domenica 29 marzo 2009

La Regina, la villa in Florida e le tigri da giardino

(Gurrado per Quasi Rete)

Ma benedetta principessa Diana (Daiàna per gli italiani), ai suoi tempi non poteva prodursi in una figlia femmina? Appena sono arrivato il cosiddetto talk of the day, anzi of the week, è stato in tutta l’Inghilterra la boutade del primo ministro Gordon Brown, il quale auspica una legge per annullare un atto del 1701 che impedisce ai Cattolici di entrare a far parte della Famiglia Reale – senza venire né torturati né uccisi, s’intende. Se la principessa Diana si fosse ai suoi tempi (ri)prodotta in una tenera frugoletta, a quest’ora la frugoletta sarebbe un’ultraventenne impegnata a imparare il galateo di Casa, a studiare qualcosa che non la interessa in qualche college che non chiederebbe altro e a scorrazzare per i pub di Oxford tutta la notte, ossia fino alle 23 ora locale. In tal caso, avrei scorrazzato anch’io, pub per pub, alla ricerca della principessa da impalmare per passare alla storia (io) come il primo Cattolico entrato a Casa Windsor.

Invece. Invece, come intuirete non è così: la principessa Diana buonanima ci ha lasciato due figli maschi che sono i diretti discendenti al trono dopo il principe Carlo, consolabile vedovo. Scorrendo la lista dei pretendenti al trono, dietro il principone e i due principini si trova il duca di York e finalmente, a un modesto quinto posto, sua figlia Beatrice (immediatamente seguita da Eugenia, la sorella carina). Tradotto: perché io possa diventare il primo Cattolico di Casa a Buckingham Palace devono verificarsi le seguenti condizioni: Gordon Brown deve far accogliere dal Parlamento la sua proposta straordinaria (già ha difficoltà a riuscirci con le proposte normali, quindi figuriamoci); devo scovare la duchessina Beatrice, pur consapevole che è più carina sua sorella; deve morire la Regina; deve morire il principe Carlo; devono morire i principini William e Henry; deve morire il duca di York; la duchessina Beatrice deve reggere imperturbabile di fronte a questa non comune serie di fatalità. Vaste programme, direbbe De Gaulle: per questo il gioco non vale la candela e, nell’impossibilità di entrare a far parte della Famiglia, non sono affatto tentato di vincere la mia naturale ritrosia verso le figlie di una grande, grandissima nazione che abbraccia il Protestantesimo ma non i bidet. Ragion per cui alla sera preferisco guardare la tv.

L’Inghilterra fa tutto alla grande. Per l’Italia il termine “Impero” significava “tre precari ettari di Corno d’Africa” mentre da queste parti significava “mezzo mondo”. Idem per la tv. Quando da noi si dice “stasera non c’è nulla” significa che la tv trasmette un film che non ci attira, un dibattito politico condotto da qualcuno che ci fa girare le scatole, un telefilm giallo che ci fa impressione e un numero di reality show oscillante fra due e più infinito. In Inghilterra quando si dice “stasera non c’è nulla” vuol dire che di effettivo vuoto pneumatico si tratta. Esempio pratico, venerdì scorso: nel momento in cui venivano aperte le gabbie e dagli uffici dall’università dai supermercati l’intera popolazione si travasava prima a bere nei pub e in seguito a vomitare per la pubblica via (d’altra parte nulla si crea e nulla si distrugge) la tv inglese offriva questa scelta: su BBC1 una situation comedy su una famiglia che si trasferisce sul Pacifico; su BBC2 un documentario sul giardinaggio; su ITV1 venivano forniti dei consigli retroattivi a famiglie che avevano appena perso tutti i risparmi; su Channel Five una situation comedy sulla squadra mobile dell’Essex. Io ho optato, su Channel4, per una docu-fiction su una coppia che, a parità di condizioni, veniva posta di fronte alla scelta di comprare un appartamentino a Birmingham oppure una villa in Florida. L’appartamentino era striminzito ma, essendo dotato di un tetto, costituiva uno dei pochi posti asciutti in tutta Birmingham. La villa in Florida era grande abbastanza da far provincia e costeggiava una strada sulla quale frotte di stangone coltivavano l’abitudine di fare jogging in bikini. La coppia ha scelto l’appartamento a Birmingham. La villa in Florida costava di meno.

Ovvio che in una situazione del genere, in cui m’è proibito tanto guardare qualcosa di ragionevole quanto sposare una principessa, l’improvvisa apparizione di qualsiasi trasmissione sportiva diventa una manna. Nella fattispecie si tratta, dalla Polonia, dei Mondiali di ciclismo su pista, sport che mi entusiasma come vedere delle tigri al giardinetto. Gli Inglesi però hanno gente come Marc Cavendish e Victoria Pendelton pertanto il loro sincero entusiasmo è più che giustificabile, e viene espresso in maniera rutilante come dimostra l’episodio qui sotto.

Antefatto: giovedì sera la Gran Bretagna (poi bisognerà capire, un giorno, perché l’Inghilterra esiste solo a calcio e rugby, mentre negli altri sport fa l’ammucchiata) – dicevo: giovedì sera la Gran Bretagna, che si sentiva chiamata all’assoluto dominio della pista, a tre giorni dalla fine dei Mondiali non aveva ancora vinto un oro che fosse uno. Ho quindi avuto l’onore di assistere alla sua prima vittoria, nell’inseguimento a squadre femminile, a opera di tre signorine che abitualmente indossano una futuribile tuta aderente mezza blu e mezza rossa, grazie alla quale si collocano di svariate lunghezze al di sopra dell’eleganza nazionale. Purtroppo al momento della vittoria, in una concitata finale con delle vituperose fanciulle neozelandesi, stavo combattendo contro il microonde e davo le spalle alla tv, limitandomi ad ascoltare la cronaca. Alle medie inferiori la mia professoressa di Inglese era molto brava e ciò mi ha consentito di carpire grossomodo ogni singola parola e seguire nel dettaglio l’andamento della sospirata vittoria. Se altrimenti avessi dovuto basarmi sul tono della cronaca, diciamo sullo spartito senza parole, a furia di dare le spalle alla tv non sarei stato in grado di capire se le tre pseudo-austronaute britanniche stessero vincendo o avessero perso (come me contro il microonde). La frase “La Gran Bretagna conquista il suo primo oro ai mondiali di ciclismo su pista” è stata pronunziata con lo stesso tono di un ipotetico “Ci informano in questo momento che Lord Illingworth è spirato nel primo pomeriggio.“

Direte: ti sarai rifatto col calcio – questo sabato c’erano le qualificazioni ai Mondiali, avranno ben trasmesso l’Inghilterra. Macchè. Primo perché l’Inghilterra ha saltato questo turno, limitandosi a un’amichevole contro la temibile Slovacchia (finita 4-0, certa gente a Wembley non dovrebbero nemmeno farla entrare). Secondo perché la partita è stata trasmessa da una rete a pagamento. Avete capito bene, come disse Berlusconi alla fine della campagna elettorale del 2006, in Inghilterra la Nazionale alle volte può essere vista solo da quelli che possono permetterselo. Sarò all’antica ma ritengo che sulle reti a pagamento possano trasmettere tutte le Premier League, le Championship, le Football Conference e le Coca Cola League Cup che vogliono, ma la Nazionale deve restare di pubblico dominio perché è, nel calcio, l’unica cosa che accomuna la Regina ai senzatetto. Sarebbe come se la Chiesa consentisse di festeggiare il Natale solo a chi può permettersi i regali più costosi.

Così per vedere un’ampia sintesi di Inghilterra-Slovacchia, già sapendo il risultato da ore e ore, ho dovuto aspettare le dieci e venti, quando già incombeva l’ora legale (che qui, con la solita magniloquenza, chiamano British Summertime – summertime di ’sta cippa, ieri mattina c’erano due gradi). La sintesi, trasmessa da ITV1, era inaugurata da una sigla che mostrava tutti i più grandi monumenti inglesi (circa tre) come decorazioni di una strada che conduceva al più grande di tutti, Wembley, il tempio del calcio il cui nome fa tremare i polsi a chiunque a esclusione, evidentemente, degli improvvidi slovacchi che si sono presentati nonostante la manifesta inferiorità. Solo allora ho potuto vedere, tanto per gradire, la chirurgica combinazione fra Rooney (passaggio filtrante in area), Gerrard (passaggio arretrato alla cieca) e Heskey (colpo di tacco in goal): direi che è valsa la pena di aspettare. E poi, che fascino incontenibile la divisa completamente bianca degli Inglesi, anche in questo caso svariate lunghezze al di sopra dell’eleganza nazionale media. Non lo so, sarà il colletto, sarà il taglio dei pantaloncini; fatto sta che con un’identica maglia completamente bianca, ad esempio nella finale di Euro 2000, i giocatori dell’Italia sembravano dei farmacisti. Quelli dell’Inghilterra, ieri sera, erano angeli sterminatori.

lunedì 23 marzo 2009

Allineated and coperted

I would very much like
to sing a song in English,
tongue that I have studied
at the medium school.
(Elio e le Storie Tese)

Mercoledì sera Roberto Saviano verrà santificato nel corso di uno speciale "Che tempo che fa" condotto da Fabio Fazio. Sdegnato, a quell'ora mi sarò già trasferito in Inghilterra: a controprova che c'è sempre chi minaccia di andarsene dall'Italia e chi invece se ne va veramente. Nel mio caso, il gesto non è nemmeno giustificato da circostanziate minacce degli anarco-insurrezionalisti di Gravina o del fronte popolare islamico di Poggiorsini. Il risultato è che anch'io dovrò rinunciare all'idea di prendere una birra con gli amici. Mi limiterò alla birra.

A differenza di Saviano dovrò lavorare per buona parte della santa giornata e, sempre a differenza di Saviano, cercherò anche di pensare a produrre qualcosa di letterariamente accettabile. Peraltro al momento non so ancora se e come avrò a disposizione una connessione a internet; a dire il vero non è chiaro nemmeno se deterrò un forno a microonde, e spero comprendiate che fra le due evenienze mi preoccupa di più la seconda. Ragion per cui aggiornare il blog sarà difficile, se non altro inizialmente. Aggiornarlo ogni giorno sarà impossibile.

Resto ciò nondimeno nei ruoli in cui vi siete progressivamente abituati a vedermi. Resto uno dei tre coordinatori di Quasi Rete, il blog letterario della Gazzetta dello Sport (per stabilire inoppugnabilmente la mia identità, vi aiuterà sapere che non sono né Carlo Annese né Gino Cervi). Resto parte della redazione di Books Brothers, che al momento è spento e irraggiungibile in quanto sta venendo sottoposto a un radicale restyling da parte degli ottimi Michele Trecca e Maurizio Cotrona: se avete dei racconti da proporre, sarò lieto di bocciarli con innato sadismo. Resto collaboratore de Il Sottoscritto di Gianni Bonina: se non potrò accanirmi su singoli volumi, mi accanirò su temi generali. Sarà ancora possibile trovarmi sparso su vari giornali e riviste, ma piuttosto di rado e sempre ben nascosto.

Dovendo ottimizzare, scriverò più per altre testate che per questo blog: il quale resterà tuttavia operante una volta appurata l'esistenza della connessione a internet e soprattutto del forno a microonde. Qui, male che vada, troverete raccolto tutto quello che pubblico altrove, così non dovrete nemmeno affaticarvi a cercarmi annusando fra i cespugli. Ma necessariamente si chiude una fase e con ogni probabilità non potrà più essere lo stesso. Se sentirete la mancanza, vi resta comunque la sovraesposizione a Roberto Saviano.

Be', teniamoci visti.


venerdì 20 marzo 2009

Letterine letterarie (24)

Gurrado,
cosa pensi della carica dei centouno parlamentari del PdL contro la fiducia sul decreto sicurezza, con conseguente riconsiderazione della luna di miele fra Berlusconi e la Lega?
card. Armand-Jean du Plessis de Richelieu

Penso che, come sempre, una ronda non fa primavera.

Non ho mai capito perché le squadre italiane entrino contro quelle inglesi sentendosi già sconfitte.
Ginkers

Saranno mica iscritte al Partito Democratico?

Cosa pensi dell'annosa querelle fra il Papa e i preservativi?
Jimmy Durex

Penso che il Papa è tendenzialmente infallibile ma i preservativi ogni tanto si rompono.

Gurrado,
non ho mai detto che il 2009 sarà terribile. Ho solo detto che sarà peggio del 2008.
Tremonti

Grazie, l'avevo già intuito.

giovedì 19 marzo 2009

La voce del Tevere

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Chiunque abbia visto anche solo mezzo film di Luigi Magni ne ha riconosciuto il genio come formidabile dialogista. Per esempio alla fine de La Tosca, quando la protagonista è sul cornicione di Castel Sant’Angelo: “Signora, così cade”-“Non cado, mi butto”. O, sempre in Tosca, quando Angelotti apostrofa gli storpi che sfilano in Sant’Andrea in Valle: “Dove andate?”-“A ringrazia’ il Signore”-“Pure!”. Per non dire del ricamo contrappuntistico sulla storia di San Giorgio e il drago fatto dai figliocci di san Filippo Neri in State buoni se potete o del monologo col quale, in Secondo Ponzio Pilato, Erode Antipa sminuisce la strage degli innocenti. Magni ha diretto più di venti film e ne ha scritti una quarantina, nel giro di mezzo secolo, quindi la sua attività di romanziere – come dire – non professionista è più che giustificata. In fin dei conti il suo mestiere è comunque scrivere, dare voce e contorno verosimili a personaggi altrimenti immobili e muti. Lucina è il suo quinto romanzo ma il primo che, venendo pubblicato da Marsilio, ha assicurata una capillare e duratura diffusione nelle librerie.

Certo, per tutte le duecento pagine della storia il lettore è sottoposto alla tentazione di confrontare l’opera di Magni romanziere con quella di Magni regista. Non deve: si tratta, possiamo argomentare, di due differenti livelli nella stessa persona. Nonostante i punti di contatto siano visibili (l’attenzione alla storia di Roma, un mite scetticismo, la predilezione per il motto arguto e la capacità di sondare senza piagnistei le pieghe più contraddittorie ed eterne dell’animo umano) romanzo e film restano necessariamente opere ben diverse e presumo che Magni stesso sarebbe il primo a dolersi del raffronto.

Che Magni sia un formidabile dialogista resta tuttavia fuori discussione in entrambi i campi, e viene comprovato dal repentino impennarsi della sua prosa quando, superata la prima pagina, si passa dalla piana enunciazione narrativa (“A Roma regnava Papa Pio VI Braschi quando, sulla riva del Tevere, nacque Lucina”) alla prima riga virgolettata che giunge dalla voce di un personaggio e pare di sentire risuonare diretta e viva: “Figlia, a Roma tutto finisce a fiume”. Il Tevere stesso, fra questi due estremi, sembra cambiare colore e senso. Nella narrativa scorre placido come apportatore di vita, nella riga di dialogo è la fogna a cielo aperto nella quale affogano le disperazioni individuali, prima fra tutte quella della madre di Lucina. Nelle parole di un altro personaggio secondario, il Tevere è “la patria ideale di tutti gli affogati”.

Così i dialoghi sono il valore aggiunto di questo romanzo. A Lucina, costretta a travestirsi da maschio per poter cantare sui palchi della Roma papalina, viene riferito: “A Parigi, sarai uguale a chiunque altro” - e lei risponde: “Io voglio essere uguale qui”. Luciano Bonaparte ragguaglia un ex giacobino moderato, il dottor Silvestri: “Stanno per accadere cose terribili” - e questi risponde: “Stavamo in pensiero”. Ogni giorno la vecchia e spenta Lucina, ormai paralizzata, reitera questo dialogo col suo nobile mesto marito: “Attilio, che fai?”-“Sorto.”-“Dove vai?”-“A nessun sito”. A questo punto la domanda diventa: perché della storia di Lucina – giovinetta prima costretta a passarsi da castrato, quindi vittima del fallimento del giacobinismo, infine blanda alleata della nobiltà al tramonto – Luigi Magni ha fatto un romanzo invece che un film?

La risposta credo vada cercata nella portata del romanzo stesso, ovvero nella maniera peculiare in cui Magni decide di sviluppare la trama. Nonostante il titolo la ponga sotto una sorta di riflettore esclusivo, Lucina non sembra la vera protagonista del romanzo che porta il suo nome e che inizia con la sua nascita. Non a caso Magni dà il meglio nella seconda parte del romanzo, quella ambientata non nella Roma di Pio VI e della Repubblica Romana ma in quella di Pio VII e dei moti del 1821: lì il riflettore si sposta dalla vita individuale di Lucina, dal suo combattimento individuale per il teatro e per l’amore a quello collettivo per una Roma migliore. Ma, e qui torna il genio che Magni ha già espresso in tutti i suoi film, questo combattimento è aprioristicamente destinato allo scacco, come specifica il sopranista Romanino sin dalle primissime pagine: “La ragione trionfante provocherà gli stessi danni dell’irrazionale. La ragione è dogmatica, come l’assoluto. E il rigore giacobino è intollerante, come la morale oscurantista”.

La narrativa quindi, più che la cinematografia, permette a Magni di esprimere su più vasta scala il suo scetticismo storico. All’inizio – quando la messa in moto del romanzo è un po’ faticosa, e le virgole non sembrano essere tutte dove dovrebbero e l’autore sembra essere un po’ a disagio con la prosa – viene il dubbio che forse lo stesso romanzo sarebbe stato molto più centrato se Magni si fosse limitato a dar voce ai personaggi, narrando la storia di Lucina (e di tutta Roma che le gira inttorno) solo e soltanto con il serrato dialogo fra di loro. Invece, man mano che la trama s’infittisce e l’individualità di Lucina passa sullo sfondo in favore della storia collettiva, i passi di prosa diventano un ottimo contrappunto all’arguzia dei parlati. Sono come degli a parte in cui non un personaggio ma l’autore si diffonde sul senso della Storia che vede scorrere i giacobini, Napoleone, la Restaurazione, i carbonari e chissà cos’altro ancora.

La voce di Magni è la voce del Tevere. Nella toccante scena alla fine del romanzo, Lucina torna sulla riva del fiume dov’è nata e si vede venire incontro una frotta di bambini. L’unica femminuccia la lambisce prima di venire richiamata dagli altri col suo stesso nome, Lucina. Magni spiega che lì vicino, sui ruderi del tempio di Giunone Lucina, è stata edificata la chiesa di San Lorenzo in Lucina e quindi non è raro che le bambine vengano chiamate così – in ogni tempo, pagano o cristiano che sia. In quell’istante il riflettore del romanzo torna sulla protagonista ma non in maniera univoca o individualistica: Lucina diventa una specie di spirito eterno che si ripercuote nei secoli. Di fianco al tempio che diventa chiesa e alla donna che ritorna bambina, il Tevere continua a scorrere con la crudele indifferenza della Storia che passa e dei secoli che si affastellano su Roma – una città che li considera con immutato scetticismo e li archivia con un motto arguto sapendo che lì, prima o poi, “tutto finisce a fiume”.

mercoledì 18 marzo 2009

Scrittori in vasca corta

Mia madre guarda La Corrida e si stupisce che il maestro Vince Tempera passi la serata a portare il tempo con le dita anche quando non dirige. Gerry Scotti finge di essere buono coi poveri concorrenti, alcuni dei quali sono forse un po' scemi, e Vince Tempera ticchetta su un immaginario leggio. Michela Coppa finge di essere simpatica col pubblico, e Vince Tempera agita l'indice a ritmo di fox-trot. Viene mandata in onda la pubblicità, e Vince Tempera si dirige una sinfonia muta.

Io guardo La Corrida il meno possibile ma non me ne stupisco affatto. Del maestro Vince Tempera so solo che ha musicato la sigla di Ufo Robot, i cui versi d'apertura ("Si trasforma in un razzo missile / con circuiti di mille valvole") erano stati notevolmente migliorati da un mio amico che preferisce serbare l'anonimato: "Si trasforma in un pazzo mistico / quando prende lo psicofarmaco". Però posso presumere che inizi a dirigere prima che la musica attacchi, e che continui a dirigere anche quando non lo fa. Soprattutto. Io lo capisco perché scrivo per lo più quando non sono al computer.

Come per il maestro Vince Tempera, tutto sta a prendere un ritmo - e a ricamarlo poi su un argomento qualsiasi. Tendenzialmente funziona che mi viene in mente una frase d'attacco e dà l'abbrivio a tutto il resto. Per questo non tollero che qualcuno si metta a fare casino o mi parli con la scusa che, visto che non sono al computer, evidentemente non sto scrivendo. Il grosso invece lo faccio in posti o momenti in cui non ho nemmeno sottomano qualcosa che possa servirmi a prendere appunti, rapidi quantunque. Probabilmente è una maniera per non sentirsi sotto pressione: nel momento in cui con tutta evidenza sei impossibilitato a scrivere, è improbabile porsi problemi sull'evenienza di scrivere meglio, visto che tecnicamente non si sta scrivendo, e quindi si scriverebbe alla perfezione se solo si potesse. A patto di non poter scrivere, si scrive a meraviglia. Quindi di fronte all'assenza completa di superfici grafibili (non spaventatevi, è un neologismo) si finisce non solo per venire folgorato da idee sensazionali e cristalline nella loro evidenza estetica, ma anche per delineare piano piano un ideale platonico della propria prosa. Quando si è giovani, la maniera migliore per maturare come scrittori è pensare continuamente a cosa scrivere e non scriverla mai.

Poi si tratta solo di stendere una parola dietro l'altra ma è più una lotta contro la memoria che contro l'ispirazione o il panico da pagina bianca. Le pagine bianche non esistono. L'ispirazione lasciamola ai dilettanti. Il problema è aderire perfettamente all'ideale delineato due minuti o mezza giornata prima di poter sedersi a scrivere con le mani. Ma le mani, com'è noto, non raggiungeranno mai il livello del cervello: uno resta impigliato nell'immanente e si adegua per quel che può (ad esempio, in quest'istante ho in mente una recensione perfetta a Luigi Magni ma devo andare dal commercialista; la scriverò domani mattina e sarà così così). Forse è pure meglio perché così si rende conto della propria imperfezione ed è spinto a cercare ulteriormente posti dove mettersi a scrivere senza farlo davvero.

Uno dei pochi posti in cui un uomo possa scrivere in santa pace è il cesso. Nella circostanza è consigliabile star facendo una doccia o, meglio ancora, un bagno. Altre attività tendono a influire tragicamente sulla qualità della prosa. Mi consola, e mi conferma che non sono pazzo, una non so quanto celebre dichiarazione di Ray Bradbury: "Io scrivo di prima mattina, sotto la doccia. Il resto della giornata lo passo ad acchiappare le farfalle". La vita dello scrittore è tutta rinchiusa in questa sfida, nel cercare di rincorrersi da soli. Per questo motivo, credo, Philip Roth non ha mai voluto vivere con nessuno e infatti scrive romanzi perfetti. Se l'avesse saputo Marat, duecento e passa anni fa, non si sarebbe portato carta e penna nella vasca da bagno né avrebbe indugiato alla ricerca dell'ispirazione dopo aver pescato nell'inchiostro. Se Marat si fosse consacrato all'inseguimento di un'idea impossibile da trascrivere all'istante, si sarebbe affrettato a uscire dalla vasca e Charlotte Corday non sapremmo nemmeno chi fosse.

L'esperienza mi insegna che venire accoltellati mentre si scrive in una vasca da bagno è tuttavia meno spiacevole che venire interrotti da qualcuno che dice cazzate.

martedì 17 marzo 2009

Quando la realtà supera la fiction


Ieri notte sono andato a letto all'una e su Rai1 c'era Gasparri. Stamattina mi sono alzato alle 8 e su La7 c'era Gasparri. Gaspa', ma hai dormito in tv?

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Allora, questa fiction su Di Vittorio. Non credo di dover sottolineare che l'ho vista soprattutto perché è stata in gran parte girata non a Cerignola, com'era prevedibile, ma praticamente dietro casa mia (ma c'è anche un altro motivo: le alternative erano domenica La Fattoria e lunedì il Grande Fratello, vedete voi). Le principali scene di massa erano tutte nella piazza della Cattedrale di Gravina, sulla quale si affacciano anche la chiesa di Santa Maria (piccola ma sentita), il museo diocesano (che nella fiction diventava la casa dei padroni), il seminario vescovile (nella fiction, un bar), la chiesa del Purgatorio (che nella fiction era effettivamente una chiesa: col problema che non lo è più nella realtà) e la Biblioteca Finya (nella fiction seggio elettorale, nella realtà lo sa solo il Signore e forse l'ex sindaco). Purtroppo non è stata accuratamente coperta la statua dedicata all'unico Papa gravinese, Benedetto XIII, eretta qualche anno fa e che nell'economia della fiction risaltava non tanto per l'anacronismo quanto per bruttezza e sproporzione. Essa ha infatti due caratteristiche principali, che elenco qualora non abbiate potuto intuirle: è brutta e sproporzionata. La televisione, che generalmente rende più belle e proporzionate le persone, non così fa per le statue - questa è stata la triste conseguenza tratta da quattro ore di film. La scena della resistenza nella Camera del Lavoro di Bari, che nelle intenzioni del regista doveva essere immortale, credo sia stata in realtà girata alla Curia Vescovile di Altamura. Non oso immaginare dove siano state girate le scene ambientate a Roma e a Washington.

I titoli di coda si aprivano con speciali ringraziamenti a Nichi Vendola, il che è tutto dire. Curiosamente la tradizionale accuratezza storica delle fiction, in cui i personaggi sono del tutto buoni (Di Vittorio, la moglie, Bruno Buozzi, i lavoratori) o del tutto cattivi (gli altri) e in cui le sfumature caratteriali sono sbozzate con la scimitarra, finiva per diventare una sorta di rilettura quasi rivoluzionaria della politica postbellica e un'anteprima scenica della puntata di Porta a porta (quella con Gasparri) dedicata alla storia dei missini esiliati in patria. Avendo dovuto utilizzarli per mettere in risalto la statura morale di Di Vittorio, la ficiton aiutava a capire che genere di personaggi come minimo ambigui e come massimo spregevoli fossero stati De Gasperi e Togliatti. Se i padri della Patria sono questi, non c'è da stupirsi dei figli. Geniale e forse involontaria satira della Costituzione nel serrato dialoghetto fra Di Vittorio e un amico: "L'Italia è una Repubblica!" "Ma io sono disoccupato".

A un certo punto c'è l'attentato a Togliatti (per i laureati in Storia Contemporanea vittime della riforma del tre più due: 1948) e la fiction fa capire che la guerra civile viene evitata per il decisivo intervento di Di Vittorio che convoca lo sciopero generale dopo aver contrattato con Scelba. Qualche anno fa c'era stata una fiction su Bartali con annesso attentato a Togliatti pure lì: la fiction faceva capire che nella circostanza la guerra civile veniva evitata per il decisivo intervento del vecchio Bartali che con un'impresa eroica conquistava tappa e maglia al Tour de France dopo aver ricevuto una telefonata da De Gasperi. In entrambi i casi possiamo essere certi che, se nel 1948 non è scoppiata la guerra civile, l'Italia lo deve al decisivo intervento di Pierfrancesco Favino.

Incerta la riuscita dell'operazione Francesco Salvi versione drammatica. Alla fine Bruno Buozzi viene fucilato dai nazisti ma lo spettatore continua ad aspettarsi che da un momento all'altro salti su a cantare: "Facciamo tutti dei versi / siamo una grande tribù. / Non siamo tanto diversi / dai prova a farlo anche tu".

Io non voglio una Repubblica fondata sul lavoro. Voglio una Monarchia fondata sulle vacanze.

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Quando leggo il giornale salto sempre le pagine dedicate alla cronaca: se ho voglia di avvenimenti sensazionali preferisco leggermi un romanzo. Per questo non ho ben chiaro cosa sia successo a Giuliano Soria, presidente del Premio Grinzane Cavour. Di preciso ricordo solo una frase di Giorgio Manganelli: "C'è bisogno di brave persone dappertutto tranne che in letteratura".

lunedì 16 marzo 2009

Niente Champions, siamo Italiani

(Gurrado per Quasi Rete)

Martedì 10 luglio 1990, i nostri guai iniziano lì. A metà giugno Agnolin da Bassano del Grappa aveva diretto la sua ultima partita, una scialba Jugoslavia-Colombia 1-0. Le Germanie erano ancora due e quella Occidentale aveva vinto due giorni prima il Mondiale in casa nostra. L’Italia non aveva gradito l’eliminazione in semifinale per mano di Maradona, o meglio per nuca di Caniggia, e all’Olimpico aveva fischiato sonoramente l’inno argentino. Nella tradizionale carrellata pre-partita, Maradona aveva atteso di finire in primo piano per sillabare distintamente: “Hijos de puta, hijos de puta”. Un po’ figli di lo eravamo veramente, d’altra parte: a fine aprile Maradona medesimo aveva condotto, trascinato anzi il Napoli al suo secondo apocalittico scudetto, complice l’improvvisa follia veronese del Milan di Sacchi, ipostatizzata nella scena di Van Basten che a un dato momento getta la maglia e se ne va; ma a fine maggio lo stesso si era rifatto conquistando la Coppa Campioni ai danni del Benfica dello svenevole Eriksson e completando il quadro dell’irripetibile supremazia continentale della bandiera tricolore. Milan in Coppa Campioni, Sampdoria in Coppa Coppe, Juventus in Uefa – per giunta sconfiggendo in finale la Fiorentina. L’Europa era cosa nostra e così ci consolavamo, a mezz’estate, di come qualmente fosse esplosa la bolla di sapone iridata: il Mondo era andato, l’Europa restava a disposizione. Finché, martedì 10 luglio 1990, un’Ansa da Ginevra informa secca secca che “le squadre inglesi, con l’eccezione del Liverpool che è ancora sospeso per tre stagioni, potranno partecipare alla stagione 1990-91 delle coppe europee di calcio: lo ha deciso all’unanimità il comitato esecutivo dell’Uefa”.

Curiosamente sono italiane le colonne d’Ercole dei cinque anni di squalifica dell’Inghilterra dalle Coppe, sia all’inizio sia alla fine. Il 29 maggio 1985, non c’è bisogno di ricordarlo, i tifosi del Liverpool avevano schiacciato parte dei tifosi juventini nel settore Z dell’Heysel. Morirono in 39, la partita si giocò, Platini segnò su rigore ed esultò addirittura. Ognuno fa le proprie scelte e poi ammette i propri errori: se fossi stato l’Uefa avrei fatto giocare la finale da qualche altra parte la settimana dopo, contrapponendo alla Juventus il Panathinaikos sconfitto in semifinale – ma tant’è, all’epoca avevo cinque anni e scarso potere decisionale. Il 7 luglio 1990, oltre allo storico concerto di Caracalla con Carreras Domingo e Pavarotti diretti da Zubin Mehta, avviene che Italia e Inghilterra si fronteggiano per la finale del terzo posto nel Mondiale di casa nostra, nella Bari di Matarrese. A posteriori è poco più che un’amichevole (vinciamo noi per 2-1, Baggio prima Schillaci poi) come si evince dalla consegna della medaglia di bronzo anche agli Inglesi, quarti per gli almanacchi, e dall’ola congiunta delle due squadre sedute a centrocampo a fine premiazione. Gli Inglesi erano visibilmente più felici di noi perché avevano conseguito il proprio obiettivo: contro i temuti hooligan le forze dell’ordine italiane si erano presentate in assetto antisommossa e invece, salvo qualche episodio sporadico e talvolta un po’ ridicolo, non era successo nulla. L’Inghilterra aveva giocato (benino per giunta) sette partite e, lungi dal causare incidenti, a cinque anni dall’Heysel i tifosi d’Albione avevano cantato per due ore insieme a quelli italiani sugli spalti del San Nicola. Nel momento in cui Schillaci e Lineker, Bergomi e Bull, Baggio e Gascoigne erano seduti a fare la ola fianco a fianco, l’Inghilterra tornava a essere parte dell’Europa calcistica. La nota Ansa di tre giorni dopo ne era una conseguenza diretta, quasi necessaria.

Prima della squalifica, l’Inghilterra deteneva il primato di coppe europee conquistate: otto Coppe Campioni (di cui sei consecutive, dal Liverpool edizione ’77 all’Aston Villa ’82), cinque Coppe delle Coppe (dal Tottenham nel ’63 all’Everton nell’85) e nove Coppe delle Fiere o Uefa (sei di fila dal Leeds ’68 al Liverpool ’73): complessivamente ventidue trofei, nientemeno, ai quali andavano aggiunte altre tre Supercoppe tanto per gradire. Nei cinque anni successivi le squadre italiane ne approfittano per vincere due Coppe Campioni, una Coppa Coppe, due Uefa e due Supercoppe. Ciò nondimeno, revocata la squalifica, il primato inglese restava ancora intatto.

Prima che qualcuno sminuisca il Milan di Sacchi dovrà passare sul mio cadavere, ma bisognerebbe chiedersi se la storia sarebbe rimasta uguale qualora l’Heysel fosse stato miracolosamente evitato. Negli anni in cui i rossoneri spadroneggiavano su ogni campo (escluso quello dell’Olympique Marsiglia), il Liverpool di Barnes e Rush era più che mai vivo e operante, l’Aston Villa di David Platt era la realtà emergente e il Manchester United di Alex Ferguson, proprio lui, vinceva la FA Cup gettando le basi di un’impressionante sfilza di vittorie che, anno dopo anno, dura ancor oggi – e, direbbe un Mourinho repentinamente dantesco, il modo ancor m’offende. Forse, dovendo giocare qualche partita in più con un contingente inglese a pieno organico, le italiane avrebbero vinto qualche coppa in meno.

Il dizionario del calcio Italiano-Inglese contiene voci memorabili. Alla H di Highbury c’è la sfida epica lanciata nel novembre 1934 dagli inventori del calcio, che si rifiutavano nobilmente di partecipare alle competizioni internazionali onde evitare umiliazioni agli avversari, alla nazionale di Pozzo campione del Mondo in carica. Pare di capire che già l’invito costituisse un onore sufficiente. La stampa inglese, notoriamente propensa a moderazione e cautela, pronosticava punteggi ultratennistici del tipo 10-0 e così via; e l’evenienza che dopo meno di un quarto d’ora l’Inghilterra stesse già vincendo 3-0 tendenzialmente dava ragione ai giornalisti. Finì 3-2 invece, con doppietta di Meazza nel secondo tempo, e fu la sconfitta più gloriosa d’Italia, dalla quale gli azzurri uscirono come leoni di Highbury e con una nuova consapevolezza che consentì loro di vincere le Olimpiadi berlinesi del ’36 e l’avverso Mondiale francese del ’38. Alla W di Wembley invece c’è il disperato gattonare di Peter Shilton, nel novembre 1974, onde evitare che il tiro beffardo di Fabio Capello s’infilasse, a cinque minuti dalla fine, nel sacco della sua porta sancendo la prima vittoria italiana su terreno (bagnato) inglese. Se oggi lo stesso Capello siede sulla panchina dell’Inghilterra, forse lo deve non tanto ai numerosi successi mietuti dentro e fuori i confini patri quanto al fatto che Shilton, allungandosi quantunque, il suo tiro non riuscì ad acchiapparlo. Prova ne sia che un altro italiano piuttosto ascoltato da quelle parti, Gianfranco Zola, deve la propria autorità all’aver riproposto il medesimo exploit ventitre anni dopo.

Il bilancio complessivo degli scontri Italia-Inghilterra non è così terrificante: 9 vittorie, 6 pareggi e 7 sconfitte. Però i numeri non dicono tutto Già il fatto che i nostri principali ricordi storici siano legati a un paio di risicate vittorie e a una combattuta benché annunciata sconfitta non depone a favore del nostro calcio. Idem per le coppe europee: quando il Genoa sconfisse il Liverpool ad Anfield, nella Uefa ’92, ci si rese conto che nessun club italiano aveva mai sconfitto uno inglese in trasferta e si gridò pressappoco al miracolo. Particolarmente significativo, e quasi poetico, che a riuscire nell’impresa fosse la squadra – fondata da Inglesi e con nome inglese – che aveva insegnato il calcio al resto d’Italia. Forse ci sarebbe riuscito prima il Milan di Sacchi, se avesse potuto, ma manca la prova concreta. Di sicuro resta che il rigore di Platini, quasi cancellato dalla memoria nella tragedia, ha segnato per ventidue anni l’ultima grande affermazione italiana in finale contro un club inglese: col senno di poi, l’incanto è stato rotto due anni fa da Pippo Inzaghi, ad Atene, Milan-Liverpool 2-1. Ma per arrivare a tanto lo stesso Milan era dovuto passare attraverso le forche caudine di Istanbul, contro lo stesso avversario nel 2005.

Scontata la squalifica, le squadre inglesi hanno vinto tre Coppe Campioni (contro quattro vinte dalle italiane), tre edizioni della defunta Coppa delle Coppe (contro due italiane) e una sola Uefa (contro quattro italiane, l’ultima dieci anni fa): complessivamente siamo avanti sette a dieci, ma anche in questo caso i numeri non dicono tutto. A seguito della riforma del calcio europeo, che tende ad accorpare il meglio di ogni campionato nella Champions League lasciando le frattaglie alla futura Uefa Europa League (un nome orrendo per un torneo così così), la gloria di una nazione va misurata non tanto in base al numero di vittorie quanto alla strada che fanno le sue rappresentanti: la nobiltà in Champions e il ceto medio in Uefa. La storia recente dice purtroppo che non piazziamo un’italiana in finale di Uefa dal 1999 (nel frattempo l’Inghilterra ce ne ha spinte tre), mentre tutti ricordano che nelle ultime due Champions League l’Inghilterra ha comodamente sistemato tre semifinaliste su quattro (l’Italia rispettivamente una nel 2007 e nessuna nel 2008). Quest’anno siamo ancora ai quarti e l’Inghilterra propone quattro squadre su otto: le restanti sono due spagnole, una portoghese, una tedesca e nessun’italiana.

Ma questo dovevamo capirlo già nel 1991, l’anno che segnò in un sol colpo il ritorno degli Inglesi in Europa (benché in formato ridotto: Manchester United in Coppa Coppe, Aston Villa in Uefa, nessuno in Coppa Campioni) e la fine della nostra breve dittatura indiscussa sulle competizioni europee. Si trattò solo di una coincidenza? Se consideriamo il cammino parallelo di Italiane e Inglesi nella prima edizione post-Heysel, ci sono due segnali piuttosto significativi. Il primo è che l’Aston Villa, dopo avere fatto fuori l’imbarazzante Banik Ostrava, rischiò seriamente di eliminare l’Inter ai sedicesimi: grazie a un’impresa i nerazzurri riuscirono a vincere 3-0 in casa, ribaltando con non pochi affanni lo 0-2 subito a Birmingham due settimane prima. Quell’Inter poi vinse la Uefa senza più perdere una partita salvo l’ininfluente finale di ritorno con la Roma. Il secondo segnale è che la Juventus, nostra miglior rappresentante in Coppa Coppe, dovette cedere il passo in semifinale all’ottimo Barcellona di Zubizarreta e Laudrup, che però in finale venne sconfitto in scioltezza dal redivivo Manchester United: 2-1 e una squadra inglese torna a vincere in Europa al primo tentativo. La cosa impressionante è che quello stesso United, che l’anno prima aveva vinto la FA Cup, in campionato era arrivato tredicesimo ex aequo con Manchester City e Crystal Palace, con cinque punti in più della retrocessione e trentuno in meno del Liverpool vincitore, che non poté prendere parte alla Coppa dei Campioni perché ultima e unica squadra inglese ancora punita dalla squalifica post-Heysel.

Come a livello di nazionale abbiamo un complesso nei confronti del Brasile, l’unico in grado di batterci nelle finali dei Mondiali, a livello di club abbiamo un inferiority complex mica da ridere al cospetto delle squadre inglesi: questo affonda le sue radici in decenni dimenticati e il nostro scintillante ma effimero dominio negli anni della squalifica post-Heysel ha contribuito a farlo sottovalutare. Perspicaci oltremodo, ce ne siamo ricordati mercoledì scorso; ma forse è troppo tardi.

[Questa perorazione è sorella gemella di un pezzo di Vanda Wilcox, sempre per Quasi Rete, intitolato Niente Champions, siamo Inglesi]

venerdì 13 marzo 2009

Letterine letterarie (23)

Quindi Gurrado,
fammi capire, i romanzi russi dell'Ottocento sono pesanti e indigesti, mentre Un fuoriclasse vero di Samsonov "é curioso". Dov'è l'errore?
Anonimo ottocentesco

L'errore è nel fatto che per la terza persona singolare del presente indicativo del verbo essere si usa l'accento grave e non acuto.

Tutto bene? Pronto per diventare Inglese?
Giulia

Nel corso della lunga e complessa preparazione psicologica all'anglicizzazione di me medesimo (myself) è rientrata anche la visione di Un pesce di nome Wanda, e in particolare dello spezzone in cui John Cleese dice: "Wanda, do you have any idea what it's like being English? Being so correct all the time? Being so... stifled by this dread of doing the wrong thing? Of saying to someone 'Are you married?' and hearing 'My wife left me today'? Or saying... 'Do you have children?' and being told 'They all burned to death on Wednesday'?" (Sarebbe a dire: "Wanda, hai la più pallida idea di come sia essere Inglesi? Essere sempre così corretti! Essere così... soffocati da questo terrore di fare la cosa sbagliata! Di chiedere a qualcuno 'Lei è sposato?' e sentirsi dire 'Mia moglie mi ha lasciato oggi'. O di chiedere... 'Lei ha figli?' e sentirsi rispondere 'Sono periti tutti in un incendio mercoledì scorso'."). Ecco, sono a buon punto.

Eh eh eh Gurrado,
c'è gente che commenta i suoi stessi post.
Anonimo sardonico

Questa risposta è offerta dal maraschino Luxardo. Chiedo venia alle tante signorine (tre) che leggono questo blog, ma oggi mi ero svegliato coi coglioni talmente girati che, se a metà mattinata non avessi bevuto un bicchiere di maraschino Luxardo, la mia risposta sarebbe suonata:
"Figuriamoci, già non ho tempo (né voglia) di rispondere a tutti i commenti, che sono pure pochi; già mi scasso la minchia alla sola idea di dover scrivere ogni giorno qualcosa di nuovo, non tanto per la fatica di sedermi e scriverlo, quanto per lo sforzo di escogitarlo sapendo che il più delle volte non ne varrà la pena perché il meglio che possa capitare è che cada nel vuoto. Seh, adesso io non solo tiro avanti col blog, ammirevolmente, quotidianamente, contro la mia stessa volontà; ma sfrutto pure i ritagli di tempo per disconnettermi dal mio account, accedere al mio blog, avere l'accortezza di mantenermi anonimo, scrivere l'unico complimento esplicito che mi venga qui rivolto da mesi, riconnettermi col mio account e saggiamente ignorare il commento positivo perché ringraziare con un inchino come minimo sarebbe volgare e come massimo indurrebbe al sospetto! Io mi sto veramente cacando il cazzo nei confronti della democrazia internettiana, che è l'incarnazione più becera di una faccenda già abbastanza stupida in sé: il fatto che lo scrittore qualsiasi non solo debba scrivere ma anche farlo in fretta e pubblicarsi da solo; che il pubblico si senta in diritto di intervenire e dialogare da pari a pari con lo scrittore magari anche senza averlo letto; che venga meno il benedetto sistema di intermediazioni a più strati che ha costituito da sempre la principale e forse unica ragione di successo della letteratura a ogni latitudine. Senza contare che aggiornare quotidianamente un blog (e al lunedì il commento sportivo, e al venerdì le letterine letterarie di 'sta cippa, e durante la settimana un paio di recensioni riproposte da siti in cui grazie al cielo c'è qualcuno che monitora, che controlla, che seleziona e che quindi dà effettivo valore a ciò che scrivo, più uno o due impromptu riempitivi alla bisogna) sottrae tempo e cervello all'unica cosa che uno scrittore dovrebbe fare, ossia scrivere e cercare di scrivere sempre un po' meglio sulla lunga scadenza. Il blog invece esige una scrittura continua e attuale che divora la scrittura vera, la calma e il gesso, la meditazione a computer spento e la lievitazione della pagina, possibilmente manoscritta. Il blog non è musica, è brusio di sottofondo; e cercare di proporvi qualcosa che tenti di elevarsi sopra la media dei blog, il più delle volte costituita da merde invereconde, è completamente inutile perché buona parte del pubblico non solo non è in grado di - permanendo nella fiorita metafora sempre con riverenza delle caste orecchie delle tante (tre) signorine che mi leggono - distinguere la merda dalla cioccolata ma soprattutto preferisce non dico la merda ma quanto meno il brusio di sottofondo alla musica classica. Mi permetto di usare reiteratamente la parola "merda" come citazione testuale dai Grundrisse di Carlo Marx, così vediamo se mi dite pure che sono un fascista. Bisognerebbe spegnere i blog, oscurare internet, radere al suolo la realtà virtuale e tornare a nutrirsi esclusivamente di carta scritta (da leggere) e bianca (da scrivere), sant'Iddio; invece sperimento sulla mia stessa pelle che il blog è l'unica maniera di mantenere una visibilità che faccia presagire tempi meno grami, non dico garantendo ma quanto meno consentendo la remota possibilità che un giorno io possa essere ricordato non per quello che scrivo su internet, che non esiste, ma per quello che di mio è stato stampato, se mai avverrà sul serio; ragion per cui devo tirare dritto e limitarmi a incamerare il nervosismo dovuto al dover scrivere quotidianamente roba mediocre che non merita di essere scritta così come buona parte di voi non merita di leggerla, nervosismo accumulando il quale potrei presto giungere all'eccesso di mandare qualcuno a fare in culo, o quanto meno ad ammazzarlo."
Invece a metà mattinata ho bevuto un bicchiere di maraschino Luxardo, pertanto non vi chiudo in faccia il blog, mascalzoni, e tiro avanti cercando anche di scrivere nel frattempo qualcosa di più decente che vi auguro di non leggere mai.

giovedì 12 marzo 2009

L'onore della prima persona

(Gurrado per Il Sottoscritto)

Di Gilbert Sinoué, raffinato narratore franco-egiziano, Neri Pozza propone ancora un nuovo romanzo: un giallo cristiano, o meglio un giallo cristologico – e, quel che più conta ai fini della narrazione, un giallo senza morto, un giallo che prende l’abbrivio dal mistero che chi dovrebbe essere morto invece è vivo. Il dato di fatto su cui si basa il romanzo è che Gesù, frettolosamente deposto dalla croce, non fosse ancora spirato. Maria di Magdala ha trovato il sepolcro vuoto; Ponzio Pilato ed Erode sospettano che il suo corpo possa essere stato trafugato e indagano presso i sommi sacerdoti; Anna e Caifa temono che Gesù possa essere ancora vivo e si danno a cercarlo; si susseguono intanto le apparizioni di Gesù ai discepoli, lungo la strada per Emmaus o sulle rive del lago di Tiberiade; questo crea un certo sgomento in Nicodemo e Giuseppe di Arimatea i quali, dopo aver raccolto e curato Gesù moribondo, lo tengono segregato nella speranza di convincerlo a prendere il comando politico di Israele e sottrarre gli ebrei al giogo imperiale. E Gesù, in tutto questo? Pacifico, rassegnato quasi, accetta di buon grado le sofferenze e la reclusione a patto che gli si consegnino papiro e inchiostro. Dopo di che, scrive senza posa.

Riguardo alla sopravvivenza di Gesù, ho detto “dato di fatto” per rendere giustizia alla sottile arte narrativa di Sinoué. Ci ricordiamo fin troppo dell’effetto Codice da Vinci e soprattutto della rissa di plastica che è stata costruita intorno all’operazione editoriale libro più film, che ha portato istintivamente folle inferocite che prima di allora avevano raramente avuto a che fare con dei libri a dividersi fra favorevoli e contrari, fra apologeti e iconoclasti, ecclesiastici e presunti spiriti liberi. Il tutto perché, in ottemperanza all’andazzo dei tempi, si era voluto blindare il successo dell’operazione editoriale (riuscita) insufflando il sospetto che i contenuti di Dan Brown e/o Tom Hanks fossero veritieri e che quindi fosse plausibile che (come era già stato suggerito in teorie precedenti già parodiate da Eco nel Pendolo di Foucault) Gesù fosse sfuggito alla sepoltura e scappato in Francia a garantirsi una discendenza regale. Questo ha causato il successo del libro presso le fasce poco istruite e ha reso piuttosto ridicolo il film; soprattutto, l’insistenza sulla veridicità del contenuto ha tolto dignità al romanzo.

Filosoficamente parlando, invece, il romanzo è un come se: il lettore lo apre garantendo volontariamente e automaticamente all’autore una fiducia basata sul presupposto che le storie raccontate siano vere a libro aperto e fasulle a libro chiuso. Sinoué gioca esattamente su quest’ambiguità di fondo: prende il lettore, gli mette sotto gli occhi un presupposto controfattuale e glielo spaccia per antefatto indiscutibile. Quindi lo puntella con la ricostruzione collettiva – ad opera dei sempre più perplessi Pilato, Caifa, Nicodemo e compagnia – di come possa essere effettivamente successo che un uomo, crocifisso e sepolto, sia rinchiuso in una cella e invece appaia qua e là.

Essendo un giallo, per quanto atipico, non ne svelo la soluzione. Dico solo che lascerà di stucco chi si aspettava un attacco frontale alla risurrezione; e infatti questa soluzione, che mostra l’incolmabile distanza fra progetti umani e disegni divini, arriverà da Gesù stesso al quale (come si evince dal titolo) è lasciato l’onore della prima persona nella riproduzione diacronica dei papiri su cui via via va scrivendo. Il romanzo vive infatti dell’alternanza fra il progredire della vicenda, in carattere più esteso e narrato in terza persona, e la lettura delle memorie di Gesù, come se il lettore potesse trovarsi alle sue spalle mentre compone. E già questo deve sorprendere, e rivelare più di una cosa riguardo al procedimento tecnico di Sinoué, che avanza in equilibrio stabile sul filo del paradosso: nei Vangeli, di Gesù tutto si dice tranne che sappia scrivere. Viene detto tutt’al più che dopo aver salvato l’adultera dalla lapidazione si chinò a tracciare segni col dito sulla sabbia. Sinoué se la cava premettendo subito, per mano dello stesso personaggio-Gesù, che questi abbia imparato da bambino a leggere e scrivere in aramaico; e verso la fine del romanzo gli apostoli sveleranno il contenuto (dal sapore gnostico) della scritta misteriosa.

Vero e non vero sono per Sinoué due facce della stessa medaglia. Il vero è costituito da due componenti: ciò che tutti nell’Occidente cristiano sanno riguardo a Gesù, e che deriva dai Vangeli e dalla tradizione ecclesiastica; e ciò che invece è stato storicamente acclarato riguardo alla vita di Gesù e che, pur non essendo dirimente, fatica a venire accettato dal fedele medio (ad esempio che possa essere nato di primavera intorno al 6 a.C.). Si fosse limitato a questa fusione, Sinoué avrebbe tirato fuori un ritrito libello iconoclasta che poco o nulla avrebbe aggiunto a quanto già è stato detto a partire da Pierre Bayle trecento e rotti anni fa. Invece interviene l’invenzione romanzesca, magistralmente schierata in campo con il presupposto della mancata morte di Gesù, che finisce per diventare una concessione all’anticristianesimo destinata a ritorcerglisi contro.

Sinoué utilizza la struttura storica ed evangelica come impalcatura (vera) sulla quale impiantare la trama (falsa) per renderla solida. La commistione è tecnicamente perfetta e sortisce il risultato parallelo (ma assolutamente non trascurabile) di rendere il romanzo fruibile a chiunque e per nulla offensivo agli occhi dei lettori cattolici: perché non c’è alcuna acrimonia, perché il personaggio di Gesù è plausibile e amabile, perché la soluzione del giallo salva capre e cavoli, e infine perché vige il presupposto aristotelico della verosimiglianza, valido solo a libro aperto.

Soprattutto, perché è scritto non bene, benissimo (e altrettanto bene tradotto, complimenti a Giuliano Corà). Sapendo che le nude parole sono l’unico armamentario di uno scrittore vero, Sinoué prende in prestito quelle della Bibbia e, per così dire, le trascolora nel nuovo contesto narrativo. L’attacco del volume, le quattro pagine in cui Gesù racconta “lo strazio delle spine”, è un florilegio di citazioni sacre che andrebbe fatto studiare obbligatoriamente in ogni scuola di scrittura, se le scuole di scrittura servissero a qualcosa. Sinoué ha un senso estetico altissimo, che lo spinge a riportare integralmente i passi più belli e limpidi dei Vangeli: il triplice invito “pasce agnos meos”, il rasserenante “guardate i gigli dei campi”, il minaccioso “non la pace ma la spada”. Sinoué tuttavia li ricolloca e pur citandoli con fedeltà estrema li rende funzionali all’andamento del romanzo. L’esempio migliore è il vibrante dialogo con la Samaritana (Giovanni 4), riproposto con la focalizzazione su Gesù voce narrante e col contrappunto timoroso e un po’ gretto di Giuda che lo invita ad andarsene, a non rivolgere la parola a una sconosciuta plausibilmente avversa.

È riuscito nell’incredibile, Gilbert Sinoué: ha scritto un libro che vuole discostarsi dalla tradizione cristiana (liberissimo di farlo) e al contempo le rende un omaggio sincero, coltissimo, tutto cuore e cervello. Ha esposto i pro e i contro in un’unica sinfonia narrativa e così facendo ha prodotto uno dei migliori romanzi che siano stati importati in Italia lo scorso anno.

mercoledì 11 marzo 2009

Occhio non vede

Scriverà pure poesie, ma la proposta del ministro Bondi non è propriamente da fessi: dedicare un'intera rete Rai alla cultura (in senso lato, ci mancherebbe, non roba incartapecorita né corsi notturni di analisi matematica o transumanze abruzzesi) e sottrarla alla duplice morsa dell'audience e della pubblicità.

Tanto per dirne una, stamattina mi sveglio tardissimo (qualcosa come le nove meno un quarto) e su Rai3 trovo una puntata de La Storia siamo noi che va a ripescare brandelli di televisione di trenta e un anno fa, il 1978. C'era l'edizione speciale del Tg1 per il rapimento di Aldo Moro, con Vespa in studio e Frajese per strada. C'era Verdone che dialogava con sé stesso nella magistrale Non stop, che i più giovani di voi non ricorderanno (e a rigor di logica non dovrei ricordare nemmeno io, essendo nato due anni dopo; però sono colto e quindi ricordo tutto ciò che mi ha preceduto grazie al decisivo intervento del Demiurgo di Platone) ma che era una trasmissione uguale a Zelig con tre differenze: non c'era nessun conduttore, era in differita e i comici facevano ridere.

C'era persino una pagina storica della tv italiana: lo scontro in diretta televisiva fra il pretore siciliano Salmeri, in giacca e cravatta, e Cicciolina, in tunica e peluche, ospiti dell'Acquario di Maurizio Costanzo, il primo talk show fatto apposta per litigare (a quanto pare nessuno degli invitati era a conoscenza dell'identità degli altri; sarebbe uno scherzo da riproporre oggi, che so io, a Veltroni e D'Alema). Raggelante la scena dell'ingessatissimo pretore Salmeri che, dopo aver gratificato reiteratamente Cicciolina dell'articolo indeterminativo ("una Cicciolina": voleva pure le altre?), all'improvviso sbotta e ammette candido candido: "Io ho avuto un'amica dissoluta, ma dopo mi sono ravveduto. Con mia moglie ho frequentato campi di nudisti."

Con archivi del genere, la Rai avrebbe materiale a sufficienza da mandare avanti una rete o più senza spendere una lira (euro), restituendo agli spettatori un po' di passato (in fondo tutti quello vogliamo, la regressione nel grembo) (credo che la volesse anche il pretore Salmeri, indipendentemente dal grembo di Cicciolina). E invece la Rai che trasmette? Ieri in prima serata c'era su Rai1 lo show Incredibile!, che di incredibile ha solo il fatto che qualcuno lo abbia guardato; su Rai2 Senza traccia, il telefilm che scatena tanto entusiasmo nei critici da poter essere ribattezzato Senza braccia (nel senso che cadono); su Rai3 Ballarò, la nota trasmissione comica condotta da Maurizio Crozza. (Per completezza d'informazione, su Canale5 c'era Ris, la serie tv che fa lamentare la gente che i delitti di Cogne e Garlasco non siano stati risolti in due ore e un quarto; su Italia1 Buona la prima, sit-show con Ale e Franz: ribadisco, sit-show con Ale e Franz, direi che sia abbastanza indicativo come giudizio; su Rete4 Stranamore, con varie peripezie che si alternano intorno alla scollatura di Emanuela Folliero; su La7 Relic Hunter, che manco voglio immaginare cosa sia). Scriverà pure poesie, il ministro Bondi, ma si vede che la tv ogni tanto la guarda anche lui.

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Comunicazione di servizio: l'intervento qui sopra è stiracchiato e discontinuo in quanto patisce dell'usanza tipicamente meridionale grazie alla quale due interlocutori dialogano stando uno in cucina e l'altro in corridoio, con una sala da pranzo in mezzo; usanza alla quale permangono oltremodo affezionati i miei genitori.

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I sogni son desideri, dicevano Freud e Cenerentola. Di solito la gente sogna castelli incantati, donne bellissime, vite da pascià e pensioni integrative. Domenico Modugno sognava di venire dal vento rapito e cominciare a volare nel cielo infinito. Akira Kurosawa sognava cose che non capiva nessuno e quindi tutti dicevano che fossero capolavori. Il pretore Salmeri avrà sognato Cicciolina. Freud sognava le interpretazioni già pronte. Io stanotte ho sognato duecento euri. Ha ragione Shakespeare (per i laureati in lettere dopo la riforma del 3+2: noto poeta inglese celebre soprattutto per alcuni testi teatrali poi trasposti in film di successo): We are such stuff as dreams are made on, Siamo fatti della stessa sostanza di cui son fatti i sogni. Nel mio caso, una banconota da cento e due da cinquanta.

martedì 10 marzo 2009

For England, Home and Beauty

Traduco il titolo per i non anglofoni: Per l’Inghilterra, la casa e la beltà. Si tratta di un verso della canzone patriottica The Death of Nelson, di Arnold (1774-1852) e Braham (1777-1856), che poi appare nel capitolo centrale dell’Ulisse di Joyce – cito: “Un marinaio con una gamba sola (…) all’altezza di Larry ORoruke, in maniche di camicia sulla soglia della bottega, ringhiò sgraziatamente: Per l’Inghilterra… Si lanciò in avanti con un brusco strattone oltrepassando Katey e Boody Dedalus, si fermò, e ringhiò: la casa e la beltà.” Ma forse è un attacco un po’ troppo vertiginoso per un discorso che in fin dei conti verte sul calcio e può riassumersi con una domandina scema: per chi bisogna tifare oggi e domani, Italia o Inghilterra?

Non è solo perché oggi sto qui e domani (fra due settimane anzi) sarò lì, e quindi non è che voglia prepararmi il terreno e assicurare un futuro a Chelsea, Arsenal e Manchester United per quando avrò a disposizione, spero, una tv inglese che sarà indubbiamente più felice di trasmettere squadre inglesi. Il problema è un altro ben più generale, e ricorda quello che venne posto a Umberto Eco da un tassista pakistano (Diario minimo, se non erro): chi sono i nemici degli Italiani? Risposta: i nemici degli Italiani, storicamente ben propensi ad accogliere gli stranieri e a lasciare che dettino legge, sono gli Italiani stessi.

Il calcio, come volevasi dimostrare. In casa c’è mio padre che è juventino quindi coi bianconeri c’è un tacito patto di non belligeranza, in Europa, per evitare tragedie familiari. La Roma mi è istintivamente simpatica perché mi sono istintivamente simpatici i suoi tifosi (e le sue tifose, quelle che conosco sono quasi tutte donne) e poi amo così tanto la città (la Lazio, notoriamente, è la squadra di Latina). L’Inter ha i suoi torti, primo fra tutti quello di essere l’Inter, ma si ritrova nell’attuale circostanza ad avere un allenatore che trovo istintivamente accattivante e a fronteggiare una squadra della quale non ne sopporto mezzo, dal gelatinoso Cristiano Ronaldo al Sir proletario Alex Ferguson.

E poi, a ben guardare, lo scorso anno agli ottavi l’Arsenal ha eliminato il Milan e il Liverpool l’Inter, mentre ai quarti lo United ha eliminato la Roma. Dovesse ripetersi quest’infelice circostanza fra oggi e domani, sarebbe un colpo per tutto il calcio italiano, e ne sancirebbe il basso livello (già automaticamente certificato dagli scudetti vinti dall’Inter) e la sua provincialità condannando non solo le tre squadre più forti ma anche tutte quelle che vengono dietro: il Milan che odia l’Inter, la Fiorentina che odia la Juve, la Lazio che odia la Roma e così via. Quindi stasera si tifa Juve, ovviamente, e domani si tifa Roma, altrettanto ovviamente. Poiché Inter e Manchester, per via del bislacco regolamento della Champions League, non possono perdere entrambe bisognerà tifare per una delle due, la meno peggio. Indovinate quale.

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Non c'entra nulla ma l'altro giorno ho assistito al nuovo primato mondiale di Messa repentina. Parrocchia dei Santi Nicola e Cecilia, domenica otto marzo, celebrante camilliano. Partenza alle 11:05. Alle 11:15 è già finita la predica (il che significa: fatti i riti d'introduzione, la liturgia della Parola - prima lettura, salmo, seconda lettura, Vangelo - e appunto l'omelia). Alle 11:28 i fedeli potevano accomodarsi ad arraffare la comunione. Alle 11:31 (e trenta secondi) il celebrante conclude così: "La messa è finita, andate in pace, buona domenica". Spiazzati dalla conclusione pseudo-televisiva, i fedeli non rispondono: "Rendiamo grazie a Dio" ma "Grazie, anche a voi". Giuro. Il tutto mentre davanti all'altare, nel giro del mesetto in cui sono stato via, era stata montata la riproduzione di una curva sulla statale, con annesso segnale di piazzola di sosta montato peraltro sul lato sbagliato della sede stradale, quello sinistro. Tralasciando l'ipotesi egocentrica che il tutto fosse stato montato al solo scopo di ricordarmi che in Inghilterra si guida al contrario, potrebbe darsi che si trattasse di un sottile riferimento al fatto che un tempo si occupava il versante sinistro della sede stradale per avere maggior agio di sguainare la spada (in guardia!) e che, nonostante la riforma civile e pacifista di Napoleone il quale impose in tutta Europa che si utilizzasse il versante destro così da rendere meno frequenti i duelli di passaggio, la Chiesa cattolica e in particolare la parrocchia dei Santi Nicola e Cecilia intende riportare in auge quanto è scritto in Matteo 10, 34: "Non sono venuto a portare la pace, ma la spada". Più probabile tuttavia che si volesse ricordare ai parrocchiani che fra poco ricominciano i Gran Premi di Formula 1.

lunedì 9 marzo 2009

Chissà se

(Gurrado per Quasi Rete)

Chissà se Ronaldinho, probabilmente no, è a conoscenza del fatto di essere uno dei personaggi più riusciti di un curioso romanzo calcistico russo, Un fuoriclasse vero di Sergej Samsonov (edizioni Isbn). Eppure viene ritratto così com’è – anzi, così come ci s’immagina che sia in base a come gioca (o giocava). Forse quella del Gáucho che sorride ognor con i dentoni, stravaccato sul divano mentre si accanisce in bermuda sulla playstation, è un’immagine solare ma stereotipa, l’idée reçue del profeta della pedata a cuor leggero, che si gode la vita in ogni suo istante, compreso perfino quando gioca a calcio al centro di migliaia, milioni di occhi. Se lo sapesse Ronaldinho, presumibilmente scodinzolerebbe tutto contento; ma si adombrerebbe nel momento di apprendere che il protagonista, il “fuoriclasse vero” del titolo, non è lui ma un oscuro ragazzino russo.

Chissà se Semën Šuvalov ha qualcosa, m’è venuto da pensare, di Andrei Arshavin. Le date di nascita grossomodo coincidono così come il ruolo, ma le carriere per nulla: di Arshavin sappiamo già tutto, mentre di Šuvalov apprendiamo che ha dovuto lasciare la Russia in una specie di container per poter approdare nella squadra dei suoi sogni, il Barcellona di Rijkaard e Ronaldinho, in modo tale da sfuggire alle brame di Koplevič, il magnate russo proprietario del Tottenham allenato dal grande e arrogante José Gaudinho (in tutto ciò c’è qualcosa che non mi suona, ma lascio le conclusioni al vostro buon cuore). Una volta al Barcellona, Šuvalov inizia a dimostrare una dimestichezza quasi eccessiva coi compagni di squadra, con gli schemi e – ça va sans dire – con la porta avversaria. Viene lasciato intuire che tutto ciò è dovuto a tre fattori: una visione infantile, una perfetta identificazione coi blaugrana, una propensione istintiva per il nucleo segreto del senso del calcio.

Chissà se la visione infantile di Šuvalov, il goal di Van Basten all’Unione Sovietica, vada oltre il contingente per racchiudere in sé un’istanza storico-geografica. Dovrebbe essere così perché altrimenti Samsonov, che si riserva di giocare ammiccando con un’inquietante ricollocazione dei dettagli di storia calcistica, non avrebbe spostato il goal in questione di due anni: dalla finale di Euro ’88 a quella dei Mondiali ’90. La finale di un Mondiale è una specie di fine del mondo, e il tiro al volo da posizione angolatissima di Van Basten diventa un’apparizione apocalittica, uno squarcio nella maniera consueta di concepire l’universo e il pallone, il culmine di quattro anni di calci in cinque continenti. Il piccolo Šuvalov, che resta folgorato dal gesto che sconfigge la più forte Unione Sovietica di sempre, è per così dire incaricato di una missione sovrapersonale: sostituire Van Basten come ulteriore incarnazione di Johann Crujff; e, perché ciò avvenga, è necessario il Barcellona. In questo, più che una bella copia di Arshavin, Šuvalov è la proiezione del riscatto di un’intera nazione, il fuoriclasse geniale che all’URSS è sempre mancato (ciò che non fu Oleg Blochin, né Belanov né Michailichenko).

Chissà se l’ufficio stampa del Barcellona ha gradito la descrizione degli schemi di Rijkaard (il romanzo è del 2007), così com’è tratteggiata da Samsonov, che cito quasi per intero: I giocatori in maglia blaugrana, simili ad avvoltoi, volteggiavano ancora a notevole distanza dalla porta avversaria. Ora l’uno ora l’altro, senza guardare, si liberavano del pallone passandolo al compagno con tocco repentino, schifiltoso, del piede, quasi che avessero timore di sporcarsi o scottarsi; ma un secondo più tardi il compagno restituiva loro il regalo. (…) Con quella fitta ragnatela di passaggi i catalani stanavano ogni avversario, il quale prima o poi avrebbe cominciato ad attaccarli, lasciando involontariamente dei varchi nella propria difesa. In quei varchi si incuneava fulmineo il pallone. (…) Ognuno di quei cinquanta e più possibili passaggi precisi in sé stesso non racchiudeva alcuna minaccia. Pareva che i catalani non volessero spingersi in avanti rischiando di perdere il possesso della palla; a prima vista, i loro movimenti erano inutili.

Chissà se l’inutilità del gioco del Barça – che ricorda fin troppo tutta “l’arte perfettamente inutile” secondo Oscar Wilde – calza a meraviglia il piede di Šuvalov, intimamente convinto dell’assurdità di fondo del gioco del calcio: Non c’è niente di più goffo che cercare di raggiungere le cose con i piedi, i quali per la loro stessa natura non possono afferrare, trattenere impadronirsi di nulla. (…) Il piede scaraventa lontano, distrugge, calpesta. I morti vengono condotti fuori dalla casa “con i piedi in avanti”. Con i piedi si calpestano le spoglie mortali. I piedi sono fatti per distruggere. Il piede è simbolo di morte. Lungi dal lasciarsi risucchiare dal gorgo irreversibile dell’antropologia culturale, Šuvalov si sente istintivamente parte integrante dell’assurda melina e ne partecipa con la stessa indifferente perfezione del tassello di un puzzle che combacia con tutto il resto. Il suo è un calcio teleologico. Ronaldinho sembra essere stato inventato apposta per servirlo; tutta la fitta rete di passaggi blaugrana ha in Šuvalov il vertice e la giustificazione. Arriva il giorno in cui Šuvalov è il Barcellona e viceversa.

Chissà se Samsonov ha voluto esprimere dei giudizi impliciti sul calcio italiano evitando di nominare mezza volta l’Ambrosiana Inter, facendo invece arrivare miracolosamente il Milan in finale di Champions League (contro il Barcellona, ci mancherebbe) e riconoscendo alla Juventus il conseguimento della perfezione tattica e bellica: Nessuno lo avrebbe marcato a uomo, ma la scuola e il talento dei difensori torinesi erano tali da permettere loro di intercettare istantaneamente il nemico in area di rigore non appena questi, ricevuta palla, cercava di controllarla e muovere il primo passo. (…) A Šuvalov sarebbero bastati due o tre secondi per decidere tutto, ma loro non glieli concedevano. Proprio dalla consapevolezza della superiorità tattica della difesa juventina nasce il dubbio che è la rovina di Šuvalov e il fulcro misterioso del romanzo, e che ho voluto lasciare alla fine, come il sugo di tutta la recensione.

Chissà se a Samsonov l’idea del dubbio è venuta dalla bisaccia d’invenzioni che ogni romanziere dovrebbe portarsi appresso, o più semplicemente dalla mera visione di una partita di Champions League incrociata con qualche pubblicità che decanta l’infallibilità di questo o quel campione semidivino. La sperequazione fra quello che si vede sul campo e quello che viene comunicato dagli spot è enorme. Sul campo anche i semidei sono sottoposti alle leggi dei mortali, dove nessuno è immune dall’infortunio o dalla disdetta o dalla porcheria, e dove – poniamo – anche un Santon può fermare Cristiano Ronaldo. Negli spot la distinzione fra il ristretto numero di semidei e la vasta maggioranza di onesti pedatori viene dilatata a dismisura, resa incolmabile dalla reiterazione sempiterna di immagini della momentanea perfezione del campione, così che – poniamo – lo spot calcistico crea un mondo di plastica in cui Cristiano Ronaldo segna sempre e Santon nemmeno possiamo sognarcelo. Come che sia, a Samsonov viene l’idea e a Šuvalov il dubbio: non è che la perfetta difesa della Juventus viene bucata un paio di volte perché Thuram decide scientemente di non marcarlo per tutto il secondo tempo, lasciandogli ogni volta quei decisivi due-tre secondi di vantaggio? Non è che intorno al campione si crea un’aura di intoccabilità che gli garantisce di reiterare a oltranza le temporanee mosse inarrestabili che hanno infiammato la fantasia dei tifosi? Non è la testimonianza della progressiva trasformazione del calcio (coi suoi infortuni, le sue rogne e le sue porcherie) in un gigantesco spot globale incentrato su un gruppo ristretto di semidei, alcune volte alleati altre volte contrapposti? Non è che il giovane imbattibile Šuvalov è l’ennesimo protagonista di una messinscena programmata a tavolino, umiliante per sé e per gli altri?

Chissà se, fuori dal romanzo, di Šuvalov non ne esiste nessuno, o se invece ce ne sono troppi.

venerdì 6 marzo 2009

Letterine letterarie (22)

Gurrado,
quindi pensi che l’Inter non arriverà in finale di Champions League?
Mirko

Non esterniamo affermazioni affrettate. Per ora penso che l’Inter potrebbe non arrivare in finale di Coppa Italia.

Esimio dott. Gurrado,
le parole del Sommo Pontefice fatte pervenire in occasione della restituzione della chiesa di rito ortodosso di Bari agli antichi e “legittimi” (?) proprietari, ossia al Patriarcato di Mosca, richiedono un’analisi dell’ecumenismo di San Nicola di Mira alla luce dei nuovi scenari (ed equilibri) geopolitici. La ringrazio.
Ortodosso filo-sovietico

Zi’ Casimiro (ti conosco, mascherina, o almeno credo: di ortodossi filosovietici non ne frequento mica tanti),
per errore mi hai spedito una domanda che in origine doveva intendersi rivolta alla rubrica postale di Sergio Romano sul Corriere. L’unico San Nicola di cui sono esperto è lo stadio (finale per il terzo posto a Italia ’90, finalissima della Coppa dei Campioni nel ’91, etc); e quali scenari ed equilibri geopolitici vuoi che vengano illuminati da un blog che, per dirla con Jerome Klapka Jerome, non eleverebbe una vacca? Tanto più che l’intera faccenda della restituzione della chiesa ortodossa di Bari non l’ho seguita avendo trascorso buona parte della giornata in questione in aeroporto prima e in aeroplano dopo (uno dei rari casi in cui, non già la vacca, mi elevo almeno io). Oltre a non seguire quello che fa Napolitano, in ogni circostanza, nell’occasione non ho nemmeno potuto seguire quello che ha detto il Papa, contrariamente al solito, e me ne spiaccio. Quanto a Napolitano, ultimamente è lui che segue me. Volo da Gravina a Pavia (be’, da Palese a Linate) e appena atterro me lo ritrovo lì in Aula Magna che presenzia all’inaugurazione dell’anno accademico (a gennaio, tanto per dare idea della rapidità d’azione dell’università italiana). Volo da Pavia a Gravina (be’, da Linate a Palese) e me lo ritrovo nella chiesa ortodossa che la sta restituendo ai Russi. Se putacaso a fine mese dovessi andare a casa del demonio me lo ritrovo pure là? (Sì.) Tanto più che ero talmente preso dall’emozione per aver ricevuto il mio bagaglio non più tardi di dieci minuti dopo l’atterraggio che ho prestato poca attenzione ai tg della sera e, in stato confusionale, avevo capito che la chiesa ortodossa fosse mera scenografia e che stessimo restituendo ai Russi Napolitano. In fin dei conti sempre antichi e legittimi proprietari sono.

Ma è così educato rimanere anonimo?
Ginkers
Di questi tempi ormai non è più anonimo rimanere educato.

Grazie per gli auguri,

Sì ma ormai Facebook sta divorando tutto, perfino con l'impercettibile riga che inizia ad avvisarti dei compleanni di tutti i tuoi amici indistintamente (dev'essere un problema per Veltroni, che a quanto pare ne conta 5.000 a fronte dei miei 116 in costante e irreversibile diminuzione) già da una settimana prima, così che in un colpo solo perdono valore:
- la capacità di ricordare le date a distanza, poiché in fin dei conti ogni grande storico ha iniziato la sua carriera ricordandosi tutti i compleanni propri e altrui;
- la scelta consapevole, col passare del tempo, degli amici dei quali ricordare le date;
- l'associazione fra persona e data che resta profondamente incisa nella memoria anche quando per un motivo o per un altro si smette di fare gli auguri, e che vale a dimostrare intimamente che non tutti i giorni sono uguali agli altri;
- l'agendina, la cosa più importante da regalare a qualcuno a cui si vuole bene, perché implica la speranza di diventare al contempo contenitore e contenuto del suo tempo (perdonatemi, sto leggendo Sloterdijk che discorsi del genere ne fa a iosa);
- gli auguri stessi, perché quelli di una persona che si ricorda la mia o tua data di nascita da dodici mesi finiscono per essere messi sullo stesso piano di quelli che se ne sono ricordati solo grazie a Facebook, quest'inumano onnipervasivo Mnemone.
Detto questo, ero sicuro che fossi nata il 7 marzo, e se non ci fosse stato Facebook a correggermi sicuramente avrei sbagliato giorno. L'unica maniera di resistergli, ormai, è festeggiare solo gli onomastici (ora vi voglio, a sapere se io festeggio Sant'Antonio Abate o Sant'Antonio da Padova o Sant'Antonio Maria Claret vescovo o Sant'Antonio martire del 23 settembre o Sant'Antonio martire del 10 luglio o Sant'Antonio Caixal o Sant'Antonio di Costantinopoli o Sant'Antonio di Gerace eremita o Sant'Antonio Gonzales domenicano o Sant'Antonio Pecierskij o Sant'Antonio Vallesio o Sant'Antonio da Nagasaki fanciullo.

Gurrado,
il 2009 sarà terribile.
Tremonti

Grazie, l'avevo già intuito.