Certo, per tutte le duecento pagine della storia il lettore è sottoposto alla tentazione di confrontare l’opera di Magni romanziere con quella di Magni regista. Non deve: si tratta, possiamo argomentare, di due differenti livelli nella stessa persona. Nonostante i punti di contatto siano visibili (l’attenzione alla storia di Roma, un mite scetticismo, la predilezione per il motto arguto e la capacità di sondare senza piagnistei le pieghe più contraddittorie ed eterne dell’animo umano) romanzo e film restano necessariamente opere ben diverse e presumo che Magni stesso sarebbe il primo a dolersi del raffronto.
Che Magni sia un formidabile dialogista resta tuttavia fuori discussione in entrambi i campi, e viene comprovato dal repentino impennarsi della sua prosa quando, superata la prima pagina, si passa dalla piana enunciazione narrativa (“A Roma regnava Papa Pio VI Braschi quando, sulla riva del Tevere, nacque Lucina”) alla prima riga virgolettata che giunge dalla voce di un personaggio e pare di sentire risuonare diretta e viva: “Figlia, a Roma tutto finisce a fiume”. Il Tevere stesso, fra questi due estremi, sembra cambiare colore e senso. Nella narrativa scorre placido come apportatore di vita, nella riga di dialogo è la fogna a cielo aperto nella quale affogano le disperazioni individuali, prima fra tutte quella della madre di Lucina. Nelle parole di un altro personaggio secondario, il Tevere è “la patria ideale di tutti gli affogati”.
Così i dialoghi sono il valore aggiunto di questo romanzo. A Lucina, costretta a travestirsi da maschio per poter cantare sui palchi della Roma papalina, viene riferito: “A Parigi, sarai uguale a chiunque altro” - e lei risponde: “Io voglio essere uguale qui”. Luciano Bonaparte ragguaglia un ex giacobino moderato, il dottor Silvestri: “Stanno per accadere cose terribili” - e questi risponde: “Stavamo in pensiero”. Ogni giorno la vecchia e spenta Lucina, ormai paralizzata, reitera questo dialogo col suo nobile mesto marito: “Attilio, che fai?”-“Sorto.”-“Dove vai?”-“A nessun sito”. A questo punto la domanda diventa: perché della storia di Lucina – giovinetta prima costretta a passarsi da castrato, quindi vittima del fallimento del giacobinismo, infine blanda alleata della nobiltà al tramonto – Luigi Magni ha fatto un romanzo invece che un film?
La risposta credo vada cercata nella portata del romanzo stesso, ovvero nella maniera peculiare in cui Magni decide di sviluppare la trama. Nonostante il titolo la ponga sotto una sorta di riflettore esclusivo, Lucina non sembra la vera protagonista del romanzo che porta il suo nome e che inizia con la sua nascita. Non a caso Magni dà il meglio nella seconda parte del romanzo, quella ambientata non nella Roma di Pio VI e della Repubblica Romana ma in quella di Pio VII e dei moti del 1821: lì il riflettore si sposta dalla vita individuale di Lucina, dal suo combattimento individuale per il teatro e per l’amore a quello collettivo per una Roma migliore. Ma, e qui torna il genio che Magni ha già espresso in tutti i suoi film, questo combattimento è aprioristicamente destinato allo scacco, come specifica il sopranista Romanino sin dalle primissime pagine: “La ragione trionfante provocherà gli stessi danni dell’irrazionale. La ragione è dogmatica, come l’assoluto. E il rigore giacobino è intollerante, come la morale oscurantista”.
La narrativa quindi, più che la cinematografia, permette a Magni di esprimere su più vasta scala il suo scetticismo storico. All’inizio – quando la messa in moto del romanzo è un po’ faticosa, e le virgole non sembrano essere tutte dove dovrebbero e l’autore sembra essere un po’ a disagio con la prosa – viene il dubbio che forse lo stesso romanzo sarebbe stato molto più centrato se Magni si fosse limitato a dar voce ai personaggi, narrando la storia di Lucina (e di tutta Roma che le gira inttorno) solo e soltanto con il serrato dialogo fra di loro. Invece, man mano che la trama s’infittisce e l’individualità di Lucina passa sullo sfondo in favore della storia collettiva, i passi di prosa diventano un ottimo contrappunto all’arguzia dei parlati. Sono come degli a parte in cui non un personaggio ma l’autore si diffonde sul senso della Storia che vede scorrere i giacobini, Napoleone,
La voce di Magni è la voce del Tevere. Nella toccante scena alla fine del romanzo, Lucina torna sulla riva del fiume dov’è nata e si vede venire incontro una frotta di bambini. L’unica femminuccia la lambisce prima di venire richiamata dagli altri col suo stesso nome, Lucina. Magni spiega che lì vicino, sui ruderi del tempio di Giunone Lucina, è stata edificata la chiesa di San Lorenzo in Lucina e quindi non è raro che le bambine vengano chiamate così – in ogni tempo, pagano o cristiano che sia. In quell’istante il riflettore del romanzo torna sulla protagonista ma non in maniera univoca o individualistica: Lucina diventa una specie di spirito eterno che si ripercuote nei secoli. Di fianco al tempio che diventa chiesa e alla donna che ritorna bambina, il Tevere continua a scorrere con la crudele indifferenza della Storia che passa e dei secoli che si affastellano su Roma – una città che li considera con immutato scetticismo e li archivia con un motto arguto sapendo che lì, prima o poi, “tutto finisce a fiume”.
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