonamento a San Siro dopo che la società aveva venduto Thiago Silva e Ibrahimovic. Me li vedo costoro al bar, stamattina, a pontificare che loro l’avevano detto e che era meglio se Galliani vendeva al Paris Saint-Germain anche i tifosi. Trent’anni fa, dico, in situazione analoga un atteggiamento del genere sarebbe parso improponibile, oggi è nell’ordine delle cose: ci siamo abituati a voler sfasciare tutto ciò che non funziona e non è un caso che oggidì riscuotano successo i Rottamatori di Renzi, i Formattatori di Cattaneo, gli Scassatori di Maroni e così via.

L’impeto più diffuso su scala nazionale è ora come ora l’azzeramento, che raggiunge vertici inattingibili nel non infrequente caso dei milanisti di destra, che sognano di sistemare le cose in cotal guisa: la Santanché al posto di Galliani, Galliani al posto di Maurizio Pistocchi, Sacchi premier di una grande coalizione che escluda l’Olympique Marsiglia, Sallusti direttore di Forza Milan, Pellegatti in galera, Pato al Grande Fratello (“Ma non lo trasmettono più!” “Appunto”), primarie a novembre per decidere il nuovo allenatore, ritorno alla lira e alla Coppa dei campioni aperta solo alle vincitrici di campionato ma con un’apposita wild card per tutte le squadre che siano state campioni d’Europa sette volte, fondate da un inglese e tifate da Beppe Viola.

A questo punto propongo anch’io una soluzione benché più moderata: lasciare il Milan così com’è (tanto continuerò a tifare anche fra due anni in Mitropa Cup – “Ma non la organizzano più!” “Appunto”) e concentrarmi sul centrodestra, il cui unico possibile leader mi sembra… “Oscar Giannino!”, diranno subito i miei piccoli lettori. No, avete sbagliato: Veronica Pivetti. L’altra sera infatti ero a teatro e c’era la Pivetti impegnata con Isa Danieli in un avanspettacolo fondamentalista che in sé non era gran cosa ma che mi ha fatto pensare quanto segue. Il problema della politica (come del calcio) in Italia è che negli ultimi vent’anni è diventata sempre più assertiva e sempre meno allusiva: questo ha portato a un progressivo inabissamento stilistico e a un inevitabile imbarbarimento della contrapposizione. Beppe Grillo è volgare perché pretende di dire le cose come stanno ed è ingannevole perché quasi mai la verità coincide col nudo elenco dei fatti; è sempre il contesto che dà senso al testo.

Io non lo sapevo ma invece la Pivetti è proprio brava nel tenere il palcoscenico quando si tratta di essere allusiva anziché assertiva: ovvero quando non deve comunicare un contenuto (cioè recitare) ma creare un’atmosfera che lo lasci intuire, com’è proprio dell’avanspettacolo. Grazie a questo talento riesce a cantare con disinvoltura e senza creare irritazione pezzi che affrontano argomenti scabrosi quali finire a San Vittore o cacarsi addosso a Montecarlo – risultando perfino più convincente di Isa Danieli che cantava in napoletano Vincenzina e la Fabbrica: “Zero a zero anche ieri ’stu Milàn ccà, ’stu Rivera che ormai nun me segna cchiù…”. Fieramente lombardocentrica (di questi tempi, poi) e capace di riscuotere il plauso delle tribù progressiste, la Pivetti mi sembra la persona più indicata a garantire l’equilibrio fra preminenza della macroregione settentrionale e indipendenza dallo straniero. In particolare la Pivetti l’ho trovata sublime nel ripescaggio di un pezzo di Walter Valdi, I Wahha Put-hanga, che in due minuti scarsi riesce a offendere mortalmente e gratuitamente i negher del menga, le donne (siano esse obese o bislunghe), gli impotenti e i cü.

In Inghilterra per una cosa del genere si va in galera, credo. Prima di diventare anche noi come gli inglesi e vivere nell’ossessione di dover far bella figura in salotto, magari potremmo tentare la strada di un avanspettacolo politico fondamentalista e allusivo, in cui non sia disdicevole esprimere in modo ironico ma fermo idee tradizionali politicamente scorrette, né essere consapevoli che non è possibile accontentare tutti né accontentarsi di tutto, né essere orgogliosi di tenere a una squadra che perde. Io, tanto per cominciare, anche se l’avanspettacolo della Pivetti sostituiva all’improvviso Il Dolore di Marguerite Duras con Mariangela Melato, mica ho chiesto indietro al teatro Fraschini i soldi dell’abbonamento.

[L'intervento gemello di Francesco Savio si trova come sempre su Quasi Rete.]

lunedì 15 ottobre 2012

Finalmente domenica!
Sosta per Armenia e Danimarca, 14 ottobre 2012

Ho sentito qualche maligno proferire: “È uscito il nuovo romanzo di Paolo Giordano; ci hanno messo cinque anni a scriverglielo”. Ho sentito qualcun altro argomentare che, essendo uscito un ulteriore libro di Francesco Totti, questi ha ormai più titoli di me per concorrere all’abilitazione nazionale da docente universitario. Ho pensato che di o su Lance Armstrong è uscito a tutt’oggi un fottio di libri, in America e in Francia e in Italia, e ho immaginato autori ed editori intenti a cambiarne il finale, a smussarne affermazioni troppo entusiastiche, a cancellarne le parti in cui si diceva che la sua storia era un esempio per tutti gli ammalati. Ho concluso che l’editoria – in Italia, in Francia e pure in America – è sovente fatta da persone incapaci di prevedere il futuro di là dalla propria nuca, altrimenti sarebbero state in grado di scrivere, in tutti i volumi gialli usciti su Armstrong nell’ultima dozzina d’anni, che già nel 1999, sulla salita del Sestriere, era evidente ciò di cui tutti avrebbero finto di accorgersi a 2012 inoltrato, quando sarebbe stato troppo tardi: le vittorie celebrate, la gloria archiviata, i proventi pappati, gli ammalati ingannati, le mogli bionde cambiate in numero di tre, più o meno una ogni due Tour vinti. Ho pensato che è bene lasciare un enorme buco nell’albo d’oro a futura memoria ma che si potrebbe assegnare d’ufficio a Pantani la vittoria nei Tour del 2004 e 2005, per avere pagato con la vita colpe sulle quali in America si sbevazzava a tradimento. Ho notato che l’ipocrisia generale degli ultimi tredici anni ha fatto sì che alla delinquenza di Armstrong fossero dedicate lenzuolate e al ritiro di Alessia Filippi un trafiletto appena, quando invece sarebbe stato più giusto l’inverso: quattro parole per Armstrong (“ciò che già sapevamo”) e lenzuolate di elucubrazioni sulla Filippi. Ho scoperto di non essermi reso conto che la Filippi fosse così giovane, venticinque anni addosso e sette meno di me che a stento mi reggo a galla. Ho ritenuto che il suo indubbio talento natatorio fosse stato in qualche modo oscurato dal non avere mai fatto pubblicità alle bollette o ai biscottini. Ho capito che la vera soddisfazione dell’agonismo non è la vittoria, foss’anche per sette anni consecutivi, ma la sera in cui vai a coricarti sapendo che al mattino dopo non dovrai farlo più. Ho meditato sulla differenza fra chi si ritira vecchio a pancia piena, accortosi che per bravura o per inganno non avrebbe potuto combinare di più in carriera, e chi chiude il rubinetto da giovane, per scelta consapevole, pur sapendo di non avere bevuto tanto quanto ci si aspettava in relazione al talento e di potere, un giorno futuro, avere ancora sete. Ho immaginato Alessia Filippi che torna a casa e non deve più pensare a tempi o bracciate perché ha scelto di essere una persona normale. Ho dedotto che oggi come oggi un suo libro che spieghi perché e percome sarebbe trenta volte più interessante di tutta la bibliografia di e su Armstrong e perfino dei libri di Totti, per tacere di Paolo Giordano. Ho rimpianto di non avere il numero di Alessia Filippi perché le avrei scritto questo messaggino: “Auguri, bella pesciolona. La tua vita inizia domani; finora era solo allenamento”.

[L'altra metà della rubrica, quella di Francesco Savio, si trova su Quasi Rete.]

sabato 13 ottobre 2012

Anche se il lettore non volesse accorgersene, la coerente impostazione editoriale che trasforma il giornale in libro è evidente dalla scelta delle foto, impaginate in maniera tale da scandire l’evolversi del ragionamento attorno al Concilio secondo un evidente criterio di unità stilistica che va oltre la diversa identità dei fotografi (Fusar, Barbey, Pallottelli, Dolcetti e Fedele Toscani). Parte dell’apparato iconografico sembra fatto apposta per eternare in alcune espressioni la pochezza umana di fronte agli affari interni dello Spirito Santo: il volto ottuso di alcuni fedeli; la mossa vezzosa di un francescano in posa; il rictus del presidente francese Vincent Auriol; il disagio di Fanfani in alta uniforme; lo sguardo smarrito di Leone di fronte a una cerimonia di cui non riesce a prevedere la durata.

Su Qwerty, il blog di Tempi che recensisce i giornali, oggi è il turno del numero sul Concilio Vaticano II de L'Europeo. Ospite d'onore, Luigi Barzini junior.

lunedì 8 ottobre 2012

Finalmente domenica!
Settima giornata, 7 ottobre 2012

Ieri sera il treno da Porta Venezia a Pavia ha accumulato un ritardo pari all’intero tragitto quindi ho avuto tutto l’agio di leggere un libro che avevo comprato per caso, curiosità e sbaglio essendo stato tratto in inganno dal titolo Questioni delicate che ho affrontato dall’analista, o cose del genere. Non ricordo l’autore. Fatto sta che leggendo leggendo mi sono imbattuto nell’unica frase che meritasse di essere ricordata, in realtà un dialogo: “Quand’è che la gente smette di fare quello che fa perché ci crede e continua a farlo per i motivi più strani?” “Credo verso i trent’anni”.

Sarà che fra un paio di mesi ne compio trentadue ma nel preciso istante mi sono reso conto che avevo appena passato l’ora più gradevole della settimana, a casa di savio a guardare una replica di Mai Dire Gol risalente al dicembre 1998. Guardare la tv al sabato pomeriggio, una cosa che non facevo dai tempi del liceo, appunto quell’anno lì. Guardare Mai Dire Gol e accorgermi che quindici anni fa, ma anche venti, era ancora possibile parlare di calcio a un livello diverso; non solo più alto semanticamente e creativamente ma proprio in senso letterale, ossia su un piano differente rispetto al modo uno e trino nel quale il lessico sportivo viene declinato oggidì da Sky, Mediaset Premium e Rai Sport (senza dimenticare Sportitalia). Fate conto che avevamo appena finito di guardare un minuto del campionato di pallavolo, con Antinelli & Lucchetta che si profondevano in commenti di questo tenore: “Fiore muove le braccia a tergicristallo e deposita non un petalo ma un cactus nel campo avversario”. L’alternativa era continuare a guardare la replica a oltranza di Wellington-Sidney.

E così Mai Dire Gol, visto con gli occhi stanchi di oggi, sembra un miracolo di felicità stilistica tanto quanto mi sembra miracolosa l’ipotesi, l’involontario ricordo, la madeleine dei pomeriggi del liceo in cui o guardavo la tv o facevo i compiti o leggevo e scrivevo senza che nulla mi pesasse addosso, vivendo insomma con la stessa felicità stilistica per la quale la Gialappa’s Band riusciva a rinchiudere in una sola inquadratura Crozza, Bisio, Gioele Dix e la Littizzetto senza far pensare che stessero esagerando. La stessa, grossomodo, che ho visto nei gesti bensì impacciati di un giovane ex calciatore, che per convenzione chiameremo Mimmo, mentre tentava di aprire il portone di un albergo con un’impaziente amica di fianco. Ecco, io nel 1998, ma anche nel ’97 e nel ’96, facevo cose nell’incrollabile consapevolezza che mi avrebbero portato, un giorno, alla gloria al denaro al successo e all’opportunità di portarmi in albergo chi mi pareva come l’ammirevole invidiabile Supermimmo. La prospettiva mi allettava e la fatica svaniva; facevo tutto ciò che facevo perché mi piaceva e ci credevo. Oggi so che gloria e successo non sono arrivati, i soldi men che meno, in albergo ci vado da solo, vorrei vivere nel 1998 perpetuo, ho passato i trent’anni e continuo a fare cose per i motivi più strani, che non mi sono del tutto chiari.

[Il resto della rubrica, con la metà di Francesco Savio, si trova su Quasi Rete.]

lunedì 1 ottobre 2012


Ieri mattina, all’angolo fra corso Cavour e via XX Settembre, una ragazza mi ha fermato mentre stavo andando dalla libreria alla biblioteca e mi ha chiesto: “Ciao! L’ultimo libro che hai letto?”. Trattandosi di una di quelle importune scritturate per procacciare sottoscrizioni di abbonamenti a un qualche club del libro da parte di ignari passanti, l’ho squadrata sì con mestizia ma anche con malcelato disprezzo verso il suo mestiere, i suoi modo e la sua persona, e le ho risposto: “Io lavoro coi libri, non ti conviene”. Avrà capito che faccio il libraio, o forse il rappresentante di un club del libro rivale, e l’ho lasciata lì coi suoi moduli in mano sotto la pioggia battente.

Al pomeriggio, mentre guardavo su Rai3 la pioggia battente che cadeva sul Giro di Lombardia perché erano saltate le immagini dei corridori, e mentre mi chiedevo se valesse la pena di stare a guardare le gocce televisive sull’asfalto del Lungolario di Lecco anziché quelle che dal vivo bagnavano i circostanti tetti di Pavia, mi sono reso conto che se fossi stato onesto avrei dovuto così rispondere all’ignota imbonitrice:

“L’ultimo libro che ho letto, finito appena ieri, è The Devil’s Dictionary di Ambrose Bierce, nell’edizione (Penguin, Harmondsworth, 1971, non in vendita negli Stati Uniti e in Canada) che include anche le voci scoperte da Ernest Jerome Hopkin e presenti nel periodico ottocentesco sanfrancischese “The News Letter” ma non nell’edizione in volume del 1911. Questo pomeriggio, compatibilmente con gli impegni di passività ciclistica e calcistica, ho invece la ferma intenzione di iniziare Putain di Nelly Arcan (Seuil, Paris, 2001), una mondana quebecchese versata nello stream of consciousness. A dire il vero, per insindacabili questioni di lavoro, sto leggendo anche I progressi della ragione: vita di Pietro Verri di Carlo Capra (Il Mulino, Bologna, 2002), il Dictionnaire portatif des Conciles di Pons-Augustine Alletz (Paris, chez la veuve Didot, 1758) , l’Istoria del Concilio di Trento del cardinale Pietro Sforza Pallavicino (Roma, 1657) e soprattutto l’Istoria del Concilio tridentino di Pietro Soave Polano alias Paolo Sarpi, non già nell’edizione originale londinese del 1619 ma nella traduzione francese di Giovanni Diodati sotto il titolo Histoire du Concile de Trente eccetera eccetera (Genève, chez Chouet, 1635, seconda edizione).

“Devo però ammettere che con l’andare del tempo leggo e sottolineo e glosso sempre più meccanicamente e svogliatamente e faticosamente perché, anziché pensare a cosa c’è scritto, sempre più spesso mi sorprendo a riflettere così poniamo caso che gli editori delle opere di Voltaire taglino tutte le mie note a pie’ di pagina per ragioni di spazio, che i giornali smettano d’emblée di pubblicarmi, che i pamphlet che ho già pronti da tempo (uno dei quali con contratto regolarmente sottoscritto e regolarmente disatteso dall’editore) restino a furia di promesse vaghe eternamente rinchiusi nel mio computer, e che non riesca nemmeno a pubblicare uno straccio di romanzo come un Carofiglio qualsiasi; allora, nel caso, avrei ancora bisogno di libri? Nossignora, dico io, avrei piuttosto bisogno di comprare uno specchio, bello, nuovo, ampio e luminoso, così da poter alfine passare il resto dei miei giorni a sputarmi in faccia, manco fossi Zdenek Zeman”.

[La rubrica completa, con la metà di Francesco Savio, si trova come sempre su Quasi Rete.]

venerdì 28 settembre 2012

Alcuni sostenitori della rete hanno tutto il diritto di sostenere che l’assoluta libertà garantita da internet grazie all’assenza di ogni sbarramento d’accesso e alla sospensione dell’identità individuale sia un segno del più auspicabile progresso. Nessuno d’altronde può impedire agli appassionati di motorizzazione di sostenere che sarebbe un mondo più emozionante quello in cui degli psicopatici senza patente né targa si lanciassero sui marciapiedi a fari spenti nella notte.

Su Tempi in edicola questa settimana (n.39, in copertina la Brambilla, Schifani e dei beagle) un mio lungo articolo in cui prendo in giro il popolo di internet, cioè voi.

martedì 25 settembre 2012

Il terzismo, persa ormai la spinta propulsiva e diventato istituzione, è stato insufflato nel modus scribendi dei corrieristi e in particolare è stato colto dai titolisti. Se per assurdo durante la giornata uno avesse il tempo di leggere solamente i titoli delle 72 pagine del Corriere ricaverebbe soprattutto sensazioni vaghe. Perché? Ma perché il terzismo s’è fatto prudenza e s’è trasformato in segni grafici ben precisi: le parentesi, entro le quali un inciso contraddice in parte quello che è scritto nel resto del titolo; il “ma”; il “non” sempre fra parentesi; la disgiunzione “o”, “oppure”; le virgolette attorno a parole potenzialmente letali; il fermo “no a” qualcosa che tutti già rifiutano; il punto interrogativo in coda.

Analisi grammaticale ma soprattutto logica del Corriere della Sera su Qwerty, il blog che recensisce i giornali su Tempi.it

lunedì 24 settembre 2012

Finalmente domenica!
Quarta giornata, 23 settembre 2012


“Se Gesù tornasse oggi a Pavia, come minimo dovremmo dirlo a tutti”, ipotizza durante l’omelia di mezzogiorno il parroco del Carmine. Come proceda oltre la sua fervida immaginazione non è dato sapere perché repentinamente passa a riferire del musical su Madre Teresa di Calcutta che hanno allestito ieri nell’oratorio; tanto più sta male alzare la manina e porre domande durante la predica, ragion per cui devo tenere per me alcuni dubbi che avrei voluto obiettargli. Tanto per cominciare, se Gesù tornasse a Pavia di domenica non troverebbe nessuno: chi può permetterselo scappa al mare o in collina; gli studenti, che costituiscono un buon quarto della popolazione complessiva, al fine settimana si rifugiano dai genitori; le persone perbene, affacciandosi da un lembo di tenda o rifugiandosi dietro i citofoni, gli urlerebbero che di domenica le persone perbene restano a casa propria.

Se decidesse di tornare di giorno feriale, non gli andrebbe tanto meglio. La Provincia Pavese, nota per annunziare gli eventi sbagliando abitualmente o la data o il giorno o l’orario, stante l’eccezionalità della circostanza si concentrerebbe e sbaglierebbe la data, il giorno e l’orario. Se decidesse di palesarsi alle 21, gli direbbero che non verrebbe nessuno perché a quell’ora la gente è stanca e non ha voglia di uscire di nuovo dopo cena. Se decidesse di palesarsi alle 18, gli direbbero che non verrebbe nessuno perché a quell’ora la gente o lavora o cerca di riposarsi un po’ prima di cena. Se decidesse di palesarsi in Duomo, gli direbbero che casca male perché lo riapriranno fra due settimane abbondanti: “Ora come ora è chiuso per restauro”. “E da quando?” “Dal 1998”.

Se tornasse a Pavia oggi, non potrebbe nemmeno mangiare come fece sulla via di Emmaus perché di domenica la grande maggioranza di ristoranti e bar resta chiusa; potrebbe tutt’a più prendere un kebab o azzardare un brunch a prezzo esorbitante in una tavola calda americana, ma a questo punto bisognerebbe spiegargli cos’è il brunch (“Mangiare a cazzo di cane” era la traduzione di una mia valida fidanzata) e soprattutto cos’è l’America: “È l’Impero Romano, però da un’altra parte”. “E perché è governata da un Numida?”. Se non altro, scorrendo distrattamente le notizie, potrebbe rallegrarsi apprendendo che a Roma ci si veste grossomodo ancora come ai tempi suoi.

Se riparasse in camera mia, mi troverebbe sul divano a guardare i Mondiali di ciclismo tutto ammirato dall’intrinseca crudeltà di una corsa che in un sol giorno assegna una maglia che vale tutto l’anno e tuttavia, dopo sette ore e più di duecentocinquanta chilometri, premia quasi inevitabilmente il contendente più meritevole o il più sagace. Dopo avergli illustrato cos’è la bicicletta (l’asino a pedali) gli farei notare come la cattolicissima Spagna non s’è fatta scrupolo di perdonare i suoi campioni dall’etica più periclitante e li ha convocati per la partenza, ricavandone così una bella corsa benché non vittoriosa. Noi italiani invece, sempre ansiosi di dimostrare che la nostra cacca non puzza, stiamo diventando ad ampie falcate una nazione protestante e a furor di popolo abbiamo lasciato a casa quasi tutti i verosimili aspiranti se solo erano in odore di sospetto preventivo, col risultato di mettere insieme una nazionale abborracciata fra giovani promesse e vecchie glorie, che ha raccolto ben magro risultato. A questo punto mi chiederebbe: “Ma, precisamente, questi protestanti cosa sono?”.

Sarebbe la smentita della vecchia parabola indifferentista di Anthony De Mello. Gesù va a guardare una partita fra cattolici e protestanti; segnano prima i cattolici, ed esulta; pareggiano nella ripresa i protestanti, ed esulta; uno spettatore lo guarda e considera a mezza bocca: “To’, un ateo”.

[La metà di Francesco Savio si trova su Quasi Rete.]

lunedì 17 settembre 2012

Finalmente domenica!
Terza giornata, 16 settembre 2012

Ho abbastanza Festival Filosofia alle spalle e sulle spalle – il primo, da turista, risale al 2004 mentre l’ultimo, da rotellina del marchingegno, risale a oggi – per sapere che il problema non è lavorare di domenica ma svegliarsi al lunedì. So che il fine settimana del Festival è una lunga giornata di settantadue ore in cui si sta in piedi sull’adrenalina mentre si continua ad andare su e giù per Modena: e vai all’albergo a prelevare Lecaldano, e vai in Piazza Grande a presentare Ferraris, e vai a Sassuolo a presentare Niola, e vai a cena con l’assessore, e telefona a Lash, e intervista Searle, e affianca la Rai, e riporta in albergo Bauman, e ricordati di mangiare qualcosa e dormire un po’ negli interstizi. Conosco ogni segreto della sopravvivenza e tutto ciò non mi crea problema perché mi piace e mi diverte, è il cibo che solum è mio et ch’io nacqui per lui; e inoltre a Modena ho trascorso (sempre più tempo fa) gli anni più belli della mia vita quindi ho contratto un debito di riconoscenza nei confronti della città e delle persone che organizzano il Festival; e per soprammercato la zona mi attrae, Modena è la mia patria dell’anima e dopo avere visitato per bene il Palazzo Ducale non capisco perché gli italiani si ritrovino ad andare in vacanza alle Maldive o in Patagonia anziché a Sassuolo. E mai come quest’anno, dopo che è successo quello che è successo, io e i miei colleghi sparsi per l’Italia e per l’estero, dal Regno Unito alla Calabria, abbiamo voluto essere presenti e partecipi e portare come formiche la nostra mollichina al Festival; e quando abbiamo saputo che sabato pomeriggio, in occasione della lezione magistrale di Cacciari, sarebbe stata riaperta al pubblico dopo tre mesi e mezzo Piazza Martiri di Carpi ci siamo sentiti come se l’avessimo fatta riaprire un po’ anche noi, sebbene a essere onesti non c’entrassimo gran che.

Il lunedì invece, il lunedì è tutt’altra musica. Tutto il contrario di Zanardi che in un’intervista a Gino Cervi aveva detto che non gli piaceva tanto la felicità della domenica quando vince la gara quanto la felicità del lunedì quando ricominciava ad allenarsi; io, tutto il contrario. Il Festival tramonta, il lunedì incombe e io so che mi sveglierò tardi (lo detesto), col mal di gambe (non lo apprezzo), col mal di schiena (più del consueto), con l’obbligo di liberare entro le 11:30 la camera d’albergo, senza più i buoni pasto offerti dal Consorzio per il pranzo alla caffetteria dei Musei e la cena alla Bicicletta in Sant’Eufemia, senza più il tesserino che mi fregiava il petto consentendomi di farmi strada dovunque volessi a colpi di sguardi truci, con la sola prospettiva di passare la giornata a guardare palchi e tensostrutture che vengono smontati mentre il mal di gambe aumenta e il mal di schiena pure e l’intenzione di restare a godermi Modena fino al pomeriggio lascia pian pianino strada alla consapevolezza che la cosa più intelligente a farsi è salire sul primo treno per la Lombardia e andarmene prima di pranzo pensando che nel frattempo, proprio mentre faccio la valigia e me ne vo, in tutta la provincia di Modena stanno riaprendo le scuole che erano state chiuse in primavera a colpi di calcinacci, e concludendo che quindi, magone nonostante, io me ne andrò ma Modena resta.

[L'altra metà della rubrica si trova su Quasi Rete.]

giovedì 13 settembre 2012

Come già da qualche anno, anche questo fine settimana il Festival Filosofia di Modena/Carpi/Sassuolo si avvarrà della mia abbagliante bellezza. Nel dettaglio, venerdì 14 sarò a Sassuolo, dove presenterò alle 10 la lezione di Eugenio Lecaldano su La ricchezza delle nazioni di Adam Smith e alle 11:30 la lezione di Simona Forti su Vita Activa di Hannah Arendt. Sabato 15, sempre a Sassuolo, alle 20:30 presenterò la lezione magistrale "Natura morta" di Francisco Jarauta. Invece domenica 16, alle 11:30 presenterò in piazza Grande a Modena la lezione magistrale "La cosa in sé" di Maurizio Ferraris; a Sassuolo, nel pomeriggio, alle 15 presenterò Fulvio Carmagnola e Marco Senaldi che terranno una lezione magistrale intitolata "Ipermerce: la marca e il debito" mentre alle 16:30 presenterò la lezione magistrale "Oggetti potenti" di Marino Niola.

martedì 11 settembre 2012

Il vescovo irlandese George Berkeley sarebbe fiero di me, se non fosse morto da  duecentocinquantanove anni. Per chi ha frequentato liceo e università dopo la riforma Berlinguer, questo Berkeley è il filosofo che si trova sul manuale a mezza strada fra Locke e Hume e di solito non viene studiato perché la fine dell’anno scolastico incombe e il professore è indietro col programma. In più si tratta di poche pagine, sufficienti a esporre la sua teoria cardinale: esse est percipi, ovvero esistere coincide con essere percepiti; se vedo un oggetto, allora esiste; se non lo vedo, non posso dire che esista; per evitare di impazzire al pensiero che gli oggetti (che so, ad esempio il portafogli) svaniscano appena chiudo un attimo gli occhi, posso consolarmi concludendo che l’esistenza continuativa di ogni cosa è garantita dal fatto che Dio continua a guardare tutto, sempre, contemporaneamente.

Ebbene, liberissimi di non crederci, ma non potete fare a meno di Berkeley se volete capire Paolo Bonolis. Su Qwerty, il blog di Tempi.it che recensisce i giornali, è il turno del nuovo Tv Sorrisi e Canzoni.