lunedì 26 novembre 2012

Finalmente domenica!
Quattordicesima giornata, 25 novembre 2012

Nelle intenzioni dei progettisti, il cosiddetto spezzatino dovrebbe servire a risolvere le serate del maschio italiano: Milan e Juventus domenica sera, Napoli e Inter lunedì sera, Lazio e Udinese martedì sera di modo tale da impedirgli di trascorrere ore e ore, nei giorni in cui la settimana è in salita, a guardare nel vuoto domandandosi se la propria vita ha un senso. (Di solito no).

Io però ieri ero a pranzo, per una complicata combinazione, dai nonni della fidanzata di un mio amico e c’era pure la sorella sedicenne di lei. Ora io non so se voi avete presente come sia fatta una sedicenne: sta lì in silenzio ad armeggiare col telefonino, un po’ ascolta un po’ no, mangia solo quello che le pare e guarda tutto come se fosse appena stato creato. Consiglio a tutti di avere una sedicenne per commensale, almeno una volta a settimana: vi lancerà certi sguardi speranzosi, vi sembrerà sul punto di lasciarsi sfuggire certe mezze parole, che vi sarà impossibile non accorgervi quanto vorrebbe essere al posto vostro, già cresciuta e pasciuta, a fare le piccole o medie cose quotidiane delle quali invece vi state lamentando. Non dirà una parola ma ve le farà sembrare nuove, e quasi belle. È come la tuffatrice che si sta appena staccando dal trampolino, che pensa solo a librarsi e alla quale non conviene dire che la caduta fa paura, l’impatto con l’acqua fa male e che a furia di bagnarsi ci si becca la polmonite.

Forse bisogna avere sedici anni per meravigliarsi di fronte al miracolo delle partite spalmate, che si sgranano e sembrano moltiplicarsi lungo la settimana, trasformando la routine in bendidio.

Io però ieri pomeriggio sono andato in piazza Vittoria ad assistere alla chiusura di una piccola libreria pavese indipendente che si chiamava Il Delfino e che per vent’anni è stata gestita da librai veri, ossia ai quali anche una persona di cultura accettabile come me poteva chiedere suggerimenti su cosa leggere o regalare ricevendo sempre la risposta esatta per ogni ramo dello scibile. Insieme a me c’erano altre persone, a occhio duecentocinquanta, forse trecento, per La Provincia Pavese addirittura quattrocento (per la questura, diciotto): ci siamo disposti uno di fianco all’altro – io vicinissimo all’ingresso della libreria in disarmo, primo fra i non librai – e di mano in mano ci siamo passati i libri contenuti nell’ultimo scatolone fino a che non li abbiamo fatti arrivare in piazza Cavagneria, un isolato più giù, dove ad attenderli c’era, giù pronta, una grande libreria pavese appena aperta che si chiamerà Il Delfino e che sarà gestita dagli stessi librai, miracolosamente. Abbiamo festeggiato a salame e champagne e abbiamo tutti comprato un libro di buon augurio: io, l’edizione SugarCo delle lettere di Joyce.

Forse i fautori dello spezzatino ritengono che ci si debba di tanto in tanto concedere una botta di vita e di novità, spostare il campionato da qualche altra parte, come voleva fare la Premier League organizzando una trentanovesima giornata nel lontano Oriente, oppure piazzando le partite in orari che sorprendano il pubblico, come uno che per abitudine passi da piazza Vittoria intristendosi perché non ricordava che la libreria era chiusa, o che poi passi per caso da piazza Cavagneria, rallegrandosi perché non si aspettava di ritrovarla riaperta.

Io però ieri sera, dopo una pizza salsiccia e scarola, mi sono messo a leggere Addio al calcio di Valerio Magrelli, con colpevole ritardo che ammetto senza meno, e anche con un certo senso di colpa perché qualche tempo fa, a Torino, una fonte più che affidabile aveva detto a Savio e a me: “Magrelli ha letto il vostro libro, pare che gli sia piaciuto, pare che vi farà una sorpresa”. Sono passati mesi e sono rimasto come l’uomo in albergo, che a letto sente cadere sul pavimento la scarpa dell’ospite della camera superiore e passa la notte insonne in attesa del rumore della seconda, mentre quello se l’è levata pian pianino per timore di disturbare chi dorme al piano di sotto. Mi aspettavo che da un momento all’altro io tornassi a casa, aprissi l’armadio e ne sbucasse Magrelli gridando “Sorpresa!”, oppure che Savio si chinasse sulla culla del piccolo incolpevole Pietro e vi rinvenisse Magrelli in posizione fetale, oppure che per strada, mentre passavo sotto le torri medievali dell’Università, mi planasse addosso Magrelli vestito da Batman, oppure che Savio un giorno mi telefonasse e dicesse: “Guarda, finora te l’ho tenuto nascosto ma in realtà io sono Magrelli; spero che comprenderai”.

Invece la sorpresa Magrelli me l’ha fatta con Addio al calcio, non solo perché è un bel libro ben scritto e ben infiocchettato, ma perché ha colto, senza conoscermi, la mia ossessione per i numeri di pagina, tale che alle volte mi deconcentro dal contenuto perché sono lì a controllare le cifre calcolando quanto tempo ho impiegato a leggere fin lì e quanto ce ne vorrà per leggere il resto. Ieri sera, a letto, ho scoperto che Magrelli ha scritto un libro senza numeri di pagina; o meglio, poiché l’Einaudi suole non inserire il numero sulle pagine in cui inizia un nuovo capitolo, e poiché il libro di Magrelli è composto di novanta capitoli in larga parte di un capoverso ciascuno, i numeri non appaiono quasi mai, con mia grande consolazione. C’è pagina 15, c’è pagina 22, e poi 28, 31, 34, 49,e poi più nulla fino a pagina 94, 95, 97, poi c’è pagina 103 e basta là.

Ecco, tanto per dire, in tutto questo, quanto poteva fregarmene che ci fosse Palermo-Catania.

[Il resto della rubrica, in cui Francesco Savio rivela di non essere Valerio Magrelli, si trova come sempre su Quasi Rete, il blog letterario e dadaista della Gazzetta dello Sport.]

domenica 25 novembre 2012

La storia della campagna elettorale è illustrata anche da una foto dei cinque candidati in attesa del dibattito negli studi di Sky, ognuno a suo modo: Tabacci sembra un calciatore del Subbuteo, la Puppato due, Vendola si frega le mani come il Mr Burns dei Simpson quando dice "Eccellente", Renzi con ogni probabilità sta ballando il Gioca Jouer e a Bersani manca solo una scarpa da sbattere sul tavolo.

Per capire le tante anime della sinistra niente di più indicato che leggere l'Unità il giorno delle primarie (e recensirla su Qwerty, il mio blog su Tempi.it)

lunedì 19 novembre 2012

Finalmente domenica!
Tredicesima giornata, 18 novembre 2012

Quando mi chiedono un parere sulle traduzioni, devo sforzarmi di non riferire un vecchio episodio di Topolino in cui viene inventata una colossale macchina di interpretariato universale. Di fronte a curiosi scettici, viene inserito in questo calcolatore un biglietto con la scritta “Lo spirito è forte ma la carne è debole” e di lì a poco si vede emettere un altro biglietto con la stessa frase in ittita, in accadico, in caratteri cuneiformi. Al che viene richiesta la controprova, inserendo nuovamente il biglietto illeggibile, e la macchina a sua volta restituisce un biglietto in italiano con su scritto: “L’alcol brucia ma la bistecca è tenera”.

Ieri ero stato chiamato al Bookcity di Milano presentare la nuova traduzione dell’Ulisse di Joyce fatta da Enrico Terrinoni per la Newton Compton e, forse per darmi credibilità qualora mi fosse saltato in mente di ripescare la faccenda della bistecca, gli organizzatori mi hanno inserito nel programma come “giornalista” benché non lo sia affatto. Allora, non potendo presentarmi abilmente camuffato da giornalista, ho deciso di barare presentandomi abilmente camuffato da intellettuale di sinistra, indossando con grande disinvoltura un completo di velluto beige a coste sopra un dolcevita scuro. Mi ero anche trattenuto dal radermi, come invece l’istinto e l’abitudine mi avevano suggerito e quasi imposto. Per fortuna la mia bellezza non dipende mai da tali scelte contingenti.

Il travestimento era coerente con quello che avrei detto, ossia che l’ideologia sottostante la traduzione di Terrinoni era la restituzione dell’Ulisse alle masse, per conseguire la quale aveva dovuto agire in due direzioni: tradurlo con un linguaggio più corrente e meno aulico, senza mostrare timore di strapazzare un classico ma stando attento ad accattivare il lettore col ritmo; dissotterrare dalle successive sedimentazioni di interpretazioni più o meno arzigogolate la trama basilare del romanzo che, benché molto diluito, contiene un messaggio di amore fra individui e di pace fra i popoli. Per parlarne senza sentirmi ridicolo, vestito così, avevo architettato un discorso ricco di ironie e sottintesi e concetti appena abbozzati per lasciarli acerbi al ragionamento degli astanti e credevo di avere fatto un buon lavoro fino a che, stamattina, non ho scoperto che mentre parlavo un signore ha diligentemente pubblicato su twitter una cronaca minuto per minuto di cosa dicevo; ma poiché twitter ha un limite massimo di caratteri per botta, ecco che tutte le cautele e le perifrasi e gli ammicchi che costituivano l’impalcatura del mio discorso erano andati a farsi benedire.

Ciò non è colpa del signore in questione, di cui ammiro la dedizione, né mia né tampoco di Joyce, o del completo di velluto con dolcevita. È solo che ormai per essere credibili come intellettuali di sinistra non basta vestirsi da sinistra e dire cose di sinistra; bisogna esprimere concetti che siano già pronti per essere infiocchettati in centoquaranta caratteri senza perdere alcunché e senza risultare urticanti per nessuno. Bisogna, diciamo così, saper andare incontro alla scatoletta; come i calciatori di oggi, che sembrano più bravi dei vecchi solo perché i telecronisti urlano di più.

Meno male che nessuno era presente col superfonino fra le mani quando, passando da piazza Fontana col mio abito beige di lotta e di governo, ho notato che uno dei vasetti sotto la lapide all’anarchico Pinelli era stato rovesciato dal vento, o da un cane, o da un passante scemo. Allora, col favore delle tenebre, sono avanzato nell’aiuola, mi sono accovacciato e l’ho raddrizzato credendo di far culminare così la serata da vero uomo di sinistra, certo che l’abito facesse il monaco. Poi, sul treno suburbano per Pavia, mi sono accorto che mi ero ingannato e che aveva vinto l’imprinting di cattolico reazionario. Raddrizzare ciò che è storto è un atto da nevrotici di destra, tanto da essere finito in una supplica allo Spirito Santo: flecte quod est rigidum, fove quod est frigidum, rege quod est devium. La bistecca è tenera.

[Il resto della rubrica, opera di Francesco Savio, si trova come sempre su Quasi Rete.]

sabato 17 novembre 2012

La lettura di Repubblica è un atto sempre più simile alla distratta presenza fra i banchi di una chiesa: lo si fa un po' perché ci si crede confusamente, un po perché non si ascolta, un po' per tacitare la coscienza, un po' perché bisogna farsi vedere.

Sul numero di Tempi in edicola questa settimana recensisco un'intera settimana di Repubblica, trattando il quotidiano per quel che è: liturgia della parola. (Disponibile anche su Tempi.it)

venerdì 16 novembre 2012

C'è una parolina che ho cercato e ricercato nel testo di un articolo recentemente apparso sul Guardian, nonché fra i 215 commenti che ha causato fino al momento in cui scrivo, ma non c'è stato verso di trovarla.

Prima di svelare la misteriosa identità della parolina è però necessario fornire un minimo di contesto. Pochi giorni fa David Petraeus s'è dimesso dal ruolo di capo della CIA in ragione di una liaison adulterina con la propria biografa, e questo lo sappiamo tutti. Il paradosso che il capo dei servizi segreti si dimetta a causa di una relazione segreta lo abbiamo notato tutti. Il paragone poco lusinghiero fra le foto della legittima consorte e la Catwoman senza costume alla quale aveva ceduto la password della propria posta elettronica l'abbiamo azzardato quasi tutti. Quasi nessuno però ha preso carta e penna per difendere Petraeus e dire che l'eventuale apertura della sua braghetta è di sua esclusiva giurisdizione e pertinenza; e fino a metà novembre sembrava che la migliore apologia fosse stata la vibrante ma isolata colonna di Pietro Ostellino sul Corriere della Sera.

Poi, a sorpresa, è arrivato il Guardian, che il 13 novembre ha pubblicato un articolo di Helen Croydon dal titolo più che significativo: "L'infedeltà di Petraeus è affar suo". La biondissima e appariscente opinionista, autrice fra l'altro di un memoir sulla propria passione per gli uomini più anziani nonché di Cento lezioni di sesso in non più di cento parole, non è parsa per nulla intimorita dall'essere soltanto al secondo articolo sulle pagine sacre del progressismo britannico (fra parentesi, il primo risale ad agosto e s'intitola "La monogamia è un ideale fiabesco"). Ha preso a due mani l'ipocrisia e il moralismo dei salotti buoni anglofoni e li ha sbattuti con gli interessi in faccia al mittente.

L'articolo inizia con una domanda secca: "Sono affari nostri, o di qualcuno dei suoi supervisori al Congresso americano, se David Petraeus ha tradito sua moglie?". Per fugare ogni dubbio, la Croydon si risponde che "i suoi passatempi personali non sono materia di pubblico interesse" e altresì che "non sono affari nostri quali partner sessuali o circoli sessuali o preferenze sessuali vengano prediletti da qualcuno al di fuori dall'orario di lavoro; l'importante è che lavori".

La sua argomentazione è duplice. Alle persone di destra, specie a quelle che si dicono liberiste, ricorda che "l'adulterio può risultare sgradevole per molti, in questo clima sempre più moralistico, ma abbiamo il dovere di lasciare giudizio e condanna alle persone sulle quali ha un impatto diretto". "Ci sono stati molti casi", continua la Croydon, "in cui abbiamo perduto i servigi di persone competenti, non per mancanze nei loro doveri ma per giudizi puritani sulla loro vita privata, benché irrilevante". Quanto a Petraeus, "sì, occupava un ruolo pubblico, ma aveva diritto a una vita privata, a interessi privati e a decisioni autonome". Insomma, "di sicuro la storia merita pettegolezzi; ma merita anche un'inchiesta formale?".

Helen Croydon tuttavia si rivolge in particolare ai lettori di sinistra, quelli che comprano il Guardian ogni mattina per vantarsi della maggiore apertura mentale, della cultura più vasta, della radicale flessibilità nel riconoscimento del diritto alla felicità individuale secondo il tipo di amore che ciascuno ritiene più opportuno. "La fedeltà", ricorda loro la Croydon, "è una scelta di vita e un giudizio morale soggettivo; non è legge. Molte comunità chiudono un occhio di fronte a brevi scappatelle. Alcune coppie si accordano per restare aperte. Gli antropologi accettano l'idea che la monogamia non sia la naturale strategia di accoppiamento dell'uomo". Tradotto, chi critica Petraeus da sinistra è come minimo un sessuofobo, un fascista e un papista in incognito.

Non dev'essere una donna facile ad ammansirsi, Helen Croydon, anche perché per fine articolo conserva un colpo di grazia velenosissimo. "I titoloni e l'indignazione che circondano quest'affaire", scrive avendo cura che i lettori del Guardian si siano riavuti dallo choc, "puzzano di sadico compiacimento nell'assistere alla caduta di un uomo di successo, anziché denotare un effettivo timore razionale per la sicurezza della nazione. Ciò che dovrebbe allarmarci è piuttosto il nostro appetito voyeuristico per il chiacchiericcio salace, e non ciò che gli uomini di Stato combinano nella loro vita privata".

La parolina che ho cercato e ricercato in lungo e in largo, senza mai riuscire a trovarla, è "Berlusconi".

[Disponibile anche su Tempi.it con ammirevoli foto dell'autrice dell'articolo.]

mercoledì 14 novembre 2012

Avrete sicuramente sentito parlare di Bookcity, la megarassegna letteraria che si terrà questo fine settimana a Milano; se no, documentatevi. Ci sono vari invitati di prestigio: cito a campione l'amico Cosimo Argentina, Daria Bignardi, Aldo Busi, Sveva Casati Modignani, Mauro Corona, Pino Corrias, Philippe Daverio, Erri De Luca, Jeffrey Deaver, Andrea Di Consoli, Paolo Di Stefano, Luca Doninelli, Gian Arturo Ferrari, Umberto Galimberti, Don Gallo, Luigi Garlando, Paolo Giordano, Massimo Gramellini, David Grossman, Franco Loi, Marco Malvaldi, Valerio Massimo Manfredi, Armando Massarenti, Sandro Mazzola, Raul Montanari, Gianluigi Nuzzi, Alcide Pierantozzi, Francesca Rigotti, Enrico Ruggeri, Salman Rushdie, Antonio Scurati, Luis Sepulveda, Beppe Severgnini, Vittorio Sgarbi, Walter Siti, Andrea Tornielli, Marco Travaglio, Umberto Veronesi, due coccodrilli e un orangotango.

Ciò nonostante hanno invitato anche me che, abilmente camuffato da giornalista, chiacchiererò con Enrico Terrinoni della sua nuova traduzione dell'Ulisse di James Joyce pubblicata quest'anno da Newton & Compton. Appuntamento sabato 17 novembre alle ore 19:30 presso la Libreria Internazionale Melting Pot di Via Vettabbia 3, zona Missori. Si intitolerà La ritraduzione dei classici. Dopo andiamo a berci una pinta.

L'incontro è stato organizzato dalla rivista "N.d.T. La Nota del Traduttore", gestita con otto mani dall'eroica Dori Agrosì.

lunedì 12 novembre 2012

Finalmente domenica!
Dodicesima giornata, 11 novembre 2012

Stamattina facevo colazione e dalla cucina arrivavano le lontane note di “Bello e impossibile” così che, intingendo il cornetto sintetico nel cappuccino automatico, pensavo a quanto meglio di me Gianna Nannini avesse fatto fruttare la propria laurea in filosofia: per tirar fuori una canzone che metta insieme in maniera immortale due parole semplici ma abituate a vivere separate bisogna saper fingere di non essere intellettuali. Ho covato barocca stima per lei fino a quando mi sono seduto a sfogliare la Lettura del Corriere della Sera in cerca di una lenzuolata di Will Self (il mio autore inglese de sinistra di riferimento) che parlava del principio di omertà vigente in Gran Bretagna. Ben prima però la mia attenzione è stata stornata da una colonna della medesima Gianna Nannini la quale, essendosi ricordata dove aveva appeso il diploma di laurea, incitava Dante a farsi da parte e a lasciare la sua palma di miglior scrittore d’Italia a Elsa Morante.

Ora, a parte che il miglior scrittore d’Italia non è Dante (e nemmeno Saviano) ma Machiavelli – basta aprire a caso il volumone rosso economico in cui la Newton Compton ha raccolto Tutte le opere storiche, politiche e letterarie, al netto di qualche refuso, per trovare frasi su frasi all’altezza della celeberrima “et non sento per 4 hore di tempo alcuna noia, sdimenticho ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tucto mi transferisco in loro” –; a parte che Gianna Nannini esprime la propria parzialità mostrando familiarità con la Morante al punto da chiamarla Elsa, così come se io, grande ammiratore di Joyce e Burgess e Roth, li citassi in pubblico quali James, Anthony e Philip; a parte questo, dicevo, mi chiedo se Gianna abbia effettivamente compiuto un confronto incrociato prima di darsi a giudizi avventati. Prendiamo ad esempio la maniera in cui i due trattano lo sport, sia perché lo sport è azione pura e quindi la narrazione dello sport è la narrazione più pura, sia perché la Nannini è nota tifosa della Fiorentina, nata per propria ammissione con il nastro viola. Ecco come la Morante racconta ne La Storia la rivalità fra le due squadre della Capitale: “La sera del 3 giugno, Tommaso, che si appassionava alle partite di calcio, e favoriva la squadra della Lazio, rincasò più avvilito che mai: quasi non bastasse tutto il resto, era successo un caso dell’altro mondo: la Tirrenia aveva eliminato la Lazio. E così, questa era esclusa dalla finale, favorendo la rivale odiata, la Roma”. Un resoconto tanto farraginoso di materia incandescente fa venire voglia di tifare per i nazisti. Questo invece è Dante che nel XV dell’Inferno incontra Brunetto Latini e, tali l’ammirazione e la commozione, trasforma un sodomita in podista: “Poi si volse, e parve di coloro / che corrono a Verona il drappo verde / per la campagna; e parve di costoro / quello che vince, non colui che perde”. C’è partita? Non c’è partita. Dante batte Elsa più o meno come il fuorigioco passivo della Juventus batte il calcio totale del Pescara.

Però bisogna anche nel nostro piccolo esultare all’idea che Gianna Nannini abbia indicato il più grande scrittore d’Italia in Elsa Morante, e non in – che so – Giuliano Sangiorgi o in Ligabue (come ha fugacemente fatto Antonio D’Orrico, ma solo fra i viventi) o in sé stessa (nel 2006 aveva pubblicato Io per Rizzoli). Se pure l’avesse fatto non ci sarebbe stato di che stupirsi, visto che dalle colonne del medesimo Corriere ieri veniva così salutata l’uscita del nuovo libro di Giacomo Poretti: “Giacomo (quasi) come Proust”. E dunque, di conseguenza: il Pescara (quasi) come la Juventus, poiché entrambe le squadre hanno la maglia a strisce e praticano uno sport simile; Elsa (quasi) come Dante; io (quasi) come Gianna Nannini, perché oltre alla laurea in filosofia ho anche il dottorato e quindi non sarei mai stato in grado di mettere insieme due parole così semplici e così lontane: bello. E impossibile.

[Il resto della rubrica, con la metà di pertinenza di Francesco Savio, si trova come sempre su Quasi Rete.]

martedì 6 novembre 2012

"Mi si domanda se sono principe o legislatore per scrivere di politica. Rispondo di no, ed è per questo che scrivo di politica. Se fossi principe o legislatore, non perderei tempo a dire quel che bisogna fare; lo farei, o tacerei".

Queste righe non le ho scritte io ma Jean-Jacques Rousseau, e devono essere sfuggite al sindaco di Forlì Roberto Balzani, uno studioso di politica che candidandosi non aveva preso in considerazione l'eventualità di poter vincere e dover governare. Racconto la sua storia sul Foglio in edicola oggi (e disponibile anche online).

lunedì 5 novembre 2012

Finalmente domenica!
Undicesima giornata, 4 novembre 2012

Oggi è il 4 novembre e la prima cosa che apprendo alzandomi al mattino è che Giorgio Napolitano esprime sostegno alle forze armate; un po’ come aveva fatto nel 1956, penso, e mi metto a riflettere su come potrei inserire con eleganza questa boutade nel pezzo autobiografico che devo scrivere per Quasi Rete ma ristò all’idea che, se il pezzo dev’essere autobiografico, Giorgio Napolitano c’entra poco e niente. L’importante è che non mi venga in mente di infilarlo nell’articolo che al mattino devo invece scrivere per un settimanale: mi è stato chiesto di camuffarmi per sette giorni da lettore indefesso di un noto quotidiano e di scrivere a settimana conclusa le impressioni che ho ricavato dall’analisi semantica e stilistica del quotidiano stesso. Se non che, mi accorgo, non posso nemmeno parlare di questo nel pezzo diaristico per Quasi Rete, in quanto brucerei l’argomento propostomi da settimanale e soprattutto mi ficcherei in una complicata autoreferenzialità per la quale, dovendo descrivere la mia domenica ed essendomi capitata una domenica in cui fuori piove e io son barricato dentro a scrivere, giungerei all’eccesso di scrivere un pezzo in cui scrivo che sto scrivendo che scrivo che sto scrivendo, e così via: ora, se una cosa del genere la facesse Baricco tutti direbbero che si tratta di una trovata geniale, di un significativo aperçu della vacuità della cultura contemporanea, di uno sguardo finalmente non menzognero sull’identità autoriale. Se invece lo facessi davvero, chiamereste l’ambulanza e non avreste gran torto.

Così mi ritrovo a corto di argomenti e mi ricordo di una volta, mi pare in quinta ginnasio, quando la professoressa d’Italiano spiazzò tutti proponendo come unica traccia per il tema in classe proprio questa: “A corto di argomenti”. Credo che sia la traccia più ardita che si possa escogitare in quanto mette lo studente, che fin lì va avanti a scrivere solo a comando, di fronte al terrificante abisso di dover scrivere senza sapere quale argomento affrontare; terrificante abisso che provo anche oggi, dopo aver scritto tutti i pezzi che dovevo scrivere lungo questo ponte e accorgendomi di avervi sparato tutte le cartucce. All’epoca me la cavai scrivendo un tema sul mio compagno di banco, perché ero uno zuzzurellone già a quattordici anni, ma oggi che ne ho più del doppio pur essendo altrettanto zuzzurellone non ho nemmeno un compagno di banco di cui parlare, ragion per cui guardo la traccia e non so cosa scrivere, a corto di argomenti come non mai.

Se tu guardi l’abisso anche l’abisso ti guarda, diceva Giulio Tremonti. Mi sento dunque tramortito come la Juventus ieri sera, e in effetti potrei commentare la partita della quale – avrete notato – non s’è fatto un gran parlare sugli organi stampa nazionali; diciamo pure che è passata sotto silenzio. O meglio, non è passato sotto silenzio il fuorigioco di Asamoah, anzi c’era gente che dopo cinque minuti aveva già smesso di guardare la tv per postare su facebook la propria indignazione per l’ennesimo campionato falsato e invocare Ingroia presidente della Federcalcio; ciò che è passato sotto silenzio è che, se Marchisio non avesse avuto i piedi quadri per una sera, dopo un quarto d’ora l’Inter si sarebbe trovata sotto di tre reti e lo spensierato Stramaccioni a quest’ora starebbe facendo terra per ceci, come uno Zeman qualsiasi. Ecco, io però notoriamente non sono persona che ami rinfocolare le polemiche né dire alcunché di politicamente scorretto e tanto meno ho qualcosa contro Zeman o contro l’Inter; per di più in tv mi limito a guardare il calcio giocato e l’unico commento che ascolto è quello di mio padre alla domenica pomeriggio alle diciassette.

“Su che canale?”, chiederete. Su nessuno, al telefono di camera mia. Di solito al pomeriggio lui dorme per un paio d’ore, io guardo le partite, poi ci sentiamo e me le spiega. Sulla partita di ieri siamo piuttosto d’accordo, e la vittoria del Milan sul Chievo non viene nemmeno citata; tuttavia mi rendo conto che quando la Juventus perde lui prende a storpiare i nomi dei giocatori, credo per esprimere disprezzo per degli indegni epigoni di Boniperti e Platini; ragion per cui visto l’andazzo è la prima volta che lo sento cambiare i codici fiscali ai nuovi acquisti Asamoah e a Lichtsteiner. Giovinco, che ha un nome più semplice, diventa tout court “quello basso”. Mia madre gli dice di tagliare perché lei invece la domenica mi fa l’oroscopo, che è una pratica che io non condivido (sono cattolico: niente oroscopo né yoga né Nichi Vendola) e alla quale sono sottoposto per tradizione orale. Pare infatti che oggi a casa dei miei i canali Rai non si prendano e quindi mia madre mi dice che mia zia le ha detto che Paolo Fox ha detto che questa settimana io, il Sagittario, riceverò una proposta.

Al che protesto che l’oroscopo così lo so fare anch’io, mentre Paolo Fox, sempre per il doppio tramite di mia madre e di mia zia, protesta che lui può solo limitarsi a dare indicazioni generiche sull’andamento degli eventi, perché i dettagli li decide (indica in alto) il Signore – o, nel caso della Juventus, il guardalinee. La disputa teologica con Paolo Fox mi porterebbe forse troppo lontano per essere uno che ha iniziato a scrivere senza sapere esattamente cosa scrivere e senza voler fare alcunché per nasconderlo, ragion per cui cesso di farlo con grande soddisfazione per essere riuscito a tacere ciò di cui mi vergogno e m’imbarazzo ossia che, quando siamo andati a mangiare una pizza dopo essere stati cacciati dal ristorante, io e Savio, a un certo punto ci siamo accorti che attorno a noi c’erano solo coppie dello stesso sesso; sarà sicuramente stato un caso ma, poiché Milano è piccola non vorrei che un giorno lontano venissimo ricordati come i celebri autori gay di Anticipi, posticipi, incapaci di frequentare i ristoranti giusti e morti postumi.

[La rubrica continua, col diario di Francesco Savio, su Quasi Rete.]

sabato 3 novembre 2012

Il Guerino, decenni or sono, è stato il primo giornale a dare la voce a lettori senza voce (il famoso “Dite la vostra”), e altrettanto innovativo è stato quando Gianni Brera iniziò a rispondere su politica e letteratura nella rubrica “La bocca del leone” e tanto più quando Luciano Bianciardi, pur di rispondere sugli argomenti che più gli premevano, non esitava a scriversi le lettere da solo firmandole coi nomi dei suoi amici celebri. Oggi il Guerino potrebbe sforzarsi di essere altrettanto innovativo togliendo la voce ai lettori in un mondo in cui, grazie all’appiattimento virtuale, chiunque si sente in diritto, anzi dovere, di dire dovunque la propria su qualsiasi argomento senza filtro.

Su Qwerty, il blog di Tempi che recensisce i giornali, continua l'operazione di scandaglio del centenario del Guerin Sportivo.

giovedì 1 novembre 2012

Sempre innovativo dal versante semantico e grafico, il Guerino perseguiva la sintesi anche scioccante quando gli altri giornali ancora si arrabattavano ad arrampicarsi sulla retorica asperrima: il titolo per il primo scudetto della Roma fu “R42”, ed era appunto il 1942; quello per l’Inter di Foni fu “El gh’è!”, ed era il 1953. Poi, con l’evoluzione dei tempi e dei modi, i titoli lasciano perdere lo sperimentalismo e si fanno più graffianti, in un’Italia codina e ossequiosa: quando il Bologna del 1964 è coinvolto nel sospetto di doping, il titolo è “La pipì addosso”.

Il web rende omaggio alla carta: piccola storia di cent'anni di Guerin Sportivo su Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport.