Finalmente domenica!
Quindicesima giornata, 2 dicembre 2012
Finalmente oggi, a pagina 53 di Repubblica, si fa chiarezza su una questione epocale: un improvvido intervistatore ardisce dare del filosofo a Giovanni Reale, professore al San Raffaele e direttore della collana dei classici del pensiero occidentale per Bompiani, e questi risponde a bruciapelo: “Anzitutto non sono un filosofo ma uno storico della filosofia”. Parafrasando ciò che sosteneva un professore quando ero studente a Pavia, sarebbe come se l’intervistatore di Frank Dettori gli desse del cavallo e questi fosse costretto a specificare: “Anzitutto non sono un cavallo ma un fantino”. Dovrei ordinare un tot di copie di Repubblica di oggi da spedire alle mie corteggiatrici che per far colpo mi domandano: “E cosa pensa la filosofia dell’amore?” (o dell’oroscopo; o del destino; o della politica; o del fuorigioco passivo). Io invariabilmente rispondo: “E che ne so, io mi occupo di esegesi biblica nella filosofia francese del ’700. Al massimo posso dirti cosa pensa la filosofia del crollo delle mura di Gerico al suono delle trombe, o della natura del pesce che inghiottì Giona, oppure dell’ordine che il signore impartì a Ezechiele, ossia di mangiare un rotolo di pergamena, poi di legarsi con delle funi, poi di star coricato sul fianco sinistro per trecentonovanta giorni, poi di mangiare del pane condito con escrementi – al che il profeta reagisce impetrando di poter mangiare piuttosto dello sterco di vacca”, ma al che le indebite corteggiatrici sono altresì sparite e quindi non c’è bisogno di profondersi in dettagli.
La confusione fra “filosofo” e “storico della filosofia” è il sintomo che più mi è personalmente dannoso nella tendenza generalizzata a utilizzare un termine per un altro, volgarmente fischi per fiaschi. L’Italia è una repubblica fondata su varie cose, fra le quali l’utilizzo protervo di termini alla moda in spregio del loro significato. “Laico” è l’esempio perfetto, che non merita nemmeno di essere commentato. Il mio amico Camillo Langone aveva dedicato un intero ciclo sul Foglio a parolacce simili, tipo “migranti” o “escort”. “Matrimonio omosessuale” non si può sentire, se diventasse una legge dello Stato i primi a suicidarsi dovrebbero essere gli etimologisti perché “matrimonio” significa “protezione della madre”.
“Aiutino”, che sabato campeggiava sui titoli di parecchi quotidiani sportivi e no, è fra le peggiori. Viene dal mondo fatato dei quiz televisivi, denotando in positivo la differenza della versione italiana (cattolica, misericordiosa, inclusiva) rispetto al format anglosassone (protestante, spietato, esclusivo): se volevi vincere una certa somma potevi contare su un presentatore comprensivo, che si sarebbe fatto carico delle tue carenze davanti al notaio. L’aiutino ha poi sfondato nelle scuole patrie, non come materia ma quale metodo di studio: nella tendenza nazionale a considerare anzitutto gli alunni come figli di qualcuno (sovente i propri), li abbiamo automaticamente ritenuti vittime di intollerabili angherie e soprusi da parte di professori che pretendono di sapere l’anno esatto della morte di Kant, come se non la sapessero già per conto loro, come se questo vacuo nozionismo potesse contare qualcosa, come se Kant non fosse ancora fra noi grazie alla presenza viva delle sue opere – e così abbiamo preteso l’istituzionalizzazione dell’aiutino per favorire la retta formazione degli scolari coi risultati che abbiamo sotto gli occhi. Ciò nonostante, oggi ci indigniamo collettivamente stigmatizzando il famigerato aiutino quando viene assegnato un rigore a una squadra che, essendo decisamente più forte dell’altra, passa tre quarti d’ora a partita nell’area avversaria, oppure quando viene espulso il calciatore di una squadra proletaria perché ha cercato di abbattere a centrocampo un collega che guadagna il triplo di lui, magari per usargli la gentilezza di non farlo trattenere troppo a lungo in questa valle di lacrime.
Mercoledì sera non c’erano le coppe e ho guardato il dibattito fra Renzi e Bersani per decidere chi, nella prossima primavera, salirà al Quirinale per indicare in Monti il presidente del consiglio ideale. Lessicalmente s’è visto tutto il terrore del politico, ahimè non importa il colore né se indossi o meno la giacca, quando c’è da arraffare voti. Sulle prime, nelle fasi preliminari della schermaglia, s’è iniziato utilizzando termini che oltre al proprio significato concreto si dotavano di uno metaforico (il mandolino, il passerotto e il tacchino di Bersani, e il sensazionale refrain “segretario” con cui Renzi lo infilzava a ogni risposta) ma, quando il gioco s’è fatto duro e bisognava diventare convincenti per il popolo bue e asinello, alé si è passati a utilizzare termini che hanno significato metaforico ma senza averne alcuno concreto: “quote rosa”, “omofobia”, “femminicidio”. Mi aspettavo che da un momento all’altro passassero a “mezza stagione” e “partenza intelligente”. Se fossi stato Renzi, ma anche Bersani, a un giornalista che mi avesse chiesto: “Ma cosa pensa delle quote rosa?” avrei risposto: “Meglio un uomo oggi che una gallina domani”.
C’è in Italia una diffusa paura di utilizzare le parole, ragion per cui chi lo fa adeguatamente viene accusato di essere volgare o provocatore quando è solo una persona che di tanto in tanto si perita di aprire il vocabolario. Dicono gli inglesi che where ignorance is bliss, ’tis folly to be wise: tradotto, perché utilizzare una parola esatta quando la si può sostituire con una circonlocuzione sbagliata? S’è visto, anzi s’è sentito, anche ieri sera durante il commento al derby di Torino su Radiouno. Il cronista, parlando dell’errore di Pirlo dal dischetto, ha dichiarato: “Cantava De Gregori che non è certo un calcio di rigore che può inficiare la carriera di un giocatore”. Tutte le successive telefonate degli ascoltatori si accanivano su inezie dell’arbitraggio, e nessuno ha fatto notare che la metrica non tornava.
[Il resto della rubrica, con scottanti rivelazioni sull'acquisto di Francesco Savio da parte della Juventus, si trova come ogni lunedì su Quasi Rete.]