sabato 31 ottobre 2009

Eventi piegati e braccia d'inchiostro

La volta prossima che se n'esce qualcuno dicendo scettico "Ma Enrico Brizzi? Quello di Jack Frusciante?", ho deciso il mio contegno: lo afferro per le caviglie, lo faccio roteare tre volte e poi lo scaravento verso sud-sud-ovest senza considerare gli eventuali ostacoli che possano frapporsi. Da Oxford a Gravina ho avuto tempo sufficiente a leggere Il pellegrino dalle braccia d'inchiostro ed è un libro coraggioso e intenso, che dice molte più cose di quante se ne leggano in superficie. Non credete a chi dice che è la storia di un viaggio post-adolescenziale, della ricerca di sé stessi, di altre baggianate così; è un romanzo che riprende pari pari la grande tradizione medievale degli exempla morali. La storia del tatuatissimo pellegrino ex galeotto che ora ha sbocchi di integralismo cattolico d'antan ora si fa vittima sacrificale della miseria altrui è la traduzione in romanzo dei visionari sonetti di William Blake sulla tigre e sull'agnello; è una magnifica parabola di pentimento e redenzione; è un manifesto per chiunque sappia leggere il contrasto fra la fede infuocata del protagonista e il molle pretismo dei caposcout. Se considerate che un anno dopo Brizzi aveva estratto dal cilindro L'inattesa piega degli eventi, ambiziosissimo grande romanzo italiano, direi che abbiamo trovato uno scrittore vero - in Italia è merce rara. (Talmente rara che quando a Torino, alla Fiera dell'anno scorso, Brizzi veniva intervistato da una televisione locale alcuni passanti chiedevano incuriositi: "Chi è? Dj Francesco?").

giovedì 29 ottobre 2009

Siam pronti alla morte?


Renato Brunetta sostiene che per risollevare la funzione pubblica al sud ci sarebbe bisogno di una nuova spedizione dei Mille. Io avevo detto già due mesi fa che c'è bisogno di un Risorgimento permanente.

mercoledì 28 ottobre 2009

Cinquanta di questi Cav.


Per chi non l'ha già comprato: sul Foglio in edicola oggi spiego che Berlusconi non è solo utile a risollevare gli ascolti di Ballarò e ad attaccare la scarlattina a Giovanni Floris, ma che è soprattutto fondamentale per la letteratura italiana.

Dieci piccoli indiani


Prodi


Fassino


Cofferati


Veltroni


Franceschini


Marino

Rutelli


Bersani

Bindi?

D’Alema?

martedì 27 ottobre 2009

Habemus copertinam


Ecco la (doppia) copertina dell'antologia double-face dei primi tre anni di Books Brothers: da un lato una scelta dei migliori testi (fra i quali Cosimo Argentina, Livio Romano, Christian Frascella ed, ehm, Antonio Gurrado) curata da Maurizio Cotrona e dall'altro il catalogo simil-elenco-telefonico di tutto ciò che è stato pubblicato su Books Brothers dall'inizio del 2006 alla fine del 2008 a cura di, ehm, Antonio Gurrado. Pare che il tutto, millanta pagine, costi 15 euri ma se venite a Foggia sabato 31 possiamo contrattare di persona.

Chanson d'amour

(Gurrado per Quasi Rete)

atmosfera vagamente retrò
(Matia Bazar, Souvenir)

Ma io Real-Milan l’ho vista in differita, perché Rai1 talvolta ci mette un po’ troppo ad attraversare la Manica; e, appreso del vantaggio di Raul su pateracchio di Dida, mentre sul continente finiva il primo tempo ho spento ogni mezzo di comunicazione per non avere brutte sorprese e mi sono immerso irraggiungibile nella lettura di Giorgio Manganelli, alla luce stratosferica della stufa alogena. Solo quando tutta Europa sapeva il risultato, lo commentava e presumo ne era stupita, ho spento la stufa, ho raggiunto il letto, mi ci sono immerso, ho messo su la registrazione e ho preso a guardare il temporaneo finale di una partita iniziata vent’anni fa.

Accade che Real-Milan sia sempre in differita, sia sempre la replica della finale del ’58 che avrebbe potuto uccidere il filotto delle cinque Coppe biancovestite e contribuì invece al mito dei semidivini Kopa, Di Stéfano e Gento. In un Heysel che ancora non era l’inferno il Real vinse la sua terza Coppa filata con un 3-2 ai supplementari. (Di quel Real, sono fiero di dirlo, Javier Marías mi mandò qualche anno fa la fotocopia delle figurine per ringraziarmi di una recensione). Iniziò allora la rincorsa del Milan, che impiegò trentun anni per compiersi: ché la terza Coppa del Milan arrivò ufficialmente nella finale contro la Steaua, poveraccia, ma era di fatto stata conquistata nella doppia semifinale col Real, sfida in cui passato e futuro si giocavano il presente.

Mercoledì sera il Milan era al Bernabeu con gli stessi pantaloncini neri contro il candidissimo Real. Il calcio, si sa, è soprattutto una questione di maglie. Il 5 aprile 1989 un volo di Hugo Sanchez in coda al primo tempo aveva dato l’impressione che la buona volontà di Berlusconi e Sacchi non sarebbe stata ripagata e che l’arcaico mito del Real sarebbe rimasto inarrivabile grazie ai buoni uffici del Real vivo e concreto dell’epoca. Quella squadra non era mica male, d’altronde: era il Real della Quinta del Buitre (Butragueño, Michel, Sanchis, Martin Vazquez e Pardeza che non se lo ricorda mai nessuno); iniziava con la cantilena Buyo, Chendo, Solana; aveva vinto due Uefa di fila non più tardi di tre anni prima e alla stagione precedente aveva disinvoltamente estromesso al primo turno il volitivo Napule maradonesco. Quando Van Basten pareggiò – e 1-1 fu fino alla fine poiché vincere al Santiago Bernabeu era come minimo impossibile – si capì che per le due settimane fra andata e ritorno il destino sarebbe rimasto in bilico e la Storia avrebbe giocato a fare l’indecisa flirtando con entrambi.

Ma il calcio, si sa, è soprattutto questione di maglie e a San Siro il Real fece l’errore di presentarsi in completo blu. Ora, ditemi voi, che credibilità può avere una sposa vestita di blu? Un Papa vestito di blu? Un Real vestito di blu non sortiva miglior figura. Quando sul tabellone apparve il risultato finale, c’era scritto un pertondo 5-0 ma doveva invece leggersi “punto di non ritorno della storia”. Le grandi d’Europa – in quell’Europa post-Heysel del beato embargo antibritannico – le grandi d’Europa erano due.

Forse non ricordate che l’attuale caravanserraglio della Coppa dei quasi Campioni, oggi accessibile anche ad arrivare quarti in Francia, iniziò col sorteggio malandrino che l’anno dopo ricollocò il Real sulla strada del Milan eurocampione. Lo collocò agli ottavi e non era una rivincita, era la Storia che diceva grossomodo: “Vuoi difendere la Coppa? Devi ripassare sul cadavere del Buitre”. Il Milan la spuntò ma con due distinguo: perse a Madrid con 0-1 ininfluente dopo il 2-0 casalingo dell’andata; e giurò che non si sarebbe mai più arrivati a tanto. Per vincere la Coppa del ’90 il Milan dovette alfine vincere quattro finali: dopo il Real vennero il miglior Malines della storia (fresco vincitore della Coppa Coppe e difeso da Michel Preud’homme, detto dai fiamminghi “er saracinesca”), il Bayern di Strunz e il Benfica di Eriksson. Fu una Coppa che ne valeva molte e purtroppo si decise che di lì in poi il sorteggio sarebbe stato pilotato da teste di serie, paracadute, seconde opzioni, palline calde, palline fredde, prime contro quarte e così via. Il punto più alto della Coppa dei Campioni fu ciò che la bruciò.

Né mi pare un caso che Milan e Real abbiano nobilmente rifiutato di incrociarsi in Europa per vent’anni esatti, come a esprimere sdegno per questa Coppa extralarge che loro stessi hanno voluto ma che tradisce Di Stéfano e Schiaffino, Butragueño e Van Basten. Il calcio, si sa, è soprattutto una questione di maglie e quelle di Milan e Real non sono legate dallo sponsor accidentalmente uguale: sono state scambiate all’Heysel cinquantun anni fa come una promessa di eterna reciprocità, di amore forse.

Così Real-Milan è sempre in differita, fu sempre giocata con lo sguardo indietro e ora una ora l’altra squadra è stata di volta in volta Orfeo ed Euridice. Il primo Milan di Berlusconi voleva inseguire il mito dei blancos pentacampioni. Il Real delle ultime tre Coppe ad anni alterni voleva scacciare le ombre rossonere che si erano allungate sul continente a fine secolo.

Per questo il secondo tempo registrato, mercoledì scorso, viveva di vita propria e indipendente da Dida e Kakà, che vanno bene per le chiacchiere da lounge bar. Per questo i miei recenti vicini di casa, che mi sanno persona tranquilla e morigerata, si saranno fatti un’idea del tutto innovativa sui miei rapporti interpersonali dopo avermi sentito per tre quarti d’ora battere sul materasso e urlare attraverso muri di cartapesta: “Aaaah! Sì! All’improvviso!” (1-1 di Pirlo); “Sì! Sì! Ancora, così!” (1-2 di Pato); “No! Sacripante! Non farlo!” (2-2 di Drenthe); “[inintelligibile]” (2-3 di Pato). Io non volevo vedere i giocatori, io volevo vedere le maglie: quando ho notato il Real candidissimo e il Milan in calzoncini neri ho capito che non si giocava per il jingle della Coppa mastodontica, si giocava per finire l’opera che Van Basten aveva iniziato nel secondo tempo di vent’anni fa.

lunedì 26 ottobre 2009

Dieci considerazioni inattuali sul PD


1. Come ogni anno, il PD ha vinto le primarie.

2. La dichiarazione ecumenica di Pierluigi Bersani, "Ho vinto io ma è una vittoria di tutti", è stata riportata solo parzialmente. La versione integrale parlava di "vittoria di tutti quelli coi baffi".

3. Franceschini. Basta, smettetela di ridere.

4. Con Bersani si apre una fase nuova per la sinistra italiana. A presiedere il partito verrà chiamato Romano Prodi. In caso di suo rifiuto, verranno rapidamente sondate le disponibilità di Nilde Jotti, Agostino Depretis e Bernardo Tanucci.

5. (Intanto è iniziato il processo a Radovan Karadzic, un uomo che non ha mai fatto male a una escort).

6. Fonti beninformate riferiscono che sia già pronto un video che ritrae Pierluigi Bersani nell'atto di guardare con sommo diletto Don Camillo monsignore ma non troppo.

7. Ma, sinceramente, vi mettereste in casa 15 persone che votano Ignazio Marino?

8. Tre milioni di persone, secondo le consuete stime al ribasso del PD, hanno pagato due euri per partecipare alle primarie. Alle regionali di fine marzo, molti di loro andranno al mare, dimenticheranno che i seggi chiudono alle 22 oppure opteranno per Casini e Rutelli. Evidentemente è gente refrattaria a votare gratis.

9. Tre milioni di persone, secondo le consuete stime al ribasso del PD, hanno pagato due euri per ratificare una scelta di D'Alema. Rispetto ai tempi del PDS, la scelta di D'Alema ha quindi fruttato sei milioni di euri (11.617.610.000 lire) in più. Si tratta di una grande vittoria per la democrazia.

10. Be', almeno è comunista.

domenica 25 ottobre 2009


Così ovviamente non si vede una mazza, ma se cliccaste sull'immagine scoprireste che è in vendita Frammenti di cose volgari, l'antologia che raccoglie il meglio di tre anni di Books Brothers ivi compresa una dozzina di mie pagine su Giuseppe Berto. Una volta acquistata l'antologia, se la giraste al contrario scoprireste che dall'altro lato c'è attaccata e incorporata Acqua passata, ossia il catalogo dettagliato di tutta l'attività di Books Brothers fra 2006 e 2008, curato da me: sul sito potete leggere in anteprima la mia introduzione. Infine, se voleste nutrire il fondato dubbio che io viva veramente in Inghilterra, sabato 31 ottobre potreste presentarvi alla libreria Ubik di Foggia (piazza Giordano 76) e notare che interverrò in carne e ossa nel corso della presentazione del volume double-face, alle 18:30.

sabato 24 ottobre 2009

M'illumino d'arrazzo

Ferma restando la mia convinzione che un politico debba pensare a governare e che, una volta governato, a fine giornata può scegliere il passatempo che più lo aggrada senza per questo dover venire ricattato o incorrere nello scandalo degli scagliatori professionisti di prime pietre; e fermo restando un certo sospetto per la netta distinzione fra i politici di centrodestra che, da Cosimo Mele in poi, vanno tutti a donne e i politici di centrosinistra che, da Silvio Sircana in poi, vanno tutti a transe; fermo restando tutto ciò, al governatore del Lazio suggerisco la prossima volta di ispirarsi all'esperienza pregressa di Oscar Wilde. Un giorno un giovanotto di malaffare lo avvicinò mostrandogli una lettera compromettente scritta da Wilde a un altro puttanello e chiedendogli in ricatto una determinata somma; Wilde prese la lettera, la soppesò e la restituì al giovanotto dicendogli sdegnato: "Le cose che scrivo sono abitualmente valutate almeno il doppio". Marrazzo avrebbe dovuto fare uguale: guardare il video, sputare in faccia ai tre carabinieri che gli chiedevano chissà quanto e rispondere loro: "Guardate che per apparire in tv venivo pagato almeno il doppio".

venerdì 23 ottobre 2009

Io sono il target


Capita dunque che io sottoscritto, Antonio Gurrado, diplomato a pieni voti quando ancora c'erano i sessanta sessantesimi presso lo storico Liceo Ginnasio Cagnazzi di Altamura (BA), classico manco a dirlo; laureato con lode presso l'Università degli Studi di Pavia in qualità di allievo del Collegio Ghislieri, fondato nel 1567 da papa Pio V e tuttora retto secondo principi di esclusivo merito; specializzato a Napoli presso l'Istituto Italiano per gli Studi Storici, fondato nel 1946 dal senatore Benedetto Croce; perfezionato a Modena presso la Scuola Internazionale di Alti Studi della Fondazione Collegio San Carlo, ivi congedato magna cum laude dopo aver difeso la tesi Teocrazia e monarchia ebraiche: Voltaire fra religione e politica; insignito di una Marie Curie Fellowship presso l'University of Oxford, tuttora in corso - dicevo, capita dunque che io sottoscritto, eccetera eccetera, l'altra sera torni a casa e trovi una mail della Cepu intitolata: "Sei ancora in tempo per diplomarti!". Di questi tempi saper selezionare il proprio pubblico è tutto.

giovedì 22 ottobre 2009

In nome della libertà di parola, sta' zitto

Stasera i progressisti inglesi, invece di seguire come dovrebbero Fulham-Roma, si roderanno come Rockerduck la bombetta guardando il leader dello xenofobo British National Party intervenire alla versione d'oltremanica di Porta a Porta. I progressisti inglesi ritengono che il leader del BNP sia un intollerante e quindi non tollerano che possa parlare in pubblico. Sul Foglio di oggi squaderno il paradosso nell'articolo La libertà di parola inglese - Questa sera in tv c'è l'impresentabile Griffin, scandalo!

mercoledì 21 ottobre 2009

Il rasoio di Beckham

Mi scrive la Gnozza: "A proposito di male assoluto, ma mi hai cancellato dai tuoi contatti su Facebook?" Al che io rispondo: figurarsi se la cancello da Facebook - io sono egocentrico e quindi, stanco di cancellare gli altri, mi sono cancellato da solo.

Mi faceva perdere troppo tempo, vero, ma questo è un luogo comune: chiunque è in grado di dire che Facebook gli fa perdere troppo tempo, persino la gente che ha tempo da perdere. La vera ragione (spiegata alle ragazze) è che Facebook sta diventando un onnivoro sostituto dei rapporti umani, specie per quelli della generazione mia e della Gnozza e in particolare per quelli che hanno più venti che trent'anni. 

Io, ragioniamo, sono una persona con due indirizzi di casa, un indirizzo di lavoro, due numeri fissi in Inghilterra, uno in Italia, due cellulari, una mail privata, una mail professionale e il blog meno letto del mondo - direi che anche senza Facebook sono un uomo non propriamente irraggiungibile. Direi anche che Facebook non ha diritto alcuno di sostituire in tromba l'elenco di mezzi di comunicazione di cui sopra. Mi sono suicidato per compiere un gesto di luddismo domestico.

Senza considerare che davvero Facebook faceva perdere un sacco di tempo. Me ne sono accorto nel primo giorno di libertà incondizionata quando, oltre a lavorare, sono riuscito in scioltezza a leggere un libro breve, a recensire un libro lungo, a scrivere una satira anti-islamica che mi costerà la vita, a prendere un caffè con un collega e pure a guardarmi la Domenica Sportiva in differita, compresa la mezz'ora finale in cui parlano di basket e taekwondo.

In realtà del rapporto con Facebook uno considera il tempo complessivo in cui lo utilizza ma non gli strascichi. Uno dice: io non perdo un sacco di tempo con Facebook, mi limito ad accedere cinque minuti sei volte al giorno per complessiva mezz'ora. Bene, ma ogni volta quei cinque minuti uccidono la mezz'ora in cui potresti metterti a leggere o a scrivere o farti la barba o mandare un messaggio in cui chiedi a qualcuno se vuole un caffè. Invece in quella mezz'ora finisci per leggere istintivamente che il tuo amico Gurrado si sta facendo due spaghetti, e vabbe'; che l'amico di Gurrado commenta dicendo che lui sta invece friggendo un pitone e che l'amico dell'amico di Gurrado sta parossisticamente studiando perché se la fa sotto per l'esame di posdomani ma ciò nondimeno oggi e sempre ritiene che Berlusconi vada condannato a morte. Quante eccessive informazioni superlfue, quante eccessive informazioni controindicate. Meglio usare il rasoio di Ockham che, visto il suo new style barbuto, oggi potrebbe venir definito rasoio di Beckham.

Il mio suicidio virtuale è nato dalla lettura, sabato sera a letto sotto il lume, di un articolo di David Hare sul numero speciale del Guardian weekend che celebrava il decennio in cui tutto è cambiato. Uno pensa al terrorismo, alla crisi, etc.; però Hare faceva notare che tutto è cambiato anzitutto nella nostra percezione del mondo: guardiamo altrove. Su internet cerchiamo un'informazione, su internet controlliamo una citazione, su internet ci godiamo una canzone (noi che, in questo caso, ascoltiamo in rime sparse il suono). E, diceva un altro articolo, ci sono oggi almeno dieci marchingegni informatico-virtuali dei quali non possiamo più fare a meno. Alcuni non so nemmeno cosa siano, tipo Craiglist, in altri casi rinunzio a Satana, tipo Twitter, in altri m'è parso giusto far vedere che invece indietro si torna e come, se si vuole, e che di Facebook si può fare a meno. Ci vediamo altrove.

"Mozart, James Joyce and sodomy"

Vostra figlia vi porta un fascista in casa? Vostro figlio si innamora di una che somiglia alla Prestigiacomo invece che alla Bindi? Non preoccupatevi, se vi trasferite in Inghilterra il Guardian funge da mezzano fra i suoi lettori single accoppiandoli secondo criteri rigorosamente progressisti. Spiego tutto sul Foglio in edicola oggi con l'articolo Così sta fallendo l'esperimento di eugenetica intellettuale del Guardian - Mozart, Joyce, ma niente sesso anale. (Non sono impazzito, è una citazione da Woody Allen).

lunedì 19 ottobre 2009

Trova la differenza

[Comune di Aci Trezza sul Naviglio, liceo “Cardinal Martini”, lunedì, ore 10:25, ora di religione.]

Il prete [facendo lezione] ...pertanto alla fine del II secolo Clemente Alessandrino, maestro di Origene Adamantio, polemizza contro Ammonio Sacca...

Gli alunni [dormendo] Z.

[Un allievo, scocciatosi, si alza causando il risveglio degli allievi più prossimi al suo banco. L’improvviso risveglio infastidisce il prete, che protesta]

Il prete [protestando] Io protesto! Dove credi di andare senza permesso?

L’allievo transeunte Professore, sono io che protesto: mio padre è un libero pensatore, non riconosce il concordato, odia Craxi più di Mussolini ergo mi fa avvalere della facoltà di essere esonerato dall’ora di religione e di trascorrerla invece seduto per terra in corridoio a guardare le figure del manuale di biologia.

Il prete [riponendo la spada nel fodero] Allora va bene, va’ pure, peggio per te.

L’allievo transeunte [indicando i compagni di classe] Peggio per loro.

Il prete [riprendendo da dove s’era fermato] ...pertanto cade in contraddizione con quanto sostenuto dalle encicliche Quemadmodum e Gravissimo Officii Munere...

Gli alunni [riprendendo da dove s’erano fermati] Z.

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[Comune di Aci Trezza sul Naviglio, liceo “Cardinal Martini”, lunedì, ore 10:25, ora di religione islamica.]

L’imam [montando in vetta all’armadio] La ila’ah illah lah!

Gli alunni più solerti [ponendosi col culo all’aria] Ci poniamo col culo all’aria!

[Un allievo, sciocciatosi, si alza facendosi strada fra la selva di natiche prospicienti. L’improvviso movimento infastidisce l’imam, che protesta]

L’imam [protestando] Io protesto! Dove credi di andare senza permesso?

L’allievo transeunte Professore, sono esentato dall’ora di religione...

L’imam Bismillah al-ramani rahim, nessuno è esentato! Quando la giumenta al-Borak condurrà la tua anima persa in cielo, nell’al-Janna, cosa dirai ai sommi giudici? Che sei esentato? Su, anzi, giù, ed elenca le mogli del profeta.

L’allievo transeunte [inginocchiato su dei datteri] Khadija bint Kuwaylid; Sawda bint Zama; Aisha bint Abi Bakr, Hafsa bint Umar, Zaynab bint Jhuzayama bint al-Harith; Hind bint Abi Ummayya; Zaynab bint Jahsh bint Riab al-Asadiyya; Juwayriyya bint al-Harith bint Abi Dirar; Ramla bint Abi Sufyan; Rayhana bint Amr; Sayfa bint Huyay bint Akhtab; Maymuna bint al Harith bint Hazn; Mariya bint Shamun bint Ibrahim, detta “l’eritrea”.

L’imam [agitando un cammello] Sbagliato! Era detta “la copta”! Ci avrei giurato che non sapevi la risposta, tu non studi perché non rispetti la tua religione!

L’allievo transeunte inginocchiato [piangendo] Ma professore, io sono...

L’imam [fumando il narghilè e sbuffando mezzelune] Cosa essere tu?

L’allievo transeunte inginocchiato piangente [timidamente] ...cristiano, professore?

L’imam [sgozzando un bidello] Orrore, sacrilegio, fine del mondo! Sei più sfacciato di una donna che faccia vedere le labbra! Come fai a essere cristiano, se stiamo insegnando l’Islam? Fingi di non sapere che in ogni madrassa l’Alcorano può essere insegnato solo ai mussulmani? Noi stiamo facendo l’ora di Islam, quindi tu sei mussulmano. Non vi ho detto mille volte...

Un allievo prostrato [con la mano sulla vescica] Professore, non ce la faccio più, posso andare in bagno?

L’imam [violentando una pianta carnivora] Vai, che Allah ti strafulmini! [L’allievo prostrato si rialza. Allah lo strafulmina] Non vi ho detto mille volte che Islam significa sottomissione? Di’ la verità, sei tu che quest’anno non sei venuto in gita a La Mecca!

L’allievo transeunte inginocchiato timido piangente Professore, io volevo andare in gita a Barcellona.

L’imam [organizzando un attentato a Barcellona] A Barcellona! La culla dell’integralismo cattolico! Quant’è vero che in quest’armadio è nascosto il Mahdi, non hai alcun ritegno. Allora, visto che vuoi fare il cristiano, sii coerente coi tuoi principii: fatti crocifiggere.

L’allievo transeunte Ma secondo me [muore in croce]

Gli alunni più solerti [restando col culo per aria] Siamo rimasti col culo per aria!

L’imam Voi sì che mi date soddisfazione, si vede che avete spirito di iniziativa. Adesso vi spiego come mai l’Islam è la strada più breve per il Paradiso. Siete pronti? [lasciandosi esplodere] Bum!

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Questo dialogo paideutico è da intendersi a scopo satirico-dimostrativo. Nessun mussulmano è stato maltrattato durante la stesura.

venerdì 16 ottobre 2009

Incroci pericolosi

Una volta tanto dall'Africa giungono notizie consolatorie che ci fanno ben sperare riguardo alla perfetta integrazione fra mussulmani e cristiani. A quanto riferisce una fonte locale, nel corso degli ultimi giorni in Sudan sette cristiani sono stati crocifissi dai mussulmani. Costoro in un sol colpo hanno dimostrato profonda conoscenza delle tradizioni altrui (la crocifissione ha storicamente a che fare con il Cristianesimo e ben poco con l'Islam), piena disponibilità al confronto (se i cristiani ritengono che il martirio li conduca al Paradiso, perché privarli dell'opportunità?) e perfino una non richiesta apertura all'ebraismo e più in generale alla cultura occidentale: com'è noto, la tradizione cristiana più oltranzista voleva che la crocifissione fosse tipicamente ebraica ma ulteriori studi hanno dimostrato che essa è invece da ritenersi un'invenzione degli antichi romani. Ben venga dunque quest'Islam moderato, ricettivo e pronto a rifiutare secoli di fraintendimenti col Cristianesimo mettendoci una croce sopra. Quando l'ultimo mussulmano avrà crocifisso l'ultimo cristiano, l'integrazione sarà completa.

giovedì 15 ottobre 2009

Senza famiglia

Su Tempi in edicola da oggi (lo so che è tardi, calmatevi, lo trovate per tutta la settimana a venire) descrivo come funzionerà la politica familiare delle pizzerie nel giro di qualche anno - o anche di qualche giorno, stando a quanto ho già visto con questi occhi miei sì belli. Il tutto all'interno di un numero dedicato, come da copertina, alle famiglie extralarge, ossia quelle in cui se succede qualcosa non si sa mai con precisione di chi è stata colpa.

Io sono figlio unico, quindi potete immaginare.

mercoledì 14 ottobre 2009

Cosa non ho detto

Delle tre persone che mi leggono abitualmente almeno mezza avrà vegliato sabato notte per vedermi su Rai2, e di questa mezza almeno tre quarti avranno protestato perché alla fine ho detto solo due frasi. Ovvio, lo sapevo; sia perché io sono verboso e non favorisco i tempi televisivi, sia perché in assoluto il tema - i giovani al Festival Filosofia - poco si sposava con me che, su Rai2 si è notato più che altrove, già abbondo in capelli bianchi.

Onore dunque alla giornalista Francesca Altomonte, già nota per aver rivelato in fascia protetta che Babbo Natale non esiste, la quale da dieci minuti d'intervista a Carpi (un quarto d'ora? venti minuti?) è riuscita a mettere insieme ben due mie frasi coerenti con il tema del servizio; e onore ai valenti patrioti che, essendo giovani veramente, hanno fatto miglior figura rispetto all'impostazione teorica della trasmissione, ossia che per quanto i giovani d'oggi non abbiano valori alcuni di loro sono abbastanza profondi da andare al Festival Filosofia.

Dunque dal servizio del Tg2 Dossier Storie è emerso che mentre il patriota Francesco si sveglia al mattino pensando che il cuore è forte e lo spirito è pronto io al massimo penso che la carne è debole e decido cosa scongelare per cena; che mentre la patriota Paola si sente un po' un'aliena io mi trattenevo dal rivelare alla Altomonte, in quanto giornalista seria, che alle tre della notte prima mi aggiravo semiubriaco per la via Emilia con gli amici (mamma, salta la riga precedente); che mentre la vita della patriota Tessa detta Teresa non è composta da persone dall'esistenza così urlata e superficiale io facevo l'elogio del Grande Fratello dicendo che era l'espressione meramente estetica dello spirito del tempo e rivendicando come Ugo Tognazzi il diritto alla cazzata perché si ha vent'anni una volta sola e mai più.

Ma ho capito che nulla di quello che stavo dicendo sarebbe stato trasmesso nel momento in cui la brava Altomonte mi ha chiesto se suggerirei a dei ragazzi più giovani di iscriversi a filosofia e ho detto quel che penso. Voi non l'avete vista perché la telecamera era puntata su di me (e in realtà non avete visto nemmeno me) ma l'ottima Altomonte ha cambiato faccia: pareva che le avessi detto io che Babbo Natale non esiste più.

lunedì 12 ottobre 2009

Colpi di scena

(Gurrado per Il Foglio)

Su Marc Augé pesa la condanna di essere citato esclusivamente quale profeta dei non-luoghi, precipuamente aeroporti e centri commerciali. In Nomi, cose, città: viaggio nell’Italia che compra (Fandango) Arnaldo Greco esordisce con la descrizione di Vulcano Buono, centro commerciale a forma di Vesuvio recentemente inaugurato a Nola; Marc Augé compare puntuale alla penultima riga della seconda pagina. Non compare invece un centinaio di pagine dopo, quando si parla della proliferazione di festival culturali, eppure lì me lo sarei aspettato in quanto la principale novità dell’ultima edizione del Festival Filosofia di Modena è stata l’ingresso di Augé nel comitato scientifico al fianco di Remo Bodei e Tullio Gregory. Lì, invece di Augé, Greco cita Michele Serra che già anni fa paventava l’invenzione di vari Festival del Metabolismo, Festival della Meccanica Pesante e Festival della Minchia. Volendo, avrebbe avuto gioco facile nel chiamare in causa Augé per dileggiare l’Italia dei non-festival.
Giustifica
Ne chiedo ragione a Greco stesso, che mi spiega di essere andato al Festival di Modena solo nel 2007, edizione alla quale Augé prese parte ma senza ruoli istituzionali. Più freschi sono i suoi ricordi del Festivaletteratura di Mantova 2008 dal quale ha ricavato la sensazione che “un incontro con Jonathan Safran Foer si riferisce immediatamente a un genere di coinvolgimento molto più superficiale” della lettura dei suoi romanzi. Presumo sia così ma non posso confermarlo: avendo deciso di andare al Festivaletteratura solo e soltanto se invitato a parlare, plausibilmente non ci andrò mai né potrò scoprire se Greco abbia ragione. In compenso detengo un’affidabile infiltrata al Festival di Mantova alla quale giro la domanda per capire se in un’iniziativa così mastodontica il coinvolgimento debba sempre essere inversamente proporzionale alle dimensioni.

La risposta della signorina Giulia mi sorprende. Sostiene che il vero numero chiave non sia quello espresso in decine di migliaia per ratificare l’ammontare del pubblico bensì una cifra più modesta: 600. Si tratta del numero di ragazzi blu, ossia di giovani che collaborano all’organizzazione del Festivaletteratura rendendosi riconoscibili grazie alla maglietta blu. Il Festival è a settembre, loro vengono scelti ad agosto e devono candidarsi in luglio. Dunque già due mesi prima, contate le domande, si riesce a intuire il successo del Festivaletteratura non per estensione ma per peso specifico.

I ragazzi blu vanno a Mantova né per parlare né per ascoltare: sono l’intercapedine fra gli scrittori e il pubblico. Devono accompagnare gli autori stranieri industriandosi con un inglese fluente; spiegare alla folla inferocita che una sala da 300 persone non può contenerne 3000; tenere d’occhio le aree dedicate ai bambini nelle quali è sempre incombente la rissa fra genitori; faticare indifferentemente sotto il caldo cane o la pioggia battente; in più devono astenersi dal perdere la pazienza a costo di diventare dello stesso colore della maglietta. Che le domande crescano ogni anno è stupefacente quasi quanto la recidività di alcuni di loro (la signorina Giulia è blu dal 2003 ma non è ancora esplosa): direi che il loro coinvolgimento è molto più profondo rispetto a quello di chi compra un libro di Safran Foer e se lo fa autografare con dedica.

I volontari sono il criterio infallibile per distinguere un festival ben fatto da un non-festival o, direbbe Serra, da un Festival della Minchia. Mai come in questo caso le dimensioni non contano: ospitare grandi nomi è relativamente facile; riempire le sale o le piazze non è impossibile. Trovare giovanotti pronti a tre o cinque giorni di mal di gambe è più difficile perché ci vogliono motivazioni vere; al contempo è necessario perché senza adeguata manovalanza nessun festival si fa così come nessuna squadra di calcio vincerebbe mai senza l’apporto di oscuri centrocampisti. Tg2 Dossier Storie l’ha intuito e ha dedicato alcune interviste (in onda nella notte di sabato 10) ai giovani del Festival Filosofia di Modena. La particolarità di Modena è che ai consueti collaboratori – maglietta gialla – se ne affiancano altri vestiti da persone normali ai quali sono affidati compiti di maggiore responsabilità come i contatti con la stampa o la presentazione di conferenze. Si tratta di una dozzina di ricercatori sparsi per l’Italia e un po’ di estero che hanno in comune una sola cosa: il dottorato a Modena con Michelina Borsari, storica direttrice scientifica del Festival. Ogni settembre tornano lì, collaborano all’organizzazione e forse costituiscono una piccola comunità filosofica in prospettiva – solo il tempo saprà dirlo.

E ora, colpo di scena: per abbassare la credibilità della trasmissione, Tg2 Dossier Storie ha intervistato anche me che dal 2005 passo tre giorni di settembre a contenere gli slanci delle fan più agé di Umberto Galimberti, a far del mio corpo scudo a James Hillman mentre mille mani si stendono per toccarlo a mo’ di re taumaturgo e poi a infilarmi una cravatta al volo per presentare urbi et orbi filosofi di cui ignoro l’identità fino a mezz’ora prima. Perché lo faccio? Perché ai tempi del mio dottorato Augé tenne un corso a Modena e sarò rimasto suggestionato da questa storia dei non-luoghi.

giovedì 8 ottobre 2009

L'inevitabile ripetitività della copula letteraria

(Gurrado per Tempi)

E allora tutti a letto, anche senza Carosello, secondo la nuova tendenza della narrativa italiana. L’altro giorno stavo leggendo La separazione del maschio, ultimo romanzo di Francesco Piccolo, e – nonostante il pregevole nudo in copertina, nonostante l’assicurazione nel risvolto di seconda che il sesso sarebbe risultato “un’ossessione e una consuetudine”, nonostante la definizione in quarta di “romanzo scandaloso e disarmante come una confessione” – miravo soltanto a immergermi nella lucida e sferzante ironia di questo gigantesco Jerome casertano. Così, quando capitavano scene di sesso inevitabili nel resoconto di un uomo che riconquista piena libertà d’alcova dopo essere stato mollato dalla moglie, non ci facevo molto caso e procedevo alla ricerca dell’ironia che affiorava sin dalle prima pagina con la critica dei baristi di oggi che spargono subito il cacao sul cappuccino senza nemmeno chiedere al cliente se lo vuole o no. L’equilibrio ha retto fino a pagina 162. Poi una delle amanti del protagonista gli telefona proponendogli un incontro consolatorio con annessa amica e allora iniziano otto pagine e mezza di acrobazie ritrite e mica trascrivibili.

Ragioniamo. L’idea di due donne che citofonano all’appartamento di un maschio tornato solitario è intrigante abbastanza da lasciar intuire tutto ciò che ne può derivare, tanto più se ne deriva esattamente quello che il maschio si augura nei suoi sogni più sfrenati. In tal caso, poiché il narratore racconterebbe ciò che il lettore già sa, non c’è alcun bisogno di entrare nei dettagli. La sfumatura narrativa, lo spazio bianco che consente di saltare a pie’ pari la scena erotica d’un velo candidissimo adornandola e consentendo di passare direttamente al post coitum non è figlia né della censura né del pudore; serve solo a risparmiare caratteri e non allungare troppo il brodo romanzesco. Se io racconto che il protagonista ebbe fame e si preparò un piatto di spaghetti non ho gran bisogno di entrare in dettagli: prese la pentola, vi immise l’acqua, accese il fuoco, misurò il sale…

Senza contare che la scena erotica a tre, non lasciando spazio all’immaginazione, impedisce tautologicamente al lettore di immaginarsi al posto del protagonista. Se si fosse fermata alle nove di sera, quando l’io narrante invita amante e amica a cena da lui, per poi ricominciare alle sette meno un quarto del mattino, il lettore avrebbe avuto a disposizione circa dieci ore nelle quali figurarsi qualsiasi porcheria lo aggradasse secondo il gusto individuale. Venendo posto di fronte al fatto compiuto, invece, deve limitarsi ad allinearsi al gusto che l’autore presta al protagonista.

Il problema è che per descrivere il sesso sono necessari due requisiti uguali e contrari. Uno è il coraggio di dare a ogni organo o atto il nome giusto al momento giusto – rifugiandosi in perifrasi più o meno pudiche e più o meno romantiche si consegue lo stesso effetto para-burocratico di quando si chiamano i piedi “estremità inferiori” o le mutande “effetti personali”. L’altro è la capacità di variare e modulare la terminologia a seconda dell’esigenza così da superare il principale ostacolo tecnico della narrativa erotica: il sesso è ripetitivo, ovvero è sempre scomponibile e riducibile allo stesso nucleo più o meno noto a tutti, esattamente come dalla Champions League al cortile sotto casa ogni partita di calcio si basa sull’assunto universale che chi fa più goal vince.

Se uno legge i grandi pornografi francesi della storia – Sade e Restif de la Bretonne nel Settecento, Pierre Louÿs a fine Ottocento, Apollinaire a inizio Novecento, Houellebecq oggigiorno – nota subito che il passaggio alla scena esplicitamente erotica non comporta nessuno stacco né stilistico né ritmico rispetto al resto della narrazione: questa continua a fluire come un tutto indistinto presentando l’erotismo come meccanismo necessario nell’economia della storia. Così il sesso viene elevato ad arte.

In Italia invece le cose non filano altrettanto lisce, nonostante la proliferazione di scene esplicite in romanzi che tutto vogliono essere meno che erotici. In Non avevo capito niente di Diego De Silva, un mediocre avvocato Malinconico fin dal cognome si ringalluzzisce non grazie alla travolgente passione per la più bella dell’ufficio, che sarebbe normale, ma alla travolgente passione della più bella dell’ufficio per lui. E vanno a letto. In Prima di sparire, Mauro Covacich prende a raccontare i fatti propri compresa la dirompente passione per una ragazzetta romana. E vanno a letto. In Italia De Profundis, Giuseppe Genna viene contattato su internet da una drag queen milanese, che dopo aver simulato una insana passione per Genna medesimo gli dà convegno accogliendolo con due colleghe piuttosto aggressive. E vanno a letto tutti e quattro. Potrei citarne molte altre ma si tratta di scene di sesso noiose anche solo a rammentarle fugacemente e nessuna di loro merita di essere ricordata come invece una pagina qualsiasi del peggio di Sade o di Apollinaire.

Dovessi indicare un responsabile, però, punterei il dito contro Sandro Veronesi. Non parlo di responsabilità cronologica, ché certo non è stato il primo, ma di responsabilità stilistica: la scena di trasporto e sodomia fra il protagonista di Caos Calmo e la sconosciuta borghese cui aveva salvato la vita è il vertice (basso) della pornografia letteraria d’Italia, quella in cui si copula a vista ma solo per offrire maggior introspezione psicologica. È come quelle attrici che si spogliano volentieri ma solo per un nudo artistico. Poi la scena è stata trasposta nella versione cinematografica del libro e da allora pare che ogni autore italiano ficchi nel proprio romanzo cinque o dieci pagine di sesso esplicito – però sesso intellettuale, rivelatore, sesso sterilizzato perché non fine a sé stesso – nella speranza che ne venga tratto un film in cui si veda il culo di Nanni Moretti. Hanno lo stesso effetto dello sbuffo non richiesto di cacao sul cappuccino.

mercoledì 7 ottobre 2009

Grazie Pio

Su turcu non si cheret reduire,
anzis pro gherrare est animosu,
s'arabu inferocidu est coraggiosu,
si parat prontu né cheret fuire.
(Grazia Deledda, Canne al vento)

Va bene che otto anni fa esatti esatti, 7 ottobre 2001, iniziava l'operazione Enduring Freedom ovvero la (tardiva forse) contromossa americana in Afghanistan, ma io sono piuttosto restio a dare troppa importanza agli avvenimenti accaduti dopo la rivoluzione francese. E poi gli anni passano ma i giorni restano. Ogni 7 ottobre, se siete decenti abbastanza da controllare sul calendario, risulta che sia la festa della Beata Vergine del Rosario. Se per errore il calendario risalisse a un centinaio d'anni fa notereste invece la festa di Nostra Signora della Vittoria. Ragion per cui io oggi tenderei a fare gli auguri non solo alle Marie Rosarie ma anche alle Marie Vittorie, che invece tendono a festeggiare il 23 dicembre come delle Vittorie qualsiasi; ma è un secol reo e dobbiamo accontentarci che festeggino.

La Beata Vergine del Rosario e Nostra Signora della Vittoria non solo sono la stessa persona, con tutta evidenza la Madonna, ma hanno anche lo stesso motivo risalente alla prima operazione Enduring Freedom della storia. Il 7 ottobre 1571 la Lega Santa - coalizione fra Venezia, Genova, la Spagna e la Santa Sede - sconfisse nelle acque di Lepanto l'impero ottomano. Vittoria di relativa importanza storica in sé, ebbe uno spropositato effetto propagandistico e infondé nuove energie in un Occidente sfiduciato.

Il tocco di genio sulla vittoria di Lepanto fu dato dal capo morale della Lega Santa, papa Pio V. Il 7 ottobre 1751 questi stava consuetamente pregando nelle sue stanze quando gli apparve un angelo e dischiuse i tendaggi che riparavano Sua Santità dal sole. In miracolosa presa diretta, Pio V poté assistere in presa diretta alla battaglia di cui era stato ispiratore e fomentatore, potendo dunque testimoniare la vittoria con largo anticipo sul lento corso delle notizie ufficiali - che raggiunsero Roma a fine mese.

Né questo fu l'unico merito di Pio V, giustamente santo. Nel momento della vittoriosa apparizione stava recitando il Rosario, che la tradizione popolare aveva creato da tempo ma che lui aveva organizzato in una devozione coerente, esattamente come lo recitiamo ancora oggi, proprio in lode della vittoria di Lepanto. Ancora oggi ogni Rosario è una corona che si aggiunge alla vittoria di quattrocentotrentotto anni fa. Dedicò dunque il 7 ottobre alla Madonna che aveva supportato le flotte della Lega Santa a Lepanto, appunto Nostra Signora della Vittoria, che solo recentemente calendaristi più prudenti hanno derubricato a Beata Vergine del Rosario.

(Merito meno spettacolare ma più importante per i fatti miei, Pio V aveva fondato a Pavia il Collegio Ghislieri nel quale m'è capitato di trascorrere svariati miliardi di quarti d'ora).

Ogni 7 ottobre cerchiamo di ricordarci che di questo passo potrebbe essere l'ultimo anniversario della battaglia di Lepanto che riusciamo a celebrare liberamente.

martedì 6 ottobre 2009

Anche Guareschi è Candido

(Gurrado per Il Foglio)

Non si poteva festeggiare più degnamente il 250° anniversario della pubblicazione del Candide di Voltaire che assistendo al monumentale convegno organizzato alla Maison Française d’Oxford, nel corso del quale sono intervenuti i più insigni studiosi di tre continenti e m’è venuta un’idea così pressante da dover saltare sul primo aereo che passava e farmi paracadutare in piena Bassa padana, segnatamente a Roncole Verdi.

Il fatto è che non c’è convegno né volume né tesi per quanto fragile sul Candide che non citi a ruota, quale effetto della sua influenza in Italia, il Candido di Sciascia. Ben a ragione, d’altronde. Una recente edizione scolastica ha addirittura optato per un’antologia parallela dei due testi allo scopo di educare le giovani generazioni alle stringenti conclusioni teoriche dei due autori: che “il faut cultiver notre jardin”, secondo il modello francese, e che è meglio sentirsi figli della fortuna, e felici, secondo l’epigono siculo.

L’eredità voltairiana di Sciascia è talmente luminosa da far dimenticare che per sedici anni, dal 1945 al 1961, il più importante settimanale satirico d’Italia si chiamava Candido: esattamente come se l’avesse scritto Voltaire. Invece l’aveva ideato Giovannino Guareschi (con Mosca, Longanesi, Carletto Manzoni e Oreste Del Buono), autore non nuovo a simili amnesie da parte della cultura ufficiale. Lui stesso a dire il vero aveva escluso ogni volo pindarico spiegando già nel 1946 come il titolo del settimanale fosse “un nome insignificante che ha il solo difetto di ricordare un po’ il nostro vecchio giornale, in quanto finisce in –do come Bertoldo”. Eppure l’eredità è macroscopica. Se il Bertoldo si chiamava come il personaggio di Giulio Cesare Croce, Candido era insindacabilmente l’italianizzazione del Candide di Voltaire. Cosa talmente evidente da passare inosservata; e non per niente Del Buono ricordava che in redazione “ogni parola veniva studiata, sviscerata e poi letta con attenzione alla ricerca di tutti i possibili significati”.

Per questo sono volato a Roncole, dove Alberto e Carlotta Guareschi oltre a venire a ripescarmi sotto la pioggia torrenziale (in Inghilterra splendeva il sole) mi hanno consentito di spulciare ogni volume nella biblioteca paterna. Bibliograficamente sapevo che se solo avessi trovato una qualsiasi edizione del Candide il gioco era fatto e l’eredità voltairiana di Guareschi bella che dimostrata. Non l’ho trovata ma ho le attenuanti. La biblioteca è piccola e residuale: buona parte dell’archivio Guareschi è ancora in via di spoglio e quanto ai libri, come per tutti, essi circolavano,venivano prestati, si smarrivano nel nulla. Negli anni della formazione di Guareschi andava per la maggiore in Italia la traduzione Sonzogno di Candido: racconto satirico, pubblicata nel 1926 nella collana “I capolavori dell’umorismo”. Era l’edizione che mi aspettavo di trovare a Roncole. Infatti della stessa collana Guareschi possedeva quasi tutto Jerome e in collane similari Chesterton e Dickens. L’assenza fisica del Candide è un dettaglio: con una biblioteca del genere l’aveva letto di sicuro.

Candido era un settimanale anti-intellettuale ma non per questo fatto da stupidi. Aveva perfino sperimentato una rubrica di satira filosofica che andava da Epicuro a Spinoza ed era curata da Mosca, solerte studioso che già aveva tradotto i classici latini con coscienza e serietà. Guareschi stesso conosceva benone il Settecento, come testimoniano alcuni volumi ancora conservati a Roncole fra cui L’antico regime e la rivoluzione di Tocqueville. Filologicamente sapevo che se solo avessi scovato in Guareschi una citazione da Voltaire il gioco era più che fatto. Macché: l’ho letto e bisletto senza trovare niente, e d’altronde era uno che si vantava di non dover mai citare alcunché. Tuttavia a Roncole ho trovato la Storia della rivoluzione francese di Michelet, con un’orecchia alla doppia pagina che parlava di Voltaire come di “colui che soffre, colui che ha preso per sé tutti i dolori degli uomini, che risente, perseguita ogni iniquità”.

L’orecchia potrebbe benissimo non averla fatta Guareschi ma è innegabile che Candido fosse il settimanale che fustigava le iniquità del dopoguerra. Se rileggeste Voltaire notereste che tutti i guai di Candide iniziano col suo coinvolgimento nella Guerra dei Sette Anni presso i bulgari: anche il romanzo è dunque la storia di un dopoguerra. Quando arrivano a Lisbona, Candide e Pangloss sono condannati a un autodafé e rivestiti di un sambenito: sono privati della loro dignità individuale esattamente come Guareschi che, in un lager fino a pochi mesi prima, si ritraeva trasformato in un numero di matricola e una divisa a righe sempre più larga. Inoltre il settimanale che avrebbe accompagnato gli ultimi mesi della Monarchia poteva ben chiamarsi come il romanzo che aveva dedicato un intero capitolo al banchetto di sei re spodestati e al loro dignitoso rimpianto.

Candido era un settimanale reazionario quasi quanto Voltaire. Il reazionario non è forse colui che esprime sdegno per il proprio tempo ed esclama con ironia sprezzante che “tutto è bene, tutto va bene, tutto va nel migliore dei modi possibili”? Così fa Candido, “il giornale più inutile d’Italia” che aveva per unico obiettivo “battersi contro la retorica non per scetticismo, ma per onestà”. La retorica osteggiata da Voltaire era l’ottuso ottimismo alla Leibniz. L’ottimismo che Guareschi rifiutava era quello che intendeva ricostruire una nazione senza Re e senza Dio. Sono due facce della stessa medaglia: Guareschi auspicava un’Italia prospera e modesta, capace di coltivare il proprio giardino. Però quando sono tornato a Oxford il convegno era già finito e non ho potuto rivelare a nessuno questo decisivo intervento di Voltaire nell’antica vittoria della Democrazia Cristiana - né mi avrebbero creduto.

lunedì 5 ottobre 2009

Sì, narrare

Io sento il dovere di dire quello che penso sulla libertà di stampa, ma per evitare di fare la fine di Minzolini mi ripiego su me stesso e mi do alla commemorazione autocelebrativa - o alla celebrazione autocommemorativa, che è lo stesso. Dunque, io nasco narratore. Anzi nasco romanziere se vogliamo tener fede a quello che dicono i cataloghi delle librerie, dove viene spiegato che sono stati messi alla luce prima e al macero poi due miei romanzi: uno all'inizio e l'altro a metà di questi rocamboleschi anni zeranta. Però finché non me ne sorto (o sortisco) con un bel romanzo di almeno trecento pagine il nome di romanziere preferisco non usarlo: non voglio assecondare la tendenza già delineata da Iginio Ugo Tarchetti in Fosca, dove si parlava della masnada di scrittori che non scrivono, e già abbondantemente assecondata dall'abitudine di dare del romanziere a gente che ha pubblicato cose che romanzi possono essere definiti solo con molta immaginazione da parte sia degli autori sia degli editori. Paradosso estremo, per essere romanziere non basta aver pubblicato romanzi. Però il nome di narratore me lo arrogo eccome, perché mi piace raccontare faccende varie più di quanto non smani per commentarle, qui o recentissimamente su più nobili testate. Diceva non ricordo più chi che a lamentarsi per il mal di denti sono buoni tutti, ma che il vero scrittore è quello che dal proprio mal di denti trae una tragedia in cinque atti. Meglio ancora se non ha mal di denti. A questo riguardo, credo, la capacità di raccontare nel dettaglio cose non avvenute costituisce il valore aggiunto di un narratore. Il massimo onore che si possa ricevere è essere letti indipendentemente dal contenuto e quando mi dicono che ho scritto qualcosa di interessante ne ricavo sempre la sensazione che la mia prosa esca svilita. Forma, non contenuto. Ragion per cui abbiamo tre Gurradi (lasciamo stare la declinazione, ché in banca l'impiegata allo sportello ha appena finito di chiamarmi reiteratamente Mr Guardo): uno scrive saggi inconfutabili di storia dell'illuminismo; un altro, più colorito, scrive a tema libero qui e recentissimamente su più nobili testate, oppure recensisce volumi vecchi e nuovi, oppure commenta la politica che al confronto Minzolini è Di Pietro; un altro, più nascosto, racconta fatti non suoi. Sono venuti fuori così non solo i dimenticati due romanzi ma anche i racconti ficcati in antologie di genere misto qualche anno fa (troppi) e quelli tradotti in spagnolo dall'eroico Nacho Duque Garcia per la "revista de pensamiento y cultura" Riff Raff. Così è venuta fuori la storia immaginaria ma plausibile del primo giro d'Italia che su Quasi Rete si intitolava Dentro una nube rosa. Così viene fuori oggi, grazie agli amici di Books Brothers, Satana in tournée: un vecchio racconto nero, forse più breve di questo preambolo non richiesto, che avevo scritto cinque anni fa in un pomeriggio noioso e che mi ero dimenticato di far leggere a qualcuno. Il tutto per festeggiare l'uscita dell'antologia di tre anni di Books Brothers, Frammenti di cose volgari. Insomma la carne al fuoco c'è ed è tanta ma per fortuna io non sono solo arrosto: sono soprattutto fumo.

venerdì 2 ottobre 2009

Non avrò altro Dio all'infuori di me

(Gurrado per Tempi)

Luglio, galleria Tate Britain di Londra: un ragazzino opta per la bravata e ruba una scatola di matite HB. Una volta scoperto, invece di subire rampogna e scappellotto con annesso sequestro delle matite incriminate, viene arrestato, quindi rilasciato dietro cauzione e al momento è in attesa di sapere se deve pagare un risarcimento danni di cinquecentomila sterline, cifra della quale presumibilmente non dispone. Direbbe a questo punto un saggio: ma non era meglio condannarlo a ricomprare la scatola di matite e chi s’è visto s’è visto? Un cinico magari avrebbe potuto costringerlo a rimpiazzare dette matite con un set extralusso, scatola plastificata e gomma in cima, dal valore non inferiore alle cinque sterline – cifra che di questi tempi è comunque una bella ferita al portafoglio di un adolescente. In entrambi i casi la faccenda sarebbe stata risolta in mezz’oretta e non si trascinerebbe inane e un po’ ridicola da mesi.

Il dettaglio che sfugge tanto al saggio quanto al cinico è la provenienza delle matite: non già gli uffici della Tate Britain, dove magari perdono matite a profusione e non se ne curano più di tanto, ma l’installazione Pharmacy di Damien Hirst, l’artista vivente più venerato e valutato al mondo. Fate conto che l’installazione riempie un’intera stanza della galleria con oggetti di uso comune, almeno a quel che si può scorgere dalla visita virtuale sul sito della Tate: ché solo ad apprendere che Pharmacy è stata valutata all’incirca dieci milioni di sterline viene lo sconforto e passa tutta la voglia di guardarla dal vivo.

Se pure di dieci milioni di sterline fosse l’effettivo valore dell’installazione, è comunque piuttosto irragionevole che il set di matite ne costi cinquecentomila a meno che non occupi un ventesimo ovvero il 5% della stanza. Damien Hirst è indubbiamente ricco, d’altronde, quindi non ha bisogno di rimediare soldi. Inoltre ha un talento artistico talmente elevato che gli sarebbe bastato andare in cartoleria, acquistare un qualsiasi set di matite da cinque sterline al massimo e ricollocarlo lì dov’erano le matite trafugate: improvvisamente il nuovo set avrebbe acquisito un valore da centomila volte tanto. Perché dunque tanto accanimento nei confronti della bravata di un diciassettenne?

Perché il ragazzino non aveva rubato le matite in sé, voleva rubarne il valore artistico: Hirst sostiene che lo dimostrino i precedenti. Nel dicembre 2008 il ragazzino aveva ancora sedici anni e aveva compiuto un furto ben più sensazionale senza dover nemmeno spostare una matita. L’anno prima Hirst aveva prodotto Per l’amor di Dio, un teschio risalente al XVIII secolo tempestato da ottomilaseicentouno diamanti. Un’opera d’arte talmente bella da far ingrugnire la Gioconda e cascare i baffi a Salvador Dalì, talmente significativa che tutti si son messi a palrare di Dio, morte, senso della vita. Cartrain, il graffitaro adolescente , non ci aveva pensato due volte e aveva prodotto una serie di collage satirici in cui il prezioso teschio veniva ricollocato in contesti più prosaici. Nel meglio riuscito, il teschio sta leggendo “Come diventare detective” con una macchina fotografica al posto del cavo oculare destro.

Hirst evidentemente aveva gradito ben poco che in presenza del suo teschio si osasse non parlare di Dio, morte e senso della vita e aveva accusato Cartrain di plagio o meglio di sfruttare il successo del teschio, valutato cinquanta milioni di sterline, per ricavarne l’indebito guadagno di sessantacinque sterline a collage. Il legale di Hirst, Paul Tackaberry, ha tenuto un convincente discorso riguardo alla percentuale di prodotto artistico “citato” nell’opera di Cartrain, stabilendo che il teschio occupa all’incirca l’80% del collage e quindi si tratta di leso diritto d’autore oltre che di ovvia lesa maestà. Al riguardo non è stato però interpellato un terzo artista, John LeKay, la cui principale attività da due anni a questa parte consiste nel ripetere che Hirst ha cop..., no, s’è fortemente ispirato a un teschio che LeKay stesso aveva a sua volta prodotto nel 1993. In tal caso l’avvocato Tackaberry dichiarò che non c’era materiale sufficiente a stabilire un’effettiva infrazione del diritto d’autore.

Cartrain sarà un ladruncolo di matite ma è anche un ragazzetto brillante: s’è subito affrettato a riconoscere che Hirst è un artista di rottura, un grande dissacratore. Le sue opere lo confermano: L’impossibilità fisica della morte nella mente di un vivente consiste in uno squalo conservato in formaldeide; Fuori dal gregge consiste in una pecora conservata in formaldeide; Un po’ di consolazione tratta dall’accettazione delle menzogne inerenti qualsiasi cosa consiste in varie vacche conservate in formaldeide; Madre e figlio divisi in mezza mucca e mezzo vitello conservati in formaldeide; Dio in una cassetta di pronto soccorso non conservata in formaldeide. A questo punto Cartrain chiede: se Hirst può – letteralmente – fare a pezzi l’esistente già prodotto con altri fini e riproporlo originalmente nelle proprie opere artistiche, perché lo stesso destino non può toccare alle sue opere? E, soprattutto, se Hirst può dissacrare la qualsiasi perché nessuno può dissacrare Hirst?

Il problema è che Hirst soffre di una sindrome molto diffusa nell’arte e nella cultura di ogni tempo, per non dire nel cuore di ogni uomo. Potremmo chiamarla un po’ impropriamente sindrome di Michelangelo: la leggenda vuole che dopo aver composto il Mosè l’artista fosse talmente soddisfatto del risultato da lanciargli contro un martello, urlando “Perché non parli?” e rivendicando implicitamente (anzi inconsapevolmente) il diritto a scalfire un’opera troppo perfetta. Eppure quando nel 1972 Laszlo Toth prese a martellate la Pietà per un intero quarto d’ora nessuno notò che il folle ungherese stesse a rigor di logica applicando lo stesso criterio dell’autore cinquecento anni prima. Ma in questo caso si può obiettare che Michelangelo era un trapassato remoto e quindi non se ne può conoscere la reazione.

Allora possiamo chiamarla sindrome di Marinetti, stante il triste destino di un uomo che s’impegnò a ribaltare i luoghi comuni su tutte le arti di questa terra, dalla grammatica alla drammaturgia e dalla cucina alla seduzione, insistendo a ogni pie’ sospinto sulla necessità di fare anch’egli la stessa fine che lui aveva riservato a chi l’aveva preceduto, ossia venire sbeffeggiato, distrutto, dimenticato e gettato nel cestino. Ma oggi chissà se non avrebbe accolto compiaciuto e tronfio la sua consegna all’empireo dell’establishment culturale; chissà se avrebbe effettivamente accettato che tutte le celebrazioni in onore del suo Manifesto si trasformassero in un’unica, assordante pernacchia; e chissà se avrebbe davvero gioito all’apprendere che passati cent’anni dal fatidico 1909 qualcuno potesse prendere in considerazione l’ipotesi di chiedersi: “Centenario? Quale centenario?”.

Oppure chiamiamola sindrome di Voltaire. L’uomo che aveva passato la vita a destabilizzare la tradizione, a smontare la Bibbia, ad aggredire Shakespeare e Pascal e a criticare tutto passandolo al vaglio razionale improvvisamente scoprì che, una volta invecchiato, nuove generazioni di pensatori nutrivano simili intenzioni bellicose: contro di lui, però. Un prete francese, tale Antoine Guenée, scoprì una serie di contraddizioni e mancanze nei suoi testi antireligiosi e li portò allo scoperto in un apposito volumetto; il letterato italiano Giuseppe Baretti si era reso conto che Voltaire criticava Shakespeare senza sapere decentemente l’Inglese e produsse un apposito volumetto a sua volta. Voltaire rispose istericamente e, non trovando di meglio, finì per appellarsi alla tradizione e all’autorità che lui stesso aveva provveduto a ferire qualche decennio prima.

Insomma, alla fine diventiamo tutti ciò che combattiamo. È la trama di Eva contro Eva. È anche quella de Il dittatore del libero stato di Bananas, vecchio film di Woody Allen in cui il capo dei rivoltosi che rovesciano il caudillo immaginario finisce per risultare più dispotico dell’originale: impone lo svedese quale lingua ufficiale e l’obbligo del cambio di mutanda ogni sei ore, per controllare più agevolmente il quale dispone che dette mutande siano indossate sopra i calzoni. Lo stesso accade a qualsiasi figlio che trascorra adolescenza e giovinezza a stabilire che da grande mai e poi mai lui farà la fine di suo padre, salvo poi passare distrattamente anni e anni dopo di fronte allo specchio del bagno e restare come folgorato perché ha scorto un’espressione, un gesto improvviso che mille volte aveva visto fare al padre e che ora, senza nemmeno accorgere, ha ripetuto lui. Sarà una conclusione triste ma è quasi sempre così: l’ultima volta ci ho pensato quest’estate, guardando il Tour de France e vedendo Lance Armstrong protestare e inveire contro Alberto Contador, reo di essere più giovane e pedalare forte. Armstrong aveva dimenticato che dieci anni fa era lui quello più giovane, era lui che pedalava forte.

Non so se è un caso, ma Armstrong ha corso una tappa del Tour con una bicicletta artistica griffata Damien Hirst: sul telaio erano incastonate decine di farfalle morte, non so se in formaldeide. Intanto Cartrain ha emesso un avviso in stile-wanted, in cui rivendica il rapimento della scatola e spiega che, se entro una certa data Hirst non ritirerà le proprie accuse, le matite verranno temperate. Il saggio continua a pensare che la miglior condanna sia di fargli ricomprare le matite. Il sadico ritiene che sarebbe ancora più deterrente fargli visitare tutte le esposizioni di Hirst.